Ricordi d'infanzia e di scuola - 15

Debbo dire che la maggior parte mostravano assai meno timore di quello
che m'aspettassi. Ma ce n'eran parecchi che n'avevan in corpo per
tutti. Li riconoscevo, dopo che avevan dato una risposta, dal movimento
forzato di deglutizione che facevan tutti, allungando il piccolo
collo come se mandassero giù un osso di pesca. A più d'uno tremavano
le mani e le labbra. Si vedeva su certe fronti lo sforzo violento
dell'intelligenza tesa a tutta possa, quasi con l'espressione d'un
dolore fisico, che si mutava tutt'a un tratto in serenità a un: — Bene
— dell'esaminatore, come la contrazione del viso d'un assetato a una
sorsata d'acqua fresca. Alcuni, per comprender meglio, si cacciavan
sotto, col viso voltato in su, quasi fra le ginocchia del maestro,
quasi a toccar col naso il suo naso, fissandolo negli occhi con gli
occhi spalancati, acconsentendo col capo a tutti i movimenti del suo
capo, riflettendo col viso tutti gli atteggiamenti del suo viso, come
ipnotizzati. E a che grado di tenuità si riducevano per la paura certe
voci! Erano bisbigli di confessionale, gemiti d'aurette, mormorii di
fili d'acqua, sospiri moribondi d'anime in pena. Parecchi eran così
piccoli che arrivavano appena col mento all'orlo della tavola, in modo
che, quando leggevano col viso spinto innanzi, non mostrando nè spalle
nè collo, pareva che la loro zucchina rapata posasse sul tappeto verde
come divisa dal busto, e quando scrivevano con la penna del maestro,
iperbolicamente lunga per loro, la quale, tenuta ritta, sorpassava di
quattro dita il loro capo, pareva che scrivessero con uno spiede.
— Quali sono gli alimenti principali dell'uomo? — domandò un maestro.
L'interrogato, ch'era figliuolo d'un operaio povero, rispose
prontamente, come chi non ha il minimo dubbio sull'ordine razionale
dell'enumerazione: — La polenta, le patate, l'insalata....
La stessa domanda era rivolta quasi nello stesso tempo a un altro
alunno, che, confondendola con un'altra domanda usuale di suono simile,
rispose con scioltezza: — Gli alimenti principali dell'uomo sono la
testa, il collo, le spalle....
Era questi un piccolo originale, che non dimenticherò mai, un
viso sorridente e ardito, con due occhi chiari di ribelle sereno,
inaccessibile per indole a ogni sopraccapo scolastico, che pareva dire
a tutta la Commissione esaminatrice: — Ma non sapete che io non ho
neppure un pelo che si dia pensiero di voi, dell'esame, del ministero
dell'istruzione pubblica e di tutto lo scibile umano? —
Amenissimo era il lavorìo che facevan quasi tutti con le dita per
rispondere alle domande d'aritmetica, richiedenti somme e sottrazioni
mentali. Alcuni, per dignità, facevano il calcolo di nascosto, sotto
la tavola o dietro la schiena; altri, senza un riguardo al mondo,
calcolavano con le mani sotto il naso dell'esaminatore, afferrando
successivamente le dita della mano sinistra col pollice e con l'indice
della destra e scotendole a tutta forza come per provare la saldezza
delle articolazioni, e nel contare battevano fitto le labbra e le
palpebre come le divote che recitano il rosario. A uno di questi
matematici “prestidigitatori„ un morettino di sette anni, il maestro
domandò quanti anni avrebbe avuti fra altri sette anni. Dopo aver molto
armeggiato con le mani sotto la tavola, egli rispose trionfalmente:
— Quarantanove. — E, _secondo il suo modo di vedere_, come dice
il Ferravilla dell'orso bianco che incanutisce in nero, egli aveva
calcolato giusto: solo che aveva moltiplicato, invece di sommare. Un
semplice malinteso.
Ah! come parevan lunghi ad alcuni quei pochi minuti! Per la grande
finestra aperta si vedeva il cielo, qualche vetta d'albero, degli
uccelli che roteavano nerazzurro; e i poveri ragazzi, nei momenti
d'incertezza o di smarrimento, rivolgevano quasi tutti lo sguardo
da quella parte, verso l'aria pura e la libertà, con un sentimento
d'invidia — si capiva — per quell'altre piccole creature volanti, che
non conoscono nè grammatica nè numeri; e quel sentimento era compreso
da più d'una maestra che, impietosita, per richiamare all'attenzione
l'alunno, lo pigliava dolcemente per un orecchio o pel mento e gli
faceva voltare il capo verso di sè, — come si fa girare un mappamondo
sferico sul suo asse, — dissimulando un sorriso.
