Ricordi d'infanzia e di scuola - 01
EDMONDO DE AMICIS
RICORDI
d'INFANZIA
e di SCUOLA
SEGUÌTI DA
BAMBOLE E MARIONETTE — GENTE MINIMA
PICCOLI STUDENTI — ADOLESCENTI
DUE DI SPADE E DUE DI CUORI
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1913
Quattordicesimo migliaio.
PROPRIETÀ LETTERARIA ED ARTISTICA.
_I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per
tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda._
Tip. Fratelli Treves.
AL DOTTORE ANGELO BOCCA SINDACO DI CUNEO
CARO AMICO DEI MIEI PRIMI ANNI INSEPARABILE NELL'ANIMO MIO DALLA
MEMORIA DELLA CITTÀ ILLUSTRE E BELLA A CUI MI LEGA AMORE E REVERENZA DI
FIGLIO.
RICORDI D'INFANZIA E DI SCUOLA.
I primi anni.
La traccia più remota ch'io trovi in me della mia coscienza è quella
d'un giorno che stavo giocando sopra un mucchio di sabbia con un mio
fratellino, maggiore di me di due anni, il quale morì quand'io n'avevo
quattro, non lasciandomi neppure una vaga reminiscenza del suo viso.
In che maniera mi sia rimasta l'immagine di lui in quel punto, e non
l'ombra d'un ricordo di quanto avvenne in casa mia alla sua morte, che
avrebbe dovuto lasciarmi un'impressione profonda, è uno di quei tanti
misteri della memoria, che tenta invano il nostro pensiero. E non è
meno misteriosa per me la certezza assoluta che ebbi sempre, che quella
larva con cui giocavo quel giorno era mio fratello, quantunque non
abbia nessuna ragione d'esserne certo. A me pare che la mia esistenza
sia incominciata in quel momento. Ma dopo di questo ricomincian le
tenebre, e non ritrovo più il lume d'una ricordanza che molto tempo di
poi: quello d'avere una volta, scendendo la scala di casa, contato i
miei anni, che eran cinque, sulla punta delle dita, e d'aver pensato
che mi sarei potuto chiamar grande quando per contar la mia età
mi fossi dovuto servire anche dell'altra mano. D'allora in poi gli
avvenimenti di cui mi rammento, benchè separati ancora da molti spazi
oscuri, come i fuochi notturni dei pastori sui monti, sono chiari nella
mia memoria come quelli dei periodi più recenti della mia vita.
*
Mio padre, genovese, era banchiere regio dei sali e tabacchi in una
piccola città del Piemonte, che è per il sito e per i dintorni una
delle più belle d'Italia: posta sull'ultimo lembo d'un altipiano,
che si protende a punta e sovrasta al confluente d'un fiume e d'un
torrente, i quali la cingono come d'un abbraccio; e di là dalle rive
si stende, ascendendo ad anfiteatro, una campagna floridissima, tutta
macchie e vigneti, coronata dalle Alpi imminenti. Tutti i ricordi
dell'infanzia mi si disegnano alla mente sul verde vivo di quella
campagna, sull'azzurro chiaro di quelle acque, sulla neve luminosa di
quelle alte montagne. Abitavamo in una casa spaziosa, che guardava
da una parte sul fiume, e aveva a terreno l'ufficio e i magazzini,
e davanti un giardino, un orto, due grandi pergolati, e un vasto
cortile; il quale si riempiva due volte la settimana dei carri dei
rivenditori, discesi a far le provviste fin dai villaggi più lontani
del circondario; e quei giorni era un moto, un traffico, un rumorìo
di mercato, nel quale io mi tuffavo con gran piacere, correndo qua
e là fra le bestie e la gente e su per i sacchi e le casse, curioso
e eccitato, e un poco anche inorgoglito dal pensiero che tutto
quell'affaccendamento mettesse capo a mio padre, che mi pareva un
personaggio più potente d'un ministro. Ma le impressioni più belle
e più forti di quei primi anni furono quelle che ebbi dalla natura:
tanto belle che, ripensando a quel tempo, mi pare che non ci siano
più stati al mondo splendori di sole così sfolgoranti, lumi di luna
così limpidi, primavere così fresche e così odorose; tanto forti che
anche ora il piacere che mi dànno l'aurora, il tramonto, la pioggia, la
neve, l'odor della terra e il profumo delle rose e delle viole, deriva
in gran parte dal ricordo delle sensazioni che tutte quelle cose mi
destavano allora. Per il luogo e per le circostanze in cui trascorsi la
mia infanzia, non avrei potuto esser più fortunato. Mi è sempre stato
un conforto dolcissimo il pensiero d'esser cresciuto in cospetto di
quella vasta bellezza alpina, in quella casa grande e sonora, inondata
di luce e scossa dai venti, tra il verde di quel giardino che mi pareva
immenso, in mezzo a quel trambusto di arrivi e di partenze, di lavoro
e di grida, che metteva in moto ogni momento la mia immaginazione e le
mie gambe, e mi faceva vivere una vita intensa e varia, tra cittadina
e campestre, un po' da figliuol di signore e un po' da ragazzo
d'officina, libera e vigorosa come l'aria purissima che respiravo.
