Ricordi di Parigi - 11
un viaggio in Italia.
--Quando?--gli domandai ansiosamente.
--Quando avrò finito _Nana_,--rispose.--Probabilmente la ventura
primavera. È un mio antico desiderio.
E domandò infatti quali erano i mesi propizii per fare un viaggio
in Italia colla famiglia. È inutile che io dica se lo scongiurai di
non cambiar proposito, e con che piacere intravvidi lontano una mensa
splendida, coronata di realisti e d'idealisti italiani d'ogni età e
d'ogni colore, affratellati almeno una sera per onorare un grande
ingegno e un carattere forte e sincero.
E intanto egli continuava a discorrere, in piedi, vicino alla porta,
colla sua amabile e virile franchezza, coi suoi gesti risoluti, col
suo bel viso pallido e fiero, e veduto così sul fondo del suo
studio elegante, pieno di libri e di carte, e dorato da un raggio di
sole, dava l'immagine d'un bellissimo quadro, che rappresentasse
l'ingegno, la fortuna e la forza; e il gridio dei due piccoli Zola che
giocavano nella stanza accanto, vi aggiungeva una nota di gentilezza,
che lo rendeva più nobile e più caro.
E mi suonano sempre all'orecchio le ultime parole che mi disse sulla
soglia, stringendomi la destra con una mano e tenendo su coll'altra la
tenda della porta:
--_Je suis toujours très-sensible aux poignées de main amicales
qui me viennent des étrangers; mais ce n'est pas d'un étranger
que me vient la vôtre; c'est de l'Italie, de ma première patrie,
ou est né mon père. Adieu!_
PARIGI
Per quanto si stia volentieri a Parigi viene un giorno in cui la
città diventa antipatica.
Passata la febbre dei primi giorni, quando si comincia a entrare un po'
addentro a quella vita tumultuosa, si prova un disinganno, come al
vedere la città la mattina per tempo, mentre è ancora scarmigliata
e insonnita. Com'è brutta Parigi in quell'ora! Quei _boulevards_
famosi, così sfolgoranti poche ore prima, non sono più che uno
stradone irregolare, fiancheggiato da case misere, alte e basse,
sbiadite, annerite, sformate sulla sommità da un orribile disordine
di camini altissimi, che paiono la travatura di edifizi non finiti; e
ogni cosa essendo ancora chiusa e velata da un po' di nebbia, non si
vede che un grande spazio solitario e grigio, nel quale non si
riconoscono più, a primo aspetto, i luoghi più noti; e tutto pare
invecchiato, logoro e pieno di pentimenti e di tristezze; a cui sembra
che vogliano sfuggire le rare carrozze che passano rapidamente, come
peccatrici sorprese dall'alba e dalla vergogna, dopo l'ultima orgia del
carnovale.--Son questi i _boulevards_?--si dice con un senso di
rammarico, davanti a quel miserabile spettacolo. E così dopo qualche
mese di vita parigina si dice:--Questa è Parigi?
Ma i primi mesi sono bellissimi, in specie per i cambiamenti che seguono
in noi. Si prova subito un raddoppiamento d'attività fisica per
effetto del raddoppiamento di valore del tempo, e l'orologio, fino
allora sprezzato, assume la direzione della vita. Tre giorni dopo
l'arrivo, senza che ce n'accorgiamo, la cadenza abituale del nostro
passo è già accelerata, e il giro del nostro sguardo, ingrandito.
Tutto, anche il divertimento, richiede previdenza e cura; ogni passo ha
il suo scopo; ogni giornata ci si presenta, fin dallo svegliarsi, divisa
e ordinata in una serie di occupazioni; e non ci rimane più alcuno di
quei piccoli ozii, i quali, come in una marcia militare i riposi
irregolari, infiacchiscono invece di ristorare le forze. La più
torpida pigrizia è scossa e vinta. La vita sensuale e la vita
intellettuale si intrecciano così sottilmente, e ci allacciano la
giornata in una rete così fitta di piaceri e di pensieri, che non
è più possibile stricarsene. Una curiosità smaniosa di mille
cose s'impadronisce di noi, e ci fa correre dalla mattina alla sera
coll'interrogazione sulle labbra e colla borsa in mano, come affamati in
cerca di alimento. Il delitto clamoroso, il re che passa, l'astro che si
spegne, la gloria che sorge, la solennità scientifica, il libro
nuovo, il nuovo quadro, il nuovo scandalo, le grida di stupore e le alte
risate di Parigi, si succedono così rapidamente che non c'è neppur
il tempo di voltarsi a dare uno sguardo a ogni cosa; e siamo costretti a
difendere faticosamente la nostra libertà di spirito, se vogliamo
attendere a un qualsiasi lavoro. Tutto precipita e la menoma sosta
produce una piena. Stiamo quarant'otto ore in casa; è come starci un
mese in una città italiana. Uscendo, troviamo cento nuove cose nei
luoghi soliti dove davamo una capatina, e cento nei discorsi del nostro
crocchio d'amici; e torniamo a casa con una retata di notizie e d'idee,
ciascuna già bollata d'un giudizio arguto, e come battuta in moneta
spicciola, da potersi spendere immediatamente. In capo a pochi giorni ci
troviamo nelle condizioni d'ogni buon «borghese» parigino:
scambiamo cioè per dottrina e per spirito nostro tutta la dottrina e
tutto lo spirito che ci corre intorno, tanto sentiamo nel serra serra di
quella moltitudine che si rimescola vertiginosamente, il calore e il
palpito della vita di tutti. Per quanto si viva in disparte, la grande
città ci parla nell'orecchio continuamente, ci accende il viso col
suo fiato, ci costringe a poco a poco a pensare e a vivere a modo suo, e
ci attacca tutte le sue sensualità. Dopo quindici giorni lo straniero
più restio fa già la gobba, come il gatto, sotto la sua mano
profumata. Si sentono come i fumi d'un vino traditore, che salgono a
grado a grado alla testa; un'irritazione voluttuosa, provocata dalla
furia di quella vita, dallo sfolgorio, dagli odori, dalla cucina
afrodisiaca, dagli spettacoli eccitanti, dalla forma acuta in cui ogni
nuova idea ci ferisce; e non è passato un mese, che quel ritornello
eterno di tutte le canzonette,--la bella donnina, il teatro e la
cenetta--ci s'è piantato nella testa tirannicamente, e tutti i nostri
pensieri gli battono le ali dintorno. Abbiamo già dinanzi un altro
ideale di vita, da quello che avevamo arrivando, più facile allo
spirito, più difficile alla borsa, verso il quale la nostra coscienza
ha già fatto, prima che ce n'accorgiamo, mille piccole transazioni
codarde. Certo non bisogna avere in sè cagioni di grandi dolori,
perchè è tremendo per chi è in terra sentirsi passare addosso
quell'immensa folla che corre ai piaceri. Ma Parigi è per la
gioventù, per la salute e per la fortuna, e dà loro quello che
nessun'altra città al mondo può dare. Certi stati d'animo, in
fatti, brevi, ma deliziosi, sono specialissimi di quella vita: come è
passare in carrozza per una delle strade più splendide e più
rumorose, verso sera, sotto un bel cielo azzurro lavato di fresco da un
temporale di primavera, pensando che ci aspetta dopo la corsa una bella
mensa coronata di spalle bianche e tempestata di frizzi, e dopo la
mensa, una nuova commedia dell'Augier, e poi un'ora in un crocchio
d'amici colti ed amabili al caffè Tortoni, e in fine, a letto, un
capitolo d'un nuovo romanzo del Flaubert, tra riga e riga del quale
penseremo già alla gita che faremo a Saint-Cloud la mattina seguente.
