Ritratti letterari - 07

così mal riuscito, dovesse far l'amoroso nel primo atto, e il figliuolo
offeso e terribile nel terzo atto di quella bella commedia. Con tutto
ciò mi colpì subito la sua maniera di stare in scena, anche in mezzo
alle signorine Reichemberg e Croizette, che ci stavano mirabilmente:
certi suoi serpeggiamenti, certe passeggiatine oblique per il palco
scenico, a passo strascicato, e un modo di andare qua e là, col
viso in aria e con le mani in tasca, così _vero_, così di casa, così
perfettamente imitato da quel ciondolìo senza direzione che facciamo
nella sala da pranzo, in famiglia, voltandoci ad ogni voltata del
pensiero e della conversazione, come banderuole girate dal vento; che
un ragazzo l'avrebbe osservato e ammirato. Poi notai un altro pregio
suo: ogni volta che aveva da dire qualcosa, l'espressione del suo viso
preannunziava in maniera il senso delle sue parole, che pareva che
le cercasse, che parlasse di suo capo, non che recitasse delle frasi
imparate a memoria: gli si vedeva proprio sulla fronte il lavorìo
della mente, che si fa discorrendo, quel po' di sforzo che costa a
tutti l'espressione del proprio pensiero. E questo dava un colore di
verità singolarissimo al suo discorso. E come rendeva bene nell'aria
del viso, nell'intonazione della voce e persino nell'andatura, quello
stato d'animo particolare del giovanotto ozioso, in quell'età in cui
comincia a sentirsi allo stretto fra le pareti domestiche, e vorrebbe
sbizzarrirsi fuori, ma i legami della famiglia lo trattengono ancora,
così che si dondola tutto il giorno per la casa e ingombra le stanze
della sua scioperatezza, pieno di appetiti virili e di capricci da
scolaro, brontolone e burlone ad un tempo, sbadigliando l'anima ogni
quarto d'ora! A poco a poco quella naturalezza assoluta mi soggiogò; e
mi trovai anch'io in quella corrente di simpatia che avevo notato fin
da principio fra lui e gli spettatori, i quali seguivano attentamente
ogni suo passo, mostravano di apprezzare ogni suo gesto, e ridevano
qualche volta d'un movimento appena percettibile del suo viso. Non
di meno mi pareva ancora che con quella effigie lì egli non avrebbe
mai potuto altro che farmi ridere. Venne il terzo atto, sul principio
del quale il Coquelin è ancora il giovane ameno e leggero delle prime
scene. Mi meravigliò, nonostante, il modo con cui fece al Bernard il
racconto delle sue avventure della sera innanzi, e del duello della
mattina; durante il quale racconto si rifece indietro due o tre volte,
per dir qualche cosa che aveva dimenticato, con una speditezza, con una
naturalezza così viva e così spigliatamente spontanea, che la platea
proruppe in applausi, e l'applauso fu seguito da un mormorìo generale
di ammirazione. Di li a poco — tutti conoscono la commedia — i ferri
si cominciano a scaldare, e di parola in parola il Bernard giunge a far
quell'allusione al padre Fourchambault, che colpisce il figlio in mezzo
al cuore. Allora si rivelò improvvisamente un altro Coquelin. Fu una
vera trasfigurazione. Parve che gli cadesse una maschera dalla fronte,
— il suo viso impallidì e si stravolse, — la voce cambiò suono, e il
gesto scattò colla forza d'una molla d'acciaio. Tutti hanno presente la
scena in cui Leopoldo Fourchambault alza la mano per schiaffeggiare il
Bernard, il quale lo trattiene, gli rivela che è figlio dello stesso
padre e che salvò la sua famiglia dal disonore, e poi gli domanda:
— Che cosa dici adesso? — Ebbene, il Coquelin gridò quella sublime
risposta: — Io dico che tu sei il più nobile degli uomini! Io dico che
tua madre è la più santa delle donne! Io dico che sono altero d'esser
tuo fratello e di gettarmi sul tuo cuore! — gridò queste parole con
una voce così potente, con un accento così gioioso e doloroso ad un
tempo, e straziante a forza d'affetto; con un tremito nella gola e uno
spasimo nel viso che rivelava così irresistibilmente il pentimento
profondo, la tenerezza immensa, il bisogno di chieder perdono, la
gioia divina del chiederlo, un misto d'umiltà e di forza selvaggia del
cuore, altero del suo slancio generoso e della santa giustizia che
rendeva; che, più ancor che commosso dalla scena, in mezzo a quella
gran folla del _Teatro francese_, che si sollevò tutta come un'onda del
mare, io rimasi trasognato della metamorfosi dell'attore. E sconfessai
immediatamente e per sempre il mio primo giudizio. Poi il Coquelin
rientrò nella sua parte quieta di buon giovanotto, e all'ultima
scena della commedia fece ancora più profonda l'incancellabile
impressione che mi aveva lasciata, con uno di quei tratti da maestro,
insignificanti in apparenza, che ai molti sfuggono, ma che ai pochi
bastano per riconoscere il grande artista, come il leone dall'unghia.