*
Un ricordo vivo di quegli anni, che mi fa ancora sorridere, è la
condizione singolare in cui mi trovavo davanti a mia madre e a mio
padre in riguardo del linguaggio. Portato via, che non avevo ancor
due anni, da Oneglia, dov'ero nato e cominciavo a balbettare il
genovese, e trapiantato in una città dove si parlava un dialetto
diversissimo, avevo scordato quello affatto, e imparato questo dalle
persone di servizio e dai miei nuovi concittadini coetanei avanti che
i miei parenti ci si cominciassero a raccapezzare; perchè ai bambini
il linguaggio che intendono dai compagni di gioco e dagli inferiori
ossequiosi si attacca più prontamente di quello che sentono in casa.
Ne seguì che per un bel pezzo mia madre ed io ci capimmo poco o punto;
ed eran scene comiche, che facevan ridere tutti i presenti, quando
essa mi dava una lavatina di testa in genovese ed io mi giustificavo e
protestavo in piemontese, e la disputa andava per le lunghe, essendo
grammatica tedesca per ciascuna parte le argomentazioni dell'altra;
tanto che molte volte, per finirla, bisognava chiamare per interprete
uno dei miei fratelli. E così a tavola due volte il giorno, essendo io
il solo che parlasse il nuovo dialetto e non capisse l'altro, feci per
molto tempo la figura d'un forestiero intruso, d'un trovatello raccolto
nella città nuova, impacciato a chieder molte cose e costretto spesso
al silenzio, come quei viaggiatori che si trovano solitari a una tavola
rotonda d'albergo in mezzo a commensali di un'altra nazione. Non fu che
anni dopo che cominciai a parlare in casa il mio dialetto d'origine,
che ora posseggo quanto l'altro; ma la pianta aveva già preso il colore
del concio piemontese, e però son sempre rimasto il più piemontese
della famiglia; benchè, passata la prima gioventù, mi sia nato e andato
crescendo sempre con gli anni, per la virtù crescente delle memorie
familiari, un affetto dolce e profondo per la mia regione nativa.
*
Fra le memorie della mia infanzia tiene un posto di principessa,
accanto a mia madre regina, una vecchia serva, uno dei cuori più
buoni e più dolci ch'io abbia conosciuto al mondo; della quale ho
davanti agli occhi, lucidissimo, il piccolo viso sorridente, vero
specchio dell'anima, e sento ancora la voce amorosa e tremola, di
cui si diceva in casa che pareva la voce d'un'anima del purgatorio.
Si chiamava Maddalena. Era come una seconda madre per me: nascondeva
le mie piccole malefatte, si rallegrava come una bambina d'ogni mia
gioia, s'affannava d'ogni mia sbucciatura come d'una grande disgrazia,
e mi dava dei santi consigli dalla mattina alla sera; ed io le volevo
bene come un figliuolo, le stavo appiccicato alle sottane ore intere,
a farmi raccontar cento volte le stesse storielle, che mi parevan
portenti di fantasia, e volevo addormentarmi tutte le sere al suono del
suo canto lamentevole, che somigliava alle nenie degli Arabi. Posso
dire che le ho serbato gratitudine per tutta la vita, e giurare che,
se c'è un mondo di là, dove dobbiamo rivedere le persone care, sarà
lei una delle prime che cercherò nello sciame bianco, e di quelle a
cui volerò incontro con un remeggio d'ali più vigoroso. Strani giochi
della memoria! Perchè essa mi condusse una sera con altri ragazzi a
fare i rotoloni giù per una china, verso il fiume, dov'erano moltissime
lucciole, la sua immagine mi si presenta quasi sempre coronata di
lucciole, come la Madonna di stelle; e perchè fu lei che m'insegnò
a intrecciar coroncine coi fiori rossi e azzurri che fanno tra il
grano, oggi ancora mi balena davanti il suo viso ogni volta che vedo
accoppiati, o in natura o in pittura, quei due colori. E m'è rimasta
impressa così addentro nel cuore quella buona donna, che anche al
presente, quando sogno qualche mio grande dolore, vedo qualche volta
lei, con la rocca infilata nella cintura del grembiale, che mi guarda
con viso ansioso, come faceva nel rialzarmi da una caduta, e sento la
sua voce dolce che mi dice parole confuse di compassione e di conforto.
