Ricordi d'infanzia e di scuola - 09
riandando il passato, io compresi tutta la sua bontà, tutte le sue
virtù d'uomo e di padre. Il suo amore per noi avea qualche cosa
d'austero: egli ci amava, ma non ci adorava, e in questo pure era
saggio, e per questo la sua carezza, benchè frequente, ci faceva
l'effetto benefico d'una ricompensa ambita. Egli era stato per tutti
noi il primo maestro. Quand'eravamo ancora bambini, ci conduceva a far
delle lunghe passeggiate in campagna, che per noi erano una festa,
e, strada facendo, ci diceva sempre in forma dilettevole qualche
cosa di utile, accennandoci le bellezze del paesaggio, insegnandoci
i nomi delle piante, stimolando e appagando in mille modi arguti la
nostra curiosità infantile. Egli ci tracciava delle tavole sinottiche
per facilitarci lo studio del latino, c'insegnava il francese, che
sapeva benissimo, e la calligrafia, in cui era maestro, ci faceva dei
quadretti coloriti per farci imparare la nomenclatura italiana degli
oggetti domestici, e ci disegnava delle carte geografiche con un metodo
suo proprio, che gli costavano settimane di fatica. Dotato di molte
e finissime abilità meccaniche, le esercitava continuamente a nostro
vantaggio: ci legava i libri, ci faceva dei giocattoli, ci fabbricava
dei piccoli mobili, ci scolpiva le teste delle marionette, ci dipingeva
gli scenari per il teatrino. E pure essendo padre così operoso e
pieno di pensieri estranei al suo ufficio, era un impiegato, più che
diligente, ardente di zelo; tanto da mandare ogni anno al Ministero
dei grandi progetti di riforme computistiche, intorno a cui lavorava
per mesi e mesi. E non restringeva la sua vita intellettuale nel
cerchio dell'ufficio e della casa: leggeva libri nuovi d'ogni genere,
sapeva a memoria un gran numero di poesie, che recitava mirabilmente,
aveva un'ammirazione appassionata per i grandi scienziati e i grandi
artisti, visitava studi di pittori e stabilimenti industriali, andava
a cercare ogni uomo illustre per qualsiasi merito, il quale passasse
per la nostra città, presentandoglisi senz'altro titolo che quello
d'ammiratore, come un giovinetto entusiastico. Non ho di lui altra
immagine che quella d'un uomo bianco di capelli e di barba; così mi
sembra d'averlo sempre veduto; eppure non mi pareva vecchio, e non mi
passava mai per la mente ch'egli potesse morire prima ch'io fossi un
uomo fatto, tanto era sano, vigoroso, vivace, anche nei suoi discorsi
in famiglia, pieni di ricordi e di idee, di citazioni e d'arguzie. E mi
ricordo che provavo un gran piacere, come a un segno ch'egli mi desse
di dover vivere lungamente, quando, mettendo io nella sua larga mano
tutt'e due le mie, egli, per scherzo, me le serrava come in una morsa,
fino a farmi cacciare uno strillo, che esageravo, per dargli un'idea
più grande della sua forza. Visse lungamente, sì, ma morì troppo presto
per noi, e per il premio a cui gli dava diritto la sua nobilissima
vita. Povero padre mio, mio maestro e mio amico, che m'hai dato
l'esempio di tutte le virtù e colmato di tutti i benefizi, e ch'io non
ho potuto ripagare con una sola prova di riconoscenza pubblica, io che,
certamente, essendo l'ultimo dei tuoi figliuoli, fui il più doloroso,
il più disperato dei tuoi ultimi pensieri!
E mentre dicevo tra me queste cose, di notte, sentivo nella camera
accanto il suo vaneggiamento compassionevole, delle esclamazioni
affannose e senza senso, che m'entravan nel cuore come colpi di
pugnale, e le parole dolci e tristi di mia madre che lo vegliava; le
quali mi facevano soffrire anche più delle sue. Che terribili notti, e
che terribili giorni!
Cambiamento di rotta.
Ma tanta è la forza della vita a quindici anni che l'animo non rimane
prostrato a lungo neppur dai più grandi dolori; dai quali si divincola,
per rialzarsi impetuosamente, come il getto d'acqua vigoroso che
respinge la mano da cui è compresso. Così avvenne a me dopo pochi
giorni. Della condizione mutata della famiglia, in ciò che riguardava
i mezzi economici, non ebbi alcun dolore, anzi non mi diedi nemmeno
pensiero: eppure era mutata per modo ch'io non avrei più potuto far
gli studi universitari senza sacrifizi gravi di mia madre e dei miei
fratelli. Erano disposti a farli, e li avrebbero fatti lietamente;
lo compresi, e me lo dissero; ma compresi pure che era mio dovere
di prendere spontaneamente una deliberazione che li liberasse da
quell'obbligo; di scegliere, cioè, una carriera che mi mettesse in
grado al più presto di guadagnarmi la vita. Addio, dunque, sognati
trionfi del foro! Ma rinunziai al foro senz'alcun rammarico, come
avevo rinunziato al palcoscenico e al circo equestre. Gli entusiasmi
patriottici erano ancora caldi, il periodo delle guerre nazionali
ancora aperto, la mia passione per l'esercito non del tutto spenta:
scelsi la carriera militare. Fu deciso senz'altro che avrei finito
ancora il secondo corso del Liceo, e che ai primi dell'anno prossimo
sarei entrato in un collegio a Torino, per prepararmi agli esami
d'ammissione alla scuola di Modena. E il buon volere, anzi l'allegrezza
con cui presi quella decisione non fu punto turbata dal fatto, che
acquistassi proprio in quei giorni, lucida e ferma, destinata a non più
cadere, la coscienza di poter riuscire, comunque fosse, uno scrittore.
Fu per un caso, come quasi sempre avviene, che mi s'accese quella nuova
girandola, a fuoco perpetuo.
Una mattina il professore di lettere italiane ci fece fare in scuola
un componimento sul tema: _I Promessi Sposi_. Due giorni dopo, avendo
letto tutti i lavori, ebbe la bontà di sentenziare che il meno peggio
era il mio; ma con una frase assai più cortese di questa, seguita da
vari commenti, che terminavano con una falsa profezia. E fu proprio
quella falsa profezia che decise del mio destino. Avrei forse presa,
più tardi, la medesima strada, anche se non mi ci avesse spinto
allora quel piccolo avvenimento; ma è un fatto che soltanto dopo quel
giorno cominciai a studiare e a scrivere col proposito determinato e
con la speranza viva di riuscire a qualche cosa con la penna, e che
da quel momento in poi la mia passione per la letteratura non ebbe
più intermittenze. Le prime cose che scrissi furono dissertazioni in
forma di lettere, dirette ora all'uno ora all'altro dei miei amici;
ma lettere che mi sarebbero costate un occhio se le avessi mandate per
la posta, e che nessuno avrebbe lette fino a metà, se avessi avuto il
coraggio di regalarle a chi mi era servito di bersaglio per scriverle.