Dopo un quarto d'ora ch'ero là il mio atteggiamento di “potenza
neutrale„ aveva rassicurato anche i più timorosi. Non solo non mi
guardavan più con terrore; ma qualcuno dei più vicini, in certi
momenti critici, cercando ansiosamente una risposta, mi rivolgeva
uno sguardo che implorava soccorso. E avrei suggerito volentieri;
fui anzi tentato più volte di far dei segni salvatori dietro le
spalle del vecchio maestro; ma oltre che il rispetto per questo,
che era, più che indulgente, amorevole, mi trattenne — lo dico sul
serio — una considerazione di alta politica, il pensiero della mia
fede nell'avvenire d'un ordinamento sociale, in cui, essendo aperto a
tutti il concorso nel campo degli uffici intellettuali, la selezione
delle intelligenze dovrà essere anche più severa, e quindi la prova
degli esami anche più rigorosa che al presente. — Sii logico, — dissi
a me stesso, — ed ebbi la forza di non fare un cenno nemmeno a un
povero ragazzo col naso ammaccato, che, sul punto d'affogare in una
sottrazione, volgendomi uno sguardo di naufrago, pareva che mi dicesse
il verso di Dante:
Non hai tu spirto di pietade alcuno?
Ah! come la politica indurisce il cuore.
— LA MORTE DI SOCRATE!
Queste parole solenni, dette da una bella voce di contralto, mi fecero
voltare bruscamente verso l'angolo opposto della tavola: era una
giovane maestra, dagli occhi severi e dal naso aristocratico, che le
aveva dette a un ragazzo minuscolo, presentatosi in quel momento, con
un visino smarrito, che pareva una mela lessa. — La morte di Socrate!
— pensai. — E che potrà mai rispondere quel piccolo malcapitato? — Ma,
con mia maraviglia, l'ometto era ferrato sull'argomento. La morte di
Socrate non era che un raccontino di poche righe, compreso nel libretto
delle _Prime letture_, e imparato a mente dagli alunni nel corso
dell'anno. L'ometto si fece onore. Disse anzi la chiusa: — _Ammirabile
risposta!_ — (la risposta di Socrate) — con un accento di gravità
filosofica, che fece ottimo effetto.
Si presentò poco dopo al maestro mio vicino uno scolaretto poveramente
vestito, rosso in viso e tutto ansante, che doveva aver fatto poco
prima un pugilato con un suo compagno, perchè gli spenzolava il bottone
dal collo della camicia, e mostrava il petto nudo: un povero petto
scarnito e incavato, dal quale e dagli occhi pallidi, e come stanchi,
si capiva che nell'annata egli doveva contar più giornate che pasti.
Alla prima interrogazione, di vermiglio che era, si fece smorto: aveva
una gran paura, e gli si leggeva in viso ch'era paura d'una cosa
lontana più che del maestro presente; ahimè! delle botte materne e
paterne, forse, che avrebbero suggellato un esame infelice. Mi fece
una grande pietà. — Ah, questa volta — pensai — vada al diavolo la
logica: io suggerisco. — Ma, con mia viva soddisfazione e con stupore
del maestro, il piccolo pugilatore fece un “esamone„. Superato il
primo intoppo, tirò avanti col vento in poppa, rispondendo a tutte le
domande, nel secondo esame come nel primo, senza incagliare una volta
sola. Ed era commovente il vedere come quel povero viso a grado a grado
s'illuminava, come quel piccolo corpo si riscoteva a ogni parola di
lode, come sotto una carezza. L'esaminatrice d'aritmetica, contenta,
gli disse terminando: — Bene. Ancora una cosa. Sapresti scrivermi il
numero _cento_? — E quegli, trionfante oramai, stirato prima il braccio
in aria con l'atto d'uno schermitore che sta per impugnare la spada,
prese la penna, piantò i gomiti sulla tavola con un far da padrone, e
scrisse in mezzo al foglio un 100 enorme, in vere cifre da lotteria,
inappuntabile. Poi buttò la penna da parte, e alzò il viso baldamente,
come dicendo: — Si vuol altro da me?... Son qui pronto!