In nessun'altra città si danno delle ore così piene zeppe di
sensazioni e di aspettazioni piacevoli. Non l'ora, ma il quarto d'ora
è pieno di promesse misteriose e d'indovinelli, che tengono l'animo
sospeso nella speranza di qualche cosa d'impreveduto: supremo alimento
della vita. Abbiamo un amico al Giappone di cui non sappiamo nulla da
anni? Mettiamoci davanti al _Grand Cafè_ tra le quattro o le cinque:
non è mica improbabile che lo vediamo passare. Là abbiamo tutto di
prima mano. Siamo all'avanguardia, tra i primi dell'esercito umano a
veder la faccia della nuova idea che s'avanza, le calcagna dell'errore
che fugge, la nuova direzione del cammino dopo la svolta; e subito
s'innesta sul nostro amor proprio una specie di vanagloria parigina, di
cui ci spoglieremo alla stazione partendo; ma che s'impadronisce anche
di coloro che detestano la città sin dal primo giorno. Ed è
inutile tentar di fuggire a quel turbinìo d'idee e di discorsi. La
discussione ci aspetta a cento varchi, ci provoca coll'arguzia, colla
canzonatura, col paradosso, collo sproposito, e costringe l'uomo più
apatico a farsi soldato in quella battaglia. Da principio si rimane
sopraffatti, e per quanto si possegga la lingua, non si trova più la
parola. Ai pranzi, in special modo, verso la fine, quando tutti i visi
si colorano, non si ardisce slanciare il proprio in mezzo ai mille razzi
matti di quelle conversazioni precipitose e sonore. Il sorriso
canzonatorio della bella signora, che par che si serva di noi, nuovi a
quel mondo, per fare i suoi esperimenti _in anima vili_, e la
disinvoltura del giovanotto artisticamente pettinato, un po' maligno, e
sempre lì coll'arco teso per coglier a volo il ridicolo, ci troncano
i nervi; e ci sentiamo tornar su gli ultimi resti della timidità e
della zoticaggine del collegio, e a dispetto di qualche capello grigio,
arrossiamo. Ma poi dalla cassettina dei liquori spiccia anche per noi
uno zampillo dell'eloquenza argentina dei conviti, e un piccolo trionfo
riportato là, in quella terribile arena, ci pare il primo trionfo
legittimo della nostra vita. E ogni giorno sentiamo d'acquistare qualche
cosa. La lingua si snoda, ed anche parlando il linguaggio proprio
riusciamo a trovare di più in più facilmente, in quella
conversazione che è sempre una gara di destrezza, la formola più
breve e più lucida del nostro pensiero; lo scherzo s'affila,
confricato come è sempre, come lama a lama, con uno scherzo rivale;
il senso comico, continuamente esercitato, s'affina; e a poco a poco ci
si attacca col riso parigino la filosofia allegramente coraggiosa del
_boulevardier_, per cui il mondo comincia alla Porta Saint Martin e
termina alla Madeleine. Ma già il piccolo carico di cure e di
rammarichi che avevamo portato da casa, c'è stato strappato via,
appena arrivati, dalla prima ondata di quel mare enorme e non lo vediamo
più che come un punto nero molto lontano da noi. Intanto la catena
degli amici si allunga rapidamente; pigliarne delle nuove abitudini;
tutte le nostre debolezze trovano la fossetta morbida in cui adagiarsi;
allo sgomento che ci dava la grandezza di Parigi succede l'allegrezza
della libertà che deriva appunto da quella grandezza; lo strepito che
ci frastornava da principio, finisce per accarezzarci l'orecchio come il
rumore di un'enorme cascata d'acqua; quella immensa magnificenza
posticcia finisce per sedurci come la poesia maestrevolmente inorpellata
d'un seicentista d'ingegno; il nostro passo comincia a sonare sul
marciapiede dei _boulevards_, come dice lo Zola, _avec des
familiarités particulières_; facciamo la mente al bisticcio, il
palato alle salse, l'occhio ai visi imbellettati, l'orecchio ai canti in
falsetto; si compie in noi a poco a poco una profonda e deliziosa
depravazione di gusti; fin che un bel giorno ci accorgiamo d'essere
Parigini fin nel midollo delle ossa. Eh! allora, durante quel primo
tempo della luna di miele, si scusa tutto. La corruzione! Fanno ridere.
Accorrono là gli scapestrati da tutte le plaghe dei venti, affamati
di vizio, e ci fanno ira di Dio, rabbiosi che non ci si possa fare di
peggio, e quando si son vuotati la borsa e le ossa, tornano nei loro
paesi e gridano:--Che lupanare!--Ah sì, tocca davvero alle altre
grandi città d'Europa a gridare allo scandalo: le ipocrite! E poi
«la leggerezza!» È vero; ma «i gravi pensieri» di altri
popoli ci rammentano un po' i pensieri di quel tal poeta tedesco,
canzonato dall'Heine; quei pensieri celibi, che si fanno il caffè da
sè e la barba da sè, e vanno a cogliere dei fiori pel proprio
giorno onomastico nel giardino di Brandeburgo. E poi «la
_blague_!» Ma se già si è appiccicata a noi, stranieri, nel
soggiorno d'un mese, e ne portan via tutti un pochino, per il proprio
consumo, quando tornano nelle loro patrie modeste! Ma s'ha ben altro da
fare che difender Parigi mentre ci agitiamo fra le sue braccia. Il tempo
vola, non vogliamo perderne un'ora, abbiamo mille cose da cercare, da
studiare, da godere; ci piglia la furia di far entrar in ogni giornata,
come il ladro nel sacco, tutta la ricchezza che vi può capire; un
demone implacabile ci caccia a sferzate di salotto in salotto, dal
teatro all'accademia, dall'uomo illustre al _bouquiniste_, dal caffè
al museo, dalla sala da ballo all'ufficio del giornale; e la sera,
quando la grande città ci ha detto e dato tutto quello che le abbiamo
domandato, sempre amabile e allegra; quando sediamo a cena cogli amici,
stanchi, ma contenti di sentirci la nostra preda nella testa e nel
cuore, e ci cominciano a scoppiettare intorno le arguzie e gli aneddoti,
e il primo bicchiere di Champagne ci tinge di color d'oro tutti i
ricordi della giornata; allora con che slancio d'entusiasmo salutiamo la
grande Parigi, l'ospite amorosa e magnifica, che a tutti apre le
braccia, e profonde ridendo baci, oro ed idee, e rinfiamma in tutti i
cuori col suo soffio giovanile il furore della gloria e l'amore della
vita!
Ma dopo alcuni mesi, che cambiamento! Comincia a nascervi in cuore una
piccola antipatia per una cosa insignificantissima; poi ve ne salta su
ogni giorno una nuova; e in capo a un mese scappereste da Parigi
mandandole il famoso saluto del Montesquieu a Genova;
Adieu.... séjour détestable;
Il n'y a pas de plaisir comparable
A celui de te quitter.
