Ritratti letterari - 08

scrittore naturalista, e ricorre le critiche che gli son state fatte
negli anni addietro; ma per quanto faccia, non si presenta mai al
pubblico con la coscienza soddisfatta, e ricomincia a martellare sulla
sua parte anche dopo la più splendida riuscita.
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* *
A questo lavoro indefesso egli deve la sua continua ascensione
nell'arte, in cui non ha più che un rivale, — il Got, — che ha
vent'anni più di lui, ed era già attore provetto quando il Coquelin
entrò nel «Teatro francese»; quel celebre Got, che creò il Giboyer,
come si dice nel linguaggio teatrale, nelle due commedie _Les
effrontés_ e _Le fils de Giboyer_; che fece un tipo indimenticabile
dell'abate nell'_Il ne faut jurer de rien_ di Alfredo Musset; che
interpreta insuperabilmente _Maître Guérin_, _Monsieur Poirier_ e
il _Duca Job_ di Léon Laya: il primo attore, forse, che portò nella
_Comédie française_ un sentimento potente della realtà, e che, pure
possedendo profondamente la tradizione dell'arte, pigliò tutti i suoi
modelli nella natura viva. Anch'egli è ugualmente forte nel drammatico
e nel comico: Bernard nei _Fourchambault_, strappa i singhiozzi;
Matamore nell'_Illusion comique_, fa schiantar dalle risa; e chi
l'ha visto Rabbino alsaziano nell'_Ami Fritz_, che fu uno dei suoi
più grandi trionfi, non lo riconosce più nei panni di _Sganarelle_
o del _Souffleur_ dei _Plaideurs_ di Racine, in cui è insuperabile.
Osservatore finissimo, vero fin nelle più piccole minuzie, abilissimo
alle trasformazioni del viso, capace di recitare per quattro atti
interi, come nel _Gendre de monsieur Poirier_, con un occhio socchiuso
e la bocca torta, senza scomporsi un momento; fornito d'un gusto
letterario squisito, e di buoni studi, e altieramente appassionato
dell'arte sua, egli tenne per lungo tempo il primato nel «Teatro
francese», ed è indubitabile che giovò moltissimo al Coquelin, non
foss'altro che col proprio esempio. Ma questi — lasciando da parte
altre qualità intimamente individuali, che non permettono confronti —
è superiore a lui nella versatilità dell'ingegno e nella mutabilità
dell'aspetto. Il Got è vario; il Coquelin è un Proteo. Il Got, per
esempio, ha non so che di proprio e d'immutabile nell'intonazione e
nel gesto, un certo fare _bourru, imitant la franchise_, come dicono
i francesi, e un _tic_ particolare del capo e delle spalle, simile
all'atto di chi dica: — Non me ne importa il gran nulla, — un po'
volgare, — che lo rende inabile a tutte le parti in cui si richiede
eleganza e dignità signorile di maniere. Oltre di che è restìo a
liberarsi dai modi e dagli accenti d'una parte in cui sia riuscito
maestrevolmente; così che per molto tempo, dopo una _creazione_
grande e fortunata, porta in altri drammi l'impronta del personaggio
prediletto, come gli accadde, tra l'altre volte, dopo il suo successo
nel _Giboyer_. Il che non segue al Coquelin, di cui l'ingegno sembra
cambiar natura ogni volta che cambia parte; che scende fino alla
farsa plebea e sale fino alla più alta poesia; pagliaccio, gentiluomo,
villano, brillante, tiranno, — eroe della rivoluzione, tragico, nel
_Jean Dacier_, — piccolo collegiale vizioso e impostore nel _Lion et
Renard_, — sempre originale, rifatto da capo a piedi, e liberissimo da
ogni legame di reminiscenza; a segno che se gli saltasse il ticchio
domani di fare il _Romeo_ — con quella faccia — nella tragedia dello
Shakspeare, c'è da giurare che ci riuscirebbe, come disse un critico
tedesco; e che il pubblico, ascoltandolo, direbbe che a Giulietta
poteva toccare un amante più bello, ma non uno _più interessante e più
appassionato_. Nondimeno sono molti ancora quelli che gli preferiscono
il Got, come più profondo e più grave; e c'è fra loro una gelosia
coperta, ma viva, che scoppia ogni volta che cade su una medesima parte
la preferenza di tutti e due: come segue ora per il dramma _Le Roi
s'amuse_, in cui l'uno e l'altro vorrebbe fare il _Triboulet_; e questo
tira tira è cagione che il dramma non si rappresenti; non essendo parsa
accettabile a nessun dei due la proposta di Victor Hugo, che facessero
il _Triboulet_ una volta per uno, a sere alternate: proposta d'accorto
finanziere, non d'uomo esperto del cuore umano.