Il direttore, che aveva assistito all'esame, gli fece i rallegramenti,
e disse al maestro: — Lo proporremo per la villa Genèro.
Dei del cielo! Il mese d'agosto in una villa ridente, sulla bella
collina di Torino, in mezzo agli alberi e ai fiori, col Po sotto gli
occhi e le Alpi di fronte! Al povero ragazzo uscirono dagli occhi due
raggi di sole....
Venne poi un altro, palliduccio e di aspetto malinconico, a cui la
mamma aveva annodato con molta cura una cravattina nuova, che metteva
più in vista la giacchetta trita. Fattegli alcune domande, il maestro
dai capelli bianchi gli mostrò nel libro di lettura una vignetta, che
rappresentava una signora con la sua figliuola, vestita riccamente,
la quale tendeva la mano a una ragazza povera, accompagnata dalla
sua mamma vestita a bruno; e c'era scritto, sotto la stampa: — _La
figliuola della vedova._ — Interrogato, il ragazzo pose il dito prima
sull'una e poi sull'altra figura, e disse: — Questa è la fanciulla
ricca, questa è la povera.
— Perchè, — gli domandò l'esaminatore, — dici che questa è la povera? —
e aspettava che gli rispondesse: perchè è vestita da povera. Il ragazzo
rispose invece, con certo accento di mestizia: — Perchè non ha più suo
padre.
Il maestro parve stupito e commosso da quella risposta, e, fatto cenno
a me che quel ragazzo appunto aveva perso il padre pochi mesi avanti,
gli rispose con sapiente delicatezza, passandogli una mano sul capo: —
Hai ragione.... In fatti.... un bimbo non è mai povero fin che ha suo
padre.
E altri ne passarono: visi umili che domandavano misericordia, faccine
toste che parea che fossero al loro centesimo esame, buoni ragazzi
in disdetta che non ne azzeccavano una, bricconcelli fortunati che le
infilavano tutte, e bocchine slattate da un lustro che dicevano quattro
e sette fa dieci con una grazia adorabile, e anche più d'un becco roseo
invermigliato di sugo di ciliegie. Ne venne uno che per leggere il nome
di Epaminonda preparò i muscoli labiali con un movimento comicissimo,
come se avesse dovuto imboccare un trombone smisurato; poi un altro,
un biondino tutto sgomento, il quale balbettò il nome di Cincinnato
con tanti _cin_, da parere che imitasse il suono dei piatti turchi,
mettendo a duro cimento la serietà di tutto il corpo esaminante; e
dopo di lui un meschinello che a non so qual domanda difficile, dopo
un lungo silenzio, non trovò altra risposta che due lacrime. E vidi
ancora far molti calcoli da molti aritmetici maneschi; uno dei quali,
avendogli detto la maestra: — Ma che cosa ci hai in quella testa? —
si passò una mano sulla testa e si guardò la mano; e, tenendo dietro
alle letture del _Complemento del sillabario_, feci molte volate
vertiginose da Mosè a Demostene, da Garibaldi ad Enea, da Federico il
Grande a Orazio Coclite, a Giobbe, a Scipione, a Emanuele Filiberto,
divertendomi a immaginare la ridda matta che dovevan ballare quei
grandi personaggi nell'oscurità di quelle piccole teste; e dopo la
solita formula: — Va pure, — sentii certi
possenti aneliti
d'una seconda vita.
che non credo se ne sentano di più profondi e di più dolci nelle aule
dei tribunali regi alla lettura dei verdetti d'assoluzione.
L'ultimo che si presentò alla maestra che avevo accanto fu il più
lepido della processione. Non pareva impaurito, ma attonito. Poteva
aver sette anni al più; un viso di nulla, che somigliava una miniatura.
La maestra gli fece una domanda, e, tardando la risposta, gli disse,
un po' impazientita, con l'occhio rivolto altrove: — Su via! — Quegli
credette che quel _via_ significasse _vattene_, e, non desiderando
di meglio, girò senz'altro sui talloni e se la diede a gambe. Quando
l'esaminatrice si voltò, e non lo vide più, restò a bocca aperta un
momento; poi s'alzò di scatto e corse nel corridoio, dove lo raggiunse,
e lo ricondusse per mano al suo posto — visibilmente accorto del
disinganno.