Ah! se la rivedessi viva, quando mi risveglio da quei sogni, come darei
ancora il capo bianco alle sue braccia, con che dolcezza piangerei
ancora sulle ginocchia della mia vecchia Maddalena!
*
Non per altro che per ignoranza, con l'intento di ricrearmi, fu lei che
fece di me per un certo tempo una delle vittime più compassionevoli,
che siano state mai, del terrore dei fantasmi; e questo con un solo
racconto, che essa disse sbadatamente, filando — me ne ricordo bene —
e dando ogni tanto un'occhiata alla pentola, dove bolliva la minestra
per la cena. Era la storia della Morte, che, beffata da un ragazzo,
gli annunzia che verrà a pigliarlo nel letto la notte; e il ragazzo, la
notte, sente prima il passo di lei per la strada, poi all'uscio della
camera, poi dentro; e infine la Morte se lo porta via. Questa storia
mi diede una vera malattia di paura. D'immaginazione viva com'ero, io
sentivo veramente, da letto, il passo della Morte, e rabbrividivo,
sudavo freddo, tremavo da battere i denti; saltai più d'una volta
giù dal letto e corsi nella camera di mia madre, gridando aiuto. E da
quello mi nacquero cento altri terrori. Per molti giorni mi atterrì
la solitudine anche di giorno; tremai alla vista improvvisa d'un
lenzuolo steso, che mi pareva il mantello dello spettro; ebbi paura
d'un vecchio allampanato, che da una finestra d'un ospizio di cronici,
che prospettava la mia casa, mi guardava lungamente, quando giocavo
nel cortile; e credo che mi sarei ammalato davvero, se non fossi stato
di fibra molto robusta. È ancora così forte in me il ricordo di quei
tormenti che quando in una casa o in un giardino pubblico vedo una
governante nell'atto di raccontare una favola a dei bambini, provo un
senso d'inquietudine, e son tentato d'avvicinarmele, per assicurarmi
che non racconti loro nulla di terribile, e per pregarla di smettere,
quando ciò fosse. Povera Maddalena! Essa rimase più spaventata di
me degli effetti della sua imprudenza, e fece punto fermo coi suoi
racconti, inesorabilmente; ciò che le alleggerì di molto le fatiche del
servizio, perchè la mia curiosità insaziabile metteva alla tortura il
suo povero cervello, che non era quello del Dumas padre, sebbene io le
concedessi un uso larghissimo della ripetizione. — Mai più! mai più! —
rispondeva alle mie preghiere. — Che nostro Signore mi perdoni, povera
testa _voida_ che sono stata!