E fu quando sua sorella, ingenua, la quale sperava che l'istitutrice
sposasse il fratello Leopoldo, sente invece che sposa il Bernard, e
dice alla fidanzata: — Io avrei desiderato piuttosto che tu diventassi
mia cognata.... — non sapendo che il Bernard è suo fratello pure, e
che perciò la parentela esiste egualmente. Ebbene, il Coquelin, udendo
quella frase, fa tra sè quell'osservazione maliziosa: — _Il n'y a
peut-être pas grand'chose de changé_ — con una finezza così arguta,
con un sorriso così lepido in un angolo delle labbra, a mezza voce,
guardandosi la punta d'un piede e lasciandosi come scappare le parole
per distrazione, in mezzo alle voci allegre degli altri personaggi,
che gli si farebbero ripetere cento volte, tanto è l'accorgimento e
lo spirito d'osservazione e il senso comico squisito che rivelano. E
rimangono stampate nella mente, con quel sorriso e con quell'accento,
e si prova sempre un piacere vivo a ricordarle e a ripetersele, come
un verso magistrale d'un poeta di genio. Questa fu la prima impressione
che mi lasciò il Coquelin, o meglio, che mi lasciarono i due Coquelin,
l'uno amenissimo e l'altro appassionato e tremendo. E conviene
osservare che egli non può patire la parte di Leopoldo Fourchambault
perchè, dice, non gli conviene sotto nessun aspetto, e la fa per forza,
e da cane. Nientemeno.
*
* *
Poi lo intesi in altre commedie, e in tutte mi parve un grande artista.
Ha arditezza e misura, naturalezza e dignità, costantemente. Qualunque
personaggio rappresenti, dà a vedere d'averlo studiato, non solo
nelle manifestazioni verosimili della sua natura, ma nel più intimo
meccanismo dell'animo, alla sorgente stessa dei suoi sentimenti più
segreti; e conserva il colore di ciascun carattere anche nelle tempeste
più violente della passione. Dopo le sue prime parole non si vede
più il viso del Coquelin; ma quello del personaggio. «Il di dentro
domina il di fuori» come si diceva del famoso Lekain. Ha una maniera
di comporre il viso che corregge tutti i difetti dei suoi lineamenti;
una contrazione potente, che fa pensare a quella di Gwynplain e alla
camera dei lordi, ma che non tradisce lo sforzo. Tutto questo, però,
non basterebbe a fare di lui un grande artista, s'egli non avesse la
primissima delle facoltà drammatiche, che è di sentire profondamente e
vivacissimamente. La sua potenza è nelle vibrazioni dell'anima, nella
freschezza e nel vigore del sentimento. Quando esprime il dolore,
ha veramente delle lacrime nella voce, e degli accenti profondi
d'angoscia, che par che sanguini dentro; e negl'impeti d'ira o di
rabbia, quando discende il palco scenico, guardando davanti a sè con
quell'occhio grigio, dilatato e smarrito come un occhio di fiera,
e tutte le membra tese e convulse, pare che gli si debba spezzare
una vena nel petto. Per me, lo trovo anche più potente nell'ira che
nell'affetto. In quelle provocazioni fra gentiluomini, così frequenti
nelle commedie francesi, a cui segue per lo più un duello mortale,
egli ha un modo suo proprio così secco e tagliente, che fa d'ogni
parola una scudisciata traverso la faccia, e non so che di gelido e di
feroce nell'aspetto e nelle mosse, che mette un brivido nelle vene,
e fa presentire la morte. E ha degli slanci d'entusiasmo ardente,
frenati con un'arte profonda, che ne duplica l'efficacia, e delle
espansioni impetuose di gaiezza, che fanno l'effetto d'un'ondata d'aria
primaverile in quel gran teatro affollato e caldo, che pende dalle sue
labbra. Convien dire pure che ha una voce ammirabile, che si presta
alle più audaci inflessioni, nettissima nelle voci basse e sonora
nelle medie, senz'essere di quelle voci troppo ricche, che annegano,
come si dice in francese, la parola nel suono, e le consonanti nelle
vocali; una voce che s'alza qualche volta, senz'assottigliarsi e senza
sforzarsi, fino alle note più acute, e si espande e risuona, agile
e mordente, in tutti gli angoli della sala, e fin nei corridoi e nei
vestiboli, come uno squillo di tromba. Ha tutti i doni della natura,
insomma, fuorchè la bellezza. Ma quando lo s'è sentito recitare,
pare che la sua imperfezione fisica sia una condizione necessaria,
un elemento quasi della sua potenza particolare d'artista, e che
acquisterebbe qualcosa, ma perderebbe molto di più, se diventasse bello
ad un tratto come il Bocage o come il Salvini.
