Ritratti letterari - 03
all'indipendenza; quando hanno ottenuto l'una e l'altra, persistono
a lavorar ardentemente, sia perchè ne hanno contratto l'abitudine
irresistibile, sia perchè, crescendo in loro, con gli anni, l'amore
degli agi e la sollecitudine del decoro signorile, sentono il bisogno
d'arrotondare le rendite. Ed è ancora da aggiungersi a queste ragioni
d'operosità, se non una singolare attitudine dei francesi al lavoro,
il continuo e vario stimolo che deve dar loro la vita calda e ricca e
diversa d'una enorme città intellettuale; e il fatto incontrastabile
che una città siffatta, non ostante le sue esigenze e le sue
tentazioni, è per la sua stessa grandezza più favorevole d'una città
piccola al lavoro continuo e raccolto, per la ragione medesima che è
più facile rimaner padroni dei propri pensieri in mezzo a una grande
folla che in un cerchio di quindici conoscenti. Là non esiste, fra
colleghi letterarii, la _flânerie_ occasionata dagl'incontri fortuiti,
che piglia tanta parte del nostro tempo anche nelle città più grandi;
gli amici, per incontrarsi, si devono cercare per la posta; in ogni
convegno è prefissata l'ora della separazione; la molteplicità delle
faccende costringe alla pedanteria nell'orario; la furia della vita
non lascia tempo alla _rêverie_ che sfibra l'animo, come dice il
Goethe, e fiacca le forze dell'intelligenza; gli inevitabili doveri
sociali a cui si deve sacrificare una parte della sera, obbligano al
lavoro mattutino, più fresco e più salutare del notturno; i visitatori
importuni sono respinti senza riguardi; e tutto va di carriera, e
ognuno difende accanitamente il suo tempo e la sua libertà di lavoro.
E uno di quelli che la difendono più accanitamente è lo Zola. Il
quale vive solitario anche per questa ragione: che avendo combattuto
acerbamente molte opinioni stabilite, e ferito amor proprii, e
sollevato ire ed inimicizie, si troverebbe costretto, frequentando la
società letteraria, a una lotta continua; e mancante com'è del vero e
proprio «spirito parigino» che è un'arma terribile nelle dispute dei
salotti e dei circoli, egli sente che non ce la potrebbe in nessun
modo con le lingue indiavolate, coi fulminei motteggiatori, che gli
cascherebbero addosso da ogni parte. Per ciò se ne sta rinchiuso nella
sua officina, spendendo in lavoro tutta la vitalità che risparmia in
battaglie di conversazione, le quali darebbero troppo facile vittoria
ai suoi nemici. Victor Hugo, che malgrado la sua corte, vive in una
specie di solitudine intellettuale, fuori della letteratura vivente,
è il leone; Emilio Zola è l'orso. E vivono l'uno e l'altro in regioni
non meno lontane e diverse fra loro che quelle abitate dalle due fiere
formidabili che simboleggiano.
*
* *
Mentre stavo in questi pensieri, egli comparve, pallido e coi capelli
irti, vestito di un farsettone di maglia scura, stretto alla vita,
senza cravatta, con le scarpe di panno nero; uno strano vestimento, tra
di lottatore e d'operaio. Mi fece un'impressione inaspettata, diversa
dalla prima volta. Mi parve assai più piccolo di statura e più esile.
Ha messo un po' di ventre; ma è notevolmente dimagrato nel viso. Era
smorto e aveva l'aria triste. E forse a cagione della tristezza la
sua accoglienza fu più affettuosa di quello che si soglia aspettare da
lui. Sedette accanto al suo tavolo da lavoro, coperto di giornali e di
lettere non ancora aperte, e alle solite domande sulla salute, rispose,
con un accento non meno triste del suo aspetto, che non stava bene.
Poi soggiunse:
— Voi sapete che ho avuto la disgrazia di perdere mia madre.
E gli si empirono gli occhi di lacrime. Dopo qualche momento di
silenzio, ricordò la morte del Flaubert, la quale pure era stata un
gran dolore per lui. Il Flaubert era suo maestro e suo amico. Egli
l'aveva conosciuto e amato fin dai principii della sua carriera.
La perdita dei genitori letterarii è particolarmente triste per gli
scrittori che s'avanzano per una via ardita, piena di pericoli: il
soldato sente più dolorosamente la morte del suo capo, quando combatte
all'avanguardia.
— Questo è stato un duro anno per me — disse sospirando —; un anno nero
veramente, che mi peserà sul capo per un pezzo.
E riparlò del suo antico proposito di fare un viaggio in Italia,
anzi di venirsi a stabilire per qualche tempo fra noi, in una città
del mezzogiorno. Da molto tempo si sente stanco e ha gran bisogno
di riposo. Vorrebbe venire in Italia, senza che lo sapesse nessuno,
fuorchè un piccolo numero di amici, per poter vivere raccolto e quieto
nel suo cantuccio; non perchè sia selvaggio, e non ami la gente che
va a lui, mossa da un sentimento di simpatia; ma perchè non sa _jouer
le prince_, e davanti a tre persone con cui non abbia dimestichezza,
perde la sua libertà di spirito. Ma per quanto dica, son persuaso che
il suo viaggio in Italia non sarà mai altro che un proponimento. E
d'altra parte, quanto s'inganna se crede di venir qui a vivere in pace!
Il giorno dopo l'arrivo avrebbe un assembramento di veristi davanti
all'albergo, e sarebbe costretto a esporre la teoria del naturalismo
dalla finestra.
— Ho bisogno di riposo.... — ripetè con tristezza —; non posso più
lavorare come una volta.
— Eppure, — gli osservai, — oltre a tutto il resto, riempite ogni
settimana quattro colonne del _Figaro_. Noi siamo meravigliati della
vostra operosità.
— No, no, — rispose, scrollando il capo, — credetelo a me, non lavoro
più come una volta; non sono più quello di prima. Non ho ancora potuto
rimettermi al mio romanzo. Per scrivere, vedete, bisogna aver dello
spazio e dell'aria davanti a sè, bisogna credere alla vita.
Mi fecero tristezza queste parole, tanto più perchè non erano smentite
dal suo aspetto.
Credette per qualche tempo d'aver una malattia di cuore; i medici lo
disingannarono; ma nondimeno egli sente sempre in sè qualcosa di sordo
e d'inquietante, che gl'impedisce il lavoro, e lo volge alle previsioni
nere. Ora avrebbe un disegno. Continuare a scrivere per il _Figaro_
finchè ce l'obbliga l'impegno assunto; poi uscire dal giornalismo,
sdarsi interamente, e per sempre dalla polemica, e consacrare tutto il
suo tempo e tutte le sue forze ai romanzi, curando insieme la raccolta
e la pubblicazione dei suoi scritti sparsi; i quali tra novelle,
ritratti e critica, formerebbero otto volumi, e ne uscirebbe uno ogni
tre mesi. Terminata la storia dei Rougon-Macquart, alla quale mancano
ancora undici romanzi, farebbe un'edizione definitiva di tutti e venti
i volumi, collegandoli meglio fra loro (pensiero che deve essergli
venuto in seguito a uno studio arguto e diligentissimo fatto da uno
scrittore francese sulle contraddizioni cronologiche e sociali della
sua storia); e poi si darebbe tutto al teatro, che è sempre il suo
pensiero dominante. Riguardo al primo romanzo che pubblicherà ora, egli
è ancora incerto fra tre idee. Dapprima voleva scrivere _Un peintre
à Paris_; romanzo che abbraccierebbe la vita artistica e la vita
letteraria, raccontando le lotte e le avventure di un giovane di genio,
o di parecchi, venuti dalla provincia a Parigi a cercar la gloria e
la fortuna; ma poichè per trattar questo argomento, dovrebbe fare un
viaggio in Provenza, terra natale dei suoi personaggi, a raccogliere
notizie e ispirazioni, intende di lasciarlo da parte per ora. Vorrebbe
scrivere un romanzo del genere della _Page d'amour_, ma in un altro
campo sociale, di cui il soggetto sarebbe il dolore, la bontà, la forza
e il coraggio nella sventura, e gli affetti gentili e profondi; — ma
teme che un lavoro di questa natura, nello stato di animo in cui si
trova al presente, rimescolerebbe troppo dolorosamente il suo cuore.