E questo innocente “tentativo d'evasione„ fu l'ultimo episodio notevole
a cui assistetti. Uscito prima che si sciogliesse la Commissione,
trovai ancora nel corridoio del primo piano e in quello a terreno
un buon numero di mamme, di nonne e di zie, che aspettavano con
santa pazienza da un paio d'ore, e vidi gli abbracciamenti con cui
alcune accoglievano “gli usciti fuor del pelago„ sommettendoli a
un interrogatorio concitato, seguito da un arruffio di risposte,
che provocavano nuove domande, le quali le lasciavano più inquiete
di prima. Non tutti, peraltro, si mostravano incerti o modesti. Un
piccolo spaccone rispose ad alta voce, tagliando l'aria con un gesto
di capitan Fracassa: — Ho saputo tutto! — Intesi un altro trionfatore
che si vantava; ma la mamma, una donna del popolo, gli tagliò in
bocca le vanterie, dicendogli: — Sta zitto, vanerello, che è stato
sant'Antonio: tu non sai quanto t'ho raccomandato.... — C'era un gruppo
di donne che circondavano un bimbo d'un'altra classe, del quale si
diceva che avesse fatto maraviglie, e tutti ci facevano dei commenti
laudativi, lavorando di fantasia: — qualche cosa di non mai visto
nè inteso, — gli esaminatori trasecolati, — un vero portento, — e
guardavano il marmottino da capo a piedi, con grande ammirazione, come
se gli vedessero già in dosso l'uniforme di Presidente dei Ministri.
Un po' più in là raccolsi un frammento di dialogo di due popolane,
una delle quali si lagnava, dicendo: — L'hanno interrogato su tutte le
_combinazioni_ più difficili. Già questi maestri e maestre, agli esami,
si sa, _vanno tutti per protezione_. — E domandandole l'altra perchè
non fosse andata ad assistere agli esami, che erano _a piede libero_:
— Eh, cosa ci sarei andata a fare, — rispose, — _io che non conosco
l'errore_!
M'ero soffermato in quel momento a pochi passi dal portone della
Scuola, davanti al quale stavano affollati una cinquantina tra scolari
e scolare delle prime due classi, che facevano un cicaleccio vivissimo.
A un tratto tutti tacquero, e li vidi dividersi rispettosamente in due
ali, guardando tutti verso il mezzo (dove io non vedevo), con gli occhi
scintillanti come di simpatia e d'ammirazione. Certo, entrava qualche
personaggio autorevole, l'Ispettore governativo, il Provveditore, che
so io? il Sindaco di Torino. — Che ragazzi bene educati, — pensai; —
buoni piccoli piemontesi, in cui pare innata, in cui è così profonda la
reverenza dell'Autorità, che dimenticano, all'apparire d'un Superiore,
ogni divertimento, ogni cura....
Non avevo finito di dir questo che il personaggio entrò.
Era un cameriere di caffè che portava un gelato.


PICCOLI SCRITTORI.

Ho sotto gli occhi i componimenti di trentacinque alunni della seconda
elementare d'una scuola municipale di Torino: ragazzi dai sette
agli otto anni, di tutte le classi sociali. Chi non ha mai letto una
raccolta di “prose„ di questo genere non immagina quanto ci sia da
divertirsi e da meditare.
Si noti che il componimento fu fatto nella scuola, senza brutta copia,
sotto gli occhi della maestra; la quale, dettato il tema, non aggiunse
alcun suggerimento, e che perciò questi lavori sono la schietta
manifestazione dell'animo e della capacità intellettuale degli alunni.
