Ricordi d'infanzia e di scuola - 03

date le condizioni della casa, non avrebbero potuto separarmi che
segregandomi), poichè ho capito allora della vita e dell'animo della
gente povera tante cose, che non capirà mai chi non è stato da ragazzo
in mezzo a coetanei di quella classe sociale, chi non ha osservato
in germe, per così dire, il popolo minuto, da cui ci separano più
tardi troppi preconcetti e troppe diffidenze reciproche; perchè fu
quella promiscuità coi piccoli scamiciati che mi fece nascere per la
poveraglia una simpatia affettuosa e pietosa, la quale mi ricondusse
poi sempre in mezzo agli umili, con sentimento d'amico, negli anni
posteriori; poichè furono quelle amicizie che non lasciarono crescere
nel mio cuore certe vanità e superbiole di “giovin signore„ le quali,
svolgendosi col tempo, chiudono in molti le porte dell'animo a certi
sentimenti d'umanità e di giustizia, che picchiano per entrare, troppo
tardi. E quanto all'infezione morale, come dicono ora gli educatori,
l'idea mi fa sorridere, veramente; poichè ho a questo riguardo dei
ricordi molto chiari: ricordo che fra i ragazzi del mio ceto, che
conoscevo alle scuole, e i brindelloni che m'avrebbero dovuto infettare
nel cortile, non c'era alcuna differenza nè in materia di cognizioni,
nè in materia di linguaggio, nè in altro che si riferisse a cose
proibite; che, anzi, se una differenza c'era, stava in questo: che i
ben vestiti, ai quali l'agiatezza dava maggior libertà di spirito,
e il buon nutrimento più vivacità d'immaginazione, lavoravano con
questa intorno agli argomenti interdetti assai più continuamente e
più volentieri che i poveri, distratti molto spesso dall'appetito
insaziato, dalle fatiche, dai litigi domestici, e dalle busse paterne,
materne e fraterne.
*
Poveri ragazzi! Non ho più saputo nulla d'alcun di loro dopo che
lasciai la città; ma essi vivono, parlano ancora nella mia memoria,
dopo più di quarant'anni, come se li avessi lasciati ieri: vedo ancora,
oltre che i visi, i vestiti di tutti, con quelle toppe e quegli sbrani,
i rammendi delle camicie rozze, gli scarponi girati loro dai fratelli,
e le capigliature inesplorate dal pettine, e le crepature dei geloni
alle mani, e quasi sento ancora l'odore che portava ciascuno con sè del
mestiere di suo padre. Ho conosciuto poi nella vita centinaia di uomini
d'altre classi sociali, che corrispondevano mirabilmente nell'indole
ai tipi diversi ch'eran tra di essi; posso dire anzi d'aver incontrato
ben poche persone così originali di carattere, che non mi paresse
d'averle già conosciute in embrione in qualcuno di quei piccoli “mal
nutriti„; poichè noi possiamo cambiare quanto vogliamo e il tenor di
vita e il cerchio degli amici e dei conoscenti, ma ci ritroviamo sempre
presso a poco in mezzo alla stessa compagnia drammatica, con quei certi
personaggi e maschere inevitabili, che la natura ripete senza fine.