È davvero un rivolgimento d'idee stranissimo; ma segue, credo, a
quasi tutti. Una bella mattina comincia per rivoltarvi uno scipitissimo
_calembourg_, cento volte rifatto, del giornale che leggete tutti i
giorni. La mattina dopo vi urta i nervi il sorriso rassegato della
padrona del vostro _Hôtel_ che somiglia a tutti i sorrisi che vi si
fanno a Parigi da per tutto dove andate a portar dei denari; o per la
strada, osservate che è intollerabilmente brutta l'uniforme dei
gendarmi. Poi via via, pigliate in tasca l'impiegatessa cogli occhiali e
coi baffi che vi domanda il nome, la patria e la professione per
vendervi un biglietto pel _Théâtre français_; vi fa pizzicare
le mani la goffa albagìa dei _concierges_, l'impertinenza di quei
ridicoli camerieri in gonnella bianca, la brutalità dei fiaccherai, e
la boria da grand'uomo di _tout ce qui est un peu fonctionnaire_. E quei
dieci mascalzoni pagati, che in tutti i teatri, tutte le sere, vogliono
farvi ammirare a suono d'applausi quel dato verso? E quelle eterne
romanze, cantate da voci di gallina spennata viva, che vi tocca a
ingoiare in tutte le case? Poi vi ristucca quel desinare a bocconcini
numerati e classificati, tutta quella esposizione di prezzi, a
centesimi, quel non so che di gretto e di pedantesco, da
collegio-convitto, mascherato d'un lusso di baracca da fiera;
quell'eterno sacrifizio d'ogni cosa all'apparenza, quell'eleganza
leccata e pretenziosa, quel puzzo perpetuo di _marchand de vin_ e di
cosmetici, quegli spicchi di case, quelle scalette a chiocciola, quelle
scatole di botteghe, quelle stie di teatri, quella _réclame_ da
saltimbanchi, quella pompa da bazar, la fontanella misera, l'albero
tisico, il muro nero, l'asfalto fangoso; e appena fuori del centro, quei
sobborghi immensi e uniformi, quegli spazii interminabili che non sono
nè città nè campagna, sparsi di casoni solitarii e tristi, e
quei giardinetti da asilo infantile, e quei villaggi da palco scenico.
Ed è questa la grande Parigi? Se un terremoto fa crollare tutte le
vetrine e una pioggia ardente cancella tutte le dorature, che cosa ci
resta? Dov'è la ricchezza di Genova, la bellezza di Firenze, la
grazia di Venezia, la maestà di Roma? Vi piace davvero quella
vanagloriosa parodia di S. Pietro che è il Panteon, o quel
tempiaccio greco-romano della Borsa, o quell'enorme e splendida
caserma di cavalleria delle Tuileries, e la decorazione da _Opéra
comique_ della piazza della Concordia, e le facciate dei teatrini
rococò, e le torri in forma di clarini giganteschi, e le cupole
fatte sul modello del berretto dei jokey? E questa è la città
che «riassume» Atene, Roma, Tiro, Ninive e Babilonia? Gomorra e
Sodoma, sì, davvero. E non lo dite per la grandezza, della
corruzione, ma per la sua insolenza. Ognuno ha il suo impiccato
all'uscio, ci s'intende, ma _est modus in rebus_. In casa vostra
almeno, come vi dice anche qualche francese, _elles se conduisent
bien_. Ma dove sì vede, fuorchè là, una doppia fila di lupanari
aperti sulla strada, colle belle esposte sul marciapiede, che
alzano lo stivaletto ad altezze.... vertiginose, e mille
_restaurants_, dove si gettano i _mots crus_ da una parte all'altra
della sala, o giocan di scherma coi piedi, sotto la tavola, coll'amico
del cuore, a puntate pericolose? E che «genere»! Andate alle
_Folies Bergère_: vi par di sentir ridere delle macchinette; sembra
che abbian fatto tutte un corso di civetteria dalla stessa maestra;
non movono un pelo senza uno scopo; regolano l'arte della seduzione
col termometro, per non sciuparla, e la fan salire d'un grado alla
volta, e hanno una tariffa per grado. Il sangue, poi! «_Tra due
guancie impiastrate un mezzo naso_.» La bellezza è tutta nelle
carrozze chiuse o nei salotti inaccessibili; alla luce del sole non ci
sono che le acciughe
_Di lussuria anelanti e semivive_
o i donnoni che scoppian nel busto, immobili dietro ai _comptoirs_,
come grosse gatte, con quei faccioni antigeometrici, che non dicono il
bellissimo nulla. E il sesso mascolino, dunque! Quel formicolìo di
_gommeux_, mostre di uomini, con quei vestiti da modellini di sarto,
da cui spunta la cocca del fazzoletto e la punta della borsina e il
guantino e il mazzettino; _environnés_, come dice il Dumas, _d'une
légére atmosphère de perruquier_; senza spalle, senza petto,
senza testa, senza sangue, che paiono fatti apposta per essere
scappellati con una pedata da una ballerina del _Valentino!_ E che
ragazzaglia tutti quanti, giovani e vecchi, di tutte le classi!
Trecento «cittadini» si affacciano alle spallette d'un ponte per
veder lavare un cane; passa un tamburo, s'affolla mezzo mondo; e mille
persone, in una stazione di strada ferrata, fanno un fracasso
interminabile di battimani, d'urli e di risa perchè è caduto il
cappello a un guardatreni; e guardatevi bene dal tossire, perchè
possono mettersi a tossire tutti e mille insieme per tre quarti d'ora.
E che democratici! Oh questo sì; democratici nel sangue, e
fierissimi sprezzatori d'ogni vanità, come _monsieur Poirier_. Il
vostro amico intimo, per desinare faccia a faccia con voi, in casa
propria, si mette il nastro all'occhiello; il ricco negoziante di
telerie vi annunzia col viso radiante, come un trionfo della casa, che
avrà a pranzo un sotto prefetto _dègommé_; i _sergents de
ville_ si pigliano impunemente, colla folla, delle licenze manesche di
cui basterebbe una mezza, fra noi, a provocare un sottosopra; e il
popolo sovrano, nelle feste pubbliche, è fermato a tutti i varchi a
furia di sentinelle e di barricate, scacciato, malmenato con una
brutalità, che persino l'aristocratico _Figaro_, il giornale che
concilia con tanto garbo la descrizione d'una santa comunione e
l'aneddoto della _fille aux cheveux carotte_, si sente in dovere di
levare un grido d'indignazione. E dove s'è mai vista una
letteratura più spasimante per il blasone; scrittori che si lascino
venire così ingenuamente l'acquolina sulle labbra al suono di un
titolo gentilizio, e che mettano più stemmi e più boria
aristocratica nelle loro creazioni? Quando ci libereranno dai loro
eterni visconti e dalle loro eterne marchese questi ostinati
frustasalotti? Non ce n'hanno ancora imbanditi abbastanza di quei loro
«protagonisti» nobili, giovani, belli, spiritosi, coraggiosi,
spadaccini, irresistibili, che hanno tutti i doni di Dio «_même
une jolie voix de ténor_?» E ghiotti di ciondoli, Dio buono!
Quel povero Paul de Kock, che a settantaquattro anni scrive venti
pagine per provare che non gl'importa nulla di non aver ricevuto la
Legion d'onore, e ha quasi voglia di piangere! E dov'è un altro
paese democratico, in cui gli scrittori coprano d'un ridicolo così
sanguinosamente ingiurioso intere classi della cittadinanza, dove
l'epiteto di _bourgeois_ abbia assunto, in mente di coloro stessi a
cui spetta, un significato più aristocraticamente sprezzante, e
dove basti un nome, solo perchè ha il suggello plebeo, a far
scoppiare dalle risa una platea? Ma cos'è dunque questo bizzarro
impasto di contraddizioni, il Parigino? Chi lo sa? Afferratelo; vi
sguiscia di mano. Presentategli il bandolo d'una di quelle quistioni
in cui si rivela un uomo, ed egli, astutamente, lo rimette in mano a
voi con un colpo di mano da prestigiatore. Hanno spirito: ce lo
cantano in tutti i tuoni, ed è vero. Ma fino a un certo segno.