Propende quindi per un terzo romanzo, del quale m'aveva già parlato
tre anni or sono, che avrebbe per campo «i grandi magazzini» di Parigi,
come il _Louvre_ e il _Bon Marché_; e per argomento la lotta del grande
commercio col piccolo, dei milioni coi cento mila franchi. Questo farà
più probabilmente; e perciò comincierà tra poco le sue visite e i suoi
studi minuti di romanziere esperimentale; passerà delle ore e delle ore
in mezzo al via vai e al rimescolìo rumoroso dei «magazzini» enormi,
a raccoglier colori per le descrizioni e motti per i dialoghi, e a
cercar tipi e avventure locali, interrogando commessi e ragionieri, con
la sua amorosa pazienza di musaicista, come fece nei mercati e nelle
botteghe dei salumai per scrivere il _Ventre di Parigi_, e nei lavatoi
e all'ospedale per far l'_Assommoir_. Ma subito non ci si può mettere:
non riuscirebbe a far nulla.
Gli domandai se gli seguiva spesso, anche nel suo stato abituale, di
non poter far nulla.
— Ah che tasto toccate! — rispose. — Ci son dei giorni in cui mi pare
d'essere finito, non per quel giorno, ma per sempre; giorni in cui
son come morto. Mi metto al tavolino la mattina per tempo, senz'aver
coscienza del mio stato, e al momento di ripigliare il filo del
romanzo, mi sento nella testa un vuoto e un silenzio da far paura.
Personaggi, luoghi, scene, avvenimenti, tutto s'è come agghiacciato
dentro a una nebbia oscura, in cui mi sembra che non riescirò mai
più a far penetrare un raggio di sole. E allora resto qui delle ore,
colla testa sopra una mano e gli occhi fissi alla finestra come uno
smemorato. E poi.... mi pigliano degli scoraggiamenti terribili anche
riguardo all'arte mia.
— Come! — gli dissi, — voi, che percorrete una via così nettamente e
profondamente tracciata, che lavorate con un metodo così rigoroso, e di
cui parete tanto sicuro, andate soggetto voi pure allo scoraggiamento e
al dubbio della vostra arte?
— Se ci vado soggetto! — rispose. — Ma chi non ci va soggetto? Ci sono
due soli artisti in questo secolo, un pittore e un poeta, i quali non
hanno mai sospettato una volta, neppure alla lontana, il primo di poter
sbagliare una pennellata, l'altro di poter scrivere un cattivo verso;
e sono il Coubert e Victor Hugo. Io trovo orribile oggi quello che
ho fatto ieri — infallibilmente. Se voglio tirar innanzi a lavorare
di buon animo e con qualche illusione di far bene, bisogna che non mi
volti mai indietro. Per questo, terminato un libro, non me ne occupo
più; e non solo sfuggo l'occasione di parlarne, ma faccio uno sforzo
continuo per dimenticarlo. Guardate: io non rileggo mai, assolutamente
mai, una pagina dei miei libri, se non son costretto a leggerla, come
m'accade qualche volta, per scansare una ripetizione in quello che sto
scrivendo. Ebbene, quando rileggo qualche cosa, faccio compassione a me
stesso, ma una compassione, vedete, da levarmi il pianto dal cuore.
— Ma per che cosa?
— Ma per il pensiero, per la condotta, per lo stile, per la lingua,
per tutto. Credete voi che se non vivessi in questo dubbio continuo di
me stesso, se non mi tormentassi l'anima come faccio, avrei il colore
che ho, e mi troverei nello stato di salute in cui mi trovo? Guardate
le mie mani. Pare che io abbia il _delirium tremens_. E non bevo che
acqua!
E dopo un po' soggiunse:
— M'ammazzo a lavorare, e non riesco a far quello che voglio; sono un
uomo malcontento, ecco tutto.
Il suo tormento principale è lo stile e la lingua, com'era negli
ultimi anni per il Flaubert, che urlava sopra una frase ribelle. —
Noi — egli dice — siamo scrittori troppo nervosi. Il nostro stile è
uno stile di spolvero, tutto bellezze grosse e patenti, frasi fatte
e cadenze obbligate. A furia di voler cesellare, brunire, ricamare e
dipingere, e pretender dalle parole l'odore delle cose, e ingegnarci di
rendere tutti i suoni, ci siamo formati un linguaggio convenzionale,
un gergo letterario nostro proprio, tutto stelleggiato e ingioiellato
d'immagini, tutto tremolante di pennacchietti e di frangie, che non
potrà piacere a lungo perchè non è la bellezza, ma la moda, non è la
forza, ma lo sforzo; che anzi invecchierà immancabilmente, e riuscirà
intollerabile alle generazioni future. Invece di parlare, insomma,
trilliamo e facciamo delle fioriture. Invece di descrivere le cose,
come diceva il Goethe, vogliamo troppo descrivere i loro effetti;
e siamo arrivati in quest'arte a un grado di raffinamento puerile,
assolutamente. Non è più l'arte, sono i ghiottumi, i tornagusti
dell'arte. Siamo in piena decadenza di stile, ecco la cosa. — Ora lo
Zola, dallo stesso principio che lo spinse a semplificare il romanzo,
e a renderlo quanto più è possibile conforme alla semplicità del vero,
e quasi all'andamento ordinario della vita, è condotto logicamente
a fare il medesimo sopra lo stile; cioè a ridurre la forma alla sua
semplicità massima, ritornando alla lingua secca, come egli dice, alla
frase netta, allo stile logico, parco d'epiteti, sfrascato, che sia
panno e non trina, e vesta strettamente il pensiero, senza pieghette
e senza svolazzi: uno stile di cui tutto il valore consista nella
evidenza, ottenuta con una parsimonia e una proprietà rigorosa della
parola. Sogna, insomma, una prosa, come l'aveva in capo il Leopardi,
e come la definì, senza averla mai scritta, il Giordani; vorrebbe,
cioè «scrivere in modo che l'arte non si mostri, preoccupato dal solo
scopo che le cose dette appariscano chiarissime e credibili, e che il
pensiero passi per mezzo della parola _con quella facile prestezza e
limpidezza che dai limpidi cristalli ci pervengono all'occhio le specie
degli oggetti posti al di là_; non frapporsi mai, neppure passando, fra
il lettore e l'argomento; risalire, in una parola, alla nudità tersa
degli scrittori del gran secolo, serbando inalterato il sentimento
ed il pensiero nuovo». In questa direzione egli vorrebbe aprire una
nuova via. È una grande ambizione. E non si può negare certamente
ch'egli abbia un concetto netto di quello che vuole. La giovinezza
sempre fresca dello stile del Voltaire, e la solidità e la nitidezza
marmorea di quello del Pascal, lo innamorano; e se bastasse, per dar
corpo al suo ideale di forma, la potenza tecnica di scrittore, non
c'è dubbio che ci riuscirebbe senza grande fatica. Ma la difficoltà
massima sta in ciò: che questo rinnovamento dello stile ch'egli ha
nel capo, richiederebbe inesorabilmente un accrescimento enorme nella
ricchezza e nella intensità del pensiero. Perchè qual è lo scrittore
di romanzi che potrebbe resistere a un tale denudamento? A che cosa
si ridurrebbe un romanzo del tempo che corre, spogliato di tutto ciò
che egli chiama _pompons_ e _falbalas_ della forma? E specialmente
il romanzo dello Zola così profusamente descrittivo, e affollato
d'immagini? Per rimaner saldo e palpabile, dovrebbe avere doppia
ossatura e doppia carne. Può scrivere con quella meravigliosa austerità
di stile il Pascal, che condensa in un periodo una lunga e profonda
meditazione; ma come può farlo uno scrittore, di cui la facoltà
principale è appunto quella di saper presentare con una evidenza
straordinaria ogni più sfuggevole aspetto di ogni più piccola cosa? E
quale scrittore avrà il coraggio di affrontare il gusto dominante con
una maniera di stile, di cui la perfezione faticosissima rimarrebbe
indubitatamente incompresa, o parrebbe freddezza, sbiaditura, miseria?