Ricordo Tonino, figliuolo d'un carrettiere, che portava due cerchietti
d'ottone agli orecchi, uno spirito satirico, che metteva tutti in
canzonella, ma di cuor buono e d'un buon senso precoce, e dotato di
molte piccole abilità meccaniche, che invidiavo e ammiravo; col quale
m'era un piacere indicibile, un vero tripudio, nei giorni di pioggia,
il far cuocere le castagne in un pentolino di terracotta, sotto una
tettoia in fondo al giardino; dove fantasticavo d'esser stato colto
dal temporale in un bosco, e d'essermi rifugiato in un antro, senza
saper quando mai avrei potuto tornare a casa. Ricordo Nuccio, un viso
d'arabo, figliuolo d'un pescatore, invitto giocatore a castellina, che
non lasciava una noce in tasca a nessuno, una lingua d'inferno, con
cui nessuno la poteva nella lotta delle ingiurie, e che insolentiva
qualche volta a pagamento: capace di durarla una mezza giornata
per quattro fichi secchi; Tommasino, figliuolo del pollivendolo, un
pallidino con un fil di voce, di animo mite, che piangeva per nulla,
e che tutti si divertivano a tormentare; Giacometto, figliuolo della
lattaia, piccolo e tarchiato, buon diavolaccio, e un po' melenso, ma
che quando lo mettevano a un puntaccio dava in vere furie di torello,
che facevano scappare tutti quanti. E il povero Andrea, che fine avrà
fatta? Un disgraziato trovatello, fasservizi d'un panattiere, che
tutti picchiavano nella panatteria, così per spasso; un vero sacco da
botte, e pure fresco sempre e pien d'allegria, come se i manrovesci e
le pedate gli facessero l'effetto di docce igieniche: insuperabile a
far saltare i soldi con la trottola e a saltare sui muriccioli a piedi
giunti. E dove sarà il _frate_, figliuolo del cenciaio, a cui s'era
dato quel soprannome perchè da bambino, per un voto fatto, era andato
un pezzo vestito da fraticello; quel piccolo _frate_ che aveva un così
bel testone di filosofo piantato per traverso sopra due spalle gibbose,
e che ci portava nel cortile tutti i pettegolezzi del vicinato, il più
astuto e più ciarliero della compagnia, e tanto buffo da farci scoppiar
dal ridere al solo suo apparire? E Gigetto, il ciabattino, gran
rapinatore di nidi d'uccelli, il mio Sancio Pancia, che m'accompagnava
in tutte le corse avventurose per la campagna, e che era regolarmente
scapaccionato da sua madre ad ogni ritorno, perchè ritornava sempre
mostrando una natica per un grande squarcio dei calzoni? E il piccolo
Savoiardo, quel bel ragazzo biondo, sempre serio, orfano d'un oste,
che i ragazzi più grandi tormentavano con certe allusioni misteriose a
una sua sorella, sulle quali poi io meditavo lungamente.... Mi ricordo
sempre d'una volta che essa venne a cercarlo nel cortile, tutta ben
vestita, coi capelli corti e ricciuti, e una cintura di cuoio alla
vita: mi ricordo che mandava un odore acuto d'essenza di violetta,
e che per molto tempo dopo rividi sempre con l'immaginazione quei
riccioli ogni volta che sentii quell'odore.
Ma il personaggio che m'è rimasto più impresso è un ragazzo sotto
i dieci, che si chiamava Clemente, quello della _Crinea_, figliuolo
d'un'erbivendola, un tipo di monello compiuto, nel quale era il germe
del delinquente. È il ricordo di costui che, prima ch'io leggessi
alcun libro di Cesare Lombroso, mi persuase che ci sono dei delinquenti
di nascita. Era un piccolo Don Chisciotte del delitto. Il suo ideale
supremo era di diventare un farabutto famoso, e si gloriava d'esser già
tale, con una impudenza da pestargli la faccia. Portava sempre in tasca
un coltelluccio spuntato, per impaurirci, minacciando ogni momento di
servirsene. Menava vanto d'esser tenuto d'occhio dalla polizia, di non
aver paura dei carabinieri, di essere anzi già sfuggito più d'una volta
dalle loro mani, e diceva che per arrestar lui due non bastavano. A
sentirlo, andava in giro tutta la notte, e ogni notte compiva qualche
prodezza, alla quale faceva dei vaghi accenni, strizzando un occhio e
appuntandosi con due dita uno dei baffi che non aveva. Ebbe un giorno
la faccia tosta di condurmi in un vicolo e di indicarmi sul ciottolato
certe macchie che egli diceva di sangue, sparso là da un uomo, da un
prepotente, al quale egli aveva data una lezione; e un'altra volta,
accennandomi la porta d'una stanza a terreno dell'ospedale civico, dove
si esponevano i cadaveri degli assassinati, mi mormorò all'orecchio:
— Sai? Ce n'ho già mandati un bel numero lì dentro! — Io sospettavo
la smargiassata; ma che qualche cosa di vero ci fosse non dubitavo.