Eran quaderni, e trattavano di tutto, senza dir propriamente nulla,
girigogoli di frasi, fughe interminabili di parole, cascate fluviali
di periodi, non altro che esercizi d'immaginazione e di stile, nei
quali cacciavo a forza tutte le mie reminiscenze di letture, e facevo
dei larghi giri di falco per venire a una data immagine o a una data
locuzione, quasi sempre non mia, che mi pareva un fiore o una perla,
e anche votavo addirittura delle sacca di roba altrui, tinta soltanto
dei colori della mia tintoria, e sparpagliata con cert'arte perchè si
confondesse meglio con la merce dei miei magazzini. Ma c'era pure in
quella prosa di cicalone e di ladro qualche cosa di personale, ed era
la musica, che s'è mutata poco d'allora in poi. Con quegli esercizi
mi sfranchivo la mano a scrivere, imparavo a tradurre in parole il
sentimento quale mi spirava nell'animo, a esprimere in modi diversi il
mio pensiero, a snodare e a annodar fra loro i periodi, a maneggiare
con destrezza il materiale di lingua che avevo già accumulato nella
memoria. E di pari passo con la prosa sfrenavo i versi, perchè credevo
fermamente d'avere tutti i bernoccoli letterari. Avevo letto la prima
volta nella primavera di quell'anno le liriche e le ballate del Prati,
e quell'onda sonora di rime, quel barbaglio di lampi e di colori
m'aveva prodotto l'effetto, che suol fare in un giovane la prima
vista d'una grande sala da ballo sfarzosa, in cui turbini una folla
di belle signore infiorate e gemmate. E le mie poesie erano tutte
un'imitazione quasi plagiaria del “superbo signore dei colori e dei
suoni„ tirate via con una facilità di versaiolo estemporaneo, sonore
come concerti di campane e luminose come fuochi di Bengala; inni e
ballate d'un Prati rimbambito. Ma non posso dire il piacere che godevo
in quelle lunghe ore di scribacchiamento diurno e notturno, in cui
mi giungeva importuna l'ora del desinare e della cena, e mi coglieva
come improvvisa la sera, e non avevo più quasi alcun senso della vita
esteriore. E fu una provvidenza per me quella specie di febbrone
letterario perchè, tenendomi così assorto continuamente, mi faceva
vivere fuori della grande tristezza che pesava sulla mia famiglia, e
quasi dimenticar la sventura. Solo di quando in quando mi s'alzava
davanti tutt'a un tratto l'immagine del povero vecchio che giaceva
immobile in un letto all'estremità opposta della casa, e il pensiero
ch'egli non sapeva nulla di quella mia nuova felicità, che non avrebbe
mai letto nulla nè di quello che scrivevo allora, nè di quanto avrei
scritto nell'avvenire, mi faceva posare la penna e restare un pezzo
meditabondo, con gli occhi pieni di lacrime. Ah, come avrei voluto
ch'egli venisse ancora, come faceva nel passato, a portarmi a copiare
qualche tavola dei suoi progetti di riforma amministrativa, e come mi
pentivo amaramente di non avergli qualche volta nascosta la mala voglia
con cui interrompevo le mie letture per obbedirlo, come mi pareva
odiosa in quei momenti la mia ingratitudine, e con che parole dolorose
e supplichevoli ne domandavo perdono alla sua memoria!
Aspromonte.
Da quella furia di scribacchino mi fece uscire per qualche giorno,
nel mese d'agosto, Garibaldi. Il grido di _Roma o Morte_ ridestò
improvvisamente la fiamma delle mie passioni politiche e mi ricacciò
in mezzo ai miei compagni rivoluzionari a fremere e a vociare
contro “l'uomo di Novara„ e “la sfinge di Parigi„. Noi volevamo, si
sottintende, andare a Roma a qua-lun-que co-sto, e non dubitavamo
neppur per sogno che Garibaldi, il quale moveva allora verso Catania
coi suoi volontari, ci sarebbe arrivato, a dispetto di tutti i diavoli
e di tutti i santi. E non volevamo intender ragioni. A chi ci diceva:
— E se ci assale la Francia? — rispondevamo: — E noi faremo la guerra
alla Francia. — E se ci salta addosso l'Austria? — E ne daremo anche
all'Austria. — Pilade, Oreste, Elettra, a morte tutti. Il giorno
che venne la notizia d'Aspromonte, ci accozzammo una quindicina in
una trattoria, presieduti da un reduce garibaldino del sessanta, uno
sbarbatello indemoniato, che per l'occasione s'era messo in capo il
suo vecchio berretto rosso sdruscito, e, scovata in casa dell'oste una
bandiera stinta e sbrindellata, che non aveva mai visto che il fuoco
della marmitta e pareva un avanzo di venti battaglie, percorremmo la
città cantando l'inno del Mercantini e urlando _Roma o Morte_, fra
lo stupore, i sorrisi e gli sguardi di riprovazione dei cittadini
pacifici, a cui facevamo l'effetto d'un branco di evasi dal manicomio.
Eravamo sopra tutto furibondi contro il colonnello Pallavicini, che era
partito pochi giorni avanti dalla nostra città per andare ad assumere
il comando dei bersaglieri, condotti poi da lui stesso all'assalto
d'Aspromonte; di quei suoi bersaglieri dai quali era partita la palla
fatale che aveva spezzato il piede a Garibaldi; sì, l'avevamo a morte
con quel colonnello Pallavicini, che ci eravamo “scaldato in seno„
per tanti anni, e che ci aveva ripagato della nostra “ospitalità
cittadina„ a quel modo, mordendo a sangue il nostro dio. Qualcuno
parlò di fargli la festa, se avesse avuto la fronte di ritornar fra
noi. La sua promozione a generale inasprì anche di più le nostre
ire, come una provocazione aggiunta all'offese. Si ventilò l'idea
di comprare una sua grande fotografia, che era esposta nella vetrina
d'un libraio, per farne un _auto da fè_ davanti alla Prefettura; ma
ne volevano cinque lire, e preferimmo di spenderle in birra. Salì poi
al colmo la nostra indignazione (e, fuor di scherzo, fu una grande
tristezza) quando vedemmo passare per le vie della città una colonna di
garibaldini prigionieri, che eran condotti a un forte delle Alpi. Come
m'è rimasto impresso quello spettacolo! Saranno stati un centinaio,
fiancheggiati da due file di bersaglieri: i primi in camicia rossa,
uomini maturi la più parte, alcuni coi capelli grigi, e col petto
scintillante di medaglie, figure belle e superbe che camminavano
a fronte alta e a passo risoluto; gli ultimi una frotta di poveri
ragazzi laceri, semiscalzi, dall'aspetto stanco e triste, che diceva
una storia miseranda di digiuni e di stenti; figure di mendicanti,
più che di soldati, che alle nostre grida di: “Viva Garibaldi!„ si
voltavano a guardarci con aria attonita, girando gli occhi intorno come
se cercassero del pane. Ah, che furiose discussioni quella sera, al
caffè, coi nostri amici bersaglieri, che ci chiamavano i _Romaomorti_
e si burlavano dei liberatori di Roma senza scarpe e inneggiavano al
“vincitore di Aspromonte!„ S'affollò gente nella sala, accorse il
padrone, s'andò a un pelo dal fare a pugni. E il nostro nemico, il
vincitore, ritornò finalmente. Lo incontrai una sera a buio, sotto i
portici, vestito da borghese, che andava a passo spedito, guardando
verso la strada, come per raggiungere qualcuno. Gli cedetti il passo,
fremendo, e gli lanciai un'occhiata omicida. Non se ne accorse: aveva
ben altro per il capo. Voltandomi indietro, lo vidi poco dopo uscir di
sotto le arcate e salire in una carrozza patrizia, dove lo aspettava
una bella signora. Le due teste si avvicinarono, la carrozza partì, io
rimasi come un grullo, e Aspromonte restò invendicato.
Un fiume d'inchiostro.
Rientrai allora nella mia fucina letteraria e non ne uscii più per
il rimanente di quell'anno. Ebbi solo qualche giorno di malinconia,
all'aprirsi dell'anno scolastico, pensando ai miei antichi compagni che
entravano nel terzo corso del Liceo, al quale io avevo rinunciato: un
sentimento come di nostalgia della scuola, ch'io lasciavo prima d'aver
compiuti gli studi, e più che altro di rimpianto degli studi classici
abbandonati, come d'uno scadimento della mia dignità intellettuale.