*
I miei primi compagni furono i figliuoli d'uno dei nostri facchini,
il quale abitava in una casetta accanto al portone del cortile, e
faceva anche da portinaio. Erano una tribù di ciabattoni, che facevano
scala, come le canne degli organi, da un anno ai dodici, e ogni anno ne
saltava fuori dalla casetta uno nuovo. Per me, figliuolo del padrone,
avevano un certo ossequio di servitorelli, e mi ricordo che inclinavo
ad abusarne. Ma su questo punto mio padre e mia madre erano severi,
non me ne lasciavano passar una, ed è una delle cose di cui son loro
più grato. Non si lasciavano sfuggire un'occasione di rintuzzare in me
l'orgoglio signorile, d'inculcarmi il sentimento dell'uguaglianza e il
rispetto della povertà. In ogni litigio che nascesse fra me e i piccoli
mangiatori di polenta, se io non avevo proprio della ragione da buttar
via, mi davano torto. E quando commettevo qualche grossa prepotenza,
mia madre aveva un modo particolare di farmi ravvedere e chieder scusa:
coglieva quel momento per fare alla famiglia uno dei regali soliti
di biancheria o d'abiti smessi, che per quella povera gente era tanta
manna, e voleva che portassi io stesso la roba, non accompagnato. Con
la soddisfazione del compiere l'atto benefico m'entrava nel cuore
il pentimento del sopruso, e con questo la vergogna; la quale alle
volte mi teneva un pezzo titubante e mi faceva fare molti zig zag nel
cortile, prima di presentarmi; e provavo poi un grande piacere quando,
nel porger l'involto alla mamma, vedevo il piccolo offeso sorridermi,
facendo capolino di dietro all'uscio, dove s'era rimpiattato al mio
apparire. Il mio prediletto era Franceschino, un trippettino biondo,
d'un par d'anni più di me, gran cacciatore di lumache al cospetto
di Dio; che n'avrebbe scovate fin nelle crepe dei muri, e le faceva
arrostire a modo suo, per semplice formalità, con un fiammifero. Un
giorno, nel cortile, fui colpito nella fronte da un sasso ch'egli aveva
lanciato in aria alla cieca: m'uscì il sangue, strillai, accorse mia
madre, e un momento dopo la portinaia, che s'avventò sul ragazzo come
una furia per pestargli le ossa. Questi, scappando in giro come una
rondine, atterrito, passò accanto a noi, mia madre l'arrestò, e mentre
m'aspettavo che facesse lei le mie vendette, gli mise le mani sul capo
e se lo strinse al petto, per difenderlo, dicendo alla donna: — Non
l'ha fatto apposta, non lo picchi, è perdonato. — Quell'atto mi cacciò
dall'animo come per incanto ogni risentimento, e quasi non sentii più
il dolore. Questo si chiama educare.
*
Fra le mie memorie di quel tempo v'è un angelo dipinto a fresco sulla
vôlta d'una cappella del duomo, dove andavo la domenica a sentir la
messa con la famiglia: un'alta figura alata, ravvolta in un camicione
bianco, di viso soavissimo, che pareva mi guardasse coi suoi grandi
occhi azzurri. Fu quella figura che mi destò il primo sentimento
religioso, facendomi pensare quanto fosse dolce il vivere dopo la
morte in mezzo a migliaia di creature così belle, buone e bianche,
seduto sopra le nuvole, dentro una gran luce rosata, in un'aria odorosa
d'incenso, al suono dell'organo. Ricordo che pensavo a quell'angiolo
ogni sera, mentre dicevo il _Paternoster_ e l'_Avemaria_, prima di
andare a letto, e che davo con l'immaginazione la sua forma all'angelo
custode che credetti fermamente, per un pezzo, mi venisse accanto dalla
mattina alla sera, invisibile. Tanto ci credevo che sovente, nei miei
giochi, m'interrompevo, per domandarmi dov'egli stesse in quel momento,
se davanti a me o alle spalle o dai lati, se vicinissimo o un po'
discosto, se con l'ali aperte o ripiegate, e anche mi guardavo attorno,
qualche volta, con la vaga idea, se non di veder lui in persona, almeno
qualche indizio della sua presenza, alcun che di bianco, una forma
vaporosa, un bagliore fuggente. Avevo la fede, se così può chiamarsi
quello che allora sentivo; ma non rammento d'aver mai avuto paura
dell'inferno, al quale quasi neppur pensavo, come a una cosa che non
riguardasse i ragazzi. La religione era per me come la visione confusa
d'una grande bellezza e un sentimento indeterminato di tenerezza e di
bontà per tutti e per tutto, fin per i più piccoli insetti, che nei
giorni di zelo più vivo badavo a scansare coi piedi. Dal che seguì
che quando ebbi in chiesa le prime lezioni di catechismo dal parroco,
che non ci metteva nè miele nè fiori, mi parve che m'avessero mutata
la materia, e, senza rendermene chiara ragione, rimasi male, come uno
che, aprendo un libro con l'idea di leggere un poema, si ritrovi sotto
gli occhi un trattato scolastico. M'urtò in special modo, senza però
turbarmi, quel nodoso dito sacerdotale sempre eretto e agitato in atto
di minacciare le pene eterne. Quando facevo a mia madre qualche domanda
relativa alla religione, non la interrogavo mai che sul paradiso, che
era per me l'oggetto d'una curiosità vivissima, e intorno al quale
pensavo che i grandi avessero delle cognizioni molto più precise che
i bambini. E quando udivo dire d'una persona morta: — È andata in
paradiso, — credevo che si dicesse per aver visto veramente qualche
cosa di quella persona, come un'ombra o una fiamma, volare in alto e
perdersi nell'azzurro. Quel pensiero del paradiso fu così forte allora
nella mia mente, che mi attrassero poi sempre, anche nell'età matura, e
mi dilettarono vivamente l'immaginazione tutte quelle scene di teatro,
anche rappresentate alla peggio, nelle quali per uno squarcio delle
nuvole, a traverso a un velo bianco trasparente, si vedono in un fondo
luminoso delle vaghe figure celesti, sedute in vari ordini di seggi,
come nell'ultima visione di Dante. Anche a vedere il paradiso in una
baracca di burattini ci ho altrettanto piacere che il più piccolo degli
spettatori.
