Ritratti letterari - 10

stranieri. — Suo fratello, appena riprese le armi, fu costretto a
ritirarsi perchè gli si riaperse la ferita. Lui, nominato sottotenente
nei cacciatori a piedi, raggiunse immediatamente il 30.º battaglione,
ch'era a Neuilly, fra le truppe che combattevano intorno alla porta
Maillot. Il principio fu terribile per l'ufficiale, come fu terribile
la fine per il cittadino. La disciplina era allentata fra i soldati;
molti non volevano battersi; tutti erano stanchi e sfiduciati;
i comunardi, dalle case vicine, gl'incitavano alla rivolta con
promesse tentatrici o con grida di scherno; non ancora inaspriti
dall'ostinazione feroce della resistenza, avevano ripugnanza per una
lotta in cui il sentimento del dovere non era infiammato dalla speranza
della gloria. Bisognava ragionarli, spingerli al combattimento ad uno
ad uno, minacciarli qualche volta, e rischiare, minacciandoli, qualche
cosa di peggio che di non essere obbediti. Ma il Déroulède si affezionò
a poco a poco i cacciatori come si era affezionati gli algerini, e li
condusse a combattere, non inferocendoli ma persuadendoli, e dando per
il primo l'esempio della pazienza, della fermezza e dell'audacia. Coi
suoi cacciatori combattè davanti alla porta Maillot, entrò dei primi in
Parigi, si trovò nella mischia delle strade, e assistette all'orrenda
tragedia degli ultimi giorni della Comune. Qui, per testimonianza di
tutti, spiegò una generosità eguale al valore. — Son venuto per domare
la rivolta, pensava, e non per uccidere dei Francesi, — e perciò
salvò la vita a quanti potè, protesse i feriti, difese i prigionieri,
restituì alla famiglia dei disgraziati che erano creduti spacciati;
tanto che delle donne del popolo gli gridavano: — È dei nostri! —
al che egli rispondeva: — No, sono francese. — Si racconta questo
perfino: che mentre stava mangiando in un'osteria, tra una barricata
ed un'altra, un comunardo, sdegnoso, disse in modo da farsi sentire:
— _Ça nous tue et ça mange._ — Ed egli rispose: — Uccidere è una
dolorosa necessità, di cui non ho colpa; mangiare è un bisogno che vuol
essere compatito. Mangiate con me, se credete di averne il diritto.
— Non accetto il vostro pane — quegli rispose. — Allora accettate due
lire, e mangiate per conto vostro. — Non accetto le vostre due lire.
— Ho capito — rispose il Déroulède tranquillamente —; preferite di
prendermele. Ebbene, siete libero, andate alla barricata più vicina,
faremo alle fucilate, voi _attaccherete_ le mie due lire e io cercherò
di difenderle. — Il comunardo rispose: — Ci vado — e il Déroulède lo
lasciò andare. Per tutta la durata di quella lotta feroce, egli non si
bagnò le mani d'altro sangue che del proprio, e fu l'ultimo giorno.
La resistenza era agli estremi; poche barricate resistevano ancora,
ma furiosamente. Il generale Dumont lo mandò, con una squadra di
cacciatori, a pigliare dei cavalli a Belleville. Passando di corsa per
un crocicchio, vide in una strada un ufficiale della legione straniera,
che faceva alle fucilate, col suo plotone, contro una barricata difesa
da tre cannoni, e sormontata dalla bandiera rossa. Vedendo quello
spreco inutile di polvere, si fermò, e disse all'ufficiale: — È tempo
perso: bisogna pigliar la barricata alla baionetta. — Fatelo — rispose
l'ufficiale. — Lo faccio — rispose il Déroulède, e gettato un grido
ai suoi soldati, si slanciò all'assalto. I comunardi li lasciarono
avvicinare e fecero una scarica all'ultimo momento; il Déroulède, ritto
sulla barricata, ricevette a bruciapelo una palla nel gomito, che gli
spezzò l'osso, gli staccò l'avambraccio, e gli diede una contrazione
orrenda alla mano. Ma la barricata fu presa, e il Déroulède, sostenendo
colla mano destra il braccio stritolato, continuò ad avanzarsi, fin
che, spossato dalla perdita del sangue, cadde fra le braccia dei suoi
soldati. Così finirono per lui le avventure della guerra. Fasciato alla
meglio, fu portato a casa, dove rimase tre mesi a letto, col braccio
sospeso, curato da sua madre. E in questi tre mesi fece il primo volume
dei _Chants du soldat_, che venne pubblicato verso la fine del 1871.
