Ricordi d'infanzia e di scuola - 05

a spettacoli d'arte desiderati e a trattenimenti intellettuali
fecondi, non per altro che per soddisfare il bisogno volgare che
stavo per imporre irrimediabilmente alla mia gola e al mio cervello,
condannandomi per tutta la vita a respirare un'aria impura e a legger
libri e a vestir panni e a mandar pel mondo dei fogli impregnati
dell'odore del mio vizio; se avessi potuto antivedere, infine,
quante dure lotte, dalla giovinezza fino all'età matura, avrei dovuto
sostenere per liberarmi da quel vizio, destinate a finir tutte quante,
dopo giorni e mesi di sforzi penosi, con una vile dedizione al nemico,
non lasciandomi altro conforto che quello di veder immuni dalla
mia tabe i miei figliuoli, e amareggiato anche quello dal rimorso
d'ammorbar loro la casa e dalla vergogna di stampar sulle loro guance
dei baci attossicati; ah, se avessi presagito allora tutto questo, con
che ribrezzo avrei buttato via quello sciagurato mozzicone di sigaro
che stavo per cacciarmi fra i denti, e che, dopo quarant'anni, mi
brucia ancora la bocca e la coscienza!
*
Ma già anche prima del sigaro io ero da un po' di tempo sur un brutto
sdrucciolo. Proprio, venivo pigliando la piega del cattivo soggetto.
Che era stato? Cattivi germi, assorbiti qua e là, ammucchiandosi a
poco a poco e andando in fermento, cominciavano a dar fuori; di quei
germi che son come nell'aria e che tutti i ragazzi assorbiscono, salvo
che sien tenuti sott'olio come le sardelle. Scatti di ribellione,
bugiarderia, secchezza d'animo, volgarità di linguaggio, predilezione
pei compagni sbarazzini, e propositi, più che altro, di bricconate;
ma anche qualche piccola bricconata che, sebbene commessa in casa,
avrebbe meritato qualche settimana di carcere correzionale, furono
le prime manifestazioni del serpentello maligno che m'era entrato
in corpo. Fors'anche perchè quell'anno era stato per me un anno di
cresciuta straordinaria, quasi maravigliosa, prevaleva alla virtù
dello spirito l'animalità imbaldanzita. Ma il male non era veramente
profondo, poichè, anche nei giorni peggiori, sebbene rispondessi duro e
arrogante anche a mia madre, pure i suoi rimproveri m'entravano sempre
nel cuore; e più che i rimproveri suoi mi turbava il contegno di mio
padre, che s'era mutato con me: il suo aspetto severo e freddo, il
proposito manifesto ch'egli metteva in atto di non rivolgermi la parola
e di non incontrare il mio sguardo mi facevano soffrire così nel vivo,
che mangiavo in furia molte volte e scappavo da tavola il più presto
possibile, col cuore serrato. Non ebbi nessun castigo, e credo che sia
stato meglio. Credo che tutti i ragazzi passino per crisi somiglianti,
le quali son per l'animo ciò che la tosse asinina e i bachi per il
corpo, e che i parenti non se ne debbano spaventare, nè ricorrere ai
grandi mezzi di correzione, lasciando invece che il male, fatto il
suo sfogo, se ne vada da sè; che è ciò che segue sempre, quando la
natura del figliuolo non è trista affatto; nel qual caso valgon poco o
punto i castighi. Quello che mantenne vivo e cocente in me per tutta
la vita il rimorso d'aver amareggiato mio padre e mia madre in quel
periodo fu appunto il fatto di non esser stato punito da loro come
meritavo. A poco a poco lo stato violento di coscienza in cui vivevo
mi divenne insopportabile. Ero già preparato a un pieno ravvedimento:
non occorreva più che una spinta, e il caso me la diede. Mia madre fu
presa una notte da un grave malore, si mandò per il medico, la casa
fu sottosopra; io la intesi gridare dalla mia camera con accento di
dolore disperato: — Ah mio Dio, morire! Lasciare quel figliuolo ancora
così ragazzo! — Quel grido mi snodò il cuore, scoppiai in pianto,
m'inginocchiai sul letto, ridissi la preghiera che non dicevo più da un
pezzo, supplicando Iddio che non mi togliesse la mamma, — e quando essa
fu fuor di pericolo, io era uscito di malattia.