*
L'angelo custode non mi guardò dal crup, al quale scampai per miracolo,
dopo che il medico m'aveva dato per perso. Non ho memoria alcuna
dei patimenti provati, che furono atroci, come seppi poi da mia
madre, poichè, già soffocato a mezzo, durai per ore a rantolare e ad
annaspar con le mani, come un naufrago, rimovendo da me chiunque mi
s'accostasse, come se mi rubassero l'aria, e supplicando coi cenni
che si spalancasse la finestra. Ricordo soltanto che stavo spesso con
l'orecchio teso per sentire se cantasse il corvo di fuori, perchè
m'aveva detto Franceschino che il giorno prima della morte di mio
fratello s'era sentito cantare un corvo sul tetto della casa. Ricordo
d'aver visto per un momento ritta accanto al mio letto la forma nera
del parroco. E un'altra cosa m'è rimasta in mente, che ancora mi fa
fremere. Uscendo una mattina il medico dalla mia camera, mio padre
e mia madre l'accompagnarono nella stanza accanto; donde mi venne
all'orecchio un suono di voci sommesse, e poi un'esclamazione terribile
di mio padre: — _Anche questo!_ —; terribile al mio cuore in appresso,
quando seppi che significava: — Anche questo figliuolo mi è tolto, —
poichè il medico gli aveva levata in quel punto ogni speranza; ma non
già allora, perchè non compresi. E così non compresi perchè mio padre,
poco dopo, si sedesse a un piccolo tavolino accosto al letto, e menasse
la matita sopra un foglio di carta, guardandomi spesso attentamente.
Mi fu detto poi che, compiendo uno sforzo eroico, egli m'aveva fatto
il ritratto a matita, per avere almeno quella memoria del mio viso,
non ci essendo ancora in città, a quel tempo, nessun fotografo. Povero
padre mio! Conservo ancora quel ritratto che mi fu lasciato da mia
madre, e mi prende una pietà infinita, quando lo guardo, a pensare
con quale strazio nell'animo furono fatti da lui tutti quei tratti
minutissimi, che paiono l'opera d'un artista tranquillo, e specialmente
quell'arruffio di riccioli bruni, sui quali egli era già preparato a
darmi l'ultimo bacio. La crisi che mi salvò, la gioia dei miei parenti,
la convalescenza, tutto è svanito dalla mia mente. Non mi rammento che
la prima volta che fui riportato nel giardino, con un cuffietto in capo
e un fazzoletto al collo, accompagnato a festa da tutti i miei, seguiti
dalla povera Maddalena che piangeva dalla consolazione; rammento che
era una mattina di primavera, e che provai un piacere delizioso, come
se m'apparisse per la prima volta ogni cosa, al riveder la luce del
sole, gli alberi fioriti, e il gatto, che si arrestò a guardarmi,
stupito.