*
* *
Il Coquelin ha ancora un merito tutto proprio, che è d'essere un grande
declamatore di poesie liriche. Anzi tutto è maestro senza eguali
nel dire i versi, che è quasi un'arte nell'arte, in cui non gli si
avvicinano che il Got e Sara Bernhardt. È uno dei rarissimi attori che
sian riusciti a liberarsi, fino a un certo punto, da quell'accento
convenuto, da quel colorito generale che è quasi obbligatorio nella
dizione degli alessandrini francesi, e che anche nell'espansioni più
appassionate dell'animo tutti badano a conservare, come se fosse una
necessità fondamentale dell'arte. Il Coquelin si liberò da questa
psalmodia, da questa specie di musica sacra, come la definì la signora
Stael, che si trasmette di generazione in generazione a somiglianza
d'un vizio ereditario; e prese una via di mezzo tra coloro che cantano
il verso, avvolgendo tutto in una sorta di melopea sonnolenta, che
arrotonda tutte le linee e cancella tutti i contorni, e coloro che,
sotto il pretesto della imitazione del vero, non badano nè a ritmo, nè
a rima, nè a prosodia, e sacrificano interamente l'elemento poetico
all'elemento drammatico. Egli ha saputo cogliere una certa armonia
intermedia tra la parola e la musica, che nello stesso tempo accarezza
l'orecchio e rende l'intonazione del discorso. E fa valere mirabilmente
la bellezza della forma. Senza rivelar troppo l'artifizio, fa sentire
tutte le variazioni del movimento ritmico, le ondulazioni della frase,
le rime, le cesure, le attaccature dei periodi; rompe la monotonia
degli alessandrini con una quantità di chiaroscuri delicatissimi;
virgola e punteggia con una grande efficacia, e, grazie particolarmente
alla sua maniera ferma e nitida di articolare le consonanti, ha una
chiarezza di dizione — qualità indispensabile per i versi — che nessun
attore ha mai superata. Oltrechè non è solamente interprete, ma critico
e correttor vero del poeta. Nessuno meglio di lui sa afferrare, in una
poesia, il filo del concetto principale, e attenercisi, malgrado le più
viziose digressioni, e fare in modo che non se ne scosti menomamente
l'attenzione degli uditori. È maestro nell'arte di velare i difetti
della forma, di scivolare sulle lungaggini, di gettar ombra sulle
parti deboli per raccoglier luce sulle forti, di far sfolgorare il
verso capitale, e di scoprire e mettere in rilievo pensieri affogati
dalle immagini, e sensi riposti, e finezze, e contrasti, che il
poeta stesso non ha avvertiti. Ed esercita quest'arte nei salotti
— dov'è invitato e pagato — il che è molto diverso, ed anche assai
più difficile che esercitarla nel teatro; tanto che molti attori
applauditissimi sul palco scenico, perdono ogni efficacia declamando
versi in un cerchio ristretto d'uditori. Il Coquelin, invece, conosce
ed osserva rigorosamente tutte le leggi delicate e difficili che
impone la vicinanza dell'uditorio, col quale, anzi, qualche volta
l'artista si trova confuso: smorza gli effetti, ristringe il gesto,
attenua l'espressione del volto, modula in un modo particolare la
voce, e dissimula accortissimamente l'attore drammatico sotto l'uomo
di società. Perciò ottiene dei successi privati non meno splendidi dei
successi teatrali, e rende, in questo campo, dei veri servigi alle
lettere. È lui che ha diffuso, in questi ultimi anni, il gusto dei
versi nella società elegante, che non badava prima che alla musica, e
parecchi dei più illustri tra i giovani poeti della Francia debbono
a lui il principio della propria fama. Egli recitò per il primo le
poesie di Alfonso Daudet, che è suo amico intimo, di Paolo Déroulede,
per il quale professa una viva ammirazione, di Jacques Normand, del
Coppée, del Manuel, del Guiard. E non si può dire con che passione
egli cerca queste poesie, con che piacere se le fa leggere in casa,
per le strade, in carrozza, nei camerini del Brébant; come scatta ad
ogni verso potente; come, senz'accorgersene, udendo leggere, prepara
il gesto e l'atteggiamento del viso con cui dirà quella data strofa;
con che impazienza, all'ultimo verso, strappa il manoscritto di mano al
poeta, e con che bella e simpatica sicurezza di grande artista gli dice
sorridendo: — Lasciate fare a me, che vi servirò da onest'uomo.