*
Erano incominciate le vacanze. Mi invase allora, come accade prima o
poi a ogni ragazzo, il furore delle letture romanzesche; se pure si
può chiamar “leggere„ il divorar l'un sull'altro decine di romanzi,
dalla mattina alla sera, senz'un'ora di respiro, fino ad averne la
mente e la vista offuscate, fino a passar più giorni di fila, come
a me accadeva, senza veder nè le Alpi nè il cielo, sempre coi pugni
sul libro, col mento sui pugni e con gli occhi sul foglio. Cascai
prima sui romanzi del Dumas padre, e il primo di questi fu il _Conte
di Montecristo_, che rimase sempre il mio preferito, non solo perchè
mi parve e mi pare ancora il più maraviglioso per la favola e il più
attraente per l'arte del racconto, ma anche per il fatto che mia madre
mi aveva dato pensatamente il nome di battesimo del protagonista,
per aver letto con molto piacere quel romanzo mentre stava aspettando
ch'io venissi al mondo. Seguirono a quello non so quanti altri, che
poi mi si confusero tutti nella mente in un solo romanzo enorme di
migliaia di personaggi e di avventure d'ogni tempo e d'ogni paese. Ma
questa furia s'arrestò ad un tratto, fortunatamente, per effetto della
lettura d'un libro, che doveva aver poi un influsso straordinario sul
mio pensiero e sul mio cuore, per tutta la vita. Non avevo letto sino
allora dei _Promessi Sposi_ che poche pagine sparse per le Antologie
scolastiche. Non ricordo che alcun professore delle prime scuole ce
ne consigliasse con insistenza la lettura. Misi un giorno la mano
sul romanzo, un'edizione di Vincenzo Batelli di Firenze, del 1827, in
tre volumi, che conservo ancora. Incominciai a leggere. L'effetto fu
maraviglioso. Mi sentii come preso da mille uncini e da mille lacci
sottilissimi, che mi avvolsero e mi strinsero, penetrandomi fin nel più
profondo dell'anima. Fu un diletto continuo e vivissimo, non interrotto
punto, nè quasi scemato dalle digressioni storiche e dalle descrizioni
minute che soglion seccare i ragazzi, rotto spesso da commozioni
violente, che mi strappavano il pianto, accompagnato dal principio
alla fine da un consenso pieno e dolcissimo di tutti i sentimenti e di
tutti i pensieri. Non distinguevo l'un dall'altro, mi ricordo bene,
ma sentivo confusi tutti insieme gli effetti di quell'arte profonda
e semplice, dell'armonia delle facoltà, della misura sapiente, della
logica finissima, della trasparenza cristallina dello stile, di quella
musica grave e delicata, e quasi segreta, che par che venga più dal
pensiero che dalla parola, e suoni nell'anima senza che l'orecchio la
senta. Non poteva essere compiuta la mia ammirazione; ma la simpatia
fu tale da non poter più crescere. Presentii fin dalla prima lettura
che avrei riletto quel libro mille volte, anche da uomo. Una quantità
d'immagini, di sentenze e di frasi mi s'impressero subito e per sempre
nella memoria. Mi rimase nell'animo una serenità, una pace, quasi una
compostezza, che m'era prima sconosciuta; quasi un'armonia sommessa,
alla quale s'intonò per un pezzo la voce di tutto il mio essere. Mi
parve che entrasse nella mia vita un amico, un maestro aspettato da
lungo tempo, e il cuore mi diceva che non ne sarebbe uscito mai più.
Posso dire che la lettura di quel libro segnò per me il passaggio dalla
fanciullezza all'adolescenza.