Questo è il grande struggicuore dello Zola, e gli durerà, credo, per
tutta la vita. Egli dice che non riesce a liberarsi dal suo vecchio
stile e a impadronirsi del nuovo, perchè ha troppo fitto nell'ossa,
come tutta la sua generazione, il veleno del romanticismo. Da giovane,
dice, mi sono addossato anch'io il carico del frasario romantico, e
cogli anni mi s'è mutato in gobba. Ma nell'intimo della sua coscienza,
egli sente certamente che non è questa la ragione che gl'impedisce di
porre in atto la sua idea: sente che gli manca anzitutto la fede nelle
proprie forze; o piuttosto sente che non potrebbe riuscire se non a una
condizione a cui non vorrà piegarsi mai certamente: di fare un romanzo
solo coi materiali che gli bastano ora per due, e di lavorarci attorno
tre anni invece di otto mesi, e di rinunziare alla soddisfazione dei
grandi successi immediati.
Per liberarsi da questa sua spina dello stile, tornò a parlare
dell'Italia. L'Italia e la Russia sono i due paesi che gli dimostrano
maggior simpatia; ed egli vi si rifugia col pensiero ogni volta che si
sente stanco della guerra che gli si fa in patria. Ecco una cosa che i
nemici arrabbiati dello Zola non possono masticare. — Che cos'è questa
_toquade_ — ci domandano — che vi prese per lo Zola, voialtri italiani?
S'ha da vedere anche i vostri Ministri dell'istruzione pubblica menare
il turibolo davanti all'autore di _Nana_! — Alludono alla lettera del
De Sanctis, che fece un po' di scandalo. Certo che è un caso letterario
notevole la grandissima diffusione dei romanzi dello Zola in Italia,
dove una sola delle due traduzioni dell'_Assommoir_ ebbe più spaccio
di qualunque libro italiano più popolare; dove tutti i suoi romanzi
sono tradotti e, quel ch'è più raro, tradotti tutti accuratamente,
e parecchi benissimo; dove si può dire, anzi, che si deve allo Zola
il fatto nuovissimo d'una vera gara letteraria di traduttori colti
e coscienziosi, alla quale il pubblico tenne dietro curiosamente. Si
direbbe che c'entra po' in questa grande simpatia l'origine italiana
dello scrittore e il carattere particolare del suo ingegno, per quello
che ha di discordante e quasi di opposto allo spirito generale degli
scrittori parigini. È incredibile la quantità di giornali che egli
riceve dal nostro paese, fin dalle più lontane provincie meridionali;
fra cui dei giornaletti sconosciuti, dei quali mi fece molta meraviglia
udirgli ripetere i titoli, con uno sforzo visibilissimo delle labbra. —
_Je tâche d'être poli avec tout le monde_, disse; ossia di rispondere
a tutti. Se non ci riesce, non è per difetto di buon volere. Riceve
tanti giornali che, a furia di provarsi a leggere, è arrivato ormai a
capire alla meglio l'Italiano, e intende di continuar l'esercizio. E
infatti dev'esser gradevole e facile imparare una lingua studiandola
nelle proprie lodi, in modo da godere in ogni difficoltà risolta
una doppia soddisfazione. Ma non lesse soltanto gli scritti che lo
riguardavano; quindi gli rimase nel capo un guazzabuglio di nomi di
romanzieri, di poeti e di giornalisti, dei quali volle saper qualche
cosa singolarmente; e stette a sentir le informazioni con una certa
curiosità, mista di stupore, come si starebbe a sentire chi ci
mettesse al corrente della letteratura patagona. — _Et notre brave
Cameroni?_ — domandò; — quello è davvero una fontana a getto continuo!
— Si mostrò molto soddisfatto delle due traduzioni dell'_Assommoir_.
Credeva però che quella del Petrocchi fosse in patois, e si rallegrò
di sentire che non è più in dialetto quella traduzione di quello che
lo sia l'_Assommoir_ originale, poichè i modi e i vocaboli fiorentini
che vi sono sparsi, non le tolgono di essere tutta intelligibile da
un capo all'altro d'Italia. Disse poi d'aver ricevuto una lettera di
Cesare Cantù; e questo non me l'aspettavo. Gli scrisse per domandargli
informazioni intorno a suo padre, che egli credeva essere uno Zola che
prese parte nelle cospirazioni carbonaresche del 21. Sorrise per la
prima volta quando gli dissi: — Vedete; voi non potreste immaginare
lo strano effetto che farebbero in Italia questi due nomi accoppiati:
Cesare Cantù e Emilio Zola — collaboratori, per esempio, in un romanzo
intitolato _Satin_. — Non aveva però cognizione della fama vastissima
dello storico lombardo, e diede segno di gradire singolarmente la
lettera, quando seppe bene da chi veniva. Poi domandò bruscamente:
— Perchè non fate un romanzo?
Guardai il pendolo per non abusare del suo tempo; ma era presto: potevo
rimanere.
— È una vergogna per noi — riprese lo Zola — non studiare la lingua
e la letteratura italiana, perchè ne potremmo ricavare un vantaggio
grande, oltre che pel rimanente, per lo stile, ed anche per la lingua
nostra. I nostri grandi scrittori del buon secolo, e molti del secolo
scorso, la studiavano. Non ci sarà mai critica larga e feconda in
Francia fin che non ci dedicheremo coscienziosamente allo studio delle
letterature straniere. La nostra critica teatrale, per esempio, è
quella che pecca di più da questo lato. Non si parla che del teatro
francese, si vede ogni cosa da una parte sola. Quando i nostri critici
dicono: il teatro, intendono il nostro. Si dovrebbero intender tutti.
Pare che per loro non esista un teatro tedesco, un teatro inglese,
un teatro italiano, un teatro spagnuolo. _Merci._ E che teatri sono!
Così nel resto. È inutile. Bisogna rompere il tetto e spalancare porte
e finestre, e far entrare dell'aria. Se avessi tempo, vedete, vorrei
fondare un giornale, il quale non desse che una piccolissima parte
alla politica, che è la nostra peste, e non avesse altro ufficio che
di seguire passo a passo, fedelissimamente, il movimento letterario
degli altri paesi, rendendo conto d'ogni pubblicazione che si facesse
a Madrid come a Pietroburgo, a Roma come a Stoccolma, con una critica
largamente espositiva e imparziale, ma piuttosto benevola che severa,
chiunque fosse l'autore e qualunque la scuola; in modo da far penetrare
in Francia il maggior numero possibile di scrittori stranieri. Questo
ci vorrebbe per noi. Ma come potrei farlo? Basta un giornale ad
assorbir la vita d'un uomo.