*
* *
In che modo un artista potente sia passato dall'oscurità alla fama, è
sempre curioso a sapersi. Quei primi versi il Déroulède li aveva fatti
proprio per sfogo dell'animo, agitato da mille ricordi in quella lunga
immobilità della convalescenza, durante la quale la mente dell'infermo
suole tanto più lavorare quanto sono più inerti le membra; ed era molto
lontano dal prevedere, ed anche dallo sperare il successo che ottenne.
Tanto è giusta la sentenza dello Schiller: che il vero ingegno è
inconscio di sè nelle sue prime manifestazioni, perchè non trova nulla
di straordinario — ed è naturale — in ciò che è sempre stato suo, e
costituisce, per così dire, la sua intima natura. Nondimeno l'artista
era già maturo nel Déroulède. Benchè giovane, infatti, ed esuberante
d'ispirazione, capì che non conveniva fare _un gros volume de
patriotisme_, e non pubblicò che una parte delle sue poesie, scelte fra
le più brevi e le più spontanee. Un giorno portò il suo scartafaccio
all'editore Lévy. Le poesie patriottiche pullulavano da tutte le parti:
l'editore ricevette lo scartafaccio con diffidenza, e pregò il poeta di
ritornare dopo alcuni giorni. Il poeta ritornò. — Ho letto le vostre
poesie — gli disse il Lévy. — Non c'è male. Ma non c'è versi d'amore,
non c'è canzonette allegre di bivacco, che sono il genere che piace.
Ho paura che il vostro volumetto, scusatemi, annoi un poco. È troppo
triste. — Che cosa volete? — gli rispose il Déroulède — ero triste. —
Non potreste aggiungervi qualchecosa qua e là — gli domandò l'editore —
per renderlo un po' più ameno? — Il Déroulède rispose che non poteva.
— Ebbene.... — concluse il Lévy, — quando è così, bisogna che abbiate
la bontà di pagare le spese di stampa. — Così fu convenuto. E poco
tempo dopo uscì il volume, non preceduto da _réclame_ di sorta, quieto
quieto come un povero libro rassegnato a tarlare nelle vetrine. In capo
a un mese il Déroulède ripassò dall'editore a chieder notizie: lo trovò
tutto sorridente. — _Mais ça va, mais ça va_, — gli disse, guardandolo
curiosamente. In poche settimane si spacciarono dieci edizioni: il
volume si divulgò da Parigi nelle provincie, si diffuse fra il popolo
e fra i letterati, si sparse nell'esercito, entrò nelle scuole e nelle
famiglie, diventò popolare prima che la critica l'avesse preso ad
esame. Fra le altre mille poesie patriottiche e guerriere, quelle del
Déroulède producevano un'impressione nuova: erano giovanili e gravi ad
un tempo, fiere ed affettuose, eccitavano e consolavano, ed educavano;
sotto l'amor di patria, vi si sentiva il coraggio; non v'era soltanto
l'ardore del cittadino che predica il dovere, ma anche la coscienza del
soldato che l'ha compiuto, e che ha acquistato a caro prezzo il diritto
di alzar la voce; era una poesia forte e sincera, stata _più pensata
che scritta, più vissuta che pensata_; tutta calda, e piena d'odor di
sangue e di polvere, e sonante di ferro, senza gale letterarie, non
vestita d'altro che della divisa semplice e succinta sotto a cui aveva
palpitato il cuore del poeta, quando glie n'eran balenate le prime idee
negli accampamenti. Allora si cominciò a domandare, a cercare chi fosse
questo Déroulède, e ben presto le sue avventure di soldato diventarono
popolari come le sue poesie, non solo, ma furono ingrandite, come
accade sempre, e abbellite di una certa luce vaga di leggenda, che rese
più simpatico e fece parer più alto il poeta; e formò un'aureola — ben
meritata davvero — sul capo di sua madre.