*
Riandando col pensiero quei primi anni, sono sempre ricondotto, per
ciò che riguarda l'educazione dei figliuoli, alle stesse conclusioni;
non nuove per certo, ma, a mio avviso, non mai abbastanza stampate. Son
persuaso che c'è meno pericolo a lasciare ai ragazzi una certa libertà,
ed anche una libertà larga, che a tenerli a catena, perchè riconobbi
che gl'incatenati, che son come anime compresse, non solo non riescon
migliori, ma peggiori dei liberi, non foss'altro per l'arte più fine
della simulazione, che suole poi essere cagione ai parenti di grandi
disinganni. Son persuaso che è fatica perduta affatto quella gran cura
che metton molti a mantenerli nell'ignoranza di certe cose, delle quali
essi acquistano in ogni modo, per mille vie impossibili a precludersi,
la cognizione precoce; e che, ciò essendo, è perniciosissimo e stupido
il tenere in presenza loro certi discorsi, come quasi tutti fanno,
con parole coperte, nella fiducia che essi non li intendano, poichè
o li intendono, o capiscono se non altro che i loro parenti tengono
dei discorsi che non dovrebbero, ma da cui non sanno astenersi, perchè
ci trovan piacere; onde questi scadono nella loro stima, facendo per
giunta davanti a loro una figura ridicola. Son persuaso che non ci sia
nulla di più dannoso all'intelligenza e alla fibra dei ragazzi che il
costringerli, per mandarli avanti presto, a studi prematuri, perchè,
se anche ci reggono da principio, scontano immancabilmente lo sforzo
più tardi, uscendone con le facoltà fiaccate e spuntate, compresi
d'una sorda avversione per la scuola, e non più sospinti dal bisogno di
leggere e di studiare da sè, per curiosità e per diletto. Son persuaso
che lo spettacolo più nocivo all'educazione loro, il più funesto per il
loro cuore e il loro carattere sia quello della discordia, degli urti
anche più leggieri tra padre e madre, nei quali si sbriciola l'autorità
di tutti e due, ledendo nel ragazzo il concetto della santità
della famiglia, e lasciandogli dei ricordi incancellabili che gli
offuscano più tardi nel cuore le loro immagini, e vi diventan radici
inestirpabili di scetticismo. Son persuaso che è sacrosanta verità
la sentenza del Capponi, che le cose udite, non le insegnate, formano
l'animo dei fanciulli, ossia tutto ciò che di buono e di gentile essi
intendono, che è detto in presenza loro spontaneamente, senza pensare a
loro, per impulso d'istinto e di coscienza; e che perciò ammonimenti,
consigli, prediche, e anche castighi, tutto è fiato e rigore sprecato
se essi non vedono che nei loro parenti corrispondano perfettamente ai
precetti il carattere, la vita, lo spirito dei discorsi impremeditati
e abituali. Ho visto mia madre intesa tutta e sempre alle cure della
famiglia, scevra d'ogni vanità femminile, aborrente dai pettegolezzi,
impietosita d'ogni sventura altrui, caritatevole ai poveri, facile al
perdono con tutti; ho visto mio padre lavorar dalla mattina alla sera
con uno zelo d'impiegato esemplare, occuparsi in tutti i ritagli di
tempo dei suoi figliuoli, e studiare, quanto gli era concesso, tutta
la vita per coltivare il proprio spirito; ho intuito sin da bambino
che mia madre era una donna buona e onesta e che mio padre era un
uomo retto e generoso: questi sono stati gl'insegnamenti più efficaci
ch'io abbia avuto da loro. Fu l'esempio che mi diedero che mi ritenne
sulla buona via ogni volta che fui sul punto d'uscirne; fu il ricordo
delle loro opere che mi fece sempre ripentire e ravvedere d'ogni atto
insensato e ignobile. Tutto il resto, nel campo dell'educazione, è
vuota ciancia e vessazione inutile. Non serve fingere coi figliuoli,
e far due parti, l'una per loro e l'altra secondo il comodo proprio;
è anzi meno peggio il lasciarsi vedere come si è, coi nostri difetti
e con le nostre debolezze; chè, se non altro, così mostrandoci, siamo
stimati sinceri. V'è un modo solo di educare: vivere degnamente. Ma è
difficile, si capisce.


In _Umanità_.

Mi parve di aver fatto un gran salto in su nella gerarchia scolastica
quando invece di alunno di Grammatica potei dire: — Sono alunno
d'Umanità, — benchè non capissi punto in quale significato fosse usata
quella parola; anzi appunto perchè non lo capivo: cosa frequente anche
fra i grandi.
Era entrata quell'anno nelle scuole un'infornata di nuovi professori,
la più parte giovani e bravi; tre dei quali nella mia classe, che
corrispondeva alla quarta del Ginnasio attuale. Il solo professore
di lettere italiane e latine non era nè giovane nè bravo, sebbene
non mancasse nè di coltura nè di buon volere; era uno di quei molti
insegnanti a cui manca l'arte specialissima dell'insegnamento, rara
a trovarsi perfetta, anche fra gli uomini di gran levatura, come le
voci di tenore; tanto ch'io dubito che Dante sarebbe stato un buon
professore di Liceo. A quello poi non mancava soltanto l'ispirazione,
ma addirittura il calorico animale; una tinca fredda, l'avrebbero
chiamato in Toscana. Per questo rispetto era un vero originale, e
perciò ne faccio lo schizzo. Egli insegnava letteratura come avrebbe
insegnato computisteria; nessuna quistione d'arte o di storia
letteraria, nessuna bellezza poetica lo faceva mai uscire neppure
un momento dalla sua quiete beata, nè alterava la grave monotonia
della sua voce che rassomigliava al rumore d'una macchina da cucire,
nè la placidità immobile del suo buon faccione di padre guardiano.