Nondimeno, secondo lui, s'è già fatto un gran passo in Francia, dal 70
in poi, nello studio delle letterature straniere. Oltre che si traduce
un assai maggior numero di libri che per il passato, e che non par
più una cosa dell'altro mondo, come una volta pareva, che un giornale
francese s'occupi d'uno scrittore straniero, se anche non è famoso nel
mondo; è fuor di dubbio che molti libri inglesi, italiani e tedeschi
sono letti in Francia, ora, nel testo originale. Ed è cresciuta
mirabilmente anche la vendita dei libri francesi. Lo Zola, così a
un di grosso, crede che sia triplicata. Dodici edizioni d'un libro,
che erano già un gran che, non sono più oggigiorno che un mediocre
successo librario. E i poeti, in ispecie, hanno torto di lagnarsi.
D'un volume di versi, in qualsiasi condizione pubblicato, si esitano
immancabilmente mille esemplari. E si è migliorata pure la condizione
degli scrittori rispetto agli editori: c'è più buona fede e più fiducia
reciproca. Non è gran tempo che essi si trattavano a vicenda, e con
molto chiasso, di scrocconi e di ladri.
Improvvisamente mi fece una grande sorpresa.
— Sapete — disse — ho letto i _Promessi Sposi_.
Avvicinai la seggiola.
Mi parve che titubasse un poco a esprimere la sua opinione, sia perchè
non l'avesse netta, sia perchè, sospettando la mia, cercasse i termini
per urtarla il più leggermente che poteva.
— Prima di tutto — disse — debbo confessare che ho letto la traduzione
francese, e che ho poca fede nelle traduzioni. Credo che la migliore
sciupi gran parte, e forse la più viva parte di qualunque lavoro, e
specialmente di un lavoro originale. Perciò i _Promessi Sposi_ non
mi fecero l'impressione che m'aspettavo. Che so io? Il romanzo, nel
suo complesso, mi parve troppo fedelmente lucidato dai romanzi di
Walter Scott. Non mi son fatto un concetto preciso del suo valore.
Certo però che ci sono delle parti, e molte, che serbano anche nella
traduzione una bellezza e una potenza meravigliosa; squarci d'un
realismo magistrale, nei quali si rivelano insieme la forza d'un grande
pittore e quella d'un pensatore vasto e profondo: la storia della peste
specialmente, che avrebbe innamorato il Flaubert, col quale il Manzoni
ha molti punti di somiglianza....
Quello che lo colpì più d'ogni cosa, insomma, fu la descrizione, e di
tutte le descrizioni, quella che gli rimase impressa più profondamente,
tanto che ne ricorda tutti i particolari, è la scena che si presenta
improvvisamente allo sguardo di Renzo, quando s'affaccia alla porta
del lazzaretto, dopo la sua lunga e avventurosa pellegrinazione a
traverso a Milano. Quelle compagnie di malati che entrano, quegli
appestati accovacciati pei fossi, quelle faccie stupidite, quei visi
sghignazzanti, quei pazzi che raccontano le loro immaginazioni ai
moribondi, quel cantare alto e continuo di gente già trasfigurata
dal morbo, quel brulichìo immenso e miserabile, e particolarmente
quel cavallaccio sfrenato, che fende la folla in mezzo all'urlìo
dei monatti, montato da un frenetico che gli tempesta il collo di
pugni, e dispare in un nuvolo di polvere, sono un quadro, egli dice,
che gli rimarrà davanti agli occhi per tutta la vita. Non disse
altro, e non me ne stupii. Per quanto ingegno e accorgimento critico
egli abbia, è impossibile che, per ora, gusti e giudichi rettamente
un'opera pensata, sentita e condotta così diversamente dalle sue.
Egli è ancora troppo caldo dell'ispirazione propria, troppo eccitato
dalla battaglia, troppo immerso con tutte le facoltà nei suoi studi
altrettanto profondi che rigorosamente circoscritti, e troppo vivente,
non dico nella letteratura del suo tempo, ma in quella della sua
giornata. Lo Zola rileggerà i _Promessi Sposi_ in pace, fuori del
campo di battaglia, come il Voltaire rilesse l'Ariosto, e cangierà
di parere, come il Voltaire. Gli mancavano d'altra parte, per ora,
gli elementi necessarii ad un critico per poter giudicare del valore
intrinseco d'una grande opera letteraria. Rimase stupito udendo che
i _Promessi Sposi_ furono scritti nel primo quarto del secolo, e che
il Manzoni, pure seguendo l'esempio del Walter Scott nel suo romanzo,
fu nella letteratura italiana un novatore, il quale, ai suoi tempi,
fece «parte da sè stesso»; un miscredente delle scuole, come lo definì
il genero apologista, un Volteriano dell'arte, un loico del buon
senso; iniziatore d'una riforma letteraria che bandì l'estrinseco, il
convenzionale, il falso nel pensiero, nel sentimento, nello stile,
nella lingua; e che la sua apparizione nella letteratura italiana,
sollevò ben altre tempeste e diede l'impulso a un ben più largo e nuovo
movimento d'idee che non abbia fatto lui, per ora, nella letteratura
francese. Finì col dire che l'avrebbe riletto in italiano, e mostrò
curiosità di conoscere le tragedie, per aver inteso qualcosa di quella
maniera libera e tranquilla di condurre l'azione e di sceneggiare, che
si deve accordare mirabilmente con le sue idee.
Di qui ricascò a parlare della sua stanchezza intellettuale, che lo
rattristava:
— Ma chi mai — gli dissi — leggendo i vostri articoli, sospetterebbe
che siete stanco?
— Capisco: non ve n'accorgete; ma è perchè ci metto uno sforzo doppio
che per il passato, appunto per nascondere la stanchezza.
— E poi — disse dopo qualche momento di riflessione, — sono stanco
sopratutto della polemica, che mi attira tanti odî. È un'impresa che
schiaccia le mie forze, e schiaccerebbe le forze di chi che sia, quella
di fare nello stesso tempo il novatore e il demolitore. Io mi trovo in
una condizione disgraziata. Vedete Victor Hugo. Certo, nel suo grande
cammino trionfale egli è stato spinto innanzi dalla forza immensa
delle simpatie e degli entusiasmi della nazione; ma aveva il vantaggio
di non esser costretto a combattere a corpo a corpo. Una legione di
devoti e di fanatici gli andava innanzi sgombrando la strada a colpi di
spada e d'accetta, e gli faceva largo intorno, gli lasciava un grande
spazio d'aria libera, nel quale egli procedeva serenamente, tutto
assorto nella propria ispirazione. Io, invece, debbo far tutto, ossia
fare e disfare. Ed è quello che non vogliono perdonarmi. — Badate a
scrivere dei romanzi — mi dicono; — lavorate sul vostro, e lasciate in
pace gli altri sul proprio: create senza distruggere. — E perchè ciò,
dal momento che essi tirano a distruggermi, e non creano? Perchè non
credono ch'io sia in buona fede; perchè credono ch'io critichi, non
per convinzione, ma per passione; non per abbattere delle scuole che
credo false e dannose al progresso dell'arte e del pensiero, ma per
sbarazzarmi di rivali che credo incomodi. Credono che io odii delle
persone, mentre non combatto che dei principii. Vogliono ad ogni costo
che sia egoismo di bottegaio quello che è coscienza d'artista. Questo è
quello che mi affligge. Che cosa ne pensate?