*
* *
Tutti e due i fratelli, dopo la guerra, entrarono nell'esercito,
poichè, come diceva il maggiore, la carriera militare era quella in
cui un giovane, dopo una grande guerra perduta, poteva rendere più
utili servizi al suo paese. Paolo Déroulède fu promosso luogotenente
nei cacciatori a piedi, e appena entrato nel battaglione, nonostante
il suo splendido successo di poeta, si consacrò tutto ai suoi doveri
militari. — Non si può avere il cuore a due cose ad un tempo — disse
tra sè; — ho da fare il soldato, devo bandir la poesia. — E la bandì
in fatti. Si mise agli studi militari, fece dei corsi scientifici
ai sotto uffiziali e ai soldati, tenne delle conferenze, si seppellì
fra i regolamenti e i trattati di tattica; e in caserma, e in piazza
d'armi, e alle grandi manovre, fu un uffiziale non solo coscienzioso,
ma pedante, come uno di quei vecchi _troupiers_, per cui l'esercito
è il mondo. Ma per quanto facesse, la poesia gli tempestava sempre
nel cuore; tutte le volte che alla mensa degli ufficiali il discorso
cadeva sulla letteratura, un'onda di sangue gli montava al viso, ed
era costretto a pregare i colleghi di parlar d'altro, e di lasciarlo
in pace; chè se no sarebbe schiattato. E strozzando così la musa
col cinturino, servì fino al 1875. In quell'anno, facendo una corsa
a cavallo, cadde di sella e si slogò un piede: a questa slogatura
dobbiamo il secondo volume dei _Chants du soldat_. Durante la cura, che
fu lunga, potendo occuparsi senza rimorso d'altra cosa che di studi
militari, scrisse quattordici nuove poesie, mentre da tutte le parti
della Francia, essendosi sparsa la notizia della sua piccola disgrazia,
piovevano sul suo letto d'invalido biglietti di visita e condoglianze e
buoni augurii. Guarì; ma non così bene da poter ripigliare il servizio,
tanto più che la ferita toccata a Belleville gli si faceva risentire
ad ogni passaggio di nuvola; e perciò si fece trasferire dall'esercito
attivo nella riserva, e tornò a casa sua — ad aspettare il gran giorno.