*
* *
Ed è anche più brutto, o, per meglio dire, strano d'aspetto, di quel
che pare dal palco scenico. Il primo sentimento che si prova, vedendolo
in casa per la prima volta, alla luce del sole, è un'ammirazione più
grande per la potenza del suo ingegno e della sua natura drammatica,
che riuscirono a trionfare, malgrado l'irregolarità quasi grottesca
della sua persona. La sua faccia è una vera maschera d'istrione antico:
un faccione largo e grasso, d'una carnagione giallognola da mercante
olandese, in cui brillano due occhietti bigi di faina, un po' maligni,
sopra un grosso naso che guarda in su con una petulanza senza esempio,
in modo che le nari si presentano come le aperture di due canne d'un
fucile da caccia; una gran bocca, con le labbra grossissime, tagliate
in forma di trapezio, che par che succhino continuamente un enorme
bocchino di pipa turca; un mento lungo e sporgente, e due mascelle
leonine, che si dilatano, quando parla, con un movimento inquietante.
Mettete questa faccia di mascherone di fontana, tutta sbarbata, con
una papalina nera sul cocuzzolo, sopra un corpo bassetto e tarchiato,
vestito d'un farsetto nero stretto alla vita, coi calzoni neri e
con le pantofole nere, e immaginate il misto bizzarro che ne deve
riuscire, di curato di campagna in _négligé_, di cuoco in lutto,
di forzaiuolo e di Stenterello. Si rimane sbalorditi a pensare che
quell'omiciattolo ci ha fatto piangere, fremere e tremare, e s'è presi
dalla tentazione di dirgli che non è quella la maniera di corbellare
il mondo. Ma è un di quei brutti che seducono, forse perchè la loro
bruttezza, come suol dirsi, non è che una bellezza sbagliata: come
accade di certe metaforaccie di pessimo gusto, sotto cui appare il
barlume d'una grand'idea. Questo è vero specialmente quando ride: non
si può immaginare un riso più vivo, più comico, più attaccaticcio
del suo; — e non è la risata dell'allegria — ma una specie di riso
filosofico e profondo, che nasce da un sentimento particolare della
vita, e che fa pullulare mille idee lepide nella mente, e indovinare
mille scherzi che non dice, e pensare confusamente a mille cose e
persone amene, che abbiamo conosciute in altri tempi; un riso che
rallegra dentro, e che mette voglia di darsi una fregatina di mani,
o di allungargli _une tape_ sulla pancia. Tutta la faccia gli ride,
fino alle orecchie; la bocca gli s'arrotonda in un modo curiosissimo,
che fa saltare il capriccio di ficcarvi un dito dentro, come dice lo
Zola del Boche, _pour voir_; e la punta del naso gli fa un piccolo
movimento accelerato, come la punta d'un dito che gratti qualche
cosa di sotto in su, d'un effetto comicissimo; mentre gli scintilla
negli occhi un'astuzia di demonio. I critici cortesi dicono che
ha _une physionomie comique parfaite, une face largement comique,
comiquement spirituelle_, e altre cose simili; ed è vero; ma non è
tutto. È una figura talmente originale ed esilarante, a vederlo da
vicino, che per molto tempo si rimane tutt'intenti a guardarlo, e non
si bada alle sue parole. Ed egli non s'illude sopra sè stesso; parla
anzi sovente della propria persona, celiando, come se canzonasse un
altro, e non vuol sentir parlare delle parti che richiedono bellezza
d'aspetto. Per questa ragione rifiutò, non è molto, di far la parte
di Pigmalione nella _Galatea_ della signora Adam. — Come volete — le
disse — che io ardisca presentarmi al pubblico in nome di Pigmalione,
che dev'essere un bell'uomo? _Voyons donc, madame: est-ce que j'ai le
nez grec, moi?_ — Il naso, infatti, è stato l'ostacolo più difficile
da superare, nella sua carriera drammatica. Quando qualche parte non
gli riesce, ha sempre la sua giustificazione pronta: — è il naso. —
Ma anche in casa sua, dopo un quarto d'ora che gli si parla, segue
come al teatro: si vede un altro Coquelin; tanto la sua conversazione
è arguta e attraente, rimanendo sempre naturalissima, come la sua