Ma fu una malinconia presto soverchiata dall'ardor del lavoro, se
può darsi questo nome a quella mia eruzione di parole, che riprese
dopo i giorni d'Aspromonte più copiosa e più violenta che mai. Rimasi
veramente stupefatto quando, molti anni dopo, ritrovai in fondo a un
cassone i miei manoscritti di quel tempo, d'aver potuto rovesciar
sulla carta in pochi mesi un tal diluvio d'inchiostro: racconti,
dialoghi, satire, paralleli di scrittori, pappolate filosofiche: una
specie di _Decamerone_, fra le altre cose, che Dio e il Boccaccio me
lo perdonino. La mia passione prese davvero in quell'ultimo periodo
il carattere d'una malattia mentale, degenerando di letteraria in
libraria, in un bisogno pedantesco e puerile di vedere i miei parti
in forma di volumi stampati e legati, con gran lusso calligrafico
d'intestazioni, di indici e di fregi, e ciò che è più strano, immuni
di correzioni quanto più fosse possibile; tanto che ci lasciavo spesso
intatti dei grossi spropositi per non deturpare la pagina con un
frego. E come non mi spiego da che mi nascesse quella fisima, poichè
non davo a leggere le mie “opere„ neppure agli amici più stretti, non
capisco neppure il perchè di quella smodata produzione, non pensando io
neppur per ombra a dare alle stampe quelle bracciate di prosa. Avevo
bisogno di scrivere, credo, come avevo avuto l'anno avanti il bisogno
di saltare e di arrampicare; erano umori del cervello che dovevan dar
fuori; bisognava che m'affaticassi le facoltà eccitate per castigarle
e renderle atte più tardi a un lavoro pensato e tranquillo. Nondimeno,
mi vergogno ancora un poco, quando ci ripenso, di quella lunga orgia
di letteratura, la quale mi dimostra quanto stessi ancora male a buon
senso in quell'anno, quantunque mi cominciassero a spuntare i baffi. Mi
conforta solo il ricordare che non mi facevo grandi illusioni intorno
al valore intrinseco dei miei finti libri; dei quali, per mia fortuna,
ero io l'unico lettore. Il che non toglieva, peraltro, che io avessi
la certezza, ma proprio la certezza assoluta di riuscire un giorno a
qualche cosa, la previsione netta e sicura che la carriera militare non
sarebbe stata che un episodio della mia vita, che la mia vera ed unica
vocazione fosse quella di metter del nero sul bianco a beneficio del
genere umano. Non era una certezza fondata sui saggi che davo di me a
me medesimo in quel periodo di esercitazione letteraria meccanica; ma
sul presentimento di facoltà che sarebbero poi sorte nella mia mente,
su promesse confuse della coscienza, su non so quale armonia che mi
suonava dentro, non ancor formulata in idee, vaga, profonda, dolce,
continua, su non so che cosa che mi sentivo correre per le vene e
per le fibre e brillare sotto la fronte e nel cuore, e ch'io pensavo
sarebbe sgorgato fuori come uno zampillo di fuoco per effetto d'un
avvenimento inaspettato, dello spettacolo d'una città nuova, della
compagnia di nuovi amici, della vita libera, dal dischiudersi delle
porte dorate della gioventù, di cui stavo per varcare la soglia.
La partenza.
Venne finalmente il giorno della partenza per Torino. Parrebbe ch'io
avessi dovuto lasciar con dolore quella casa dov'ero entrato bambino e
donde partivo giovinetto, e quella piccola città, che era per me come
la città nativa, dov'ero vissuto quattordici anni, dov'ero cresciuto
così sano e forte e lasciavo tante memorie. Eppure questo non fu. La
prima età ha di questi momenti di duro egoismo, in cui la furia d'uscir
del guscio, l'ebbrezza di mutare orizzonti e di slanciarsi nella vita
preme con tanta forza su tutti gli altri affetti, da cacciarli quasi
dal cuore. Quella città, che doveva diventarmi poi così cara, mi si
era fatta in ultimo intollerabile. Vi conoscevo tutti i visi, avevo
impresse nella mente le facciate di tutte le case, potevo rammentare
per ordine tutte le botteghe di tutte le strade, e questa conoscenza
di tutto mi dava un senso di sazietà d'ogni cosa: perfino dall'aspetto
dei dintorni bellissimi, che m'erano stampati nel cervello sentiero
per sentiero e albero per albero, mi veniva un tedio infinito: mi
dibattevo fra quelle mura come un falchetto in una stia da uccellino;
sentivo una tale smania d'andarmene che il solo odore del fumo della
strada ferrata, alle volte, mi faceva fremere come fa l'amante al
profumo d'un fiore regalatogli dalla sua bella. E ciò non ostante
non m'è rimasta nella memoria alcuna traccia dei particolari della
partenza: non mi ricordo neppure degli addii dati in casa, nè di chi
m'abbia accompagnato alla stazione, nè dello stato d'animo, triste o
lieto, in cui mi ritrovavo all'ultimo momento. Mi ricordo soltanto che
il giorno prima della partenza chiamai a raccolta nel cortile quelli
che rimanevano dei miei antichi compagni scamiciati di gioco e di
milizia, e che distribuii fra tutti, perchè ne facessero un regalo ai
loro fratelli piccoli, quanto mi era restato in casa dei miei trastulli
della fanciullezza: stampe colorite, che rappresentavano soldati
francesi e italiani, casette e figurine di presepio, e trombe e daghe
di legno dei miei tempi bellicosi. Solo allora, quando vidi portar via
quella roba che m'era stata un tempo così preziosa, provai un senso
di tenerezza e di mestizia, come se in quel punto si fosse spezzato
il legame che teneva ancora unito in me il giovinetto al fanciullo,
e quei giocattoli fossero stati una parte viva di me, che morisse in
quel punto, e la portassero a seppellire. V'è da quel momento un buio
nella mia memoria fino a quello in cui mi trovai solo in un vagone, sul
treno che andava a Torino, con una grande sacca coricata sul sedile,
dentro la quale c'era tutta la compagnia dei grossi burattini dalle
teste di legno, scolpite dal mio buon padre, che avevan deliziato non
solo la mia, ma anche la fanciullezza dei miei fratelli, e che mia
madre m'aveva affidati con molte raccomandazioni perchè li portassi
a un mio nipotino di Torino. Vedo ancora quella vecchia sacca da
viaggio ricamata a colori vistosi, e quasi risento sotto le mani le
teste dure di quegli antichi amici, che facevan gobba da tutte le
parti. E a questo ricordo mi vien sulle labbra un sorriso d'ironia
malinconica. Sì, proprio, in quella sacca era chiusa l'immagine del
mio avvenire. Ahimè! Che cosa ho fatto altro nella vita che far ballare
dei burattini? E non ho nemmeno la coscienza d'essere stato un grande
burattinaio. Eccomi qui, coi capelli bianchi, già preparato a un'altra
partenza, e mi pare d'aver di nuovo accanto quella sacca. Allora
c'era chiuso il mio avvenire, ora c'è chiuso il mio passato. _Vanitas
vanitatum_: ecco il fondo delle cose, e la conclusione di tutto. Quando
queste parole, che sogliono rattristar l'animo e offender l'orgoglio
dell'uomo, gli son diventate un conforto, vuol dire che il suo cammino
è finito.
Un mistero.