E avevo di lui un gran terrore, che cercavo di nascondere, e me lo
propiziavo regalandogli quasi ogni giorno le frutta di cui mi privavo a
tavola, e anche roba che non mi spettava. Per questo egli s'atteggiava
a mio protettore, e per buscar dell'altro mi dava a bere che avevo dei
nemici, delle canaglie che mi volevan fare la pelle, e si vantava ogni
tanto d'aver sventato una loro trama, d'averli sorpresi e cacciati in
fuga col suo coltello, mentre s'aggiravano in atto sinistro intorno
a casa mia. E io facevo nuovi vuoti nella dispensa domestica per
ricompensare i suoi finti servigi di brigante amico.
Costui, nondimeno, non aveva ancor sulla coscienza nulla di grave;
non era ancora che uno spaccone della mariuoleria. Ce n'era un altro
che aveva già incominciato la carriera. Non veniva che di rado nel
cortile, perchè abitava lontano; di chi fosse figliuolo non sapevo;
forse di nessuno. Era sempre in giro; passava più notti al lume
della luna che sotto i travicelli, se pure aveva un tetto. Era un
ladruncolo di mestiere, specialista delle frutta. Passando accanto
a un banco di fruttaiuolo, di pieno giorno, in presenza di chi si
fosse, agguantava una pesca o un grappolo d'uva, e spulezzava con
una tal velocità che non c'erano gambe che lo potessero raggiungere:
era un ladro alato. Aveva una faccia trista. E come l'avrebbe potuta
aver buona, povero ragazzo, cresciuto come una fiera in un bosco? Ma
io non potevo allora sentirne la pietà che ne sento adesso. Temevo
assai più lui di quell'altro, e per questo l'accoglievo con particolar
cortesia quando onorava i miei poderi d'una sua visita. Un giorno,
dopo avermi guadagnato un soldo al gioco delle bocce (lo lasciavo
sempre guadagnare), egli infilò la strada per andarsene, ed io stavo
osservandolo dalla soglia del portone. Passò in quel punto davanti
a me un brigadiere della polizia, — un perticone alto due metri, con
una durlindana che non finiva più; — il quale, vedendo il ragazzo alle
spalle a un tiro di pistola, esclamò: — Ah! Ce l'ho finalmente! — e
slanciatosi di corsa in punta di piedi, a passi corti e rapidissimi,
lo raggiunse e lo ghermì per un braccio. Quegli si mise a urlare
come un disperato, chiedendo pietà e misericordia; ma il brigadiere
tenne duro, e lo tirò via. Io rimasi agghiacciato dalla paura, con
la coscienza d'un complice, a cui dovesse toccare la stessa sorte fra
poco; e rientrato in casa pallido e tremante, stetti rintanato tutto il
giorno, spiando tratto tratto dalla finestra, col tremacuore di veder
comparire da un momento all'altro il brigadiere lungo, in aria di dire:
— All'altro, adesso! — Non vidi più quel ragazzo dopo quel giorno.
Fuori di questo e dell'accoltellatore putativo, tutti gli altri
erano in fondo buoni figliuoli, incapaci d'una birbonata vera, alcuni
affezionatissimi e già utili alle loro famiglie; e mi volevan tutti
bene, nonostante i battibecchi frequenti, perchè, non tanto per
proposito quanto per affetto, io non facevo sentir loro in alcun modo
la mia superiorità di condizione. Il che non toglieva che facessi
qualche volta il prepotente, per impulso d'istinto; ma ricordo che
quando mi dicevano (e lo dicevano sempre in quei casi) ch'io facevo
così perchè ero un signore, queste parole mi ferivano al cuore, e ne
rimanevo umiliato e confuso, e m'affrettavo a farmi perdonare con ogni
specie di cortesie, e anche d'adulazioni.