Il tema era: — dite quali siano le occupazioni del vostro babbo, della
vostra mamma, di ogni persona della vostra casa. —
Non mi trattengo sulla grammatica e sull'ortografia. Noto di volo,
soltanto, che gli errori grammaticali sono quasi tutti i medesimi,
derivando la maggior parte o da anomalie della lingua, come quello
frequentissimo di scrivere al nominativo _miei fratelli_ perchè si
dice al singolare _mio fratello_, o dalla suggestione del dialetto,
come quello del dativo _gli_ in vece di _le_; nel che non si può
supporre che i miei piccoli scrittori intendessero di seguire la teoria
manzoniana. Quanto all'ortografia, sono pecche comuni (e la ragione
si capisce) l'orrore della virgola, il disprezzo dell'apostrofe,
l'appiccicatura degli articoli ai sostantivi, e la cattiva
amministrazione delle consonanti, risparmiate o spese a sproposito,
per non aver la norma della pronunzia esatta. Lo scoglio in cui
tutti battono è l'acca del verbo avere. Io credo che molti ragazzi la
sognino. E non son forse i più quelli che dimenticano di scriverla; ma
quegli altri che, ricordandosi che ci vuole, senza sapere ben dove,
la scrivono di dietro invece che davanti, convertendo così il verbo
in un'interiezione, — _ah_, — la quale in certi punti fa un effetto
comico, come se volesse dire: son stufo. E degli errori di senso è il
più ovvio quello che proviene dall'intromettersi d'un pensiero in un
altro pensiero, il quale rimane così troncato nella mente del fanciullo
ed espresso a metà sulla carta, come uno di quegli avvisi pubblici
a cui si sovrappone in parte un altro avviso. Nella correttezza
grammaticale, del resto, come nella regolarità calligrafica, vi sono
tra i lavori grandi differenze; non tutte riferibili al vario grado
di capacità degli alunni, poichè molte derivano dal loro umore della
giornata; che è come dire dalla rottura d'un balocco o dalla perdita
d'un soldo o dalla soppressione del caffè e latte mattutino. Ma dei
dispiaceri di questa natura si risente molte volte anche lo stile degli
scrittori di quarant'anni.
*
Restringo le mie osservazioni al campo morale, che è più fecondo e più
vario. Ricavo per prima cosa da questi componimenti che la maggior
parte delle famiglie si occupano dei loro piccoli scolari assai più
di quanto non si soglia credere, poichè non c'è quasi ragazzo, di
questi trentacinque, anche di quelli di più umile condizione (e non
c'è ragione di sospettare che non sian veritieri), il quale non dica
che il padre o la madre o un fratello o una sorella gli fa recitare
ogni giorno la lezione o gli rivede il lavoro, e tutti quanti accennano
il particolare, che, ogni volta che escon di casa per andar a scuola,
la mamma guarda loro nel zaino per veder se ci hanno ogni cosa. Mi
par questo un segno certo di progredita istruzione popolare, poichè
non credo che nelle famiglie povere di trent'anni addietro si facesse
altrettanto. Quasi tutti dicono minutamente e con ordine l'orario di
tutti i loro parenti. E da questo e da altri accenni a consuetudini
domestiche si capisce la vita ordinata e operosa di molte famiglie,
in cui tutti si levano all'alba e lavorano tutta la giornata, e si
aiutano e si ricreano insieme nel breve tempo che passano uniti; e
appariscono vagamente figure di madri ammirabili, e sventure nobilmente
sopportate, e case di piccoli “borghesi„ nelle quali il decoro visibile
è mantenuto a prezzo d'una rigida vita interiore, confortata dalla
buona armonia e dalla buona coscienza. E per questo rispetto la lettura
dei componimenti m'ha rallegrato.
Un'altra cosa consolante ho notata, che contraddirebbe a una mia
opinione, ma che, potendo essere un semplice caso, non basta a
distruggerla; ed è questa, che dalla classificazione dei componimenti
non resulta che i ragazzi di famiglie popolane siano inferiori, per
il minor aiuto intellettuale che hanno in casa, a quelli di famiglie
agiate, poichè degli undici, sui trentacinque, che ebbero i punti
migliori, sei sono figliuoli di povera gente.
Notevole è pure che sono figliuoli del popolo quelli che scrissero
espressioni più vive di affetto e di gratitudine per i loro parenti; il
che può derivare dal fatto ch'essi li vedono faticare per la famiglia
in una forma più sensibile che non sia quella del lavoro della mente,
e sono indotti più degli altri alla riflessione dall'austerità della
vita, e comprendono e valutano meglio le privazioni che s'impongono per
loro il padre e la madre, per effetto dell'esperienza dolorosa che ne
fanno sovente essi pure.
Curioso è che i tre alunni più affettuosi della classe sono tutti e tre
figliuoli di cuochi.
*
Uno di questi chiude il componimento colle parole seguenti, che
trascrivo alla lettera: — _Oh se potessi essere al posto di mio babbo,
e non farlo più lavorare! Io penso che ha cinquant'anni! Io penso alla
mia povera mamma che è mezza ammalata! Dio benedica tutta la famiglia!_
— Il figliuolo d'una lavandaia, orfano del padre, scrive: — _Io non ho
il babbo, ma dico che cosa fa la mamma._ — E dice la sua lunga giornata
di lavoro. — _Viene a casa tanto stanca che nemmeno mangia la cena.