Quella città, non più riveduta che due volte in trentaquattro anni,
e non ricordata che raramente, e di sfuggita, e senz'affetto, nel
tempo della gioventù, ha preso poi nel mio spirito, nell'età matura,
una vita intensa e quasi risplendente, mi è diventata oggetto fino
a questi giorni di sempre più frequenti e più vive riflessioni. E in
questo non è nulla di singolare, perchè, meditando l'uomo sul mistero
di sè medesimo, via via che invecchia, sempre più assiduamente, è
naturale che risalga sempre più spesso col pensiero ai propri principi,
e quindi ai luoghi dove passò l'infanzia. Ma singolare è che a quella
città io ritorni sempre più sovente nei sogni, e strano, inesplicabile
per me che questi sogni siano tutti lo svolgimento d'uno stesso fatto
doloroso, e impossibile ad un tempo. Mi ritrovo nella strada maestra,
fiancheggiata da un capo all'altro da un doppio ordine di portici
bassi, in un'ora che non è nè di giorno nè di notte, poichè i portici
è la strada sono qui oscuri, là rischiarati da una luce di crepuscolo,
altrove come ingombri d'una nebbia fitta, che ora si squarcia, ora si
riaddensa; ma è l'ora della passeggiata domenicale, poichè va e viene
gente da tutte le parti, e le botteghe son chiuse. In ogni sogno sono
arrivato allora allora, con un vivo desiderio di ritrovare gli antichi
amici molti dei quali vivono ancora; mi caccio tra la folla, e vo
innanzi cercandoli con lo sguardo, curioso e impaziente. Ma cammino
e cammino, e non ne incontro nessuno, e non rivedo neppure, fra tutta
quella gente, uno solo dei tanti visi noti, che mi si presenterebbero
nella realtà, e che dovrei incontrare per questo anche in sogno.
Invano ricorro da un capo all'altro i portici di destra e di sinistra,
osservando i crocchi davanti ai caffè, le brigate che passano e i
gruppi che stan fermi alle cantonate, dove sempre ne vedevo qualcuno,
quando vi passavo da ragazzo: non riconosco anima viva. È tutta una
popolazione sconosciuta, come mi sarebbe quella d'una città dove non
fossi mai stato. Vedo spesso venir verso di me, in quella luce incerta
di foresta, una persona che mi par di quelle ch'io cerco, e dico tra
me, rallegrandomi: — È il tal dei tali! — ma, andandogli incontro,
m'accorgo d'aver sbagliato: è un altro, un ignoto. A poco a poco la
folla si dirada, percorro lunghi tratti deserti, fiancheggiati da
edifizi non mai veduti, da alti muri di fortezza o di carcere, da
case e da muri di cinta in rovina; mi trovo in mezzo alla campagna,
solo; rientro un'altra volta sotto i portici, dove non suona più il
passo che di pochi solitari: corro dietro all'uno, corro incontro
all'altro: nessun amico, nessun conoscente; nessuno mi riconosce,
nessuno mi guarda; chi svolta a destra, chi svolta a sinistra, tutti
scompaiono. Corro a casa degli amici più stretti, agli uffici dove
sono impiegati, a quella tal farmacia, in quel dato caffè che so che
frequentano: non c'è nessuno, non c'è che sconosciuti; suono, picchio,
chiamo, domando ad alta voce: — Il tale? Il tal altro? — Nessuno sa
nulla. Affannato, addolorato, mi rimetto a correre per la via maestra,
infilo i vicoli laterali, giro e rigiro in mezzo a case che riconosco,
non so come, benchè non sian più quelle d'una volta, per crocicchi e
per piazzette che si allargano e si restringono come se gli edifizi
dintorno danzassero, per vicoli che s'allungano e si perdon nelle
tenebre, intorno a vecchie chiese che si trasformano al mio avvicinarsi
in cattedrali enormi, e da per tutto incontro, fiancheggio, raggiungo
delle ombre umane; ma da nessuna parte rivedo un amico, un conoscente,
un viso del passato. E questa corsa angosciosa dura fin che mi
risveglio, col cuore pieno di tristezza. Da anni e anni faccio sempre,
con poche variazioni, questo medesimo sogno. È impossibile che non ci
sia una ragione. L'ho cercata molte volte, meditando a lungo; ho anche
letto dei libri di onirologia scientifica, con la speranza di cavarne
qualche lume a scoprire il mistero: non ci ho trovato nulla che mi
giovasse. Eppure, dico, una ragione ci ha da essere, nella mia vita,
nella mia coscienza, che so io? una ragione che dispero di ritrovare,
ma che son persuaso non possa essere che triste, e legata strettamente
con altri misteri dell'anima, tristi del pari, che non mi saranno
svelati mai. Per questo non la cerco più da qualche tempo. Ora se una
voce soprannaturale mi dicesse: — La so, — e mi domandasse: — La vuoi
sapere? — risponderei: — Voglio ignorarla. — Sarà una superstizione
indegna d'un uomo; ma è così. _Ho paura non so di che_, come l'Osvaldo
dell'Ibsen. E non di meno desidero sempre di rifare quel sogno, tanto
è cara al mio cuore, tanto mi par bella anche non popolata che di
spettri, tanto mi attira e mi affascina quella piccola città alpina,
dove l'età più felice della mia vita si chiuse con la morte del più
saggio e dolce amico ch'io abbia avuto sopra la terra. Cuneo è la
città, e pronuncio con sentimento di riverenza e di gratitudine questo
nome, il quale mi desta la visione d'una città immensamente lontana,
posta quasi ai confini del mondo, che si disegna in contorni azzurri
sulla bianchezza d'un'alba luminosa.
BAMBOLE E MARIONETTE
IL “RE DELLE BAMBOLE„.
Così lo chiamano molte delle sue piccole clienti, ed è Gerardo Bonini,
inventore, fabbricante e negoziante di bambine inanimate, che ha la
bottega in via Roma. Non è difficile trovarla perchè vi si vede davanti
a tutte le ore del giorno una schiera di ragazzine del popolo che,
ammirando le vetrine, si scordano dell'involto, del cavolo o delle
pagnotte che debbono portare a casa, per abbandonarsi a un'orgia di
desideri. E tutte le signorine piccole che passan di là, condotte per
mano dalla mamma o dalla governante, per una ventina di passi tirano
l'accompagnatrice, sporgendo il viso innanzi, e per un'altra ventina di
passi si fanno tirare, torcendo il capo indietro.
Passando di là una mattina, mi ricordai d'un giorno che, avendo detto
in casa mia, in presenza della figlioletta d'una nostra vicina: — _A
momenti verrà il Bonini_ (un mio amico ufficiale), — quella, illusa
dall'omonimia, diede uno scatto sulla seggiola, come se avessi detto:
— A momenti verrà l'Imperatore di tutte le Russie; — e quel ricordo mi
destò curiosità di conoscer l'uomo e le sue opere.
Pensai di presentarmi senz'altro. — Ho lavorato anch'io per i bambini,
— dissi tra me; — non sdegnerà di ricevermi come un collega. — Ed
entrai in quella bottega stretta, lunghissima, male rischiarata;
ma che alla fantasia di bambine innumerevoli appare più vasta e più
sfolgorante del palazzo imperiale degl'Incas.