Credetti di dovergli dire quello che sinceramente credevo, cioè
che fuori di Parigi, fra noi, per esempio, si faceva generalmente
a lavorar ardentemente, sia perchè ne hanno contratto l'abitudine
irresistibile, sia perchè, crescendo in loro, con gli anni, l'amore
degli agi e la sollecitudine del decoro signorile, sentono il bisogno
d'arrotondare le rendite. Ed è ancora da aggiungersi a queste ragioni
d'operosità, se non una singolare attitudine dei francesi al lavoro,
il continuo e vario stimolo che deve dar loro la vita calda e ricca e
diversa d'una enorme città intellettuale; e il fatto incontrastabile
che una città siffatta, non ostante le sue esigenze e le sue
tentazioni, è per la sua stessa grandezza più favorevole d'una città
piccola al lavoro continuo e raccolto, per la ragione medesima che è
più facile rimaner padroni dei propri pensieri in mezzo a una grande
folla che in un cerchio di quindici conoscenti. Là non esiste, fra
colleghi letterarii, la _flânerie_ occasionata dagl'incontri fortuiti,
che piglia tanta parte del nostro tempo anche nelle città più grandi;
gli amici, per incontrarsi, si devono cercare per la posta; in ogni
convegno è prefissata l'ora della separazione; la molteplicità delle
faccende costringe alla pedanteria nell'orario; la furia della vita
non lascia tempo alla _rêverie_ che sfibra l'animo, come dice il
Goethe, e fiacca le forze dell'intelligenza; gli inevitabili doveri
sociali a cui si deve sacrificare una parte della sera, obbligano al
lavoro mattutino, più fresco e più salutare del notturno; i visitatori
importuni sono respinti senza riguardi; e tutto va di carriera, e
ognuno difende accanitamente il suo tempo e la sua libertà di lavoro.
E uno di quelli che la difendono più accanitamente è lo Zola. Il
quale vive solitario anche per questa ragione: che avendo combattuto
acerbamente molte opinioni stabilite, e ferito amor proprii, e
sollevato ire ed inimicizie, si troverebbe costretto, frequentando la
società letteraria, a una lotta continua; e mancante com'è del vero e
proprio «spirito parigino» che è un'arma terribile nelle dispute dei
salotti e dei circoli, egli sente che non ce la potrebbe in nessun
modo con le lingue indiavolate, coi fulminei motteggiatori, che gli
cascherebbero addosso da ogni parte. Per ciò se ne sta rinchiuso nella
sua officina, spendendo in lavoro tutta la vitalità che risparmia in
battaglie di conversazione, le quali darebbero troppo facile vittoria
ai suoi nemici. Victor Hugo, che malgrado la sua corte, vive in una
specie di solitudine intellettuale, fuori della letteratura vivente,
è il leone; Emilio Zola è l'orso. E vivono l'uno e l'altro in regioni
non meno lontane e diverse fra loro che quelle abitate dalle due fiere
formidabili che simboleggiano.
*
* *
Mentre stavo in questi pensieri, egli comparve, pallido e coi capelli
irti, vestito di un farsettone di maglia scura, stretto alla vita,
senza cravatta, con le scarpe di panno nero; uno strano vestimento, tra
di lottatore e d'operaio. Mi fece un'impressione inaspettata, diversa
dalla prima volta. Mi parve assai più piccolo di statura e più esile.
Ha messo un po' di ventre; ma è notevolmente dimagrato nel viso. Era
smorto e aveva l'aria triste. E forse a cagione della tristezza la
sua accoglienza fu più affettuosa di quello che si soglia aspettare da
lui. Sedette accanto al suo tavolo da lavoro, coperto di giornali e di
lettere non ancora aperte, e alle solite domande sulla salute, rispose,
con un accento non meno triste del suo aspetto, che non stava bene.
Poi soggiunse:
— Voi sapete che ho avuto la disgrazia di perdere mia madre.
E gli si empirono gli occhi di lacrime. Dopo qualche momento di
silenzio, ricordò la morte del Flaubert, la quale pure era stata un
gran dolore per lui. Il Flaubert era suo maestro e suo amico. Egli
l'aveva conosciuto e amato fin dai principii della sua carriera.
La perdita dei genitori letterarii è particolarmente triste per gli
scrittori che s'avanzano per una via ardita, piena di pericoli: il
soldato sente più dolorosamente la morte del suo capo, quando combatte
all'avanguardia.
— Questo è stato un duro anno per me — disse sospirando —; un anno nero
veramente, che mi peserà sul capo per un pezzo.
E riparlò del suo antico proposito di fare un viaggio in Italia,
anzi di venirsi a stabilire per qualche tempo fra noi, in una città
del mezzogiorno. Da molto tempo si sente stanco e ha gran bisogno
di riposo. Vorrebbe venire in Italia, senza che lo sapesse nessuno,
fuorchè un piccolo numero di amici, per poter vivere raccolto e quieto
nel suo cantuccio; non perchè sia selvaggio, e non ami la gente che
va a lui, mossa da un sentimento di simpatia; ma perchè non sa _jouer
le prince_, e davanti a tre persone con cui non abbia dimestichezza,
perde la sua libertà di spirito. Ma per quanto dica, son persuaso che
il suo viaggio in Italia non sarà mai altro che un proponimento. E
d'altra parte, quanto s'inganna se crede di venir qui a vivere in pace!
Il giorno dopo l'arrivo avrebbe un assembramento di veristi davanti
all'albergo, e sarebbe costretto a esporre la teoria del naturalismo
dalla finestra.
— Ho bisogno di riposo.... — ripetè con tristezza —; non posso più
lavorare come una volta.
— Eppure, — gli osservai, — oltre a tutto il resto, riempite ogni
settimana quattro colonne del _Figaro_. Noi siamo meravigliati della
vostra operosità.
— No, no, — rispose, scrollando il capo, — credetelo a me, non lavoro
più come una volta; non sono più quello di prima. Non ho ancora potuto
rimettermi al mio romanzo. Per scrivere, vedete, bisogna aver dello
spazio e dell'aria davanti a sè, bisogna credere alla vita.
Mi fecero tristezza queste parole, tanto più perchè non erano smentite
dal suo aspetto.
Credette per qualche tempo d'aver una malattia di cuore; i medici lo
disingannarono; ma nondimeno egli sente sempre in sè qualcosa di sordo
e d'inquietante, che gl'impedisce il lavoro, e lo volge alle previsioni
nere. Ora avrebbe un disegno. Continuare a scrivere per il _Figaro_
finchè ce l'obbliga l'impegno assunto; poi uscire dal giornalismo,
sdarsi interamente, e per sempre dalla polemica, e consacrare tutto il
suo tempo e tutte le sue forze ai romanzi, curando insieme la raccolta
e la pubblicazione dei suoi scritti sparsi; i quali tra novelle,
ritratti e critica, formerebbero otto volumi, e ne uscirebbe uno ogni
tre mesi. Terminata la storia dei Rougon-Macquart, alla quale mancano
ancora undici romanzi, farebbe un'edizione definitiva di tutti e venti
i volumi, collegandoli meglio fra loro (pensiero che deve essergli
venuto in seguito a uno studio arguto e diligentissimo fatto da uno
scrittore francese sulle contraddizioni cronologiche e sociali della
sua storia); e poi si darebbe tutto al teatro, che è sempre il suo
pensiero dominante. Riguardo al primo romanzo che pubblicherà ora, egli
è ancora incerto fra tre idee. Dapprima voleva scrivere _Un peintre
à Paris_; romanzo che abbraccierebbe la vita artistica e la vita
letteraria, raccontando le lotte e le avventure di un giovane di genio,
o di parecchi, venuti dalla provincia a Parigi a cercar la gloria e
la fortuna; ma poichè per trattar questo argomento, dovrebbe fare un
viaggio in Provenza, terra natale dei suoi personaggi, a raccogliere
notizie e ispirazioni, intende di lasciarlo da parte per ora. Vorrebbe
scrivere un romanzo del genere della _Page d'amour_, ma in un altro
campo sociale, di cui il soggetto sarebbe il dolore, la bontà, la forza
e il coraggio nella sventura, e gli affetti gentili e profondi; — ma
teme che un lavoro di questa natura, nello stato di animo in cui si
trova al presente, rimescolerebbe troppo dolorosamente il suo cuore.