Sul campo dell'onore.

La mia passione per i soldati trovò un grande sfogo in questa banda
di mocciosi, coi quali potevo fare il generale. Li armavo di randelli,
li ammaestravo agli esercizi, e li conducevo fuori a far delle marcie
militari con trombette di latta e con bandiere di carta, discorrendo
sempre con loro d'un nemico immaginario, col quale un giorno o
l'altro ci saremmo dovuti misurare, e contro il quale essi s'andavano
accendendo di giorno in giorno di generosa ira guerriera: tanto è
facile montar la testa alle moltitudini coi fantasmi dell'onore e
della gloria, anche contro un nemico che non esiste. E veramente io
vivevo nell'aspettazione continua di qualche grande prova, senza
saper da che parte nè come se ne potesse presentar l'occasione.
L'occasione si presentò. V'era in un altro quartiere della città
un altro piccolo Bonaparte, che fu poi mio compagno nella Scuola
di Modena ed è ora colonnello dei bersaglieri, il quale addestrava
pure un piccolo esercito contro un nemico creato dalla sua fantasia.
Apprender l'esistenza l'un dell'altro, ed esser nemici, e considerar
necessario il cozzo delle due schiere, fu una cosa sola. S'era bene
italiani da una parte e dall'altra, e cittadini della stessa città,
e in un tempo in cui la patria comune era impegnata in una guerra
contro la Russia; ma si apparteneva a due parrocchie diverse, e questo
bastava ad aprire un abisso fra di noi. Noi dicevamo con disprezzo:
— Quelli di Sant'Ambrogio —;questi dicevano con disdegno: — Quelli
di Santa Maria —; come accade fra gli uomini, tale e quale, e anche
fra i popoli, presso a poco. Si procedette con tutte le regole della
diplomazia. Ci fu una formale dichiarazione di guerra portata per
iscritto da due commissari in ciabatte. I due eserciti, composti d'una
ventina di cazzabubboli, partirono una mattina, a un'ora convenuta,
dai loro accampamenti, movendo l'un verso l'altro per vie designate.
Io m'ero messo a tracolla una sciarpa azzurra rigata di bianco, avanzo
d'una vecchia tenda di finestra, e brandivo una daga di legno, fasciata
di carta d'argento, che m'aveva fatta un mio fratello: mi credevo
formidabile. Ma quando vidi apparire in fondo alla strada, alla testa
dei suoi, il generale nemico, riconobbi con umiliazione ch'egli era
assai più fieramente armato di me, poichè aveva in capo un vero e
proprio cappello di bersagliere, con tanto di sottogola, un vero zaino
sulle spalle, e un simulacro di carabina fra le mani. A un segnale
dato da un dei miei con un imbuto, le due osti si corsero incontro.