Il Bonini stava in fondo alla sua reggia piena di tesori visibili
e invisibili, leggendo la _Gazzetta del popolo_, come uno oscuro
cittadino qualsiasi. È un ometto sui cinquanta, di viso intelligente e
benevolo, dotato di quella dolcezza particolare di modi che è propria
di tutti coloro che hanno una clientela fanciullesca signorile, siano
essi bottegai, sarti, medici o ripetitori. Temetti non di meno, per un
momento, che il suo aspetto mi avesse ingannato perchè, appena inteso
lo scopo della mia visita, afferrò per i piedi una delle sue bambole, e
a modo dell'Eviradnus di Victor Hugo col cadavere del piccolo Ladislao,
virtù d'uomo e di padre. Il suo amore per noi avea qualche cosa
d'austero: egli ci amava, ma non ci adorava, e in questo pure era
saggio, e per questo la sua carezza, benchè frequente, ci faceva
l'effetto benefico d'una ricompensa ambita. Egli era stato per tutti
noi il primo maestro. Quand'eravamo ancora bambini, ci conduceva a far
delle lunghe passeggiate in campagna, che per noi erano una festa,
e, strada facendo, ci diceva sempre in forma dilettevole qualche
cosa di utile, accennandoci le bellezze del paesaggio, insegnandoci
i nomi delle piante, stimolando e appagando in mille modi arguti la
nostra curiosità infantile. Egli ci tracciava delle tavole sinottiche
per facilitarci lo studio del latino, c'insegnava il francese, che
sapeva benissimo, e la calligrafia, in cui era maestro, ci faceva dei
quadretti coloriti per farci imparare la nomenclatura italiana degli
oggetti domestici, e ci disegnava delle carte geografiche con un metodo
suo proprio, che gli costavano settimane di fatica. Dotato di molte
e finissime abilità meccaniche, le esercitava continuamente a nostro
vantaggio: ci legava i libri, ci faceva dei giocattoli, ci fabbricava
dei piccoli mobili, ci scolpiva le teste delle marionette, ci dipingeva
gli scenari per il teatrino. E pure essendo padre così operoso e
pieno di pensieri estranei al suo ufficio, era un impiegato, più che
diligente, ardente di zelo; tanto da mandare ogni anno al Ministero
dei grandi progetti di riforme computistiche, intorno a cui lavorava
per mesi e mesi. E non restringeva la sua vita intellettuale nel
cerchio dell'ufficio e della casa: leggeva libri nuovi d'ogni genere,
sapeva a memoria un gran numero di poesie, che recitava mirabilmente,
aveva un'ammirazione appassionata per i grandi scienziati e i grandi
artisti, visitava studi di pittori e stabilimenti industriali, andava
a cercare ogni uomo illustre per qualsiasi merito, il quale passasse
per la nostra città, presentandoglisi senz'altro titolo che quello
d'ammiratore, come un giovinetto entusiastico. Non ho di lui altra
immagine che quella d'un uomo bianco di capelli e di barba; così mi
sembra d'averlo sempre veduto; eppure non mi pareva vecchio, e non mi
passava mai per la mente ch'egli potesse morire prima ch'io fossi un
uomo fatto, tanto era sano, vigoroso, vivace, anche nei suoi discorsi
in famiglia, pieni di ricordi e di idee, di citazioni e d'arguzie. E mi
ricordo che provavo un gran piacere, come a un segno ch'egli mi desse
di dover vivere lungamente, quando, mettendo io nella sua larga mano
tutt'e due le mie, egli, per scherzo, me le serrava come in una morsa,
fino a farmi cacciare uno strillo, che esageravo, per dargli un'idea
più grande della sua forza. Visse lungamente, sì, ma morì troppo presto
per noi, e per il premio a cui gli dava diritto la sua nobilissima
vita. Povero padre mio, mio maestro e mio amico, che m'hai dato
l'esempio di tutte le virtù e colmato di tutti i benefizi, e ch'io non
ho potuto ripagare con una sola prova di riconoscenza pubblica, io che,
certamente, essendo l'ultimo dei tuoi figliuoli, fui il più doloroso,
il più disperato dei tuoi ultimi pensieri!
E mentre dicevo tra me queste cose, di notte, sentivo nella camera
accanto il suo vaneggiamento compassionevole, delle esclamazioni
affannose e senza senso, che m'entravan nel cuore come colpi di
pugnale, e le parole dolci e tristi di mia madre che lo vegliava; le
quali mi facevano soffrire anche più delle sue. Che terribili notti, e
che terribili giorni!
Cambiamento di rotta.
Ma tanta è la forza della vita a quindici anni che l'animo non rimane
prostrato a lungo neppur dai più grandi dolori; dai quali si divincola,
per rialzarsi impetuosamente, come il getto d'acqua vigoroso che
respinge la mano da cui è compresso. Così avvenne a me dopo pochi
giorni. Della condizione mutata della famiglia, in ciò che riguardava
i mezzi economici, non ebbi alcun dolore, anzi non mi diedi nemmeno
pensiero: eppure era mutata per modo ch'io non avrei più potuto far
gli studi universitari senza sacrifizi gravi di mia madre e dei miei
fratelli. Erano disposti a farli, e li avrebbero fatti lietamente;
lo compresi, e me lo dissero; ma compresi pure che era mio dovere
di prendere spontaneamente una deliberazione che li liberasse da
quell'obbligo; di scegliere, cioè, una carriera che mi mettesse in
grado al più presto di guadagnarmi la vita. Addio, dunque, sognati
trionfi del foro! Ma rinunziai al foro senz'alcun rammarico, come
avevo rinunziato al palcoscenico e al circo equestre. Gli entusiasmi
patriottici erano ancora caldi, il periodo delle guerre nazionali
ancora aperto, la mia passione per l'esercito non del tutto spenta:
scelsi la carriera militare. Fu deciso senz'altro che avrei finito
ancora il secondo corso del Liceo, e che ai primi dell'anno prossimo
sarei entrato in un collegio a Torino, per prepararmi agli esami
d'ammissione alla scuola di Modena. E il buon volere, anzi l'allegrezza
con cui presi quella decisione non fu punto turbata dal fatto, che
acquistassi proprio in quei giorni, lucida e ferma, destinata a non più
cadere, la coscienza di poter riuscire, comunque fosse, uno scrittore.
Fu per un caso, come quasi sempre avviene, che mi s'accese quella nuova
girandola, a fuoco perpetuo.
Una mattina il professore di lettere italiane ci fece fare in scuola
un componimento sul tema: _I Promessi Sposi_. Due giorni dopo, avendo
letto tutti i lavori, ebbe la bontà di sentenziare che il meno peggio
era il mio; ma con una frase assai più cortese di questa, seguita da
vari commenti, che terminavano con una falsa profezia. E fu proprio
quella falsa profezia che decise del mio destino. Avrei forse presa,
più tardi, la medesima strada, anche se non mi ci avesse spinto
allora quel piccolo avvenimento; ma è un fatto che soltanto dopo quel
giorno cominciai a studiare e a scrivere col proposito determinato e
con la speranza viva di riuscire a qualche cosa con la penna, e che
da quel momento in poi la mia passione per la letteratura non ebbe
più intermittenze. Le prime cose che scrissi furono dissertazioni in
forma di lettere, dirette ora all'uno ora all'altro dei miei amici;
ma lettere che mi sarebbero costate un occhio se le avessi mandate per
la posta, e che nessuno avrebbe lette fino a metà, se avessi avuto il
coraggio di regalarle a chi mi era servito di bersaglio per scriverle.