Hanno un ricchissimo corredo di proposizioni e di giri di frase,
arguti, svelti, elasticissimi, con cui se la cavano dalle strette
più difficili, e tagliano la parola a uno spirito più profondo
ma meno destro. Ci sono molti Parigini, certo, che sono
spiritosissimi; ma questi lavorano per tutti. La superiorità loro
è che il grosso della popolazione è un eccellente conduttore di
questa specie d'elettricità dell'ingegno, per cui il motto arguto
detto da uno la mattina, girando con rapidità meravigliosa, diventa
proprietà di mille la sera, e ciascuno è sempre ricco di tutta
la ricchezza circolante. Ma che il _gamin_ di Parigi sia proprio di
tanto più arguto del _vallione_ di Napoli e del _becerino_ di
Firenze? E come ci studiano! Si preparano per i pranzi, vanno alla
conversazione col repertorio già scelto e ordinato, e conducono il
discorso a zig zag, a salti, a giravolte, a sgambetti, con un'arte
infinita, per metter fuori, in quel dato momento, il gran tesoro d'una
corbelleria. E questi spiritosi di seconda mano si somiglian tutti;
sentito un _commis voyageur_, ne avete sentito mille. Ci son certi
ingredienti e un certo meccanismo per distillare quello spirito, che
una volta scoperti, è finita, come delle botte «di riserva»
degli schermitori. Ma ci tengono! Fa pietà e dispetto davvero,
vedere il vecchio acciaccoso, affetto d'incipiente _delirium tremens_,
che quando è riuscito, nella folla, a infilare un giochetto di
parole che fa sorridere cinque grulli, rialza la fronte sfolgorante di
gloria e di gioia, e se ne va beato per una settimana! E poi questa
mania universale di _fair de l'esprit_ che castra il pensiero, che fa
dir tante goffaggini, e sacrificare così spesso la ragione, la
dignità e l'amicizia a un _succés_ di cinque minuti, è come
un velo continuamente sventolato davanti al pensiero, che intorbida la
vista delle anime. Potete mai sapere che cosa rimpiatti un uomo dietro
quello scherzo eterno? Ma ci son ben altri veli tra il Parigino e voi.
Il Parigino «della buona società» sembra un uomo, come suol
dirsi, alla mano; ma non lo è affatto. È raro che proviate con
lui il piacere d'una conversazione famigliarissima e liberissima.
Preoccupato, com'è sempre, dal pensiero di essere un oggetto di
curiosità e di studio per lo straniero, sta in guardia, regola il
gesto e il sorriso, studia l'inflessione della voce, pensa
continuamente a giustificare l'ammirazione che presuppone in voi, e ha
sempre un po' della civetteria della donna e della vanità
dell'artista. Ogni momento vi vien la voglia di dirgli:--Ma leviamoci
i guanti una volta!--La sua natura corrisponde al suo modo di vestire,
che, anche quando è modesto, ha qualche piccolissima cosa che
tradisce la ricercatezza effeminata del bellimbusto. Egli è gentile
senza dubbio, ma d'una gentilezza che vi tiene in là, come la mano
leggiera d'una ragazza che non vuol essere toccata. Vada per lo
Spagnuolo, il quale fa sentire la sua superiorità con una vanteria
colossale, sballata tanto dall'alto, che vi passa al di sopra della
testa. Ma il Parigino vi umilia delicatamente, a colpi di spilla, con
quel perpetuo sorriso aguzzo di chi assaggia una salsa piccante,
facendovi delle interrogazioni sbadate, colorite d'una curiosità
benevola delle cose vostre. Oh poveri Italiani, com'è conciato, a
Parigi, il vostro povero amor proprio! Se non nominate proprio Dante,
Michelangelo e Raffaello, per tutto il rimanente non ne caverete altro
che un:--_Qu'est ce que c'est que ça?_ Il deputato papista vi
domanda se Civitavecchia è rimasta al Papa. Il buon padre di
famiglia vede i briganti col fucile a tracolla che fumano
tranquillamente un Avana davanti al _Caffè d'Europa_ a Napoli. Il
gentiluomo è stato in Italia, senza dubbio; ma per poter _causer
Italie_ colla bella signora, nel vano della finestra, dopo desinare; o
per appendere il ciondolo _Italia_, alla catenella delle sue
cognizioni, e farlo saltellar nella mano nei momenti d'ozio, con
quelle solite formule, che ogni Francese possiede, sul paesaggio, sul
quadro e sull'albergo. Il famoso De Forcade diceva del Manzoni, a
tavola:--_Il a du talent_.--Quasi vi domanderebbero:--Ma che proprio
si può nascere in Italia?--Quest'idea d'esser nato a Parigi, d'aver
avuto questo segno di predilezione da Dio, sta in cima a tutti i
pensieri del Parigino, come una stella, che irradia tutta la sua vita
d'una consolazione celeste. La benevolenza ch'egli dimostra a tutti
gli stranieri, è ispirata in gran parte da un sentimento di
commiserazione, e i suoi odii contro di essi non sono profondi,
appunto perchè considera i suoi nemici abbastanza puniti dalla
sorte, che non li fece nascere dove egli è nato. Perciò adora
tutte le fanciullaggini e tutti i vizii della sua città, e ne va
superbo, solo perchè sono fanciullaggini e vizii di Parigi, che per
lui sta sopra alla critica umana. E si può dare una città
capitale che sputi più audacemente in faccia al popolo della
provincia, rappresentato dai suoi scrittori come un ammasso di
cretini? e scrittori che incensino la loro città con una impudenza
più oltraggiosa, non solo per ogni altro amor proprio nazionale, ma
per la dignità umana? E vi dicono in faccia, dal palco scenico, che
i fumi dei suoi camini sono le idee dell'universo! Tutti sono
prostrati col ventre a terra davanti a questa enorme cortigiana, madre
e nutrice di tutte le vanità; della vanità smaniosa di piacerle,
prima fra tutte, di ottenere da lei, a qualunque costo, almeno uno
sguardo; di quella vanità vigliacca che spinge uno scrittore a
dichiararsi, nella prefazione d'un romanzo infame, capace di tutte le
turpitudini e di tutti i delitti di Eliogabalo e di Nerone. Pigliate
dunque sul serio le loro prefazioni piene di smorfie, di puerilità,
di spacconate, di imposture. La vanità li appesta tutti. Non c'è
in tutta la letteratura contemporanea uno di quei caratteri grandi,
modesti, benevoli, logici, che uniscono allo splendore della mente la
dignità della vita; una di quelle figure alte e candide, davanti a
cui si scopre la fronte senza esitazione e senza reticenze, e il cui
nome è un titolo di nobiltà e un conforto per il genere umano.
Tutto è dominato e guasto dalla mania della _pose_: _pose_ nella
letteratura, _pose_ nella religione, _pose_ nell'amore, _pose_ anche
nei più grandi dolori. Una sensualità immensa e morbosa
costituisce il fondo di tutta quella vita, e si rivela nelle lettere,
nella musica, nell'architettura, nelle mode, nel suono delle voci,
negli sguardi, persino nelle andature. Godere! Tutto il resto non è
che un mezzo per arrivarci. Da un capo all'altro di quegli splendidi
_boulevards_ suona una enorme risata di scherno per tutti gli scrupoli
e per tutti i pudori dell'anima umana. E viene un giorno, infine, in
cui quella vita v'indigna; un giorno in cui vi sentite rabbiosamente
stanchi di quell'immenso teatro, impregnato d'odor di gaz e di
pasciulì, dove ogni spettacolo finisce in una canzonetta; un giorno
in cui siete stufi di bisticci, di _blague_, d'intingoli, di tinture,
di _réclame_, di voci fesse, di sorrisi falsi, di piaceri comprati;
e allora l'odiate, quella città svergognata, e vi pare che per
purificarvi da tre mesi di quella vita, dovreste vivere un anno sulla
sommità d'una montagna, e provate una smania irresistibile di
correre ai campi aperti e all'aria pura, di sentir l'odore della
terra, di rinverginarvi l'anima e il sangue nella solitudine, faccia a
faccia colla natura.