Il secondo volume dei versi ebbe la stessa fortuna del primo; e intanto
le edizioni del primo salivano alla sessantina. I _Chants du soldats_
erano diventati il _vade mecum_ d'ogni soldato patriotta; s'imparavano
a mente nei collegi, si declamavano nei teatri, si recitavano nei
salotti, si ripetevano per le strade: Paolo Déroulède, come disse uno
scrittore tedesco, «era divenuto il poeta patentato delle aspirazioni
nazionali.» E quando, nel 1877, fu rappresentato all'Odéon un suo
dramma in versi intitolato l'_Hetman_, nel quale, sotto un episodio
della storia della Polonia, erano espressi i sentimenti, i propositi e
le speranze della Francia, questa rappresentazione — a cui la povera
madre del poeta si fece trasportare in lettiga — servì di pretesto a
una grande dimostrazione patriottica. Il poeta era celebre ed amato: si
colse quell'occasione per tributargli gli onori del trionfo. Accorsero
al teatro rappresentanti di tutte le classi, i principi delle arti
e delle lettere, i duchi d'Aumale e di Nemours, tutti i generali di
Parigi, una legione d'ufficiali di tutte le armi, e una folla enorme;
e sebbene il dramma fosse molto al di sotto della lirica, ottenne un
successo trionfale. Intanto, anche le sue liriche erano passate sotto
i denti della critica; ma per quanto il letterato sia stato discusso,
combattuto ed anche straziato, il poeta rimase all'altezza a cui
l'aveva sollevato di sbalzo il primo e spontaneo sentimento d'affetto e
di gratitudine della nazione. Ora non v'è un cittadino francese che non
conosca qualche verso del Déroulède, e che non l'ami come poeta e non
lo ammiri come soldato. Quando Victor Hugo lo vide per la prima volta,
gli disse: — Il vostro nome ha preceduto in casa mia la vostra persona,
e bisogna che abbia fatto del rumore per venir fine a me, perchè oramai
non sono più di questo mondo. — E mentre in Francia si leggono per
tutto le sue poesie, i vecchi soldati d'Africa, nelle loro caserme
d'Algeri, disegnano col carbone sui muri delle camerate il suo profilo
caratteristico, con un gran naso aquilino, e dicono ai visitatori:
_Celui-ci est monsieur Déroulède, le grand parisien, lieutenant des
zouaves et avocat, un bon enfant...; mais un rude soldat tout de même._
*
* *
Ora vediamo la sua poesia.
Sono trentacinque canti, d'argomento e di metro diverso, che formano
tra tutti lo scheletro di un piccolo poema, che potrebbe essere
intitolato; _La Francia vinta_, nel quale s'alternano la narrativa e la
lirica, l'ode e la canzonetta, il dialogo e la descrizione, e tutte le
ire e tutte le angoscie che possono passare nell'anima d'un cittadino
e d'un soldato durante una grande guerra sfortunata, che comincia
con l'invasione e termina con la conquista. Finito di leggere, par di
vedere un vasto quadro circolare, come un panorama, nel quale, sotto un
cielo sinistro, per una sterminata campagna bianca, corrono torrenti
neri di soldati, mischie orrende infuriano nelle gole dei monti,
ardono villaggi, si sbandano divisioni, fuggono treni d'artiglierie,
serpeggiano fiumi di sangue, e sul davanti s'alzano visi trasfigurati
di moribondi, con gli occhi rivolti al cielo, che benedicono la patria
per cui danno la vita. L'impressione che fa questa poesia sopra di
noi italiani, in questo tempo in cui l'amor di patria è, per così
dir, tranquillo e quasi nascosto nel nostro cuore, sia perchè son
già lontani i ricordi dei grandi avvenimenti nazionali, sia perchè
nessun'idea di un pericolo vicino ci scuote, somiglia a quella che
farebbe su di un uomo maturo, tutto immerso nel lavoro e negli affetti
sereni della famiglia, l'eco d'una musica lontana, che gli rammentasse
qualche violenta e disperata passione dei suoi anni giovanili. Via
via che procediamo nella lettura, riconosciamo quelle tristezze, quei
dolori, quelle indignazioni; esse passarono altre volte per il nostro
cuore; le abbiamo espresse con quelle parole, le abbiamo sfogate con
quelle grida; e con le medesime ragioni abbiamo cercato di confortare
il nostro orgoglio nazionale lacerato. Mutata la lingua, cangiati i
Prussiani in Austriaci, quella potrebbe parere poesia scritta dopo
Novara o dopo Custoza da un focoso luogotenente dei bersaglieri.
Uno dei sentimenti che il poeta espresse più potentemente è la
tristezza lugubre che pesò sull'esercito e sul paese dopo i primi
rovesci, e l'umiliazione che divorò l'anima del soldato. Ci ha dei
quadretti grigi, con la pioggia all'orizzonte, e un reggimento che
passa in disordine, così pieni di malinconia, di stanchezza, di
ricordi dolorosi, di presentimenti funesti, che stringono il cuore.