Eran quaderni, e trattavano di tutto, senza dir propriamente nulla,
girigogoli di frasi, fughe interminabili di parole, cascate fluviali
di periodi, non altro che esercizi d'immaginazione e di stile, nei
quali cacciavo a forza tutte le mie reminiscenze di letture, e facevo
dei larghi giri di falco per venire a una data immagine o a una data
locuzione, quasi sempre non mia, che mi pareva un fiore o una perla,
e anche votavo addirittura delle sacca di roba altrui, tinta soltanto
dei colori della mia tintoria, e sparpagliata con cert'arte perchè si
confondesse meglio con la merce dei miei magazzini. Ma c'era pure in
quella prosa di cicalone e di ladro qualche cosa di personale, ed era
la musica, che s'è mutata poco d'allora in poi. Con quegli esercizi
mi sfranchivo la mano a scrivere, imparavo a tradurre in parole il
sentimento quale mi spirava nell'animo, a esprimere in modi diversi il
mio pensiero, a snodare e a annodar fra loro i periodi, a maneggiare
con destrezza il materiale di lingua che avevo già accumulato nella
memoria. E di pari passo con la prosa sfrenavo i versi, perchè credevo
fermamente d'avere tutti i bernoccoli letterari. Avevo letto la prima
volta nella primavera di quell'anno le liriche e le ballate del Prati,
e quell'onda sonora di rime, quel barbaglio di lampi e di colori
m'aveva prodotto l'effetto, che suol fare in un giovane la prima
vista d'una grande sala da ballo sfarzosa, in cui turbini una folla
di belle signore infiorate e gemmate. E le mie poesie erano tutte
un'imitazione quasi plagiaria del “superbo signore dei colori e dei
suoni„ tirate via con una facilità di versaiolo estemporaneo, sonore
come concerti di campane e luminose come fuochi di Bengala; inni e
ballate d'un Prati rimbambito. Ma non posso dire il piacere che godevo
in quelle lunghe ore di scribacchiamento diurno e notturno, in cui
mi giungeva importuna l'ora del desinare e della cena, e mi coglieva
come improvvisa la sera, e non avevo più quasi alcun senso della vita
esteriore. E fu una provvidenza per me quella specie di febbrone
letterario perchè, tenendomi così assorto continuamente, mi faceva
vivere fuori della grande tristezza che pesava sulla mia famiglia, e
quasi dimenticar la sventura. Solo di quando in quando mi s'alzava
davanti tutt'a un tratto l'immagine del povero vecchio che giaceva
immobile in un letto all'estremità opposta della casa, e il pensiero
ch'egli non sapeva nulla di quella mia nuova felicità, che non avrebbe
mai letto nulla nè di quello che scrivevo allora, nè di quanto avrei
scritto nell'avvenire, mi faceva posare la penna e restare un pezzo
meditabondo, con gli occhi pieni di lacrime. Ah, come avrei voluto
ch'egli venisse ancora, come faceva nel passato, a portarmi a copiare
qualche tavola dei suoi progetti di riforma amministrativa, e come mi
pentivo amaramente di non avergli qualche volta nascosta la mala voglia
con cui interrompevo le mie letture per obbedirlo, come mi pareva
odiosa in quei momenti la mia ingratitudine, e con che parole dolorose
e supplichevoli ne domandavo perdono alla sua memoria!
Aspromonte.
Da quella furia di scribacchino mi fece uscire per qualche giorno,
nel mese d'agosto, Garibaldi. Il grido di _Roma o Morte_ ridestò
improvvisamente la fiamma delle mie passioni politiche e mi ricacciò
in mezzo ai miei compagni rivoluzionari a fremere e a vociare
contro “l'uomo di Novara„ e “la sfinge di Parigi„. Noi volevamo, si
sottintende, andare a Roma a qua-lun-que co-sto, e non dubitavamo
neppur per sogno che Garibaldi, il quale moveva allora verso Catania
coi suoi volontari, ci sarebbe arrivato, a dispetto di tutti i diavoli
e di tutti i santi. E non volevamo intender ragioni. A chi ci diceva:
— E se ci assale la Francia? — rispondevamo: — E noi faremo la guerra
alla Francia. — E se ci salta addosso l'Austria? — E ne daremo anche
all'Austria. — Pilade, Oreste, Elettra, a morte tutti. Il giorno
che venne la notizia d'Aspromonte, ci accozzammo una quindicina in
una trattoria, presieduti da un reduce garibaldino del sessanta, uno
sbarbatello indemoniato, che per l'occasione s'era messo in capo il
suo vecchio berretto rosso sdruscito, e, scovata in casa dell'oste una
bandiera stinta e sbrindellata, che non aveva mai visto che il fuoco
della marmitta e pareva un avanzo di venti battaglie, percorremmo la
città cantando l'inno del Mercantini e urlando _Roma o Morte_, fra
lo stupore, i sorrisi e gli sguardi di riprovazione dei cittadini
pacifici, a cui facevamo l'effetto d'un branco di evasi dal manicomio.
Eravamo sopra tutto furibondi contro il colonnello Pallavicini, che era
partito pochi giorni avanti dalla nostra città per andare ad assumere
il comando dei bersaglieri, condotti poi da lui stesso all'assalto
d'Aspromonte; di quei suoi bersaglieri dai quali era partita la palla
fatale che aveva spezzato il piede a Garibaldi; sì, l'avevamo a morte
con quel colonnello Pallavicini, che ci eravamo “scaldato in seno„
per tanti anni, e che ci aveva ripagato della nostra “ospitalità
cittadina„ a quel modo, mordendo a sangue il nostro dio. Qualcuno
parlò di fargli la festa, se avesse avuto la fronte di ritornar fra
noi. La sua promozione a generale inasprì anche di più le nostre
ire, come una provocazione aggiunta all'offese. Si ventilò l'idea
di comprare una sua grande fotografia, che era esposta nella vetrina
d'un libraio, per farne un _auto da fè_ davanti alla Prefettura; ma
ne volevano cinque lire, e preferimmo di spenderle in birra. Salì poi
al colmo la nostra indignazione (e, fuor di scherzo, fu una grande
tristezza) quando vedemmo passare per le vie della città una colonna di
garibaldini prigionieri, che eran condotti a un forte delle Alpi. Come
m'è rimasto impresso quello spettacolo! Saranno stati un centinaio,
fiancheggiati da due file di bersaglieri: i primi in camicia rossa,
uomini maturi la più parte, alcuni coi capelli grigi, e col petto
scintillante di medaglie, figure belle e superbe che camminavano
a fronte alta e a passo risoluto; gli ultimi una frotta di poveri
ragazzi laceri, semiscalzi, dall'aspetto stanco e triste, che diceva
una storia miseranda di digiuni e di stenti; figure di mendicanti,
più che di soldati, che alle nostre grida di: “Viva Garibaldi!„ si
voltavano a guardarci con aria attonita, girando gli occhi intorno come
se cercassero del pane. Ah, che furiose discussioni quella sera, al
caffè, coi nostri amici bersaglieri, che ci chiamavano i _Romaomorti_
e si burlavano dei liberatori di Roma senza scarpe e inneggiavano al
“vincitore di Aspromonte!„ S'affollò gente nella sala, accorse il
padrone, s'andò a un pelo dal fare a pugni. E il nostro nemico, il
vincitore, ritornò finalmente. Lo incontrai una sera a buio, sotto i
portici, vestito da borghese, che andava a passo spedito, guardando
verso la strada, come per raggiungere qualcuno. Gli cedetti il passo,
fremendo, e gli lanciai un'occhiata omicida. Non se ne accorse: aveva
ben altro per il capo. Voltandomi indietro, lo vidi poco dopo uscir di
sotto le arcate e salire in una carrozza patrizia, dove lo aspettava
una bella signora. Le due teste si avvicinarono, la carrozza partì, io
rimasi come un grullo, e Aspromonte restò invendicato.
Un fiume d'inchiostro.
Rientrai allora nella mia fucina letteraria e non ne uscii più per
il rimanente di quell'anno. Ebbi solo qualche giorno di malinconia,
all'aprirsi dell'anno scolastico, pensando ai miei antichi compagni che
entravano nel terzo corso del Liceo, al quale io avevo rinunciato: un
sentimento come di nostalgia della scuola, ch'io lasciavo prima d'aver
compiuti gli studi, e più che altro di rimpianto degli studi classici
abbandonati, come d'uno scadimento della mia dignità intellettuale.