E in questa maniera otteneva effetti maravigliosi. Pareva che con
la sua voce si espandesse nella scuola un'esalazione continua di
cloroformio, che assopiva gli spiriti più vivaci, domava a poco a poco
i temperamenti più irrequieti e otteneva una disciplina di convento. In
anni posteriori conobbi parecchi altri insegnanti della stessa natura;
ma nessuno dotato d'una tal potenza addormentatrice. Era contento di
noi, diceva che eravamo una scolaresca tranquilla. E sfido: egli ci
recideva ogni forza di ribellione come per virtù di magia. Ma lascio
immaginare che buon pro facessero la letteratura italiana e la latina
servite in una tal salsa di papavero.
C'era per altro chi ci svegliava. Era il professore d'aritmetica,
un omino tutto nervi, con una bella testa riccioluta, elegantissimo,
pieno d'ingegno e d'argento vivo; il quale si fece poi un nome nelle
matematiche. Questi insegnava mirabilmente; ma era impaziente come
un poledro stallino e rabbioso come un gallo andaluso. Inclinato per
la sua natura violenta a picchiare, ma rattenuto dalla prudenza, ed
anche dalla buona educazione, aveva trovato, per sfogarsi, qualche cosa
di mezzo tra la percossa, che era proibita, e gli epiteti forti, che
non gli bastavano: il pizzicotto; ma non quello semplice, che sarebbe
stato una bazza: una specie di pizzicotto rotatorio. Quando lo scolaro
chiamato alla lavagna non capiva le sue spiegazioni, egli s'alzava,
gli afferrava il braccio sotto alla spalla con l'indice e il pollice, e
stringeva e torceva fin che quegli capisse. In quell'esercizio, ch'egli
faceva certo da parecchi anni, le sue dita avevano acquistato una forza
di tanaglie. Era un'idea sua che la matematica si dovesse inoculare in
quella maniera, come il vaccino. Dopo due mesi di scuola eravamo quasi
tutti segnati, tanto che ai primi calori, quando ci andavamo a bagnare
nel torrente, i suoi alunni si riconoscevano fra quelli delle altre
classi, alla bollatura, come i giumenti delle mandre argentine, e si
poteva anche distinguere fra di essi, alla maggiore o minore estensione
e intensità di colore dei lividi, il diverso grado di disposizione che
avevan per la scienza. E ciò non ostante, gli volevan tutti bene perchè
del suo insegnamento tutti s'avvantaggiavano. Egli ci faceva veder
le stelle, ma anche capir l'aritmetica, ed era anche giusto, perchè
pizzicottava signori e poveri diavoli con egual vigoria. Per nulla al
mondo l'avremmo voluto cambiare con un professore di mano più dolce, ma
di metodo didattico meno efficace; tanto è grata la gioventù scolastica
a chi le agevola lo studio, anche martirizzandole le carni.