Non saprei ridire l'andamento della battaglia, che dev'esser stata,
come le battaglie antiche, una serie di conflitti disgiunti, i quali
non avrebbero data ad alcuna parte la vittoria, se questa non fosse
stata decisa dal duello dei capitani. Il mio avversario era ardito; ma
fu vittima d'una illusione: scambiò con una lama vera il mio brando
di legno inargentato, mi credette risoluto al sangue, die' indietro
ai primi colpi, mi voltò lo zaino e riprese a gambe la via della
sua parrocchia. Ma era una fuga da Orazio davanti ai Curiazi. Io gli
detti dietro; corremmo un pezzo in mezzo alla gente che s'arrestava a
guardarci, in atto di dire: — Santi scapaccioni! — A un certo punto,
il generale fuggente, visto in terra un mattone, lo raccolse con una
mossa fulminea, e mi fece fronte: io torsi il busto per scansare il
proiettile, e me lo presi in un fianco. Vidi le due Orse! Accecato
dall'ira, mi lanciai avanti; il generale Ambrosiano, più lesto di me,
sparì come un razzo. Insomma, il vero “battuto„ ero io, e come! Ma con
la scomparsa del fromboliere, il suo esercito s'era dileguato; eravamo
rimasti noi padroni del terreno, noi i vincitori. Tornai a casa piegato
in due; a ogni mossa, ricacciavo dentro un gemito; dissi a mia madre
che era un colpo d'aria. Ma la galloria, ma il vampo che menammo di
quel trionfo ipotetico fu una cosa da non immaginare. Per tutto quel
giorno, e per qualche giorno appresso, non parlammo d'altro; tutti
raccontavano episodi, tutti avevano fatto prodezze da Orlando; tale e
quale come i “reduci„ ai banchetti. E m'era già cessato da un pezzo il
dolore al fianco, ch'io lo simulavo ancora, camminando inflesso come un
arco, per far durare la gloria della ferita. Quante volte, molti anni
dopo, alla Scuola militare, il mio buon amico ed io ricordammo quella
famosa giornata, e la nostra “singolar tenzone!„ E chi sa che il bravo
colonnello non se ne ricordi ancora qualche volta, quando lavorano i
muratori nella sua caserma, e gli cade lo sguardo sopra un mucchio di
mattoni!


Primi palpiti....

Trovo a questo punto il ricordo di quel primo sentimento confuso e
soavissimo, che si può chiamare il crepuscolo dell'amore, e che la
parola non può render che malamente, come il pennello il primo barlume
dell'alba. Una sera, tornando da una passeggiata col portinaio, ci
fermammo in una piazzetta dove dava spettacolo una famiglia di poveri
saltimbanchi, e danzava in quel punto sopra una corda, con le sottanine
corte e il bilanciere in mano, una ragazzina della mia età, di forme
graziose e di viso dolce e triste, accompagnata da un organetto che
suonava un'aria lamentevole. Le batteva in viso la luce d'un lampione;
vidi che aveva gli occhi pieni di lacrime: era forse stata battuta,
o era digiuna o malata, e la facevano ballare per forza. Non so ben
dire, ma ricordo bene quello che provai: un sentimento nuovo per me,
una simpatia viva, dolcissima, piena di tenerezza e di pietà, diversa
affatto da quanto avessi mai sentito fino allora in presenza dell'altro
sesso; una commozione gentile e grave ad un tempo, della quale sentivo
non so quale alterezza, e che mi lasciò pensieroso per tutta la sera,
come d'un mistero, e compreso di quella malinconia che ci viene dalla
solitudine della campagna all'ora del tramonto; ma non turbato neppure
dall'ombra d'un pensiero sensuale, benchè fra i compagni di scuola
e di gioco mi fosse già passata per gli orecchi molta parte dello
scibile; anzi rifuggente con ribrezzo da ogni immagine impura che mi
balenasse appena alla mente. Ciò che prova per me che non è quella
peste incurabile che si crede la cognizione precoce (d'altra parte
inevitabile, che che si faccia) di certe cose, poichè l'amore è più
forte di lei, e quando si leva spazza via dall'anima, come un colpo
di vento, ogni pensiero immondo. Disparve presto quella immagine;
ma non rimase più vuoto il posto che ella aveva occupato: nel quale
sottentrarono via via le piccole signorine più belle e più note della
città, che usavano ballar tra di loro ogni domenica in una piazzetta
del passeggio pubblico, mentre suonava la banda municipale; e tutti