Ma fu una malinconia presto soverchiata dall'ardor del lavoro, se
può darsi questo nome a quella mia eruzione di parole, che riprese
dopo i giorni d'Aspromonte più copiosa e più violenta che mai. Rimasi
veramente stupefatto quando, molti anni dopo, ritrovai in fondo a un
cassone i miei manoscritti di quel tempo, d'aver potuto rovesciar
sulla carta in pochi mesi un tal diluvio d'inchiostro: racconti,
dialoghi, satire, paralleli di scrittori, pappolate filosofiche: una
specie di _Decamerone_, fra le altre cose, che Dio e il Boccaccio me
lo perdonino. La mia passione prese davvero in quell'ultimo periodo
il carattere d'una malattia mentale, degenerando di letteraria in
libraria, in un bisogno pedantesco e puerile di vedere i miei parti
in forma di volumi stampati e legati, con gran lusso calligrafico
d'intestazioni, di indici e di fregi, e ciò che è più strano, immuni
di correzioni quanto più fosse possibile; tanto che ci lasciavo spesso
intatti dei grossi spropositi per non deturpare la pagina con un
frego. E come non mi spiego da che mi nascesse quella fisima, poichè
non davo a leggere le mie “opere„ neppure agli amici più stretti, non
capisco neppure il perchè di quella smodata produzione, non pensando io
neppur per ombra a dare alle stampe quelle bracciate di prosa. Avevo
bisogno di scrivere, credo, come avevo avuto l'anno avanti il bisogno
di saltare e di arrampicare; erano umori del cervello che dovevan dar
fuori; bisognava che m'affaticassi le facoltà eccitate per castigarle
e renderle atte più tardi a un lavoro pensato e tranquillo. Nondimeno,
mi vergogno ancora un poco, quando ci ripenso, di quella lunga orgia
di letteratura, la quale mi dimostra quanto stessi ancora male a buon
senso in quell'anno, quantunque mi cominciassero a spuntare i baffi. Mi
conforta solo il ricordare che non mi facevo grandi illusioni intorno
al valore intrinseco dei miei finti libri; dei quali, per mia fortuna,
ero io l'unico lettore. Il che non toglieva, peraltro, che io avessi
la certezza, ma proprio la certezza assoluta di riuscire un giorno a
qualche cosa, la previsione netta e sicura che la carriera militare non
sarebbe stata che un episodio della mia vita, che la mia vera ed unica
vocazione fosse quella di metter del nero sul bianco a beneficio del
genere umano. Non era una certezza fondata sui saggi che davo di me a
me medesimo in quel periodo di esercitazione letteraria meccanica; ma
sul presentimento di facoltà che sarebbero poi sorte nella mia mente,
su promesse confuse della coscienza, su non so quale armonia che mi
suonava dentro, non ancor formulata in idee, vaga, profonda, dolce,
continua, su non so che cosa che mi sentivo correre per le vene e
per le fibre e brillare sotto la fronte e nel cuore, e ch'io pensavo
sarebbe sgorgato fuori come uno zampillo di fuoco per effetto d'un
avvenimento inaspettato, dello spettacolo d'una città nuova, della
compagnia di nuovi amici, della vita libera, dal dischiudersi delle
porte dorate della gioventù, di cui stavo per varcare la soglia.
La partenza.
Venne finalmente il giorno della partenza per Torino. Parrebbe ch'io
avessi dovuto lasciar con dolore quella casa dov'ero entrato bambino e
donde partivo giovinetto, e quella piccola città, che era per me come
la città nativa, dov'ero vissuto quattordici anni, dov'ero cresciuto
così sano e forte e lasciavo tante memorie. Eppure questo non fu. La
prima età ha di questi momenti di duro egoismo, in cui la furia d'uscir
del guscio, l'ebbrezza di mutare orizzonti e di slanciarsi nella vita
preme con tanta forza su tutti gli altri affetti, da cacciarli quasi
dal cuore. Quella città, che doveva diventarmi poi così cara, mi si
era fatta in ultimo intollerabile. Vi conoscevo tutti i visi, avevo
impresse nella mente le facciate di tutte le case, potevo rammentare
per ordine tutte le botteghe di tutte le strade, e questa conoscenza
di tutto mi dava un senso di sazietà d'ogni cosa: perfino dall'aspetto
dei dintorni bellissimi, che m'erano stampati nel cervello sentiero
per sentiero e albero per albero, mi veniva un tedio infinito: mi
dibattevo fra quelle mura come un falchetto in una stia da uccellino;
sentivo una tale smania d'andarmene che il solo odore del fumo della
strada ferrata, alle volte, mi faceva fremere come fa l'amante al
profumo d'un fiore regalatogli dalla sua bella. E ciò non ostante
non m'è rimasta nella memoria alcuna traccia dei particolari della
partenza: non mi ricordo neppure degli addii dati in casa, nè di chi
m'abbia accompagnato alla stazione, nè dello stato d'animo, triste o
lieto, in cui mi ritrovavo all'ultimo momento. Mi ricordo soltanto che
il giorno prima della partenza chiamai a raccolta nel cortile quelli
che rimanevano dei miei antichi compagni scamiciati di gioco e di
milizia, e che distribuii fra tutti, perchè ne facessero un regalo ai
loro fratelli piccoli, quanto mi era restato in casa dei miei trastulli
della fanciullezza: stampe colorite, che rappresentavano soldati
francesi e italiani, casette e figurine di presepio, e trombe e daghe
di legno dei miei tempi bellicosi. Solo allora, quando vidi portar via
quella roba che m'era stata un tempo così preziosa, provai un senso
di tenerezza e di mestizia, come se in quel punto si fosse spezzato
il legame che teneva ancora unito in me il giovinetto al fanciullo,
e quei giocattoli fossero stati una parte viva di me, che morisse in
quel punto, e la portassero a seppellire. V'è da quel momento un buio
nella mia memoria fino a quello in cui mi trovai solo in un vagone, sul
treno che andava a Torino, con una grande sacca coricata sul sedile,
dentro la quale c'era tutta la compagnia dei grossi burattini dalle
teste di legno, scolpite dal mio buon padre, che avevan deliziato non
solo la mia, ma anche la fanciullezza dei miei fratelli, e che mia
madre m'aveva affidati con molte raccomandazioni perchè li portassi
a un mio nipotino di Torino. Vedo ancora quella vecchia sacca da
viaggio ricamata a colori vistosi, e quasi risento sotto le mani le
teste dure di quegli antichi amici, che facevan gobba da tutte le
parti. E a questo ricordo mi vien sulle labbra un sorriso d'ironia
malinconica. Sì, proprio, in quella sacca era chiusa l'immagine del
mio avvenire. Ahimè! Che cosa ho fatto altro nella vita che far ballare
dei burattini? E non ho nemmeno la coscienza d'essere stato un grande
burattinaio. Eccomi qui, coi capelli bianchi, già preparato a un'altra
partenza, e mi pare d'aver di nuovo accanto quella sacca. Allora
c'era chiuso il mio avvenire, ora c'è chiuso il mio passato. _Vanitas
vanitatum_: ecco il fondo delle cose, e la conclusione di tutto. Quando
queste parole, che sogliono rattristar l'animo e offender l'orgoglio
dell'uomo, gli son diventate un conforto, vuol dire che il suo cammino
è finito.
Un mistero.