Un altro professore valentissimo, anzi perfetto, era quello di storia;
il quale provava mirabilmente col fatto come il miglior mezzo di
tener la disciplina sia la fermezza del carattere e la dignità delle
maniere. Egli aveva tutti i giorni lo stesso viso e lo stesso umore,
come un uomo in cui non potesse alcuna passione; non pizzicava, non
gridava, quasi non rimproverava neppure: e non di meno, credo che se
ci avesse fatto lezione il re d'Italia in persona non avrebbe ottenuto
maggior silenzio e maggior rispetto. Entrato lui nella scuola, non
rifiatava più nessuno; un suo sguardo severo bastava a rimettere a
dovere i più audaci; non lo udimmo dire in tutto l'anno una parola più
forte dell'altre. E le sue lezioni eran piacevoli, benchè leggermente
colorite di rettorica e fatte con intonazione un po' predicatoria. A
renderlo autorevole e simpatico giovava molto anche il suo aspetto,
poichè era il più prestante professore della famiglia, un giovane
bellissimo, di statura alta e di portamento maestoso, vestito sempre
con grande eleganza, e privilegiato d'una capigliatura e d'una barba
d'un biondo d'oro, che eran l'ammirazione di tutto il bel sesso e
l'invidia di tutta la gioventù brillante della città; e non lasciava
trasparire per questo il menomo segno di compiacenza vanitosa o
d'orgoglio, chè anzi, s'egli aveva un difetto, era quello di non
rallegrar mai la scuola con un sorriso, e di dire anche gli scherzi,
rarissimi, e sempre relativi alla sua storia, con una gravità di
magistrato. Lo temevamo ed eravamo tutti pieni d'entusiasmo per lui,
tanto che una sua parola di lode, un semplice _bene_ o anche solo un
cenno approvativo del capo davano pure ai più apatici una soddisfazione
grandissima. Mi ricordo che fui veramente afflitto e morso dalla
vergogna una volta ch'egli rispose a mio padre, che gli chiedeva
informazioni: — Potrebbe fare; ma, Dio buono, è tanto distratto! — e
che da quel giorno stetti in iscuola come una statua.
Proprio l'opposto di lui era una povera anima di professor di
francese, un'effigie di fattor di campagna cinquantenne, tarchiato
e sanguigno, che non riusciva a farci chetare un minuto, e che noi
tormentavamo barbaramente, andando alle volte otto o dieci intorno
al suo tavolino, con la grammatica in mano, col pretesto scellerato
di chiedergli spiegazioni, che chiedevamo apposta tutti insieme ad
alta voce. Quando capiva il gioco, perdeva i lumi, scattava in piedi,
e si metteva a sprangar calci da tutte le parti e a inseguir l'uno
dopo l'altro per darci il resto, saltando in giro per la scuola
come un mulo infuriato, fin che andava a ricader sulla sua seggiola
sfinito e convulso, trattandoci di vigliacchi e di banditi. Povero
professore! E portava per nostra meritata disgrazia degli scarponi di
montanaro, che ci sollevavano da terra come palle di gomma, lasciandoci
le traccie dell'inchiodatura nei dintorni dell'osso sacro. Ma non
ci faceva entrare il francese da nessuna parte. Colpa meno sua che
della consuetudine stupida, non ancora smessa affatto, di non dare
nelle scuole la grande importanza dovuta allo studio di quella lingua
necessaria a tutti; la quale moltissimi debbono studiare in furia più
tardi sotto la stretta del bisogno, imparandola male per sempre, e dopo
aver fatto una lunga serie di figure ridicole.


Tenorino fallito.

Dallo studio mi distrasse disgraziatamente in quell'inverno l'illusione
risuscitata d'avere una bella voce di tenore, in grazia della quale
avrei dovuto fra due anni lasciar la filosofia per darmi alla musica;
e l'idea del cambiamento non mi atterriva. È quello l'episodio della
mia adolescenza che, a ricordarlo ora, mi fa ridere più saporitamente
d'ogni altro alle mie proprie spalle. Illusione “risuscitata„ ho
detto, perchè l'avevo avuta già tempo prima, essendomi inteso dire fin
da piccino che avevo una bella voce, in special modo da mia madre,
che spesso mi faceva cantare; ma non m'ero mai curato gran fatto di
quel supposto dono della natura. Mi nacque la passione del canto e la
speranza di poter far fortuna con l'ugola soltanto in quell'inverno,
nel quale mio padre mi condusse varie volte a sentir l'opera in musica;
e fu una frenesia vera, come quella dei soldati e della pittura,
e che durò dei mesi. Solfeggiavo per tutta la giornata, in casa e
per la strada, e per le scale della scuola, e perfino nel teatro,
mentre cantavano i miei maestri, e in tutti i luoghi e i momenti in
cui potessi non essere udito cantavo con quanta voce avevo in canna,
come se mi fossero già pagate le note un marengo l'una. Una vocina
passabile l'avevo; ma una miseria, e mancavo d'orecchio: stonavo
come un ubbriaco. E capivo bene che, così come era, la mia voce non
meritava nemmeno di esser coltivata per spasso, nè per metallo, nè per
estensione. Ma con la maravigliosa facoltà che ebbi sempre d'ingannar
me stesso mi persuadevo che da una settimana all'altra, per effetto
di cause diverse, la voce mi sarebbe venuta come la volevo. Dicevo:
— Mi verrà quando smetterò di fumare; — poi: — quando non berrò più
che acqua; — poi: — quando non mangerò più dolci, che son quelli che
mi rovinano, non altro, — e quantunque dopo ciascuna prova seguitassi
a strillare come un uccello spennato vivo, pure persistevo a sperare,
accagionando il difetto ora a un raffreddore, ora a una infiammazione
di gola, ora all'aver troppo forzato il soffietto. E questa passione
tirava con sè un corteo di altre piccole ridicolaggini. Non solo facevo
dei gargarismi dalla mattina alla sera, ma imitavo il passo e il gesto
dei cantanti; non solo imparavo a memoria, ma mi copiavo in bella
calligrafia i libretti d'opera; e non cantavo soltanto in città, ma
per sfogare più sfrenatamente le mie forze vocali facevo apposta delle
corse in campagna, dove abbaiavo agli alberi per dei quarti d'ora, e
mettevo in fuga uccelli da tutte le parti. Ma, ahi! (l'interiezione è
imitativa) non ci guadagnavano nulla nè la trachea, nè l'orecchio; mi
s'andava anzi sciupando sempre peggio quel filo di voce, che non era
al tutto sgradevole prima ch'io fissassi il chiodo di fare il tenore.