Per le vie dei villaggi, in mezzo a una folla immobile e fredda,
sfilano in silenzio le compagnie e i battaglioni, dopo molti giorni di
combattimenti disastrosi: i soldati col cheppì sugli occhi e il bavero
del cappotto rialzato, gli ufficiali col capo basso, i tamburi muti,
le bandiere lacere, tutti i visi pallidi e pesti; e si sente lontano
il rombo del cannone tedesco. E il borghese spietato e insolente nella
sua vigliaccheria d'egoista, dice a mezza voce: — Hanno avuto paura. —
Par di sentirseli passare nel cuore, come lame di pugnale, gli sguardi
gelidi di quella gente che non ama la patria, ma la vittoria, e che
perduta la speranza, nega la compassione. E s'indovinano le lacrime di
rabbia che deve aver versato il poeta. Ma non una di queste lacrime
è caduta nei suoi versi: il suo amor di patria è più forte del suo
orgoglio di soldato: egli respinge con parole tristi l'accusa di viltà,
e perdona. Solamente un sorriso amaro gli sfiora le labbra, quando
una signora, che guarda dalle finestre della sua villa il fuoco d'un
bivacco notturno, e sfoga in parole entusiastiche la sua ammirazione
per i turcos, cangia tuono ad un tratto e li chiama ladri e banditi,
accorgendosi che bruciano la legna dei suoi boschi. Son pochi cenni
qua e là, ma il contrasto occulto di sentimenti che nasce in ogni
guerra sfortunata tra chi dà la vita e chi dà il danaro; tra chi mette
al disopra d'ogni cosa l'onore e chi antepone a tutto la pace; tra la
parte che forma i nervi e quella che forma il grasso flaccido e pigro
d'una nazione, è reso magistralmente, con una mestizia grave, cento
volte più efficace dello scherno, e più nobile dell'ira.
Ciò non ostante, i più belli dei _Chants du soldat_ son forse certi
poemetti di poche strofe, in cui son narrati degli atti eroici, veri
quadretti del Détaille e del Neuville, che infiammano il sangue come
l'urrà d'un reggimento. In una di queste, una compagnia di cacciatori,
che corre all'assalto, sprofonda, a traverso al ghiaccio spezzato,
in un fiume, mentre i tedeschi, schierati sulla sponda opposta, coi
fucili spianati, intiman la resa. I cacciatori rifiutano, vogliono
morire. Ma il capitano ordina d'arrendersi. — Arrendetevi, ragazzi —
grida; — non voglio che moriate così; a che serve? Abbassate le armi,
non c'è altro da fare. — I cacciatori obbediscono e salgono sulla
riva: il capitano riman nel fiume. — Salite, capitano! — gli gridano,
tendendogli la corda. — No — quegli risponde —; ho salvato i miei
soldati, non me; — e facendo un'atto d'addio, sparisce nell'acqua. In
un'altra poesia è un ufficiale ferito al cuore che pianta la sciabola
in terra e grida: — Qui voglio essere sotterrato! Onta a chi lascierà
il mio corpo al nemico! — e con questo grido ricaccia avanti i suoi
soldati, che cominciavano a piegare. In altre è una difesa disperata
d'un villaggio, comandata da un prete, che si fa uccidere co' suoi
contadini; un trombettiere colpito da una palla, che spira suonando
l'ultimo squillo dell'assalto con le labbra stillanti di sangue; uno
stormo di zuavi che assale e conquista una batteria coprendo il terreno
di cadaveri. Nulla di straordinario nei soggetti; ma l'effetto della
poesia è straordinario. Non c'è quasi pittura, si può dire; e si vedono
i luoghi, il tempo, il color dell'aria, come in una lunga descrizione,
tanto son scelti e resi efficacemente i «particolari tipici,» che fanno
indovinare gli altri mille. Non c'è una sola delle frasi convenzionali
della solita poesia guerresca, più letteraria che marziale, che gonfia
la battaglia per farla terribile. Qui tutto è stato preso dal soldato
nella esperienza tremenda del vero; si sente «cantar la polvere»; si
sente lo schianto dei rami spezzati dalle palle; si sente gridare,
nella notte, da una parte _Pour la France!_ e dall'altra, più lontano,
_König und Vaterland!_ nelle tenebre squarciate dai lampi delle
fucilate, come se si assistesse al combattimento; e finito di leggere,
si rimane come ravvolti in un nuvolo di fumo, coll'orecchio pieno di
grida, e l'anima sconvolta dal passaggio della morte.