Quella città, non più riveduta che due volte in trentaquattro anni,
e non ricordata che raramente, e di sfuggita, e senz'affetto, nel
tempo della gioventù, ha preso poi nel mio spirito, nell'età matura,
una vita intensa e quasi risplendente, mi è diventata oggetto fino
a questi giorni di sempre più frequenti e più vive riflessioni. E in
questo non è nulla di singolare, perchè, meditando l'uomo sul mistero
di sè medesimo, via via che invecchia, sempre più assiduamente, è
naturale che risalga sempre più spesso col pensiero ai propri principi,
e quindi ai luoghi dove passò l'infanzia. Ma singolare è che a quella
città io ritorni sempre più sovente nei sogni, e strano, inesplicabile
per me che questi sogni siano tutti lo svolgimento d'uno stesso fatto
doloroso, e impossibile ad un tempo. Mi ritrovo nella strada maestra,
fiancheggiata da un capo all'altro da un doppio ordine di portici
bassi, in un'ora che non è nè di giorno nè di notte, poichè i portici
è la strada sono qui oscuri, là rischiarati da una luce di crepuscolo,
altrove come ingombri d'una nebbia fitta, che ora si squarcia, ora si
riaddensa; ma è l'ora della passeggiata domenicale, poichè va e viene
gente da tutte le parti, e le botteghe son chiuse. In ogni sogno sono
arrivato allora allora, con un vivo desiderio di ritrovare gli antichi
amici molti dei quali vivono ancora; mi caccio tra la folla, e vo
innanzi cercandoli con lo sguardo, curioso e impaziente. Ma cammino
e cammino, e non ne incontro nessuno, e non rivedo neppure, fra tutta
quella gente, uno solo dei tanti visi noti, che mi si presenterebbero
nella realtà, e che dovrei incontrare per questo anche in sogno.
Invano ricorro da un capo all'altro i portici di destra e di sinistra,
osservando i crocchi davanti ai caffè, le brigate che passano e i
gruppi che stan fermi alle cantonate, dove sempre ne vedevo qualcuno,
quando vi passavo da ragazzo: non riconosco anima viva. È tutta una
popolazione sconosciuta, come mi sarebbe quella d'una città dove non
fossi mai stato. Vedo spesso venir verso di me, in quella luce incerta
di foresta, una persona che mi par di quelle ch'io cerco, e dico tra
me, rallegrandomi: — È il tal dei tali! — ma, andandogli incontro,
m'accorgo d'aver sbagliato: è un altro, un ignoto. A poco a poco la
folla si dirada, percorro lunghi tratti deserti, fiancheggiati da
edifizi non mai veduti, da alti muri di fortezza o di carcere, da
case e da muri di cinta in rovina; mi trovo in mezzo alla campagna,
solo; rientro un'altra volta sotto i portici, dove non suona più il
passo che di pochi solitari: corro dietro all'uno, corro incontro
all'altro: nessun amico, nessun conoscente; nessuno mi riconosce,
nessuno mi guarda; chi svolta a destra, chi svolta a sinistra, tutti
scompaiono. Corro a casa degli amici più stretti, agli uffici dove
sono impiegati, a quella tal farmacia, in quel dato caffè che so che
frequentano: non c'è nessuno, non c'è che sconosciuti; suono, picchio,
chiamo, domando ad alta voce: — Il tale? Il tal altro? — Nessuno sa
nulla. Affannato, addolorato, mi rimetto a correre per la via maestra,
infilo i vicoli laterali, giro e rigiro in mezzo a case che riconosco,
non so come, benchè non sian più quelle d'una volta, per crocicchi e
per piazzette che si allargano e si restringono come se gli edifizi
dintorno danzassero, per vicoli che s'allungano e si perdon nelle
tenebre, intorno a vecchie chiese che si trasformano al mio avvicinarsi
in cattedrali enormi, e da per tutto incontro, fiancheggio, raggiungo
delle ombre umane; ma da nessuna parte rivedo un amico, un conoscente,
un viso del passato. E questa corsa angosciosa dura fin che mi
risveglio, col cuore pieno di tristezza. Da anni e anni faccio sempre,
con poche variazioni, questo medesimo sogno. È impossibile che non ci
sia una ragione. L'ho cercata molte volte, meditando a lungo; ho anche
letto dei libri di onirologia scientifica, con la speranza di cavarne
qualche lume a scoprire il mistero: non ci ho trovato nulla che mi
giovasse. Eppure, dico, una ragione ci ha da essere, nella mia vita,
nella mia coscienza, che so io? una ragione che dispero di ritrovare,
ma che son persuaso non possa essere che triste, e legata strettamente
con altri misteri dell'anima, tristi del pari, che non mi saranno
svelati mai. Per questo non la cerco più da qualche tempo. Ora se una
voce soprannaturale mi dicesse: — La so, — e mi domandasse: — La vuoi
sapere? — risponderei: — Voglio ignorarla. — Sarà una superstizione
indegna d'un uomo; ma è così. _Ho paura non so di che_, come l'Osvaldo
dell'Ibsen. E non di meno desidero sempre di rifare quel sogno, tanto
è cara al mio cuore, tanto mi par bella anche non popolata che di
spettri, tanto mi attira e mi affascina quella piccola città alpina,
dove l'età più felice della mia vita si chiuse con la morte del più
saggio e dolce amico ch'io abbia avuto sopra la terra. Cuneo è la
città, e pronuncio con sentimento di riverenza e di gratitudine questo
nome, il quale mi desta la visione d'una città immensamente lontana,
posta quasi ai confini del mondo, che si disegna in contorni azzurri
sulla bianchezza d'un'alba luminosa.
BAMBOLE E MARIONETTE
IL “RE DELLE BAMBOLE„.
Così lo chiamano molte delle sue piccole clienti, ed è Gerardo Bonini,
inventore, fabbricante e negoziante di bambine inanimate, che ha la
bottega in via Roma. Non è difficile trovarla perchè vi si vede davanti
a tutte le ore del giorno una schiera di ragazzine del popolo che,
ammirando le vetrine, si scordano dell'involto, del cavolo o delle
pagnotte che debbono portare a casa, per abbandonarsi a un'orgia di
desideri. E tutte le signorine piccole che passan di là, condotte per
mano dalla mamma o dalla governante, per una ventina di passi tirano
l'accompagnatrice, sporgendo il viso innanzi, e per un'altra ventina di
passi si fanno tirare, torcendo il capo indietro.
Passando di là una mattina, mi ricordai d'un giorno che, avendo detto
in casa mia, in presenza della figlioletta d'una nostra vicina: — _A
momenti verrà il Bonini_ (un mio amico ufficiale), — quella, illusa
dall'omonimia, diede uno scatto sulla seggiola, come se avessi detto:
— A momenti verrà l'Imperatore di tutte le Russie; — e quel ricordo mi
destò curiosità di conoscer l'uomo e le sue opere.
Pensai di presentarmi senz'altro. — Ho lavorato anch'io per i bambini,
— dissi tra me; — non sdegnerà di ricevermi come un collega. — Ed
entrai in quella bottega stretta, lunghissima, male rischiarata;
ma che alla fantasia di bambine innumerevoli appare più vasta e più
sfolgorante del palazzo imperiale degl'Incas.
Il Bonini stava in fondo alla sua reggia piena di tesori visibili
e invisibili, leggendo la _Gazzetta del popolo_, come uno oscuro
cittadino qualsiasi. È un ometto sui cinquanta, di viso intelligente e
benevolo, dotato di quella dolcezza particolare di modi che è propria
di tutti coloro che hanno una clientela fanciullesca signorile, siano
essi bottegai, sarti, medici o ripetitori. Temetti non di meno, per un
momento, che il suo aspetto mi avesse ingannato perchè, appena inteso
lo scopo della mia visita, afferrò per i piedi una delle sue bambole, e
a modo dell'Eviradnus di Victor Hugo col cadavere del piccolo Ladislao,
- Parts
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 01
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 02
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 03
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 04
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 05
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 06
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 07
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 08
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 09
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 10
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 11
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 12
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 13
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 14
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 15
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 16
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 17
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 18
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 19
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 20
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 21
- Ricordi d'infanzia e di scuola - 22