quegli amori furon della natura del primo, affettuosi e puri, tutti
del cuore e della fantasia, accompagnati da ambizioni vaghe di gloria,
da immaginazioni poetiche di nozze premature, di fughe avventurose,
d'incontri romanzeschi in foreste e in deserti, di colloqui
appassionati e sommessi nel silenzio delle notti stellate. Che sciocco
errore è di far colpa ai ragazzi, come d'un delitto, o di deriderli di
quei primi moti della passione, che sono invece la sola forza intima
che possa preservarli dalla corruzione! Io ricordo che tutte quelle
ragazzine m'apparivano come ravvolte in una infinità di veli, di cui il
mio pensiero non raggiungeva mai l'ultimo; che le tenevo come creature
sovrumane, le quali non avessero di fanciullesco che l'aspetto, così
che restavo stupito, quasi deluso, quando nel passare accanto a loro,
mentre discorrevano con le governanti o coi fratelli piccoli, le udivo
dire qualche sciocchezza, come ne dicevano tutti i ragazzi della mia
età. E avrei sentito una vergogna mortale se esse avessero potuto udire
certi discorsi che facevamo fra di noi, e ogni allusione volgare che si
fosse fatta a quella che per il momento stava sull'altare, m'avrebbe
offeso nell'anima. Ma da quei discorsi, per quanto stava in me, esse
rimanevano sempre fuori, come esseri inaccessibili alle volgarità di
questa terra. Le nostre immaginazioni e i nostri discorsi licenziosi
avevan per oggetto persone d'altra età e d'altra condizione, nelle
quali non si guardava nè a bellezza nè a bruttezza, e neppur ci aveva
che vedere la simpatia; e anche correva un lungo tratto tra l'audacia
impudente delle parole e la vera capacità morale di peccare. Benchè il
mio sentimento religioso fosse molto vago, e andasse soggetto a molte
intermittenze, quello di cui si parlava così allegramente m'appariva
pur sempre un peccato enorme, di conseguenze grandi e terribili
nell'altra vita ed in questa; la prima delle quali pensavo che fosse
un'immediata e profonda trasformazione morale, un'entrata violenta e
pericolosa di tutto l'essere nella virilità, lo scoprimento istantaneo
di molti misteri solenni della vita, una sazietà improvvisa di tutti
i giochi e di tutti i piaceri della fanciullezza, e la morte d'ogni
amore allo studio. Tanto è vero che, essendosi vantato con me quel tal
Clemente, d'aver conosciuto l'albero del bene e del male, e avendomi
raccontato che la sera della sua prima colpa era stato accompagnato
fino a casa da una voce cupa e continua che veniva di sottoterra, io la
bevetti come me la diede, e ne serbai per molto tempo un senso segreto
di terrore.


Il ritorno dei bersaglieri dalla Crimea.

Ero passato intanto al secondo anno di Grammatica; del quale non
conservo altro ricordo netto che quello d'uno sproposito enorme ch'io
feci in una traduzione dal latino a un esame mensile, il più sformato
farfallone, il più buffo e scandaloso quiproquo che sia mai stato
preso, credo, nelle scuole d'Italia, da che vi s'insegna la lingua di
Cicerone, e che rimase meritamente celebre tra la scolaresca per tutta
la durata del corso. Era.... Ma no, non lo dico, perchè non sarebbe
creduto, perchè si penserebbe certamente ch'io l'avessi inventato per
rallegrar la materia e per vantarmi d'aver superato in qualche cosa i
confini dell'immaginazione umana: la memoria d'una tale scelleratezza
deve scender con me nel sepolcro. Fuor della scuola, il mio ricordo più
vivo di quell'anno fu il ritorno dei bersaglieri dalla Crimea. Già,
quand'era venuta la notizia del primo sbarco delle truppe a Genova,
avevo pensato subito al mio caporale Martinotti. Era egli scampato alle
battaglie e al colera, o era una delle tante vittime che aveva lasciato
il nostro piccolo esercito sulla via dolorosa dal porto di Balaclava
alle trincee di Sebastopoli? E se era vivo, sarebbe ritornato nella
piccola città dove l'avevo conosciuto? Il giorno che si sparse la voce:
— Arrivano due battaglioni domattina — fui fuor di me dal piacere e
dall'impazienza. Ma mia madre, prudente, credette di dovermi preparare
a una delusione. — Bada — mi disse — ne son morti tanti! E poi, chi ti
dice che non sia rimasto a Genova, o che non debba rimanere a Torino?