Propende quindi per un terzo romanzo, del quale m'aveva già parlato
tre anni or sono, che avrebbe per campo «i grandi magazzini» di Parigi,
come il _Louvre_ e il _Bon Marché_; e per argomento la lotta del grande
commercio col piccolo, dei milioni coi cento mila franchi. Questo farà
più probabilmente; e perciò comincierà tra poco le sue visite e i suoi
studi minuti di romanziere esperimentale; passerà delle ore e delle ore
in mezzo al via vai e al rimescolìo rumoroso dei «magazzini» enormi,
a raccoglier colori per le descrizioni e motti per i dialoghi, e a
cercar tipi e avventure locali, interrogando commessi e ragionieri, con
la sua amorosa pazienza di musaicista, come fece nei mercati e nelle
botteghe dei salumai per scrivere il _Ventre di Parigi_, e nei lavatoi
e all'ospedale per far l'_Assommoir_. Ma subito non ci si può mettere:
non riuscirebbe a far nulla.
Gli domandai se gli seguiva spesso, anche nel suo stato abituale, di
non poter far nulla.
— Ah che tasto toccate! — rispose. — Ci son dei giorni in cui mi pare
d'essere finito, non per quel giorno, ma per sempre; giorni in cui
son come morto. Mi metto al tavolino la mattina per tempo, senz'aver
coscienza del mio stato, e al momento di ripigliare il filo del
romanzo, mi sento nella testa un vuoto e un silenzio da far paura.
Personaggi, luoghi, scene, avvenimenti, tutto s'è come agghiacciato
dentro a una nebbia oscura, in cui mi sembra che non riescirò mai
più a far penetrare un raggio di sole. E allora resto qui delle ore,
colla testa sopra una mano e gli occhi fissi alla finestra come uno
smemorato. E poi.... mi pigliano degli scoraggiamenti terribili anche
riguardo all'arte mia.
— Come! — gli dissi, — voi, che percorrete una via così nettamente e
profondamente tracciata, che lavorate con un metodo così rigoroso, e di
cui parete tanto sicuro, andate soggetto voi pure allo scoraggiamento e
al dubbio della vostra arte?
— Se ci vado soggetto! — rispose. — Ma chi non ci va soggetto? Ci sono
due soli artisti in questo secolo, un pittore e un poeta, i quali non
hanno mai sospettato una volta, neppure alla lontana, il primo di poter
sbagliare una pennellata, l'altro di poter scrivere un cattivo verso;
e sono il Coubert e Victor Hugo. Io trovo orribile oggi quello che
ho fatto ieri — infallibilmente. Se voglio tirar innanzi a lavorare
di buon animo e con qualche illusione di far bene, bisogna che non mi
volti mai indietro. Per questo, terminato un libro, non me ne occupo
più; e non solo sfuggo l'occasione di parlarne, ma faccio uno sforzo
continuo per dimenticarlo. Guardate: io non rileggo mai, assolutamente
mai, una pagina dei miei libri, se non son costretto a leggerla, come
m'accade qualche volta, per scansare una ripetizione in quello che sto
scrivendo. Ebbene, quando rileggo qualche cosa, faccio compassione a me
stesso, ma una compassione, vedete, da levarmi il pianto dal cuore.
— Ma per che cosa?
— Ma per il pensiero, per la condotta, per lo stile, per la lingua,
per tutto. Credete voi che se non vivessi in questo dubbio continuo di
me stesso, se non mi tormentassi l'anima come faccio, avrei il colore
che ho, e mi troverei nello stato di salute in cui mi trovo? Guardate
le mie mani. Pare che io abbia il _delirium tremens_. E non bevo che
acqua!
E dopo un po' soggiunse:
— M'ammazzo a lavorare, e non riesco a far quello che voglio; sono un
uomo malcontento, ecco tutto.
Il suo tormento principale è lo stile e la lingua, com'era negli
ultimi anni per il Flaubert, che urlava sopra una frase ribelle. —
Noi — egli dice — siamo scrittori troppo nervosi. Il nostro stile è
uno stile di spolvero, tutto bellezze grosse e patenti, frasi fatte
e cadenze obbligate. A furia di voler cesellare, brunire, ricamare e
dipingere, e pretender dalle parole l'odore delle cose, e ingegnarci di
rendere tutti i suoni, ci siamo formati un linguaggio convenzionale,
un gergo letterario nostro proprio, tutto stelleggiato e ingioiellato
d'immagini, tutto tremolante di pennacchietti e di frangie, che non
potrà piacere a lungo perchè non è la bellezza, ma la moda, non è la
forza, ma lo sforzo; che anzi invecchierà immancabilmente, e riuscirà
intollerabile alle generazioni future. Invece di parlare, insomma,
trilliamo e facciamo delle fioriture. Invece di descrivere le cose,
come diceva il Goethe, vogliamo troppo descrivere i loro effetti;
e siamo arrivati in quest'arte a un grado di raffinamento puerile,
assolutamente. Non è più l'arte, sono i ghiottumi, i tornagusti
dell'arte. Siamo in piena decadenza di stile, ecco la cosa. — Ora lo
Zola, dallo stesso principio che lo spinse a semplificare il romanzo,
e a renderlo quanto più è possibile conforme alla semplicità del vero,
e quasi all'andamento ordinario della vita, è condotto logicamente
a fare il medesimo sopra lo stile; cioè a ridurre la forma alla sua
semplicità massima, ritornando alla lingua secca, come egli dice, alla
frase netta, allo stile logico, parco d'epiteti, sfrascato, che sia
panno e non trina, e vesta strettamente il pensiero, senza pieghette
e senza svolazzi: uno stile di cui tutto il valore consista nella
evidenza, ottenuta con una parsimonia e una proprietà rigorosa della
parola. Sogna, insomma, una prosa, come l'aveva in capo il Leopardi,
e come la definì, senza averla mai scritta, il Giordani; vorrebbe,
cioè «scrivere in modo che l'arte non si mostri, preoccupato dal solo
scopo che le cose dette appariscano chiarissime e credibili, e che il
pensiero passi per mezzo della parola _con quella facile prestezza e
limpidezza che dai limpidi cristalli ci pervengono all'occhio le specie
degli oggetti posti al di là_; non frapporsi mai, neppure passando, fra
il lettore e l'argomento; risalire, in una parola, alla nudità tersa
degli scrittori del gran secolo, serbando inalterato il sentimento
ed il pensiero nuovo». In questa direzione egli vorrebbe aprire una
nuova via. È una grande ambizione. E non si può negare certamente
ch'egli abbia un concetto netto di quello che vuole. La giovinezza
sempre fresca dello stile del Voltaire, e la solidità e la nitidezza
marmorea di quello del Pascal, lo innamorano; e se bastasse, per dar
corpo al suo ideale di forma, la potenza tecnica di scrittore, non
c'è dubbio che ci riuscirebbe senza grande fatica. Ma la difficoltà
massima sta in ciò: che questo rinnovamento dello stile ch'egli ha
nel capo, richiederebbe inesorabilmente un accrescimento enorme nella
ricchezza e nella intensità del pensiero. Perchè qual è lo scrittore
di romanzi che potrebbe resistere a un tale denudamento? A che cosa
si ridurrebbe un romanzo del tempo che corre, spogliato di tutto ciò
che egli chiama _pompons_ e _falbalas_ della forma? E specialmente
il romanzo dello Zola così profusamente descrittivo, e affollato
d'immagini? Per rimaner saldo e palpabile, dovrebbe avere doppia
ossatura e doppia carne. Può scrivere con quella meravigliosa austerità
di stile il Pascal, che condensa in un periodo una lunga e profonda
meditazione; ma come può farlo uno scrittore, di cui la facoltà
principale è appunto quella di saper presentare con una evidenza
straordinaria ogni più sfuggevole aspetto di ogni più piccola cosa? E
quale scrittore avrà il coraggio di affrontare il gusto dominante con
una maniera di stile, di cui la perfezione faticosissima rimarrebbe
indubitatamente incompresa, o parrebbe freddezza, sbiaditura, miseria?