A queste poesie, in cui non freme che il soldato, succedono
altre, in cui parla il figliuolo, l'amico, il fratello, l'amante —
affettuosissime, ma di quell'affetto che si dà soltanto nelle anime
virili, che è come la grazia della forza, e che soggioga, perchè si
sente che viene dalla grandezza, non dalla raffinatezza del cuore. È
bello, dopo aver visto un Déroulède a cui si metterebbe una medaglia
sul petto, vederne sorgere un altro, a cui si stamperebbe un bacio sul
viso. C'è la poesia intitolata: _Le bon gîte_, di trentadue versi, che
non si può legger senza lacrime. Ricorda uno dei più belli episodi del
_Coscritto_ del 1813, di Erckmann-Chatrian. Un soldato è ospitato una
sera in casa d'una povera vecchia. La vecchia mette tutta la sua legna
sul fuoco, ed egli, intenerito, le dice: — Basta, risparmia la tua
legna, buona vecchia: io non ho più freddo. — La vecchia apparecchia
la tavola con quanto ha di meglio, ed egli le dice: — Non occorre; ho
mangiato alla tappa; non ho più fame. — La vecchia gli prepara il letto
con le sue lenzuola, e vuol dormire sopra una seggiola, ed egli le
dice: — No, buona vecchia, non voglio; dormi tu nel letto; io dormirò
sopra la paglia. — E la mattina, partendo, s'accorge che il suo zaino
è molto più pesante che la sera innanzi. — Ma perchè tutto questo? —
le domanda; — è troppo, buona donna; perchè tutto questo? — Ed essa
risponde, sorridendo a traverso alle lagrime: — _J'ai mon gars soldat
comme toi._ — Ma non si può esprimere la semplicità profonda e gentile
di quelle quattro strofette e di quei quattro ritornelli, in cui si
sente il crepitìo del fuoco e l'odore della tovaglia di bucato e la
voce dolce e tremola di quella povera madre, che serve e accarezza in
quel soldato sconosciuto il fantasma adorato del figliuolo lontano.
In un'altra poesia è un vecchio soldato arabo che raccoglie sulle sue
ginocchia un giovane volontario moribondo, il quale, mentre il suo
reggimento è macellato, domanda: — Li abbiamo vinti, questa volta,
non è vero? — e il vecchio arabo, per non togliere alla sua agonia
quel conforto, gli risponde di sì, e continua a dire tristamente, dopo
che il ragazzo è già spirato: — Sì, ragazzo mio, li abbiamo vinti.
— Un'altra poesia è un inno di riconoscenza al Belgio ospitale, dove
le anime sono così serene e gli occhi così dolci, che tutti i dolori
e tutti gli odi vi s'assopiscono; un'altra è un ringraziamento al
medico che lo cura, al quale dice che è più profonda l'amicizia nel suo
cuore che la ferita nelle sue carni; un'altra, la _Cocarde_, forse la
più gentile delle sue poesie gentili, è un ricordo amoroso che manda
la fragranza d'un fiore. — Arrivammo al villaggio — dice — dopo tre
giorni di marcia, spossati, morti di freddo, avviliti dal presentimento
d'un'accoglienza scortese. E cercammo dell'albergo. Ma una ragazza, di
sull'uscio di casa sua, ci gridò: — Ah francesi di poca fede! Questo
è un giorno di festa per noi. Non siete in Francia? Non siete in casa
vostra? Entrate. Noi v'aspettavamo. Avete fatto male a dubitar di
noi. — E dicendo questo sorrideva; eppure mi vengon le lacrime agli
occhi quando ci penso! E quanto sovente ci penso e come la rivedo! Era
accanto a sua madre e aveva una coccarda di tre colori nei capelli.