La sfuriata è fatta: sta bene. Facciamoci in là perchè passi,
come dicono gli Spagnuoli. A Parigi si può dire quello che si
--Quando?--gli domandai ansiosamente.
--Quando avrò finito _Nana_,--rispose.--Probabilmente la ventura
primavera. È un mio antico desiderio.
E domandò infatti quali erano i mesi propizii per fare un viaggio
in Italia colla famiglia. È inutile che io dica se lo scongiurai di
non cambiar proposito, e con che piacere intravvidi lontano una mensa
splendida, coronata di realisti e d'idealisti italiani d'ogni età e
d'ogni colore, affratellati almeno una sera per onorare un grande
ingegno e un carattere forte e sincero.
E intanto egli continuava a discorrere, in piedi, vicino alla porta,
colla sua amabile e virile franchezza, coi suoi gesti risoluti, col
suo bel viso pallido e fiero, e veduto così sul fondo del suo
studio elegante, pieno di libri e di carte, e dorato da un raggio di
sole, dava l'immagine d'un bellissimo quadro, che rappresentasse
l'ingegno, la fortuna e la forza; e il gridio dei due piccoli Zola che
giocavano nella stanza accanto, vi aggiungeva una nota di gentilezza,
che lo rendeva più nobile e più caro.
E mi suonano sempre all'orecchio le ultime parole che mi disse sulla
soglia, stringendomi la destra con una mano e tenendo su coll'altra la
tenda della porta:
--_Je suis toujours très-sensible aux poignées de main amicales
qui me viennent des étrangers; mais ce n'est pas d'un étranger
que me vient la vôtre; c'est de l'Italie, de ma première patrie,
ou est né mon père. Adieu!_
PARIGI
Per quanto si stia volentieri a Parigi viene un giorno in cui la
città diventa antipatica.
Passata la febbre dei primi giorni, quando si comincia a entrare un po'
addentro a quella vita tumultuosa, si prova un disinganno, come al
vedere la città la mattina per tempo, mentre è ancora scarmigliata
e insonnita. Com'è brutta Parigi in quell'ora! Quei _boulevards_
famosi, così sfolgoranti poche ore prima, non sono più che uno
stradone irregolare, fiancheggiato da case misere, alte e basse,
sbiadite, annerite, sformate sulla sommità da un orribile disordine
di camini altissimi, che paiono la travatura di edifizi non finiti; e
ogni cosa essendo ancora chiusa e velata da un po' di nebbia, non si
vede che un grande spazio solitario e grigio, nel quale non si
riconoscono più, a primo aspetto, i luoghi più noti; e tutto pare
invecchiato, logoro e pieno di pentimenti e di tristezze; a cui sembra
che vogliano sfuggire le rare carrozze che passano rapidamente, come
peccatrici sorprese dall'alba e dalla vergogna, dopo l'ultima orgia del
carnovale.--Son questi i _boulevards_?--si dice con un senso di
rammarico, davanti a quel miserabile spettacolo. E così dopo qualche
mese di vita parigina si dice:--Questa è Parigi?
Ma i primi mesi sono bellissimi, in specie per i cambiamenti che seguono
in noi. Si prova subito un raddoppiamento d'attività fisica per
effetto del raddoppiamento di valore del tempo, e l'orologio, fino
allora sprezzato, assume la direzione della vita. Tre giorni dopo
l'arrivo, senza che ce n'accorgiamo, la cadenza abituale del nostro
passo è già accelerata, e il giro del nostro sguardo, ingrandito.
Tutto, anche il divertimento, richiede previdenza e cura; ogni passo ha
il suo scopo; ogni giornata ci si presenta, fin dallo svegliarsi, divisa
e ordinata in una serie di occupazioni; e non ci rimane più alcuno di
quei piccoli ozii, i quali, come in una marcia militare i riposi
irregolari, infiacchiscono invece di ristorare le forze. La più
torpida pigrizia è scossa e vinta. La vita sensuale e la vita
intellettuale si intrecciano così sottilmente, e ci allacciano la
giornata in una rete così fitta di piaceri e di pensieri, che non
è più possibile stricarsene. Una curiosità smaniosa di mille
cose s'impadronisce di noi, e ci fa correre dalla mattina alla sera
coll'interrogazione sulle labbra e colla borsa in mano, come affamati in
cerca di alimento. Il delitto clamoroso, il re che passa, l'astro che si
spegne, la gloria che sorge, la solennità scientifica, il libro
nuovo, il nuovo quadro, il nuovo scandalo, le grida di stupore e le alte
risate di Parigi, si succedono così rapidamente che non c'è neppur
il tempo di voltarsi a dare uno sguardo a ogni cosa; e siamo costretti a
difendere faticosamente la nostra libertà di spirito, se vogliamo
attendere a un qualsiasi lavoro. Tutto precipita e la menoma sosta
produce una piena. Stiamo quarant'otto ore in casa; è come starci un
mese in una città italiana. Uscendo, troviamo cento nuove cose nei
luoghi soliti dove davamo una capatina, e cento nei discorsi del nostro
crocchio d'amici; e torniamo a casa con una retata di notizie e d'idee,
ciascuna già bollata d'un giudizio arguto, e come battuta in moneta
spicciola, da potersi spendere immediatamente. In capo a pochi giorni ci
troviamo nelle condizioni d'ogni buon «borghese» parigino:
scambiamo cioè per dottrina e per spirito nostro tutta la dottrina e
tutto lo spirito che ci corre intorno, tanto sentiamo nel serra serra di
quella moltitudine che si rimescola vertiginosamente, il calore e il
palpito della vita di tutti. Per quanto si viva in disparte, la grande
città ci parla nell'orecchio continuamente, ci accende il viso col
suo fiato, ci costringe a poco a poco a pensare e a vivere a modo suo, e
ci attacca tutte le sue sensualità. Dopo quindici giorni lo straniero
più restio fa già la gobba, come il gatto, sotto la sua mano
profumata. Si sentono come i fumi d'un vino traditore, che salgono a
grado a grado alla testa; un'irritazione voluttuosa, provocata dalla
furia di quella vita, dallo sfolgorio, dagli odori, dalla cucina
afrodisiaca, dagli spettacoli eccitanti, dalla forma acuta in cui ogni
nuova idea ci ferisce; e non è passato un mese, che quel ritornello
eterno di tutte le canzonette,--la bella donnina, il teatro e la
cenetta--ci s'è piantato nella testa tirannicamente, e tutti i nostri
pensieri gli battono le ali dintorno. Abbiamo già dinanzi un altro
ideale di vita, da quello che avevamo arrivando, più facile allo
spirito, più difficile alla borsa, verso il quale la nostra coscienza
ha già fatto, prima che ce n'accorgiamo, mille piccole transazioni
codarde. Certo non bisogna avere in sè cagioni di grandi dolori,
perchè è tremendo per chi è in terra sentirsi passare addosso
quell'immensa folla che corre ai piaceri. Ma Parigi è per la
gioventù, per la salute e per la fortuna, e dà loro quello che
nessun'altra città al mondo può dare. Certi stati d'animo, in
fatti, brevi, ma deliziosi, sono specialissimi di quella vita: come è
passare in carrozza per una delle strade più splendide e più
rumorose, verso sera, sotto un bel cielo azzurro lavato di fresco da un
temporale di primavera, pensando che ci aspetta dopo la corsa una bella
mensa coronata di spalle bianche e tempestata di frizzi, e dopo la
mensa, una nuova commedia dell'Augier, e poi un'ora in un crocchio
d'amici colti ed amabili al caffè Tortoni, e in fine, a letto, un
capitolo d'un nuovo romanzo del Flaubert, tra riga e riga del quale
penseremo già alla gita che faremo a Saint-Cloud la mattina seguente.