maniera di recitare. È divertentissimo vederlo lassù nella sua piccola
stanza di studio, triangolare, che sembra un camerino di teatro — al
quarto piano — tutta piena di libri, fra cui brillano in prima fila
i poeti drammatici e lirici di tutti i paesi; e cogliere a volo nelle
sue parole e nelle sue mosse gli accenti e i gesti di Mascarille, di
Gringoire, di Figaro e del piccolo gobbo del _Luthier de Crémone_, che
fecero risuonare d'applausi il tempio del Corneille e del Molière.
Il Molière, appunto, di cui ha tutto il teatro nel capo, è uno dei
suoi argomenti preferiti; e riparla spesso delle conferenze pubbliche
che tenne poco tempo fa; colle quali si propose di dimostrare che
l'_Alceste_ del _Misantropo_ non è come quasi tutti i critici e quasi
tutti gli attori l'interpretano, un personaggio cupo e profondo,
una specie d'Amleto francese, da rendersi con un colore di stranezza
fantastica; ma un personaggio apertamente comico, come gli altri del
Molière, e designato come tale dal poeta medesimo in una maniera che
non può lasciar dubbio. Egli svolse il suo concetto senza pompa di
dottrina, con molto buon senso, con grande chiarezza, per mezzo di
confronti e di citazioni bene ordinate e lucidamente commentate; ma
lasciò letterati e commedianti nel loro parere contrario. Si lamentò
in particolar modo dei letterati, così tra il serio e il faceto,
facendo tremolare la punta del naso. — Avete torto, mi dicono insomma,
perchè siete un commediante. _C'est ça qui m'embête_. Mi dicano che
ho torto perchè sono un grullo, francamente, e mi ci rassegno più
volentieri. Gli è appunto perchè sono un commediante che voglio dir
la mia ragione. Mi pare che serva a qualche cosa, per giudicare un
personaggio di una commedia, essere abituato da venti anni a mettersi
nella pelle degli altri, e a cercare la ragione intima d'ogni loro atto
e d'ogni loro parola. Se questi speculatori letterari del teatro non
fossero un po' trattenuti dal senso pratico di chi ha da incarnare i
personaggi che essi scrutano e sviscerano continuamente, finirebbero,
a furia di fare, con trasformarli in creature dell'altro mondo, che
nessuno potrebbe più riprodurre sulla scena. — E non si fermerebbe più,
quando ha preso a discorrere del Molière, se non esistesse un altro
personaggio, per il quale nutre altrettanto entusiasmo: il Gambetta,
in grazia di cui egli s'appassiona anche un poco alla politica, e
si tira addosso le canzonature del _Figaro_. Il Gambetta è suo amico
intimo, desina con lui tutte le domeniche, e lo conduce a far delle
lunghe passeggiate solitarie, durante le quali, chi lo sa? forse si fa
dar delle lezioni di recitazione, o si insegnano a vicenda ad aprire e
a scrutare gli animi umani, l'uno per giovarsene sul teatro, l'altro
nella politica; poichè, in diverso campo, essi sono i due più grandi
attori della Francia: il Gambetta più potente, ma il Coquelin assai
più sicuro di non essere fischiato. Egli parlò del suo illustre amico
con calda ammirazione, senza licenze familiari, ripetendo dei brani
del suo ultimo discorso, e esclamando di tratto in tratto: — Sentite
la bellezza di questa frase; sentite la giustezza di questo pensiero;
— come avrebbe fatto per una parlata del Racine. E a proposito
del Gambetta, lesse una lunga colonna del _Voltaire_, in risposta
all'_Intransigeant_, con una rapidità prodigiosa, e con una nettezza
di pronuncia ancor più ammirabile, facendo vibrare certe parole, e
schizzar fuori certe frasi, con cambiamenti improvvisi d'intonazione, e
ammicchi d'un occhio, e guizzi comicissimi delle labbra, in una maniera
da far proprio rimpiangere di non potergli dare il posto di lettore,
in casa propria, con centomila lire all'anno; che per un letterato
sarebbero impiegate al cinquanta per cento. Ed è pure notevolissimo
il suo linguaggio, scolpito e colorito, con certe screziature di
lingua popolare, ricco d'una quantità di termini insoliti e di