*
* *
Ma non è compiuto il ritratto del Coquelin se non gli si fa accanto
uno schizzo di suo fratello, che è come una sua appendice; attore anche
lui del _Teatro francese_, chiamato _Coquelin cadet_, per distinguerlo
da Costanzo. Il Coquelin _cadet_ crebbe al calore del forno paterno
accanto al fratello maggiore, e portò con lui il pane fresco ai buoni
borghesi di Boulogne-sur-mer, con la faccia bianca di farina e le mani
imbrattate di pasta. Quando il fratello maggiore dava i primi segni
della sua vocazione drammatica, lui ancora bambino s'ingegnava già
d'imitarlo, gesticolando e balbettando dei versi; e quando più tardi
il fratello gli confidò i suoi disegni ambiziosi, anch'egli cominciò a
riscalducciarsi la testa e a vagheggiare il teatro. Partì il fratello,
passò qualche anno: Coquelin _cadet_ pensò di manifestare le sue
intenzioni al padre; ma non osava, perchè suo padre contava fermamente
su di lui per tramandare ai posteri il suo forno. Nondimeno un giorno
si fece coraggio e tirò la schioppettata. Si ripetè la medesima
scena che era seguita col primogenito; ma questa volta con un po' di
scandalo. Il buon fornaio, udendo per la seconda volta quelle fatali
parole: — Voglio fare l'artista drammatico, — alzò la testa dalla
madia, e guardò il figliuolo con due occhi grandi come due scudi. —
Ma dunque — disse, incrociando le braccia — è proprio destino che io
non ne debba salvare neppur uno dei miei figliuoli! _C'est comme une
peste qu'ils ont tous. Je ne comprends pas. Où ont-il donc attrapé
ça, mon Dieu!_ — Ma dopo un po' di contrasto, si rassegnò, e lasciò
partire il ragazzo per Parigi, dove fu ricevuto al Conservatorio,
poco dopo arrivato. Aveva ingegno e attitudine grande all'arte; ma non
l'esuberanza di vita, e le facoltà poderose e splendide del fratello.
Perciò il suo noviziato fu più duro e più lungo. Ma riuscì; riportò
anzi il primo premio del Conservatorio nel 1867, e si presentò per
la prima volta sulle scene della _Comédie française_, facendo il
_Petit-Jean_ nei _Plaideurs_, il 10 giugno 1869, otto anni dopo che
aveva esordito suo fratello, il quale, con pensiero affettuoso, volle
recitare accanto a lui quella stessa sera, nella medesima commedia,
nella parte dell'_Intimé_. Coquelin II piacque. D'aspetto, somiglia
molto al fratello; ed è forse anche più comico, benchè abbia i
lineamenti meno risentiti: gli basta entrar in scena per far ridere.
Ma l'indole drammatica è diversa: egli ha piuttosto la comicità
inglese, — umoristica — un po' fredda, che si fa capire più che non si
faccia valere; ed è attor fino e originale; e quel ch'è più curioso,
lontanissimo da ogni idea d'imitazione di suo fratello; del che diede
una bella prova fin da principio nella commedia _Le mari qui pleure_ di
Jules Prével, in cui fece la parte dell'avvocato Laroche, già sostenuta
mirabilmente dal primo Coquelin, in una maniera diversa affatto, e non
meno ingegnosa nè meno applaudita. Il fratello maggiore, ciò nondimeno,
sta tanto al di sopra dell'altro, da non potersi nemmeno istituire un
paragone fra loro; per il che questa bella fraternità non è macchiata
di gelosia. L'_aîné_ ama il _cadet_ più che da fratello, da padre; e
quando nella stanza di studio passa la mano sotto il mento d'un suo
bustino in bronzo, dicendo scherzosamente: _voilà mon petit frère_, —
gli si sente nella voce un grande affetto, e gli si leggono negli occhi
mille cari ricordi — di quando trottavano insieme per le strade con le
focaccie calde nel paniere, e riportavano il gruzzolo dei soldi al buon
babbo, curvo sulla madia, tanto lontano dal pensare che un giorno i
suoi due piccini avrebbero fatto rimbombare d'applausi il primo teatro
del mondo, e che il suo povero forno sarebbe diventato famoso.