Questo è il grande struggicuore dello Zola, e gli durerà, credo, per
tutta la vita. Egli dice che non riesce a liberarsi dal suo vecchio
stile e a impadronirsi del nuovo, perchè ha troppo fitto nell'ossa,
come tutta la sua generazione, il veleno del romanticismo. Da giovane,
dice, mi sono addossato anch'io il carico del frasario romantico, e
cogli anni mi s'è mutato in gobba. Ma nell'intimo della sua coscienza,
egli sente certamente che non è questa la ragione che gl'impedisce di
porre in atto la sua idea: sente che gli manca anzitutto la fede nelle
proprie forze; o piuttosto sente che non potrebbe riuscire se non a una
condizione a cui non vorrà piegarsi mai certamente: di fare un romanzo
solo coi materiali che gli bastano ora per due, e di lavorarci attorno
tre anni invece di otto mesi, e di rinunziare alla soddisfazione dei
grandi successi immediati.
Per liberarsi da questa sua spina dello stile, tornò a parlare
dell'Italia. L'Italia e la Russia sono i due paesi che gli dimostrano
maggior simpatia; ed egli vi si rifugia col pensiero ogni volta che si
sente stanco della guerra che gli si fa in patria. Ecco una cosa che i
nemici arrabbiati dello Zola non possono masticare. — Che cos'è questa
_toquade_ — ci domandano — che vi prese per lo Zola, voialtri italiani?
S'ha da vedere anche i vostri Ministri dell'istruzione pubblica menare
il turibolo davanti all'autore di _Nana_! — Alludono alla lettera del
De Sanctis, che fece un po' di scandalo. Certo che è un caso letterario
notevole la grandissima diffusione dei romanzi dello Zola in Italia,
dove una sola delle due traduzioni dell'_Assommoir_ ebbe più spaccio
di qualunque libro italiano più popolare; dove tutti i suoi romanzi
sono tradotti e, quel ch'è più raro, tradotti tutti accuratamente,
e parecchi benissimo; dove si può dire, anzi, che si deve allo Zola
il fatto nuovissimo d'una vera gara letteraria di traduttori colti
e coscienziosi, alla quale il pubblico tenne dietro curiosamente. Si
direbbe che c'entra po' in questa grande simpatia l'origine italiana
dello scrittore e il carattere particolare del suo ingegno, per quello
che ha di discordante e quasi di opposto allo spirito generale degli
scrittori parigini. È incredibile la quantità di giornali che egli
riceve dal nostro paese, fin dalle più lontane provincie meridionali;
fra cui dei giornaletti sconosciuti, dei quali mi fece molta meraviglia
udirgli ripetere i titoli, con uno sforzo visibilissimo delle labbra. —
_Je tâche d'être poli avec tout le monde_, disse; ossia di rispondere
a tutti. Se non ci riesce, non è per difetto di buon volere. Riceve
tanti giornali che, a furia di provarsi a leggere, è arrivato ormai a
capire alla meglio l'Italiano, e intende di continuar l'esercizio. E
infatti dev'esser gradevole e facile imparare una lingua studiandola
nelle proprie lodi, in modo da godere in ogni difficoltà risolta
una doppia soddisfazione. Ma non lesse soltanto gli scritti che lo
riguardavano; quindi gli rimase nel capo un guazzabuglio di nomi di
romanzieri, di poeti e di giornalisti, dei quali volle saper qualche
cosa singolarmente; e stette a sentir le informazioni con una certa
curiosità, mista di stupore, come si starebbe a sentire chi ci
mettesse al corrente della letteratura patagona. — _Et notre brave
Cameroni?_ — domandò; — quello è davvero una fontana a getto continuo!
— Si mostrò molto soddisfatto delle due traduzioni dell'_Assommoir_.
Credeva però che quella del Petrocchi fosse in patois, e si rallegrò
di sentire che non è più in dialetto quella traduzione di quello che
lo sia l'_Assommoir_ originale, poichè i modi e i vocaboli fiorentini
che vi sono sparsi, non le tolgono di essere tutta intelligibile da
un capo all'altro d'Italia. Disse poi d'aver ricevuto una lettera di
Cesare Cantù; e questo non me l'aspettavo. Gli scrisse per domandargli
informazioni intorno a suo padre, che egli credeva essere uno Zola che
prese parte nelle cospirazioni carbonaresche del 21. Sorrise per la
prima volta quando gli dissi: — Vedete; voi non potreste immaginare
lo strano effetto che farebbero in Italia questi due nomi accoppiati:
Cesare Cantù e Emilio Zola — collaboratori, per esempio, in un romanzo
intitolato _Satin_. — Non aveva però cognizione della fama vastissima
dello storico lombardo, e diede segno di gradire singolarmente la
lettera, quando seppe bene da chi veniva. Poi domandò bruscamente:
— Perchè non fate un romanzo?
Guardai il pendolo per non abusare del suo tempo; ma era presto: potevo
rimanere.
— È una vergogna per noi — riprese lo Zola — non studiare la lingua
e la letteratura italiana, perchè ne potremmo ricavare un vantaggio
grande, oltre che pel rimanente, per lo stile, ed anche per la lingua
nostra. I nostri grandi scrittori del buon secolo, e molti del secolo
scorso, la studiavano. Non ci sarà mai critica larga e feconda in
Francia fin che non ci dedicheremo coscienziosamente allo studio delle
letterature straniere. La nostra critica teatrale, per esempio, è
quella che pecca di più da questo lato. Non si parla che del teatro
francese, si vede ogni cosa da una parte sola. Quando i nostri critici
dicono: il teatro, intendono il nostro. Si dovrebbero intender tutti.
Pare che per loro non esista un teatro tedesco, un teatro inglese,
un teatro italiano, un teatro spagnuolo. _Merci._ E che teatri sono!
Così nel resto. È inutile. Bisogna rompere il tetto e spalancare porte
e finestre, e far entrare dell'aria. Se avessi tempo, vedete, vorrei
fondare un giornale, il quale non desse che una piccolissima parte
alla politica, che è la nostra peste, e non avesse altro ufficio che
di seguire passo a passo, fedelissimamente, il movimento letterario
degli altri paesi, rendendo conto d'ogni pubblicazione che si facesse
a Madrid come a Pietroburgo, a Roma come a Stoccolma, con una critica
largamente espositiva e imparziale, ma piuttosto benevola che severa,
chiunque fosse l'autore e qualunque la scuola; in modo da far penetrare
in Francia il maggior numero possibile di scrittori stranieri. Questo
ci vorrebbe per noi. Ma come potrei farlo? Basta un giornale ad
assorbir la vita d'un uomo.