Tutt'a un tratto, pregata da noi, si mise a cantare i nostri canti di
guerra. Era la Gloria irata che ci rampognava con la sua voce. Oh la
buona e bella francese! Che grande cuore e che begli occhi! Ora voi
mi domanderete se la presi io stesso da' suoi capelli questa bella
coccarda che porto da tanto tempo sul cuore, annerita dalla polvere
e macchiata dal mio sangue. Ah no, non l'avrei mai osato. Tutto
pensieroso, parlando a stento, io guardavo quella fronte di bimba,
quell'aria di regina, quei tre colori in quei capelli neri, e dicevo
tra me con tristezza: — Tutto questo riman qui.... ed io me ne vado! —
Squilla la tromba: addio coccarda! addio canzoni! E nondimeno le dissi:
— Ah! s'io l'avessi quel bel nastro! — e mi soffermai sull'uscio, tutto
tremante. Ed essa allora semplicemente: — Prendete — rispose, — e Dio
vi guardi! — Nient'altro che questo, dieci strofette di sei versi;
ma in cui si sentono mille cose nobili e belle che non vi son dette,
come nel tremito profondo d'una voce cara; una poesia ingenua e fresca
che vi va all'anima, come un soffio d'aria profumata che vi porti di
lontano le note amorose d'un violoncello.
Poi vengono altre poesie, che si potrebbero chiamare poesie d'assalto,
come quella del Berchet per le rivoluzioni di Modena e di Bologna;
una tra le quali, intitolata: _En avant_, non cede in nulla, anche
a giudizio di qualche tedesco, al famoso inno: _Ho la spada alla mia
sinistra_, del Körner. Qui il metro s'accorcia, la strofa si serra, il
ritornello grida, i versi risonano come spade urtate o echeggiano come
squilli di fanfare, pieni d'ira selvaggia e di sprezzo della morte; e
tutta la poesia imita la pesta precipitosa d'uno squadrone che rovini
a briglia sciolta sopra un quadrato. Genere di poesia difficilissimo,
che si riduce ad una serie d'esclamazioni ampollose e chiassose, senza
forza, simili alle imprecazioni d'un briaco asmatico, se ogni strofetta
non è proprio un grido feroce, che si senta uscito dalle viscere di
un soldato che guardò in faccia la morte. E l'efficacia di queste,
come di altre poesie del Déroulède, risiede tutta, a mio credere,
nella profondità e nella sincerità d'un sentimento particolare, che si
potrebbe chiamare appunto il sentimento della morte. I poeti guerrieri
di tavolino hanno della morte in battaglia una specie di sentimento
artistico, per cui la circondano di un terrore teatrale, o la trattano
con una familiarità affettata da eroi spacconi, per i quali sia una
celia il morire; e lascian capire che si servono della sua immagine per
ottenere certi effetti; per il che non ci fanno mai nè veramente paura,
nè veramente coraggio. La _morte_ del Déroulède, invece, è una morte
veduta, affrontata, pensata, qualcosa di solenne e di muto, che passa
in fondo alle poesie, lentamente, e mette un tremito di riverenza nel
cuore. Con quali parole egli esprima questo sentimento non si può dire:
son cose che sfuggono nell'analisi, che si sentono tra verso e verso,
per tutta la poesia e in nessuna strofa, in certi silenzii piuttosto
che in certe frasi, come s'indovina la forza d'animo d'un uomo da una
espressione sfuggevole dello sguardo. E son poesie che non fanno parer
punto facile il coraggio, come le rodomantate patriottiche dei poeti
da poltrona; ma che lo ispirano rappresentandolo grande e tremendo,
e suscitando nel cuore le forze da cui nasce e su cui si regge. Si
potranno criticare come opere d'arte; ma bisogna dire, leggendole,
quello che un poeta francese disse dell'_Hetman_, dello stesso
Déroulède: — Non mi piace; ma vi traluce sotto l'anima d'un eroe, più
bella e più potente che la sua poesia.