modi del gergo teatrale, svariatissimo come è in tutte le persone
dotate di un forte senso comico, che hanno bisogno di raccontare, di
descrivere e d'imitare. L'impressione che egli lascia, in conclusione,
è d'un uomo di buona indole e di buon cuore, come io credo che siano
necessariamente tutti gli artisti drammatici atti a interpretare con
eguale maestria i caratteri buoni e malvagi; perchè, per riuscire
grandi negli uni e negli altri, bisogna che nella loro natura predomini
il buono, senza del quale possono abbagliare con l'ingegno, ma non
soggiogare con la simpatia. Il Coquelin, però, ha l'aria d'un uomo
buono; non d'un bonaccione. Sotto la sua bonarietà canzonatoria
s'indovina un animo risoluto e vigoroso, col quale non dev'essere molto
comodo l'aver che fare i giorni che ha la luna rovescia; e specialmente
quando salta su a inveire contro i capricci prepotenti di certi autori
drammatici, piglia una certa guardatura bieca e fa stridere la voce
in un certo modo, che non par strano affatto, in quel momento, che
abbia saputo incarnare meravigliosamente l'anima dannata del duca di
Septmonts.
*
* *
La parte di duca di Septmonts nell'_Ètrangère_ del Dumas, credono
tutti, — e anche lui — che sia ciò che egli fece — per dirla con le
sue parole — _de plus fin et de plus incisif_, nel teatro moderno, dal
primo giorno che recitò fino al giorno che corre. Per comprendere le
difficoltà con cui ha dovuto combattere, basta rappresentarsi la sua
figura «largamente comica» e ricordare che il duca di Septmonts è la
quintessenza di un gentiluomo del gran mondo — spregievole e odioso
quanto si vuole — ma tanto più dignitoso e corretto di fuori quanto è
più fradicio dentro. Per alto che fosse il concetto che s'aveva della
pieghevolezza d'ingegno del Coquelin, si temeva che in quella parte
cadesse. Bastò invece la sua apparizione sul palco scenico a provocare
uno scoppio d'applausi e un'esclamazione universale di meraviglia.
Costanzo Coquelin, l'incomparabile _Figaro_, l'insuperabile gobbetto
del _Luthier de Crémone_, pareva il primo gentiluomo della cristianità.
Pallido, della pallidezza malaticcia d'un nobile sciupato dagli
stravizi, biondo, un po' calvo, con due folti baffi impertinentemente
arricciati, con una lente all'occhio, vestito con rigorosa eleganza,
disinvolto e duro ad un tempo, e superbamente signorile in tutti i
suoi movimenti, anche nel più forte della passione, egli era l'ideale
vivente dell'autore della commedia. E ad ogni nuova scena si rivelò
con maggior efficacia. Dalla sua aria tediata, dal suo modo di parlare
strascicato, come se ogni parola fosse un atto di degnazione, dalla sua
fredda cortesia, dal suo sguardo ironico e sorridente, da tutti i suoi
gesti e da tutti i suoi accenti artificiosamente trascurati, traspariva
l'insolenza sfrontata d'un aristocratico cresciuto all'orgoglio e
al disprezzo, il cinismo d'un _viveur_ intristito nel vizio, capace
di tutte le bassezze, l'audacia meditata e malvagia dello spadaccino
sicuro d'uccidere, — la sua educazione, il suo passato, tutto quello
che sarebbe stato capace di fare, e mille cose che pensava, e che
non diceva; ma che facevano pensare. Egli corresse anzi leggermente,
con molta arte, il carattere immaginato dal Dumas, che poteva riuscir
troppo ributtante; e lo corresse — come prescriveva il celebre attore
tedesco, l'Iffland, — facendo il difensore ufficioso del personaggio
che rappresentava: lasciando cioè indovinare in che maniera fosse
diventato quello che era, per quale via, non per colpa tutta sua,
si fosse così depravato, — guasto prima da un'educazione falsa e
poi dall'esempio della società incancrenita in cui era vissuto, —
e in tal modo, senza riuscire simpatico, si mantenne dentro a quei
limiti dell'odioso, oltre ai quali un personaggio teatrale non è più
tollerabile e nuoce agli intendimenti del poeta. Ma fu terribile.