Nondimeno, secondo lui, s'è già fatto un gran passo in Francia, dal 70
in poi, nello studio delle letterature straniere. Oltre che si traduce
un assai maggior numero di libri che per il passato, e che non par
più una cosa dell'altro mondo, come una volta pareva, che un giornale
francese s'occupi d'uno scrittore straniero, se anche non è famoso nel
mondo; è fuor di dubbio che molti libri inglesi, italiani e tedeschi
sono letti in Francia, ora, nel testo originale. Ed è cresciuta
mirabilmente anche la vendita dei libri francesi. Lo Zola, così a
un di grosso, crede che sia triplicata. Dodici edizioni d'un libro,
che erano già un gran che, non sono più oggigiorno che un mediocre
successo librario. E i poeti, in ispecie, hanno torto di lagnarsi.
D'un volume di versi, in qualsiasi condizione pubblicato, si esitano
immancabilmente mille esemplari. E si è migliorata pure la condizione
degli scrittori rispetto agli editori: c'è più buona fede e più fiducia
reciproca. Non è gran tempo che essi si trattavano a vicenda, e con
molto chiasso, di scrocconi e di ladri.
Improvvisamente mi fece una grande sorpresa.
— Sapete — disse — ho letto i _Promessi Sposi_.
Avvicinai la seggiola.
Mi parve che titubasse un poco a esprimere la sua opinione, sia perchè
non l'avesse netta, sia perchè, sospettando la mia, cercasse i termini
per urtarla il più leggermente che poteva.
— Prima di tutto — disse — debbo confessare che ho letto la traduzione
francese, e che ho poca fede nelle traduzioni. Credo che la migliore
sciupi gran parte, e forse la più viva parte di qualunque lavoro, e
specialmente di un lavoro originale. Perciò i _Promessi Sposi_ non
mi fecero l'impressione che m'aspettavo. Che so io? Il romanzo, nel
suo complesso, mi parve troppo fedelmente lucidato dai romanzi di
Walter Scott. Non mi son fatto un concetto preciso del suo valore.
Certo però che ci sono delle parti, e molte, che serbano anche nella
traduzione una bellezza e una potenza meravigliosa; squarci d'un
realismo magistrale, nei quali si rivelano insieme la forza d'un grande
pittore e quella d'un pensatore vasto e profondo: la storia della peste
specialmente, che avrebbe innamorato il Flaubert, col quale il Manzoni
ha molti punti di somiglianza....
Quello che lo colpì più d'ogni cosa, insomma, fu la descrizione, e di
tutte le descrizioni, quella che gli rimase impressa più profondamente,
tanto che ne ricorda tutti i particolari, è la scena che si presenta
improvvisamente allo sguardo di Renzo, quando s'affaccia alla porta
del lazzaretto, dopo la sua lunga e avventurosa pellegrinazione a
traverso a Milano. Quelle compagnie di malati che entrano, quegli
appestati accovacciati pei fossi, quelle faccie stupidite, quei visi
sghignazzanti, quei pazzi che raccontano le loro immaginazioni ai
moribondi, quel cantare alto e continuo di gente già trasfigurata
dal morbo, quel brulichìo immenso e miserabile, e particolarmente
quel cavallaccio sfrenato, che fende la folla in mezzo all'urlìo
dei monatti, montato da un frenetico che gli tempesta il collo di
pugni, e dispare in un nuvolo di polvere, sono un quadro, egli dice,
che gli rimarrà davanti agli occhi per tutta la vita. Non disse
altro, e non me ne stupii. Per quanto ingegno e accorgimento critico
egli abbia, è impossibile che, per ora, gusti e giudichi rettamente
un'opera pensata, sentita e condotta così diversamente dalle sue.
Egli è ancora troppo caldo dell'ispirazione propria, troppo eccitato
dalla battaglia, troppo immerso con tutte le facoltà nei suoi studi
altrettanto profondi che rigorosamente circoscritti, e troppo vivente,
non dico nella letteratura del suo tempo, ma in quella della sua
giornata. Lo Zola rileggerà i _Promessi Sposi_ in pace, fuori del
campo di battaglia, come il Voltaire rilesse l'Ariosto, e cangierà
di parere, come il Voltaire. Gli mancavano d'altra parte, per ora,
gli elementi necessarii ad un critico per poter giudicare del valore
intrinseco d'una grande opera letteraria. Rimase stupito udendo che
i _Promessi Sposi_ furono scritti nel primo quarto del secolo, e che
il Manzoni, pure seguendo l'esempio del Walter Scott nel suo romanzo,
fu nella letteratura italiana un novatore, il quale, ai suoi tempi,
fece «parte da sè stesso»; un miscredente delle scuole, come lo definì
il genero apologista, un Volteriano dell'arte, un loico del buon
senso; iniziatore d'una riforma letteraria che bandì l'estrinseco, il
convenzionale, il falso nel pensiero, nel sentimento, nello stile,
nella lingua; e che la sua apparizione nella letteratura italiana,
sollevò ben altre tempeste e diede l'impulso a un ben più largo e nuovo
movimento d'idee che non abbia fatto lui, per ora, nella letteratura
francese. Finì col dire che l'avrebbe riletto in italiano, e mostrò
curiosità di conoscere le tragedie, per aver inteso qualcosa di quella
maniera libera e tranquilla di condurre l'azione e di sceneggiare, che
si deve accordare mirabilmente con le sue idee.
Di qui ricascò a parlare della sua stanchezza intellettuale, che lo
rattristava:
— Ma chi mai — gli dissi — leggendo i vostri articoli, sospetterebbe
che siete stanco?
— Capisco: non ve n'accorgete; ma è perchè ci metto uno sforzo doppio
che per il passato, appunto per nascondere la stanchezza.
— E poi — disse dopo qualche momento di riflessione, — sono stanco
sopratutto della polemica, che mi attira tanti odî. È un'impresa che
schiaccia le mie forze, e schiaccerebbe le forze di chi che sia, quella
di fare nello stesso tempo il novatore e il demolitore. Io mi trovo in
una condizione disgraziata. Vedete Victor Hugo. Certo, nel suo grande
cammino trionfale egli è stato spinto innanzi dalla forza immensa
delle simpatie e degli entusiasmi della nazione; ma aveva il vantaggio
di non esser costretto a combattere a corpo a corpo. Una legione di
devoti e di fanatici gli andava innanzi sgombrando la strada a colpi di
spada e d'accetta, e gli faceva largo intorno, gli lasciava un grande
spazio d'aria libera, nel quale egli procedeva serenamente, tutto
assorto nella propria ispirazione. Io, invece, debbo far tutto, ossia
fare e disfare. Ed è quello che non vogliono perdonarmi. — Badate a
scrivere dei romanzi — mi dicono; — lavorate sul vostro, e lasciate in
pace gli altri sul proprio: create senza distruggere. — E perchè ciò,
dal momento che essi tirano a distruggermi, e non creano? Perchè non
credono ch'io sia in buona fede; perchè credono ch'io critichi, non
per convinzione, ma per passione; non per abbattere delle scuole che
credo false e dannose al progresso dell'arte e del pensiero, ma per
sbarazzarmi di rivali che credo incomodi. Credono che io odii delle
persone, mentre non combatto che dei principii. Vogliono ad ogni costo
che sia egoismo di bottegaio quello che è coscienza d'artista. Questo è
quello che mi affligge. Che cosa ne pensate?
Credetti di dovergli dire quello che sinceramente credevo, cioè
che fuori di Parigi, fra noi, per esempio, si faceva generalmente