In nessun'altra città si danno delle ore così piene zeppe di
sensazioni e di aspettazioni piacevoli. Non l'ora, ma il quarto d'ora
è pieno di promesse misteriose e d'indovinelli, che tengono l'animo
sospeso nella speranza di qualche cosa d'impreveduto: supremo alimento
della vita. Abbiamo un amico al Giappone di cui non sappiamo nulla da
anni? Mettiamoci davanti al _Grand Cafè_ tra le quattro o le cinque:
non è mica improbabile che lo vediamo passare. Là abbiamo tutto di
prima mano. Siamo all'avanguardia, tra i primi dell'esercito umano a
veder la faccia della nuova idea che s'avanza, le calcagna dell'errore
che fugge, la nuova direzione del cammino dopo la svolta; e subito
s'innesta sul nostro amor proprio una specie di vanagloria parigina, di
cui ci spoglieremo alla stazione partendo; ma che s'impadronisce anche
di coloro che detestano la città sin dal primo giorno. Ed è
inutile tentar di fuggire a quel turbinìo d'idee e di discorsi. La
discussione ci aspetta a cento varchi, ci provoca coll'arguzia, colla
canzonatura, col paradosso, collo sproposito, e costringe l'uomo più
apatico a farsi soldato in quella battaglia. Da principio si rimane
sopraffatti, e per quanto si possegga la lingua, non si trova più la
parola. Ai pranzi, in special modo, verso la fine, quando tutti i visi
si colorano, non si ardisce slanciare il proprio in mezzo ai mille razzi
matti di quelle conversazioni precipitose e sonore. Il sorriso
canzonatorio della bella signora, che par che si serva di noi, nuovi a
quel mondo, per fare i suoi esperimenti _in anima vili_, e la
disinvoltura del giovanotto artisticamente pettinato, un po' maligno, e
sempre lì coll'arco teso per coglier a volo il ridicolo, ci troncano
i nervi; e ci sentiamo tornar su gli ultimi resti della timidità e
della zoticaggine del collegio, e a dispetto di qualche capello grigio,
arrossiamo. Ma poi dalla cassettina dei liquori spiccia anche per noi
uno zampillo dell'eloquenza argentina dei conviti, e un piccolo trionfo
riportato là, in quella terribile arena, ci pare il primo trionfo
legittimo della nostra vita. E ogni giorno sentiamo d'acquistare qualche
cosa. La lingua si snoda, ed anche parlando il linguaggio proprio
riusciamo a trovare di più in più facilmente, in quella
conversazione che è sempre una gara di destrezza, la formola più
breve e più lucida del nostro pensiero; lo scherzo s'affila,
confricato come è sempre, come lama a lama, con uno scherzo rivale;
il senso comico, continuamente esercitato, s'affina; e a poco a poco ci
si attacca col riso parigino la filosofia allegramente coraggiosa del
_boulevardier_, per cui il mondo comincia alla Porta Saint Martin e
termina alla Madeleine. Ma già il piccolo carico di cure e di
rammarichi che avevamo portato da casa, c'è stato strappato via,
appena arrivati, dalla prima ondata di quel mare enorme e non lo vediamo
più che come un punto nero molto lontano da noi. Intanto la catena
degli amici si allunga rapidamente; pigliarne delle nuove abitudini;
tutte le nostre debolezze trovano la fossetta morbida in cui adagiarsi;
allo sgomento che ci dava la grandezza di Parigi succede l'allegrezza
della libertà che deriva appunto da quella grandezza; lo strepito che
ci frastornava da principio, finisce per accarezzarci l'orecchio come il
rumore di un'enorme cascata d'acqua; quella immensa magnificenza
posticcia finisce per sedurci come la poesia maestrevolmente inorpellata
d'un seicentista d'ingegno; il nostro passo comincia a sonare sul
marciapiede dei _boulevards_, come dice lo Zola, _avec des
familiarités particulières_; facciamo la mente al bisticcio, il
palato alle salse, l'occhio ai visi imbellettati, l'orecchio ai canti in
falsetto; si compie in noi a poco a poco una profonda e deliziosa
depravazione di gusti; fin che un bel giorno ci accorgiamo d'essere
Parigini fin nel midollo delle ossa. Eh! allora, durante quel primo
tempo della luna di miele, si scusa tutto. La corruzione! Fanno ridere.
Accorrono là gli scapestrati da tutte le plaghe dei venti, affamati
di vizio, e ci fanno ira di Dio, rabbiosi che non ci si possa fare di
peggio, e quando si son vuotati la borsa e le ossa, tornano nei loro
paesi e gridano:--Che lupanare!--Ah sì, tocca davvero alle altre
grandi città d'Europa a gridare allo scandalo: le ipocrite! E poi
«la leggerezza!» È vero; ma «i gravi pensieri» di altri
popoli ci rammentano un po' i pensieri di quel tal poeta tedesco,
canzonato dall'Heine; quei pensieri celibi, che si fanno il caffè da
sè e la barba da sè, e vanno a cogliere dei fiori pel proprio
giorno onomastico nel giardino di Brandeburgo. E poi «la
_blague_!» Ma se già si è appiccicata a noi, stranieri, nel
soggiorno d'un mese, e ne portan via tutti un pochino, per il proprio
consumo, quando tornano nelle loro patrie modeste! Ma s'ha ben altro da
fare che difender Parigi mentre ci agitiamo fra le sue braccia. Il tempo
vola, non vogliamo perderne un'ora, abbiamo mille cose da cercare, da
studiare, da godere; ci piglia la furia di far entrar in ogni giornata,
come il ladro nel sacco, tutta la ricchezza che vi può capire; un
demone implacabile ci caccia a sferzate di salotto in salotto, dal
teatro all'accademia, dall'uomo illustre al _bouquiniste_, dal caffè
al museo, dalla sala da ballo all'ufficio del giornale; e la sera,
quando la grande città ci ha detto e dato tutto quello che le abbiamo
domandato, sempre amabile e allegra; quando sediamo a cena cogli amici,
stanchi, ma contenti di sentirci la nostra preda nella testa e nel
cuore, e ci cominciano a scoppiettare intorno le arguzie e gli aneddoti,
e il primo bicchiere di Champagne ci tinge di color d'oro tutti i
ricordi della giornata; allora con che slancio d'entusiasmo salutiamo la
grande Parigi, l'ospite amorosa e magnifica, che a tutti apre le
braccia, e profonde ridendo baci, oro ed idee, e rinfiamma in tutti i
cuori col suo soffio giovanile il furore della gloria e l'amore della
vita!
Ma dopo alcuni mesi, che cambiamento! Comincia a nascervi in cuore una
piccola antipatia per una cosa insignificantissima; poi ve ne salta su
ogni giorno una nuova; e in capo a un mese scappereste da Parigi
mandandole il famoso saluto del Montesquieu a Genova;
Adieu.... séjour détestable;
Il n'y a pas de plaisir comparable
A celui de te quitter.