In altre poesie c'è qualche nota comica, qualche lampo d'ilarità che
attraversa la tristezza o il terrore. È comico, per esempio (e come
vero!), benchè in fondo commova, quel buon coscritto ignorante, che non
capisce nulla nè di patria, nè di guerra, e che lamentandosi col suo
capitano d'esser stato chiamato alle armi, dopo avergli detto: — _moi
je suis vigneron chez nous_, chiamando sè stesso _le pauvre fils de ma
mère_, gli domanda ingenuamente:
Mais ne peut-on livrer bataille
Sans que nous allions aux combats?
N'avez-vous pas d'autres soldats?
Ma vigne a besoin qu'on la taille.
Mon père se fait vieux là bas.
Ah! pourquoi diable ai-je la taille?
Ne saurait-on livrer bataille
Sans que nous allions aux combats?
Ed è amenissimo quel vecchio sergente (_Le sergent_), analfabeta ed
eroe, che si giustifica di non aver imparato a leggere,
(L'imprimerie et lui ne se fréquentaient point)
dicendo che la lettura è buona per quei cervelli vuoti, i quali, non
avendo nulla in sè,
Puisent là de l'esprit comm'on tire de l'eau,
mentre per gli uomini d'ingegno vero la testa è il migliore dei libri;
e che al coscritto, il quale trincando, esclama: — _Pour la France
et pour vous!_ — risponde superbamente: — _Ça ne fait qu'un._ — E più
lepido di tutti quel gran marsigliese, tipo degli spacconi vigliacchi,
svelto come un cervo e forte come un toro, il quale, mentre gli altri
si battono, per fare qualche cosa anche lui per la patria, studia i
vari sistemi di fucile. — Che cosa importa — dice — un soldato di più o
di meno nell'esercito immenso? La guerra è un duello, in tutti i duelli
ci vogliono dei testimoni, ebbene
Nous serons témoins des français de France.
Ma poi, caspita, quando vede che gli eserciti francesi, _les gens du
nord_, par che si facciano battere a bella posta, perde la flemma. —
Non rimane proprio più che la Provenza! — esclama. Vengano dunque.
Andar noi, non si deve. La Francia sarà ancora troppo felice di
trovarci qui nei momenti supremi. Mostriamoci da lontano, come la
Speranza,
Et pour rester forts, gardons nous vivants.
E un giorno che gli fan la celia d'annunziare l'apparizione d'una
corazzata tedesca nelle acque di Marsiglia,
Le pauvre garçon est pris d'un transport:
De blanc qu'il était, il en devient rouge,
De rouge violet, et de violet.... mort.
Ma la sua idea dominante è l'idea della rivincita: è come il rimbombo
continuo d'un cannone lontano, che si sente in mezzo a tutti gli
squilli di tromba delle sue poesie. — La rivincita, dice, è la legge
dei vinti. È inevitabile. O Francia o Prussia. Il giorno sarà forse
lento a giungere; ma giungerà. L'odio è nato, nascerà la forza.
Toccherà al falciatore a vedere quando la messe sarà matura. — Dice
alla Francia: mille voci ti eccitano, ti consigliano, ti rimproverano.
Tu ascoltane una sola perchè hai un solo dovere. — Ma — come dice