*
Fra quella e la prima impressione della scuola ne ricordo un'altra,
che ebbi dalla prima cognizione d'un grande dolore umano, e che vorrei
poter cancellare dalla mia memoria, in cui è incisa come una ferita
nella carne. C'era accanto alla nostra casa l'ospedale militare, e
davanti a questo una casetta, dove abitava l'amministratore, tenente
di fanteria, con sua moglie: una coppia simpatica alla città intera,
che parevano fratello e sorella, e che io vedevo spesso dalla finestra
passare sul viale dei bastioni, con due bambini bellissimi, fra i
quattro e i sei anni, che tutti ammiravano. Una mattina, tornando
con Maddalena da una passeggiata, vedemmo molta gente che s'affollava
davanti all'ospedale, trattenuta a stento dai bersaglieri di guardia,
tutti col viso alzato verso le finestre della piccola casa, dalle
quali, tra varie voci concitate e confuse, usciva un singhiozzo di
donna violento, strozzato, disperato, più somigliante all'urlo che
al pianto, e che a molti della folla strappava le lacrime. Maddalena
interrogò qualcuno. La risposta gelò il sangue a me pure, benchè
bambino. Era accaduto questo: che il farmacista dell'ospedale, dovendo
mandare della santonina per i due bimbi malati, aveva mandato invece
della stricnina, e le due povere creature, prese le polveri a un tempo,
erano morte quasi nello stesso punto fra le braccia del padre e della
madre. La buona Maddalena si cacciò le mani nei capelli e si diede a
esclamare senza fine, piangendo dirotto: — Ah povera gente! Ah povera
gente! Ah povera gente! — Poi, quando fummo sull'uscio di casa, che era
l'ora di desinare, mi raccomandò in fretta di non dir nulla alla mamma,
chè se no, avrebbe digiunato. Ma appena entrata, al veder mia madre
seduta, che piangeva, con la fronte nelle mani, comprendendo che già
sapeva, proruppe in un'esclamazione d'angoscia quasi collerica, che mi
scosse il cuore, benchè io non capissi ancora che era un'eco del grido
eterno dell'umanità flagellata: — Signore Iddio misericordioso, come
possono accadere di queste cose!
La prima scuola.
Prima dei sei anni fui mandato a imparar l'alfabeto da un maestro
che teneva scuola in un ospizio di ragazzi poveri, nella quale erano
ammessi a pago anche alunni esterni di famiglie agiate. V'andai
volentieri; m'hanno sempre attratto fortemente tutte le cose nuove:
se la natura m'avesse dato la virtù del persistere pari all'ardore
dell'incominciare, sarei forse diventato un pezzo grosso. Il maestro
era un uomo sui cinquanta, zoppo, senza barba, imparruccato, una figura
di vecchio barbiere; ma di umor vivace, tanto che covava in quel tempo
l'idea d'un matrimonio, che compì poi, con una ragazza ventenne; la
quale era cagione di certe sue giornate radiose, in cui stava ritto
sulla gamba sana con una certa grazia di cicogna, come in atto di farsi
beffa dell'altra. Non aveva cultura; ma mente aperta e lucida, sapeva
insegnare, che è una virtù assai rara fra gl'insegnanti, e render la
scuola piacevole. Per insegnar la nomenclatura aveva fatto egli stesso
un gran numero di cartelloni, nei quali erano disegnati e dipinti con
colori chiassosi, e con cert'arte ingenua, e precisa, efficacissima
sui ragazzi, campi e piazze, interni di case e d'officine, con scene
relative a tutti i mestieri, animate da molte figure d'uomini e
d'animali; e quei cartelloni, che mi parvero capolavori, e che ricordo
con una chiarezza maravigliosa, mi fecero un'impressione così viva
e piacevole, che in tutta la vita non ebbi mai più dalla pittura
(Raffaello, perdonami) un diletto più delizioso.