È davvero un rivolgimento d'idee stranissimo; ma segue, credo, a
quasi tutti. Una bella mattina comincia per rivoltarvi uno scipitissimo
_calembourg_, cento volte rifatto, del giornale che leggete tutti i
giorni. La mattina dopo vi urta i nervi il sorriso rassegato della
padrona del vostro _Hôtel_ che somiglia a tutti i sorrisi che vi si
fanno a Parigi da per tutto dove andate a portar dei denari; o per la
strada, osservate che è intollerabilmente brutta l'uniforme dei
gendarmi. Poi via via, pigliate in tasca l'impiegatessa cogli occhiali e
coi baffi che vi domanda il nome, la patria e la professione per
vendervi un biglietto pel _Théâtre français_; vi fa pizzicare
le mani la goffa albagìa dei _concierges_, l'impertinenza di quei
ridicoli camerieri in gonnella bianca, la brutalità dei fiaccherai, e
la boria da grand'uomo di _tout ce qui est un peu fonctionnaire_. E quei
dieci mascalzoni pagati, che in tutti i teatri, tutte le sere, vogliono
farvi ammirare a suono d'applausi quel dato verso? E quelle eterne
romanze, cantate da voci di gallina spennata viva, che vi tocca a
ingoiare in tutte le case? Poi vi ristucca quel desinare a bocconcini
numerati e classificati, tutta quella esposizione di prezzi, a
centesimi, quel non so che di gretto e di pedantesco, da
collegio-convitto, mascherato d'un lusso di baracca da fiera;
quell'eterno sacrifizio d'ogni cosa all'apparenza, quell'eleganza
leccata e pretenziosa, quel puzzo perpetuo di _marchand de vin_ e di
cosmetici, quegli spicchi di case, quelle scalette a chiocciola, quelle
scatole di botteghe, quelle stie di teatri, quella _réclame_ da
saltimbanchi, quella pompa da bazar, la fontanella misera, l'albero
tisico, il muro nero, l'asfalto fangoso; e appena fuori del centro, quei
sobborghi immensi e uniformi, quegli spazii interminabili che non sono
nè città nè campagna, sparsi di casoni solitarii e tristi, e
quei giardinetti da asilo infantile, e quei villaggi da palco scenico.
Ed è questa la grande Parigi? Se un terremoto fa crollare tutte le
vetrine e una pioggia ardente cancella tutte le dorature, che cosa ci
resta? Dov'è la ricchezza di Genova, la bellezza di Firenze, la
grazia di Venezia, la maestà di Roma? Vi piace davvero quella
vanagloriosa parodia di S. Pietro che è il Panteon, o quel
tempiaccio greco-romano della Borsa, o quell'enorme e splendida
caserma di cavalleria delle Tuileries, e la decorazione da _Opéra
comique_ della piazza della Concordia, e le facciate dei teatrini
rococò, e le torri in forma di clarini giganteschi, e le cupole
fatte sul modello del berretto dei jokey? E questa è la città
che «riassume» Atene, Roma, Tiro, Ninive e Babilonia? Gomorra e
Sodoma, sì, davvero. E non lo dite per la grandezza, della
corruzione, ma per la sua insolenza. Ognuno ha il suo impiccato
all'uscio, ci s'intende, ma _est modus in rebus_. In casa vostra
almeno, come vi dice anche qualche francese, _elles se conduisent
bien_. Ma dove sì vede, fuorchè là, una doppia fila di lupanari
aperti sulla strada, colle belle esposte sul marciapiede, che
alzano lo stivaletto ad altezze.... vertiginose, e mille
_restaurants_, dove si gettano i _mots crus_ da una parte all'altra
della sala, o giocan di scherma coi piedi, sotto la tavola, coll'amico
del cuore, a puntate pericolose? E che «genere»! Andate alle
_Folies Bergère_: vi par di sentir ridere delle macchinette; sembra
che abbian fatto tutte un corso di civetteria dalla stessa maestra;
non movono un pelo senza uno scopo; regolano l'arte della seduzione
col termometro, per non sciuparla, e la fan salire d'un grado alla
volta, e hanno una tariffa per grado. Il sangue, poi! «_Tra due
guancie impiastrate un mezzo naso_.» La bellezza è tutta nelle
carrozze chiuse o nei salotti inaccessibili; alla luce del sole non ci
sono che le acciughe
_Di lussuria anelanti e semivive_
o i donnoni che scoppian nel busto, immobili dietro ai _comptoirs_,
come grosse gatte, con quei faccioni antigeometrici, che non dicono il
bellissimo nulla. E il sesso mascolino, dunque! Quel formicolìo di
_gommeux_, mostre di uomini, con quei vestiti da modellini di sarto,
da cui spunta la cocca del fazzoletto e la punta della borsina e il
guantino e il mazzettino; _environnés_, come dice il Dumas, _d'une
légére atmosphère de perruquier_; senza spalle, senza petto,
senza testa, senza sangue, che paiono fatti apposta per essere
scappellati con una pedata da una ballerina del _Valentino!_ E che
ragazzaglia tutti quanti, giovani e vecchi, di tutte le classi!
Trecento «cittadini» si affacciano alle spallette d'un ponte per
veder lavare un cane; passa un tamburo, s'affolla mezzo mondo; e mille
persone, in una stazione di strada ferrata, fanno un fracasso
interminabile di battimani, d'urli e di risa perchè è caduto il
cappello a un guardatreni; e guardatevi bene dal tossire, perchè
possono mettersi a tossire tutti e mille insieme per tre quarti d'ora.
E che democratici! Oh questo sì; democratici nel sangue, e
fierissimi sprezzatori d'ogni vanità, come _monsieur Poirier_. Il
vostro amico intimo, per desinare faccia a faccia con voi, in casa
propria, si mette il nastro all'occhiello; il ricco negoziante di
telerie vi annunzia col viso radiante, come un trionfo della casa, che
avrà a pranzo un sotto prefetto _dègommé_; i _sergents de
ville_ si pigliano impunemente, colla folla, delle licenze manesche di
cui basterebbe una mezza, fra noi, a provocare un sottosopra; e il
popolo sovrano, nelle feste pubbliche, è fermato a tutti i varchi a
furia di sentinelle e di barricate, scacciato, malmenato con una
brutalità, che persino l'aristocratico _Figaro_, il giornale che
concilia con tanto garbo la descrizione d'una santa comunione e
l'aneddoto della _fille aux cheveux carotte_, si sente in dovere di
levare un grido d'indignazione. E dove s'è mai vista una
letteratura più spasimante per il blasone; scrittori che si lascino
venire così ingenuamente l'acquolina sulle labbra al suono di un
titolo gentilizio, e che mettano più stemmi e più boria
aristocratica nelle loro creazioni? Quando ci libereranno dai loro
eterni visconti e dalle loro eterne marchese questi ostinati
frustasalotti? Non ce n'hanno ancora imbanditi abbastanza di quei loro
«protagonisti» nobili, giovani, belli, spiritosi, coraggiosi,
spadaccini, irresistibili, che hanno tutti i doni di Dio «_même
une jolie voix de ténor_?» E ghiotti di ciondoli, Dio buono!
Quel povero Paul de Kock, che a settantaquattro anni scrive venti
pagine per provare che non gl'importa nulla di non aver ricevuto la
Legion d'onore, e ha quasi voglia di piangere! E dov'è un altro
paese democratico, in cui gli scrittori coprano d'un ridicolo così
sanguinosamente ingiurioso intere classi della cittadinanza, dove
l'epiteto di _bourgeois_ abbia assunto, in mente di coloro stessi a
cui spetta, un significato più aristocraticamente sprezzante, e
dove basti un nome, solo perchè ha il suggello plebeo, a far
scoppiare dalle risa una platea? Ma cos'è dunque questo bizzarro
impasto di contraddizioni, il Parigino? Chi lo sa? Afferratelo; vi
sguiscia di mano. Presentategli il bandolo d'una di quelle quistioni
in cui si rivela un uomo, ed egli, astutamente, lo rimette in mano a
voi con un colpo di mano da prestigiatore. Hanno spirito: ce lo
cantano in tutti i tuoni, ed è vero. Ma fino a un certo segno.