È molto buona e fa tutto quello che può per me, mi guarda perchè i
vestiti siano puliti, mi fa la colazione, mi pettina e ha cura di me._
— Originale e bella è questa chiusa del figliuolo d'un fabbro ferraio:
— _Oh bambini, obbedite sempre i vostri genitori. Essi sono gli
angioli. Ti anno allevato, ti mantennero ti mandano a scuola ordinato
e pulito essi ti diedero la vita e ti fecero camminare._ — Questo
_ti fecero camminare_ non è bellissimo? Non è men bella quest'altra
chiusa, del figliuolo d'un carbonaio: — _Povero babbo a durar fatica
dalle 5 alle 9 e mezza. Povera sorella che dura fatica a lavorare.
Povero fratello, è ammalato e molto._ — Ma la più singolare mi par
quella del figliuolo d'un conciatore, che dice: — _Quanto sono carini i
miei genitori! Quando noi gli chiediamo qualche cosa non osano dir di
no, dicono di sì. Anno proprio compassione di noi. Il padre si chiama
Antonio Lotta, la madre si chiama Maria Lotta, io mi chiamo Giulio
Lotta._ — E come è semplice e graziosa questa frase del figliuolo
d'un lavorante orefice: — _Il babbo è molto buono, la mamma è buona
come il babbo_ —;e quest'altra: — _La mamma pensa a tutti e a tutto.
La sorella, quando la madre è fuori, essa fa da madre._ — È una perla
quell'_essa_.
*
Due caratteri principali si riscontrano in questi piccoli scrittori:
i riserbati e laconici, che dicono il meno possibile, restringendosi
a indicar secco secco le ore in cui le persone della famiglia si
levano, mangiano, e vanno a dormire, e gli espansivi, che profondono
le notizie e le confidenze. Questi parlano in special modo dei
fratelli e delle sorelle, e si possono dividere alla volta loro in
“affettuosi„ e in “critici„. La maggior parte dei primi ricordano con
molta tenerezza le sorelle e i fratelli più piccoli; ciò che conferma
la massima pericolosa d'un mio amico, padre molto prolifico, secondo
il quale bisogna che nelle famiglie ci sia sempre un bambino, perchè
ingentilisce il cuore dei figliuoli grandi. Dice uno: — _Quando la
mamma mi lascia da guardare il fratellino più piccolo sono molto
contento perchè gli do anche da mangiare._ — Un altro fa l'elogio del
fratellino, che _studia molto_, e dice di sua sorella minore: — _Mi
diverto in tutte le maniere con lei._ — Un terzo scrive: — _Maria è la
mia gioia la faccio saltare e qualche volta fa le bizze. E allora_ —
soggiunge come la cosa più naturale del mondo — _la mamma mi batte._
— Dice il medesimo un quarto: — _Io o anche la sorellina che a appena
cinque anni e quella sorellina è il mio divertimento, e quando ho fatto
il lavoro mi diverto e lei fa un pochi capriccetti, e mi fa castigar
dalla mamma._ — È un destino!... Un altro butta là nel mezzo del
componimento, senz'alcuna attaccatura col resto, questa frase curiosa:
— _Mio fratello qualche volta mi fa dei piaceri._
I “critici„ sono anche più ameni; ma indiscreti, qualche volta. Ve n'è
uno che giudica in questo modo le sue tre sorelle: — _Ada è buona,
ma un po' capricciosa; quella che si chiama Teresa va solamente a
scuola all'asilo_ (come si sente in quel solamente l'orgoglio dello
scienziato!), _Adelaide è un po' cattiva._ — Altri fanno a carico dei
loro fratelli rivelazioni più gravi, come quelle che seguono:
— _Poi ho un fratellino che ha appena due anni, e è un biricchino di
prima riga._
— _Ho un fratellino di 7 anni che va a scuola, non vuole saperne di
studiare._
— _Ho un fratello grande che è bocciato._
Uno dà intorno a suo fratello dei ragguagli più minuti, in una forma
amenissima: — _Il mio fratello più grande non studia abbastanza, ma fa
dannare il babbo e la mamma. Torna a casa con un castigo da fare per la
maestra. Il babbo e la mamma gli chiamano: te ne ha dato dei castighi
da fare e lui dice di no e ha vergogna di dir di sì._
E che dire di un cervello sodo di sette anni e mezzo, il quale scrive:
— _Ho due fratelli, il maggiore è in 3ª e pare che quest'anno metta
giudizio_?