Infine, mi sentii tanto trattare dai miei compagni di chiavistello
arrugginito e di galletto strozzato, e vidi anche nella mia famiglia
dei così manifesti segni di sazietà di quel diluvio di stecche false di
cui empivo la casa, che mi persuasi di dover rinunziare alla “carriera
lirica„ e smontai l'organetto. Ma se perdetti ogni illusione riguardo
alla voce, mi rimase sempre un gusto così vivo, anzi una passione
così calda per il canto, che anche ora una nota dolce e potente mi fa
impallidire dalla commozione, e una voce bella udita di sera per la
strada mi fa pedinare il cantante anche per un miglio, ed è quello il
dono di natura che, dopo il dono dell'ingegno, invidio di più a chi lo
possiede, e ritengo il canto uno dei mezzi più efficaci di educazione
dell'animo, e l'ho per uno dei più dolci conforti della vita.


Il Cinquantanove.

Cessato il furore tenorile, ebbi un'altra e ben più potente distrazione
dagli studi; la quale, per fortuna dell'Italia, durò assai più lungo
tempo dell'altra. Il colpo più funesto al latino lo diede in quell'anno
scolastico Vittorio Emanuele, e per l'appunto il primo di gennaio,
col discorso memorabile del “grido di dolore„. Entrò da quel giorno
nella scolaresca uno spirito di divagazione patriottica, che non
riuscirono a frenare neppure i professori più autorevoli; chè anzi
lo sovreccitarono spesso, anche facendo scuola, con allusioni agli
avvenimenti, e con digressioni politiche, che scappavan loro di bocca
come il vino spumante dalla bottiglia. Era come diffuso per l'aria un
odor di polvere; il suono delle trombe dei bersaglieri, che passavano
vicino al Ginnasio, ci faceva balenar gli occhi e fiorir sotto la penna
agitata le sgrammaticature; anche i vecchi professori più sconquassati
prendevan nell'andatura qualche cosa di belligero, e noi non ridevamo
più per la strada nemmeno delle guardie nazionali panciute, che
facevano tre passi sur un mattone. Crebbe ancora il fermento sulla fine
di febbraio, quando nella nostra piccola città, fatta sede del maggior
deposito dei Cacciatori delle Alpi, cominciarono ad arrivare a frotte
i giovani emigrati, la più parte lombardi e veneti, di ogni condizione
sociale; i quali portarono come un'onda di sangue ardente nella vita
cittadina, e diedero quasi un nuovo aspetto alle strade, ai caffè, a
tutti i luoghi di ritrovo pubblico, dove a ogni passo s'incontrava un
viso sconosciuto e s'incrociava lo sguardo con due occhi scintillanti
d'alterezza e di speranza. Molti di quei visi, parecchi dei quali erano
predestinati all'onore del marmo e del bronzo, mi sono rimasti scolpiti
nella memoria come visi d'amici intimi. C'erano fra quel migliaio e
più di nuovi venuti dei campioni della guerra del '48 e della difesa di
Roma; c'erano dei futuri pittori celebri, come l'Induno, il Pagliano,
il De Albertis; c'erano il Cairoli e il Bertani, e il De Cristoforis,
del quale dovevo legger poi con entusiasmo, alla scuola di Modena, il
_Trattato della guerra_. Ma non ricordo d'aver inteso allora i loro
nomi, che erano ancora fiori di gloria in boccio. Il solo nome che
correva sulla bocca di tutti era quello del Cosenz, comandante, che
rammento d'aver visto più volte in Piazza d'Armi, quando i volontari
non vestivano ancora l'uniforme, comandare gli esercizi col tubino
e col soprabito nero, come un capo di barricate: una figura svelta e
dritta come uno stocco, con un viso grave di filosofo, che molti per
le vie salutavano rispettosamente, ricordando le sue prodezze eroiche
di Venezia. E anche rammento, quando scomparve sotto il cappotto bigio
ogni apparente differenza di condizione sociale fra gli emigrati,
lo strano effetto che faceva nel popolino il sentir dire dell'uno e
dell'altro di quei soldati semplici: — Questo è un avvocato. — Quello
è un medico. — Quello là è un professore. — Quello lì è un signorone.