Nella scena del quart'atto, per esempio, quando vuole umiliare il
signor Gérard, ricordandogli che sua madre era stata governante della
duchessa, trovò l'accento d'un sarcasmo così sanguinoso e stillò le
parole insolenti nell'animo del povero giovane, come goccie di piombo
fuso, con una lentezza così spietata, che tutti gli spettatori se le
sentirono penetrare nel cuore ad una ad una, e fremettero per quello a
cui eran dirette. E fece rabbrividire l'impassibilità marmorea con la
quale ricevette in viso quella tremenda invettiva della duchessa, di
cui ogni parola è uno schiaffo, fino a quel fulmineo: — _Misèrable!_ —
che finalmente gli solleva il sangue; e la rabbia pazza e feroce con
cui le si slancia addosso all'ultime parole, e lo sforzo improvviso
con cui si frena. Mai era stata rappresentata la superbia, l'insolenza
e la rabbia, con più satanica potenza, sulle scene della _Commedia
francese_. Il suo successo fu enorme. Egli empì il dramma della sua
persona, e vi spiegò tanta forza, che se gli altri atleti fossero
caduti, sarebbe bastato per tutti egli solo.
*
* *
Ma per quanto si dica, egli non è mai tanto potente come quando nuota
nella comicità larga del Molière, fra le grosse celie e le grosse risa,
vestito dei panni di Scapin e di Mascarille. Quella comicità dal naso
corto e dalle grosse labbra, come disse Alfonso Daudet, par fatta per
la sua faccia, per la sua voce e per la sua indole. Lì sfolgora ed
impera davvero, e fa tremare le vôlte del teatro. Nessun Mascarille,
nelle _Précieuses ridicules_, ha mai detto con più petulante
disinvoltura le sue spropositate goffaggini; nessuno ha mai mostrato
sul palco scenico una più maledetta grinta, una più impertinente
sfacciataggine di lacchè astuto e ridacchione, docile ai pugni e alle
legnate, e pronto a tutte le pagliacciate e a tutte le bricconerie.
Nessuno Scapin è stato mai più magistralmente bugiardo, ipocrita,
truffatore e buffone. Il Coquelin domina la scena, in queste farse
epiche, coll'imperturbabilità sovrana che dà la coscienza del genio.
Ha una mobilità di fisonomia, un'elasticità di voce, una pieghevolezza
di membra, una sicurezza, un'audacia che nessuna parola può rendere.