*
Molte cose strane e oscure dicono riguardo alla professione e alle
occupazioni del padre. La professione alcuni non l'accennano; altri
pare che non n'abbiano un'idea molto chiara. Dice uno: — _mio padre
è impiegato fuori di porta_ — senz'altro: provatevi a indovinare. Un
altro definisce la professione paterna in questo modo singolare, un po'
indeterminato, mi sembra: — _Il babbo va via alle 7 per guadagnarsi il
pane col sudore della sua fronte._ — Altrettanto singolare e non molto
più lucida è quest'altra definizione: — _L'occupazione del padre è di
pensare molto ai colori per fare i quadri con dei fiori e altre cose._
— Il figliuolo di un “impiegato al gas„ dice: — _Mio padre a mezzanotte
va a spegnere i ceri._ — Definisce un altro in questa ardita forma
grammaticale l'occupazione di sua madre: — _L'occupazione di mia madre
è che pensa alla roba di non perderla._ — Il più originale, per altro,
e il più misterioso è quello che, dopo aver detto: — _L'occupazione del
mio babbo è di fare il benestante_, — soggiunge: — _cioè 5 o 6 giorni
sarà a Torino, 8 o 9 giorni sarà in campagna a lavorare, e quei 5 o 6
giorni che è a Torino un'ora sarà al mercato un'ora sarà all'ufficio,
insomma ha tanto da lavorare che un'ora è in casa e un'altra è fuori._
— Un benestante, come si vede, che non poltrisce sulle sue rendite. Ne
cito ancor uno che fra le occupazioni del padre registra questa: — _poi
il babbo viene a casa e sta due ore a leggere il popolo_ (la Gazzetta
del popolo) — e un altro che fa questa straordinaria rivelazione: — _Il
babbo va a letto la sera alle 11 e non si alza più che alla mattina._
*
Ma le uscite bizzarre, lepide, gentili che si trovano in questi pochi
componimenti, se volessi citarle tutte, riempirebbero troppe pagine.
Non si direbbe che è un epigramma pensato questa doppia proposizione:
— _Mio fratello va al ginnasio, ma studia?_ — E come è ben resa la
varia operosità d'una brava ragazza di casa con questi due tocchi: —
_Mia sorella mi corregge il lavoro e scopa il negozio._ — E che fior di
logica semplicità v'è in questa frase: — _Allora i genitori mi fanno
ripetere la lezione, se la so mi dànno la merenda e se non la so non
me la dànno_ — e nella seguente: — _la mamma mi lava i vestiti se sono
sporchi, me li cucisce se sono stracciati_. — Dopo aver accennato le
occupazioni dei parenti, uno passa a dire le proprie con questo ingenuo
avvertimento: — _Vengo a parlare di me._ — Un altro: — _Adesso parlo
di me._ — E un terzo, più solenne: — _Ed ora parlo di me stesso._ —
Questi me ne rammenta un quarto che notifica in una forma nuova affatto
la composizione della propria famiglia: — _A casa mia ho il babbo, la
mamma, la sorella e me._
Fra le chiuse più degne di nota trascrivo le seguenti, che paiono state
cercate per ottenere un “effetto finale„:
— _Io sono un bambino di 7 anni e 7 mesi._
— _Io ho otto anni e mi levo alle 7 e mezza._
— _Io sono della scuola Angelo Brofferio e mi levo alle 7._
Ve n'è uno che, fra l'altre, dà questa importante notizia; la quale,
per quanto concerne lui, è certamente una piccola spacconata: — _Dopo
cena qualche volta andiamo al caffè a bere dei liquori._
Da un periodo arruffato d'un altro si capisce che in casa sua sono
incaricati i ragazzi di apparecchiar la tavola; ma sentite con quali
restrizioni, e come giudiziosamente e ordinatamente specificate: — _Ma
mettono solamente il tovagliolo e le tovaglie perchè se mettono i tondi
li rompono e le posate si tagliano o cadono per terra e possono fargli
del male sugli occhi dentro alla bocca sulla fronte._
Il figliuolo d'un calderaio ha sulla fine questa maravigliosa uscita,
che a qualcuno farà dare un balzo sulla seggiola: — _Il babbo viene
a casa ed è l'ora della cena. Noi amiamo e dopo amato usciamo._ — Si