— Quest'avvertimento mi rese pensieroso. Mi svegliai non di meno la
mattina dopo con l'allegra certezza di rivederlo. Accorse ad aspettare
i soldati una gran folla, per modo che dovetti restare assai lontano
dalla stazione, sul margine d'un largo viale che saliva dalla strada
ferrata ai bastioni; ma lì, a forza di gomiti, conquistai un posto fra
i primi spettatori.
Che cavallone mi fece il sangue quando sentii i primi squilli di
tromba, e vidi schierarsi in colonna giù sul piazzale i primi plotoni!
Ma che soldati eran quelli? Non riconoscevo più i miei bersaglieri.
Eran tutti neri come beduini, vestiti di lunghi cappotti grigi,
con certe miserie di pennacchi scemi e stinti, cascanti come cenci
dai cappelli logori: più fieri all'aspetto, senza dubbio, più belli
cento volte di com'eran partiti; ma mi parevan soldati d'un esercito
straniero, che dovessero parlare un'altra lingua, e di cui nessuno
m'avesse più a riconoscere. La colonna si mosse, fra gli applausi
della moltitudine. La precedeva un grosso stuolo di trombettieri, che
mi dovevano passare proprio sui piedi. Ci doveva essere tra quelli il
mio caporale; a ogni passo che facevano avanti, mi batteva il cuore
più forte. Ah! eccolo, ecco Martinotti.... Ahimè, fu l'illusione d'un
momento. Il caporale era un altro. Martinotti non c'era. I trombettieri
passarono. Rimasi col cuore oppresso. Guardai tutti i gallonati della
colonna: non lo vidi. Ah! è morto — pensai — il mio buon caporale
è morto! O è forse rimasto a Torino o a Genova, come mi disse mia
madre, e non lo rivedrò mai più, come se fosse morto. — Non restava
più da passare che una compagnia, e io stavo osservando un vecchio
capitano che aveva una grande cicatrice a una guancia, quando udii a
due passi da me una voce allegra: — O Mondino! — Mi voltai, come a una
scossa elettrica: era lui! lui, coi galloni di sergente, in serrafile,
col cappotto grigio e tre penne sul cappello, col viso abbronzato,
dimagrito, un po' invecchiato, mi parve, ma diritto e svelto come
avanti la guerra, lui che mi salutava con la mano nera e con quel buon
sorriso d'una volta, che non avevo mai dimenticato. Gli risposi con
un: — Ah! — che fu come uno squillo di trombetta, e per poco non mi
cacciai tra le file ad abbracciarlo. — Come sei cresciuto! — mi gridò,
e non ebbe tempo di dir altro; gli ultimi due plotoni passarono fra
gli applausi e gli evviva, e io fui travolto dalla folla che irruppe
dietro alla colonna per accompagnarla al quartiere. Lo rividi il giorno
dopo, con che festa si può pensare, e la nostra amicizia si riannodò
più salda di prima. Ma, cosa strana, non ricordo assolutamente nulla
delle molte cose della guerra ch'egli mi deve aver raccontate quel
giorno e i seguenti, nè m'è rimasto in mente alcun particolare delle
nostre relazioni dopo il suo ritorno. La sola cosa che ricordo, dopo
quell'avvenimento, è un gran banchetto che fu dato a tutti i soldati
nella piazza d'armi, dove eran disposte a raggiera molte lunghissime
tavole, sotto un vasto padiglione imbandierato. Ma anche di questo
non conservo che un'immagine confusa, come d'uno spettacolo visto di
sfuggita, e a traverso un velo di vapori.