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Ora il Coquelin è nel pieno vigore della sua virilità artistica e
forse nel periodo più felice della sua carriera. Figliuol di grazie
del «Teatro francese,» amico intimo di potenti, accarezzato dai poeti,
ricercato di consigli e d'aiuti da tutti i giovani commediografi,
glorificato come artista, riverito come mecenate letterario, e carico
di quattrini, non ha più nulla da desiderare, fuorchè delle belle
commedie. Ma non pensa a sè solamente. Sollecitato da mille parti per
recite di beneficenza, egli s'arrende a tutte le preghiere, abusando
anche delle proprie forze, e fa del bene a moltissimi; tanto che ha
un salotto pieno di medaglie e di ricordi preziosi che gli offersero,
e gli offrono di continuo, in segno di gratitudine, Società operaie
e Istituti e Comitati di soccorso d'ogni natura. È pure dilettante
di belle arti, ed ha un piccolo museo di quadri del Meissonier, del
Bonnat, del Fortuny, del Détaille, — in parecchi dei quali è ritratto
lui, nelle spoglie di Mascarille e di Cesare di Bazan, con quel riso
indefinibile e irresistibile, a cui deve una gran parte della sua
potenza d'artista. Della quale potenza uno potrebbe farsi benissimo
un'idea, senza essere mai stato al teatro, solo trattenendosi un'ora
ogni mattina nella sua anticamera; dove si trovano sovente insieme il
commediante famelico che viene a implorare un sussidio che non gli
è mai rifiutato, la signorina americana che vuol pigliar lezioni di
dizione francese, l'impiegato che desidera una croce, l'ufficiale che
ha bisogno d'un traslocamento, e qualche volta persin dei prefetti,
dei magistrati e dei vescovi, che non isdegnano di raccomandarsi a
Sganarello per ottenere un piccolo favore dal Governo. Ed egli riceve
tutti con quel gran naso voltato in su, pieno di bonarietà e di buon
umore, ruminando dei versi del Molière durante i discorsi lunghi, e
rimanda tutti, se non soddisfatti nei loro desideri, contenti almeno
di aver visto una volta da vicino quella maschera formidabile, che da
venti anni fa rider del suo riso e pianger delle sue lacrime Parigi.
*
* *
Così fatto, o presso a poco, è il celebre Coquelin, il quale (per
terminare con una buona notizia) sta pensando a raccogliere una
Compagnia d'artisti valenti per fare un giro in Italia, e dare una
serie di rappresentazioni in tutte le città principali.


PAOLO DÉROULÈDE
E LA POESIA PATRIOTTICA.

Riparliamo un po', qualche volta, della nostra vecchia poesia
patriottica. Quando lavoriamo nelle nostre stanze di studio, in mezzo a
giornali e a lettere d'amici di tutte le parti d'Italia, e a libri che
racchiudono tutti gli sforzi e tutte le audacie del pensiero umano; ed
esprimendo liberamente il nostro pensiero, che circolerà liberamente
da un capo all'altro del paese, godiamo, anche non pensandoci, di
respirare l'aria della nostra libertà, e di sentirci dentro il soffio
d'una patria grande e potente; noi dovremmo di tratto in tratto
rivolgere uno sguardo a cinque o sei volumetti, quasi dimenticati
in un angolo della nostra biblioteca, sui quali sono scritti i nomi
del Berchet, del Rossetti, del Mameli, del Poerio, del Mercantini; e
ricordarci che se l'entusiasmo non può essere più vivo per essi, deve
durare almeno la gratitudine. La critica ha sviscerato quei versi con
la sua mano gelata e spietata; onde nuove di poesia vi son passate su,
e ne hanno sbiaditi i colori; sono invecchiati i metri e le immagini;
e non ci paiono più che scintille quelle che erano lingue bianche
di fuoco; ma che importa? Quando rileggiamo quelle poesie nel cuore
della notte, nel silenzio della nostra stanza, qualche volta saltiamo
ancora in piedi, con una fiamma sulla fronte e un singhiozzo nel cuore.