*
Nella scuola, lunga e nuda come un camerone di caserma, v'erano due
file di rozzi tavoloni congiunti: una fila per gli alunni esterni,
l'altra per quelli dell'ospizio, i quali eran tutti vestiti di panno
grigio. La distinzione non era soltanto nel posto e nel vestire; ma
anche nel trattamento che usava il maestro, il quale faceva ancora una
seconda distinzione fra gli esterni di famiglia cospicua e quelli della
piccola borghesia. Egli aveva la voce dolce per i signori, agrodolce
per i borghesucci, agra per i poveri: questi castigava a ceffoni,
scrollava gli altri per le braccia, non toccava i primi. Io appartenevo
all'ordine degli scrollati. C'era tra i primi (come lo rivedo!) il
figliuolo d'un banchiere, guardato con rispetto profondo da tutti;
intorno al quale correva la leggenda favolosa che giocasse alla guerra
in casa sua, facendo delle fortezze con gli scudi, e rappresentando
assediati e assedianti con lire d'argento, fra cui gli ufficiali eran
marenghi e i generali doppie di Genova, e i proiettili fiammiferi
accesi, dei più fini. C'era il figliuolo d'una bella signora, che
compariva alla scuola a quando a quando, vestita con gran lusso; sulla
quale i ragazzi più grandi dell'ospizio facevano a bassa voce dei
commenti, ch'io non capii che anni dopo, quando seppi che essa non
era in regola con lo stato civile; il che mi spiegò pure perchè quel
povero ragazzo piangesse qualche volta di certi scherzi, di cui mi
pareva allora che avrebbe dovuto ridere. C'era anche il figliuolo d'un
giudice di tribunale, che ci minacciava spesso di farci agguantare
dai carabinieri, e mi ricordo d'un fatterello che lo riguarda: che
un giorno, avendolo ingiurato un ragazzo dell'ospizio, il maestro,
infuriato, afferrò il colpevole per un orecchio, e scotendogli il
capo violentemente, gli urlò sul viso: — Ma non sai, ma non sai,
di-sgra-zia-to, che quello è il figliuolo d'un giudice? — Che cose! Che
tempi! Il vecchietto zoppo, adesso, farebbe ancora la tirata d'orecchi,
forse anche più forte; ma non direbbe più la frase.
*
Non ricordo in quanto tempo io abbia imparato a leggere. Credo non
meno presto di quello che si faccia ora dopo cinquant'anni di progressi
didattici. Ma ho ben presente alla memoria che una mattina di domenica,
in casa, avendomi un mio fratello messo sotto gli occhi un libro
di lettura per vedere a che punto fossi, rimase maravigliato che io
leggessi già quasi corrente, e ne diede la notizia a mio padre e a
mia madre, i quali se ne rallegrarono come di cosa inaspettata. Mi
rallegrai anch'io di quel riconoscimento ufficiale della mia uscita
dalla classe illetterata; ma per una mia ragione particolare, da cui
mi derivò un disinganno spiacevole. Io m'ero immaginato che bastasse
saper leggere le parole per divertirsi alla lettura di qualunque libro,
come vedevo che facevano i grandi. Con questa illusione, quel giorno
medesimo, tirai giù un volume a caso dalla libreria di mio padre, e mi
misi a leggere. Era il libro _Della tirannide_ di Vittorio Alfieri.
Lessi una mezza pagina, la rilessi, e restai lì stupito e scontento:
non ci capivo un'acca, come se fosse stato ebraico. E non me ne potevo
capacitare. — O come va questo? — mi domandai. — È scritto in italiano,
so leggere, e non intendo nulla! — Pensai d'esser cascato sopra un
libro difficile: ne presi un altro. Era il _Primato_ del Gioberti.
Rifeci la prova. Peggio che peggio. Cominciai a capire allora che mi
rimaneva molt'altra strada da fare prima di entrar nel regno della
letteratura, e, scoraggiato, lasciai i libri e corsi a giocare, non
confessando ad alcuno la mia delusione, di cui sentivo vagamente il
ridicolo. Ma pochi giorni dopo ebbi un conforto. Il facchino portinaio,
salito in casa per pigliare un mobile, vedendo un libro sopra un
tavolino, ne compitò il titolo, a voce alta, per farmi sentire che
sapeva leggere; ma lesse: — _Opere schelte._ — Io lo corressi, si
persuase, e mi ringraziò. Fu per me una viva soddisfazione d'amor
proprio che mi fece rialzare la fronte e ritornare fiducioso agli
“studi„.
*
Furono interrotti i miei studi da un grande viaggio, del quale serbo il
ricordo come d'un sogno stupendo: un viaggio che feci con mia madre a
Valenza, dove una sorella m'aveva innalzato alla dignità prematura di
zio: una visione confusa di paesi ignoti, inquadrati in finestrini di
vagoni e di diligenze; nella quale sono grandi lacune nere di spazio
e di tempo, che mi paiono corrispondere a lunghi sopori misteriosi;
- Parts
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- Ricordi d'infanzia e di scuola - 18
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