Il furore della pittura.

La guerra d'Oriente ebbe una conseguenza triste in casa mia, poichè,
indirettamente, fu la causa che mi s'attaccasse la passione d'imbrattar
carta coi colori; la quale diventò e fu per un certo tempo un vero
furore di maniaco. Non mi pare inutile di farne un cenno poiché si
tratta d'una piccola malattia per cui passano quasi tutti i ragazzi.
Me l'attaccò un grande quadro, non ancor finito, rappresentante la
battaglia della Cernaia, che mio padre mi condusse a vedere nello
studio d'un bravo pittore lombardo (il Borgocarati, un eroe delle
Cinque giornate) che era stabilito da anni nella nostra città. Fra
gli altri particolari, mi colpì così vivamente lo sfolgorìo purpureo
d'uno squadrone di cavalleria inglese galoppante sul davanti della
tela, che non gridai: — Son pittore anch'io! — come quel tale artista
famoso, ma sentii il fremito delle facoltà occulte che esprimeva
quel grido. Era questa un'illusione che covavo fin dai sei anni,
per aver fatto uno scarabocchio di battaglia, il quale era parso una
maraviglia al mio buon padre, che l'aveva messo in un quadro, come una
manifestazione non dubbia di genio. Ah, gli occhi dell'amor paterno!
Faceva tanto più onore al suo cuor di padre quell'errore perchè,
senza aver fatto studi regolari, egli era intendentissimo d'arte, e
disegnava, miniava e modellava con gusto squisito. Vadano pur cauti i
padri amorosi a profetar Raffaelli in casa propria, chè non avranno
mai cautela soverchia. In realtà, avevo un sentimento vivissimo dei
colori, che mi davano piaceri acuti, somiglianti a quelli che dà la
musica, tanto da tenermi in contemplazione per delle mezz'ore davanti
a una stoffa, a un'aiuola, a una nuvola, fantasticando come davanti
a un quadro che rappresentasse una scena umana. Ma era un sentimento
che non si doveva estrinsecare per mezzo dei pennelli. Avvenne a me
quello che avviene a molti nati alla pittura, i quali cominciano
invece col menar la penna: sbagli di porta, che fa chi ha furia
d'entrar nell'arte. Ma questo dubbio non poteva neppur lampeggiare
alla mia mente. Sciupai dozzine di scatole di colori a tingere risme
di carta, tentando tutti i generi, dal paesaggio da confettiera
al quadro storico da cartellon dei burattini, ma più che altro la
pittura militare; alla quale mi incitava, senza volerlo, mio padre,
col parlar sovente di Orazio Vernet, di cui era caldo ammiratore. Non
si son combattute tante battaglie nel secolo sopra la faccia della
terra quante io ne scombiccherai in sei mesi col mio granatino della
malora. Ne buttavo giù fin quattro in un giorno. Era un vera fabbrica
di carnificine dipinte. Non si possono immaginare gli orrori che ho
messi in acquarello. E siccome regalavo i miei lavori, come Massimo
d'Azeglio, a tutti i miei amici e conoscenti, venne un tempo in cui
ne fu invasa la città, e se ne vedevano appiccicati ai muri per la
strada, nelle botteghe del vicinato, e perfino agli usci delle stalle.
Il caso aggravante era che avevo la faccia di firmarli, perchè non
mi potessero rubare la gloria degli artisti senza coscienza. Quante
volte il mio povero padre, vedendoli, deve aver detto tra sè: — Ah! _di
quanto mal fu matre_ quella benedetta inquadratura! — Perchè l'opera
si moltiplicava senza migliorarsi; il decimillesimo soldato uscito dal
mio pennello non aveva men diritto d'esser “riformato„ dai medici che
il primo; non figliavo che mostricini tutti improntati dello stesso
conio di famiglia; tutti quanti i battaglioni, tutti gli squadroni,