Quanti grandi e cari ricordi non ci risvegliano! Quelle vecchie strofe
impetuose e sonore, dei giovinetti le hanno pronunciate sui campi di
battaglia, per incoraggiarsi a morire; dei feriti le hanno smozzicate
fra i denti, mentre i ferri del chirurgo cercavano nelle loro carni
palpitanti le schegge della mitraglia tedesca; dei moribondi le hanno
balbettate nel delirio dell'agonia; le hanno ripetute mille volte,
nell'oscurità delle secrete, i prigionieri di Mantova, dei Piombi
e di Castel dell'Ovo; le hanno cantate gli esuli nella miseria; le
hanno mormorate i martiri ai piedi dei patiboli; migliaia d'italiani
intrepidi le hanno divulgate per tutte le provincie, a rischio della
libertà e della vita; migliaia di donne le hanno trascritte in segreto,
di notte, col cuore tremante, mentre suonava nella strada il passo
del poliziotto straniero; un'intera generazione le ha coperte di
baci e bagnate di lacrime e tinte di sangue, quelle vecchie strofe
benedette, piene di sdegni, di minaccie e di consolazioni sublimi.
Ed anche noi, fanciulli nel quarant'otto, giunti appena in tempo ad
assistere al trionfo della nostra rivoluzione, quando quelle poesie
sonavano già liberamente per quasi tutta l'Italia, quanto le abbiamo
sentite ed amate! Bambini, le abbiamo udite recitare da nostro
padre, con gli occhi pieni di pianto; e non le capivamo ancora, che
già ci rimescolavano il sangue. Più tardi, le abbiamo divorate sui
banchi della scuola, tra la grammatica latina e la grammatica greca,
mordendoci le mani dalla rabbia d'amor di patria che ci mettevano nel
cuore. Poi le abbiamo declamate per le vie delle nostre città, e dalle
finestre delle nostre case, nelle belle notti stellate, trasportandoci
col pensiero negli accampamenti dei nostri fratelli, che combattevano
nelle pianure di Lombardia o sui monti di Sicilia, addolorati e
umiliati di non esser con loro, costretti ad arrestarci ad ogni strofa
perchè l'emozione ci strozzava la voce e ci faceva tremare le labbra.
Come ci sarebbe parso insensato e miserabile allora chi fosse venuto a
farci il pedante sulla forma di quella poesia che ci usciva in grida
e in ruggiti dal più profondo dell'anima! Che importava a noi che il
Berchet avesse delle frasi barbare e dei versi duri, che la strofa del
Rossetti fosse troppo ricca di suoni, che il Mameli fosse ineguale, che
il Mercantini fosse negletto, e che il _21 marzo_ di Alessandro Manzoni
rigurgitasse di similitudini? Ognuno di quei versi era un grido uscito
dalle viscere della patria; in ogni strofa si sentiva l'eco lontana
d'una battaglia; era una poesia sacra, che sollevava il nostro pensiero
e il nostro cuore al di sopra di tutte le volgarità della vita; che
ci rendeva più affettuosi con la famiglia, più buoni con gli amici,
più arditi nei pericoli, più forti contro i nostri piccoli dolori;
che entrava persino nei nostri amori d'adolescenti, e vibrava nelle
nostre prime parole amorose, e mescolava delle lagrime nobili e virili
ai nostri primi baci. Chi non ha adorato il Berchet, per esempio, e
baciato cento volte il _Romito del Cenisio_, e desiderato di vedere
una volta il poeta per curvare dinanzi a lui la sua fronte ardente
di giovanetto, come dinanzi all'immagine viva della patria armata
e insanguinata? Chi di noi, a quindici anni, non s'è sentito uomo,
poeta, soldato, capace d'ogni grande sacrifizio e d'ogni ardimento più
generoso, leggendo _O morte o libertà_ e la _Spigolatrice di Sapri_?