Nelle _Précieuses ridicules_ suscita una tempesta di risate con ogni
parola, quando contraffà il gentiluomo letterato e lezioso, e declama
quella stramberia di madrigale che finisce col grido: Al ladro! — Nelle
_Fourberies de Scapin_ snocciola quelle lunghe parlate per indurre
Argante a sborsare i seicento scudi, con una rapidità d'un effetto
comico meraviglioso. Non son più periodi; sono eruzioni, cascate
precipitose di parole, che schizzano e tintinnano come sacchi di monete
rovesciati, fra le esclamazioni di stupore della platea. Nei _Fâcheux_,
facendo la parte del cacciatore appassionato, dice quei cento e quattro
versi filati della descrizione della caccia, d'un fiato solo, come
se li improvvisasse, con una tale potenza imitativa della voce e del
gesto, che per un quarto d'ora par di veder fuggire i cervi per la
foresta, e il teatro risuona dello scalpitìo dei cavalli, del latrato
dei cani, dello squillo dei corni, delle grida dei cacciatori, come se
vi agisse un'intera Compagnia equestre. Ed è infaticabile. Dopo aver
fatto _Mascarille_ nell'_Etourdi_, che è una delle parti più lunghe e
più difficili del vecchio repertorio drammatico, è fresco e disposto
come prima di cominciare. Ed è superfluo far notare la difficoltà
grandissima che presentano queste parti comiche del Molière, in cui
se l'attore non è tanto forte da tener continuamente viva l'ilarità
e l'ammirazione, subito risalta la trivialità, l'esagerazione, il
grottesco del personaggio e della scena, e non basta la riverenza che
ispira il grande poeta a trattener il pubblico dal dar segno di noia
o d'impazienza: il che suole accadere nei teatri di provincia, dove le
commedie del Molière sono quasi irrappresentabili. Ma il Coquelin par
nato fatto per interpretare il Molière; e piuttosto che un _Sociétaire_
della commedia francese, si direbbe che è un attore superstite della
famosa _troupe de Monsieur_, ancor tutto fresco, dopo due secoli,
delle lezioni del suo capo-comico immortale. E in questo gli giova
immensamente la faccia. È impossibile resistere alla forza comica
dello sguardo, del riso e della smorfia di questo grandioso _farceur_;
bisogna ridere con lui, in qualunque stato d'animo ci si trovi; e si
ride di quel riso a singhiozzi, convulsivo e clamoroso, che ci riprende
ancora dopo il teatro, e ci accompagna a casa, e ci torna ad assalire
la mattina dopo, e ci rimane come un grato ricordo per sempre.
*
* *
Certamente, egli deve la sua gloria artistica più ai doni della natura
che allo studio. _Histrio nascitur_. Ed anco non ammettendo questa
verità, bisognerebbe fare un'eccezione per coloro che sono grandi
attori a ventitrè anni. Nondimeno egli studiò e faticò moltissimo.
Non _s'è fatto una voce_, come si dice del celebre attore Duprez;
ma _lavorò_ la sua infaticabilmente, con esercitazioni assidue e
metodiche; e non son molti anni, infatti, ch'egli ha quell'elasticità
mirabile degli organi vocali, che si presta così docilmente alla
varietà e alla mobilità prodigiosa delle sue sensazioni. Così la sua
pronunzia nitidissima, che fa d'ogni sillaba una nota cristallina,
è principalmente frutto d'un _fortemente volli_, come il vigore del
verso alfieriano. È una cosa che accende nel sangue la passione dello
studio, il sentirgli dire, per esempio, con che amore e con che cura
si è rimesso a studiare la sua parte d'_Annibal_, dopo che l'Augier
rimpastò l'_Avventuriera_; come l'ha scomposta e ricomposta daccapo,
periodo per periodo e frase per frase; come ha rivoltato per tutti i
versi ogni parola per trovarle il suo accento vero e proprio; come
ha ragionato tra sè ogni sorriso e ogni gesto. Così pure l'udirgli
esporre le riflessioni minute e ingegnose che fece sulla parte di
Figaro nel _Barbiere di Siviglia_, per cogliere le differenze che
dovevano passare fra questo — giovane e spensierato, — e il Figaro
del _Mariage_, — più avanzato negli anni, più esperto della vita e
cangiato anche per effetto della sua nuova condizione; — differenze che
seppe rendere stupendamente sul palcoscenico, fin nelle più leggiere
sfumature; e le conferenze d'ore e d'ore avute con gli autori, col
manoscritto alla mano, coperto di richiami e di postille, per trovare
insieme il colore particolare da darsi a una scena, o l'intonazione
giusta d'un monologo; e le discussioni interminabili avute coll'Augier
o col Dumas per sostenere il suo modo d'interpretazione, e salvar la
vita al personaggio concepito da lui, e amato come una creatura fatta
con le sue carni e col suo sangue. Di tutti i personaggi che deve
rappresentare, e della società e del tempo in cui vissero, cerca con
una pazienza e con una curiosità d'archeologo le più minute notizie,
nei libri e nelle conversazioni; e nota tutto e rimesta ogni cosa per
mesi e mesi, ragionando di ogni minimo particolare lungamente, con una
diligenza che tocca la pedanteria. E si prepara con maggior studio e
maggiore pacatezza in quelle scene appunto, in cui dovrà allentar di
più la briglia al suo istinto, perchè vuol essere audace sul sicuro;
al qual fine raccoglie osservazioni e consigli da ogni parte, come uno