— Ciò che valeva più d'ogni discorso o articolo di giornale a dare
alla gente incolta un'idea della grandezza degli avvenimenti che si
preparavano, e faceva rivolgere dalle signorine a quei rozzi cappotti
certi sguardi di curiosità romantica, dei quali prima d'allora non
avevano onorato mai la “bassa forza„. Beati giorni, che risplendono
come zaffiri nella corona delle nostre più care memorie.
*
L'agitazione della scolaresca giunse al colmo nel marzo, quando,
richiamati alle armi i _contingenti_, si videro arrivare i bersaglieri
delle classi congedate, uomini fatti, anneriti dal sole dei campi, con
le tuniche logore, coi cappelli spelati, con le scarpe contadinesche,
molti con le medaglie di Crimea dai nastri sbiaditi: d'aspetto così
grave la più parte, che parevano i padri dei soldati in servizio, di
cui venivano a ingrossare le file. E qui mi ricordo d'un fatto, che
mi fece un gran senso, e che prova come neanche in Piemonte, e neppure
per le guerre più popolari, ci sia mai stato un grande ardore guerresco
nei vecchi soldati che erano strappati ai figliuoli e ai loro campi e
mandati a farsi ammazzare; quantunque poi, per sentimento del dovere,
si portassero così bravamente che l'entusiasmo non avrebbe potuto fare
di più. Era una sera di domenica. Un gran numero di quei richiamati,
ancora senz'armi, passeggiavano a coppie e a drappelli per la strada
principale, affollata di gente. A un certo puto vidi sventolare
una bandiera, aprirsi la folla e venire avanti un folto stuolo di
cittadini, ordinati in quattro file, che cantavano l'inno del Mameli;
tutti signori in cilindro e in pastrano, fra i quali riconobbi con
piacere alcuni dei professori del Ginnasio: quello di matematica il
primo. Mentre mi passavano davanti, da un gruppo di vecchi bersaglieri
che mi stava accanto uscì qualche apostrofe a voce alta, in tuono di
sarcasmo: — Già, è comodo di cantare! — Loro cantano e noi andiamo a
dare la pelle. — Vengano con noi a battersi invece di far del baccano.
— Il drappello s'arrestò, disordinandosi; i dimostranti risposero;
s'attaccarono vari battibecchi vivaci. Alcuni dei signori, risentiti,
rinfacciavano ai soldati di mancar d'amor di patria; altri, più
pacati, cercavano di rabbonirli, persuadendoli che non tutti avevano
il dovere, che non a tutti era possibile d'andare alla guerra, e
qualcuno diceva loro che s'era battuto anche lui nel '48 e nel '49. Ma
i soldati parevano poco persuasi, rispondevano brontolando e alzando
le spalle. Ciò che mi fece più maraviglia in quel contrasto doloroso fu
la bella disinvoltura con cui alcuni dimostranti brizzolati e panciuti
assicuravano, picchiandosi la mano sul petto, che sarebbero andati alla
guerra essi pure, mentre si capiva dai loro faccioni pacifici che non
si sognavano neppure una mattata compagna. E ripetevano con calore:
— Ci rivedremo al campo! Ci rivedremo al campo! — Vedo ancora gli
sguardi di diffidenza coi quali i soldati misuravano le loro rotondità,
come se domandassero a sè stessi in quale campo avrebbero mai potuto