Quei versi hanno avuto una parte così larga e profonda nella nostra
educazione di uomini e di cittadini, che ci pare quasi che saremmo
altri da quelli che siamo, se non li avessimo conosciuti; essi si
sono confusi nella nostra coscienza con le esortazioni vigorose di
nostro padre, coi consigli magnanimi di nostra madre, con tutti gli
esempi di virtù e di grandezza che abbiamo ricevuti nella vita; e sono
diventati una forza intima della nostra natura. E li dimentichiamo
sovente, e per lungo tempo, perchè siamo ancora nell'età in cui le
speranze tengono maggior luogo che le memorie, e l'amore del presente
soffoca il rimpianto del passato. Ma, avanzando negli anni, quando
comincieremo a volgerci indietro, e ad evocare la nostra giovinezza
per consolarci della virilità moribonda, allora, nel segreto del nostro
cuore, pagheremo intero il nostro debito di gratitudine ai vecchi poeti
della patria; tutte quelle poesie gloriose ed amate ci baleneranno
alla mente, di lontano, nella nebbia rosea della nostra adolescenza,
come una legione di guerrieri scintillanti di ferro; e le ripeteremo
ai nostri figliuoli con lo stesso tremito nella voce con cui le
hanno dette a noi i nostri padri; e i nostri figliuoli le sentiranno,
speriamolo, con lo stesso cuore con cui noi le abbiamo sentite.
*
* *
Questi sentimenti deve ravvivare in sè chiunque voglia giudicare
rettamente un poeta nazionale straniero, sia il Riga o il Quintana o
il Körner o il Déroulède. Ma è quasi inutile avvertirlo. Non c'è uomo
che ami la propria patria, il quale leggendo la poesia patriottica,
fortemente sentita, d'un poeta straniero, qualunque sia il suo paese
e quali che siano i sentimenti che questo paese gl'ispira, non si
compenetri a poco a poco, involontariamente, della passione del poeta,
e non comprenda quindi e non giustifichi nella sua coscienza tutti
quei sentimenti e quei giudizi che ad un lettore freddo possono parere
ingiusti, superbi, temerari, e qualche volta anche puerili. Chi non
sente nel cuore la poesia patriottica di un popolo straniero, non ha
sentito neppure la propria. A costoro è inutile rivolgersi. Perciò noi
presentiamo il Déroulède e le sue poesie soltanto a quegli italiani
che, amando ardentemente la loro patria, sentono rispetto e simpatia
per tutti gli stranieri che amano ardentemente la propria, e capiscono
che ognuno ha diritto d'essere altero e violento — ed anche ingiusto
— quando difende sua madre. Per costoro è anche superfluo combattere
il pregiudizio volgare, secondo il quale la poesia patriottica, perchè
tende a muovere dei sentimenti che vibrano in tutti potentemente, o
a cui tutti hanno l'animo predisposto, è meno difficile d'ogni altro
genere di poesia, e non può dare la misura giusta dell'ingegno di un
poeta. Il critico sensato sa misurare l'ingegno del poeta a traverso
a tutti i sacrifizi ch'egli ha dovuto fare della devozione estetica,
come la chiamava il Berchet, alla devozione civile; indovina il
pensiero nel grido; completa da sè la poesia troncata da un colpo di
spada; e crede che, appunto quando una nazione è eccitata dall'amor
di patria, ed empie il mondo dei suoi clamori, occorra una voce
straordinariamente poderosa per far volgere il capo alle moltitudini,
un canto singolarmente ispirato per sollevare al di sopra della propria
passione dei milioni d'uomini, di cui ciascuno è un poeta. La qual cosa
è provata anche da ciò, che non sono più numerosi i poeti patriottici
potenti e durevoli, presso qualunque nazione, di quello che siano i
poeti eccellenti negli altri campi della poesia. Certo l'amor di patria
è un affetto comune; ma è di questo affetto ciò che un grande poeta
disse dell'amore: che tutti credono d'averlo provato o di essere atti a
provarlo nel massimo grado; mentre le differenze nella facoltà di amare
sono tante e tanto grandi fra gli uomini quanto quelle che passano tra
loro nell'ordine dell'intelligenza. Non basta infatti unire all'ingegno
l'amor di patria, per riuscire poeta patriottico: bisogna sentir
questo amore così intensamente, da poterne profondere intorno a sè dei
torrenti, e aggiungerne a tutti coloro che credono di non poterne più
ricevere, obbligandoli ad accettare il poeta come interprete della
loro passione, e a riconoscere in lui un'anima più ardente e più
forte e più alta dell'anima loro. Migliaia di poesie patriottiche, nei
tempi di ribollimento nazionale, sorgono, si diffondono e scompaiono:
non restano che quelle dei poeti ch'ebbero anima e cuore di grandi
cittadini, e tempra di soldati, e nerbo d'atleti; i quali o fecero o
avrebbero fatto quel che incitavano a fare, e o suggellarono i loro
canti col sangue, o li prepararono nell'avversità che fortificò ed
innalzò il loro cuore. Il Berchet scrisse i suoi canti sospirando la
patria da cui era proscritto; il Rossetti pagò le trenta strofe del
suo inno alla Libertà con trent'anni d'esilio; il Mameli e il Körner
morirono sul campo di battaglia; Riga sul patibolo. Perciò noi nutriamo
per i grandi poeti patriottici un sentimento particolare di riverenza,
e consideriamo come uomini intrepidi, che abbiano non meno operato che
scritto, anche quelli tra loro che non uscirono dal campo dell'arte;
e ce li rappresentiamo nella storia della letteratura, raggruppati in
disparte, con una cicatrice sulla fronte e una bandiera nel pugno.
*
* *
Che posto occupi tra questi poeti Paolo Déroulède, che tocca ora appena
i trentaquattro anni, non si potrebbe dir meglio che con le parole di
un critico arguto e dotto, ungherese di nascita, ma tedesco di studi
e di simpatie, che ne ragiona di passata in un suo notissimo libro,
assai malevolo per la Francia; il che toglie ogni sospetto ch'egli
possa peccare di parzialità per il poeta francese — a lui sconosciuto.
Il Déroulède, egli dice fra l'altre cose, è uno di quei poeti che
non possono nascere che in una nazione vinta. Quasi ogni nazione ebbe
nella sua storia un'epoca, in cui un solo pensiero la possedette: il
pensiero della lotta e della vendetta. Allora i bimbi si baloccano
con le sciabole e coi fucili, i ragazzi fanno ai soldati, i giovani
si rallegrano d'aver una vita da spendere per la patria, gli uomini si
preparano ai grandi sacrifizi, e i vecchi si dolgono di non essere più
atti alle armi. In tali epoche l'egoismo sparisce e vengono alla luce
nobilissimi esempi di virtù cittadine. Ogni uomo sente che tutto il suo
sangue dev'essere consacrato alla gran lotta e ogni donna riconosce che
il primo dei suoi doveri è quello d'accendere il coraggio degli uomini.
In questa condizione si trovarono la Spagna nel 1812, la Polonia nel
1830, l'Italia fino al 1866; questo pensiero ha suscitato la potente
Germania del 1814; questo pensiero ha fatto sorgere quella scuola di
poeti, fra cui i più insigni sono il Rückert, l'Arndt, il Körner, lo
Schenckendorf, l'Eichendorff. Non si può dire assolutamente che la
nazione francese si trovasse, dopo il 1870, in simili disposizioni;
ma Paolo Déroulède è senza dubbio un poeta di quella levatura. Le sue
poesie sono le prime di questo genere in Francia. Canzoni bellicose la
«grande nazione» ne ha abbastanza, cominciando da quelle del Boileau,
che pareva dimenassero la coda davanti al ridicolo _Roi Soleil_,
e venendo fino a quelle, che trovarono in Napoleone primo un più
degno oggetto dei loro entusiasmi; nè mancano pure nella letteratura
francese poesie che eccitino all'odio e al disprezzo delle nazioni
vicine; e forse in questo genere spetta la palma al famoso _nous
l'avons eu votre Rhin allemand_. Ma poesie piene di profondo dolore
per le sventure sofferte, di esortazione virile al raccoglimento,
al lavoro e alla preparazione, per il gran giorno della resa dei
conti; di sentimento del dovere, di spirito di sacrificio, di ferma
risoluzione nel proposito di ritemprarsi l'animo e le membra per
ritentare una prova suprema, tali poesie son nuove nella letteratura
francese. La sola _Marsigliese_ del Rouget de l'Isle s'avvicina a
questo genere e sorse del pari in un tempo di sventura nazionale
profondamente sentita; ma Paolo Déroulède, il soldato del 1870, è poeta
ben più grande del luogotenente d'artiglieria del 1791; poichè nella
_Marsigliese_ predominano ancora la declamazione, la millanteria e il
reboante, mentre i _Chants du soldat_, semplici e profondi, esprimono
il sentimento, la modestia e la dignità virile. Così dice uno scrittore
che bistratta la Francia per cinquecento pagine, negando ai francesi
persino lo «spirito» che anche i nemici più accaniti son disposti a
riconoscere in loro — indulgentemente.