Hanno un ricchissimo corredo di proposizioni e di giri di frase,
arguti, svelti, elasticissimi, con cui se la cavano dalle strette
più difficili, e tagliano la parola a uno spirito più profondo
ma meno destro. Ci sono molti Parigini, certo, che sono
spiritosissimi; ma questi lavorano per tutti. La superiorità loro
è che il grosso della popolazione è un eccellente conduttore di
questa specie d'elettricità dell'ingegno, per cui il motto arguto
detto da uno la mattina, girando con rapidità meravigliosa, diventa
proprietà di mille la sera, e ciascuno è sempre ricco di tutta
la ricchezza circolante. Ma che il _gamin_ di Parigi sia proprio di
tanto più arguto del _vallione_ di Napoli e del _becerino_ di
Firenze? E come ci studiano! Si preparano per i pranzi, vanno alla
conversazione col repertorio già scelto e ordinato, e conducono il
discorso a zig zag, a salti, a giravolte, a sgambetti, con un'arte
infinita, per metter fuori, in quel dato momento, il gran tesoro d'una
corbelleria. E questi spiritosi di seconda mano si somiglian tutti;
sentito un _commis voyageur_, ne avete sentito mille. Ci son certi
ingredienti e un certo meccanismo per distillare quello spirito, che
una volta scoperti, è finita, come delle botte «di riserva»
degli schermitori. Ma ci tengono! Fa pietà e dispetto davvero,
vedere il vecchio acciaccoso, affetto d'incipiente _delirium tremens_,
che quando è riuscito, nella folla, a infilare un giochetto di
parole che fa sorridere cinque grulli, rialza la fronte sfolgorante di
gloria e di gioia, e se ne va beato per una settimana! E poi questa
mania universale di _fair de l'esprit_ che castra il pensiero, che fa
dir tante goffaggini, e sacrificare così spesso la ragione, la
dignità e l'amicizia a un _succés_ di cinque minuti, è come
un velo continuamente sventolato davanti al pensiero, che intorbida la
vista delle anime. Potete mai sapere che cosa rimpiatti un uomo dietro
quello scherzo eterno? Ma ci son ben altri veli tra il Parigino e voi.
Il Parigino «della buona società» sembra un uomo, come suol
dirsi, alla mano; ma non lo è affatto. È raro che proviate con
lui il piacere d'una conversazione famigliarissima e liberissima.
Preoccupato, com'è sempre, dal pensiero di essere un oggetto di
curiosità e di studio per lo straniero, sta in guardia, regola il
gesto e il sorriso, studia l'inflessione della voce, pensa
continuamente a giustificare l'ammirazione che presuppone in voi, e ha
sempre un po' della civetteria della donna e della vanità
dell'artista. Ogni momento vi vien la voglia di dirgli:--Ma leviamoci
i guanti una volta!--La sua natura corrisponde al suo modo di vestire,
che, anche quando è modesto, ha qualche piccolissima cosa che
tradisce la ricercatezza effeminata del bellimbusto. Egli è gentile
senza dubbio, ma d'una gentilezza che vi tiene in là, come la mano
leggiera d'una ragazza che non vuol essere toccata. Vada per lo
Spagnuolo, il quale fa sentire la sua superiorità con una vanteria
colossale, sballata tanto dall'alto, che vi passa al di sopra della
testa. Ma il Parigino vi umilia delicatamente, a colpi di spilla, con
quel perpetuo sorriso aguzzo di chi assaggia una salsa piccante,
facendovi delle interrogazioni sbadate, colorite d'una curiosità
benevola delle cose vostre. Oh poveri Italiani, com'è conciato, a
Parigi, il vostro povero amor proprio! Se non nominate proprio Dante,
Michelangelo e Raffaello, per tutto il rimanente non ne caverete altro
che un:--_Qu'est ce que c'est que ça?_ Il deputato papista vi
domanda se Civitavecchia è rimasta al Papa. Il buon padre di
famiglia vede i briganti col fucile a tracolla che fumano
tranquillamente un Avana davanti al _Caffè d'Europa_ a Napoli. Il
gentiluomo è stato in Italia, senza dubbio; ma per poter _causer
Italie_ colla bella signora, nel vano della finestra, dopo desinare; o
per appendere il ciondolo _Italia_, alla catenella delle sue
cognizioni, e farlo saltellar nella mano nei momenti d'ozio, con
quelle solite formule, che ogni Francese possiede, sul paesaggio, sul
quadro e sull'albergo. Il famoso De Forcade diceva del Manzoni, a
tavola:--_Il a du talent_.--Quasi vi domanderebbero:--Ma che proprio
si può nascere in Italia?--Quest'idea d'esser nato a Parigi, d'aver
avuto questo segno di predilezione da Dio, sta in cima a tutti i
pensieri del Parigino, come una stella, che irradia tutta la sua vita
d'una consolazione celeste. La benevolenza ch'egli dimostra a tutti
gli stranieri, è ispirata in gran parte da un sentimento di
commiserazione, e i suoi odii contro di essi non sono profondi,
appunto perchè considera i suoi nemici abbastanza puniti dalla
sorte, che non li fece nascere dove egli è nato. Perciò adora
tutte le fanciullaggini e tutti i vizii della sua città, e ne va
superbo, solo perchè sono fanciullaggini e vizii di Parigi, che per
lui sta sopra alla critica umana. E si può dare una città
capitale che sputi più audacemente in faccia al popolo della
provincia, rappresentato dai suoi scrittori come un ammasso di
cretini? e scrittori che incensino la loro città con una impudenza
più oltraggiosa, non solo per ogni altro amor proprio nazionale, ma
per la dignità umana? E vi dicono in faccia, dal palco scenico, che
i fumi dei suoi camini sono le idee dell'universo! Tutti sono
prostrati col ventre a terra davanti a questa enorme cortigiana, madre
e nutrice di tutte le vanità; della vanità smaniosa di piacerle,
prima fra tutte, di ottenere da lei, a qualunque costo, almeno uno
sguardo; di quella vanità vigliacca che spinge uno scrittore a
dichiararsi, nella prefazione d'un romanzo infame, capace di tutte le
turpitudini e di tutti i delitti di Eliogabalo e di Nerone. Pigliate
dunque sul serio le loro prefazioni piene di smorfie, di puerilità,
di spacconate, di imposture. La vanità li appesta tutti. Non c'è
in tutta la letteratura contemporanea uno di quei caratteri grandi,
modesti, benevoli, logici, che uniscono allo splendore della mente la
dignità della vita; una di quelle figure alte e candide, davanti a
cui si scopre la fronte senza esitazione e senza reticenze, e il cui
nome è un titolo di nobiltà e un conforto per il genere umano.
Tutto è dominato e guasto dalla mania della _pose_: _pose_ nella
letteratura, _pose_ nella religione, _pose_ nell'amore, _pose_ anche
nei più grandi dolori. Una sensualità immensa e morbosa
costituisce il fondo di tutta quella vita, e si rivela nelle lettere,
nella musica, nell'architettura, nelle mode, nel suono delle voci,
negli sguardi, persino nelle andature. Godere! Tutto il resto non è
che un mezzo per arrivarci. Da un capo all'altro di quegli splendidi
_boulevards_ suona una enorme risata di scherno per tutti gli scrupoli
e per tutti i pudori dell'anima umana. E viene un giorno, infine, in
cui quella vita v'indigna; un giorno in cui vi sentite rabbiosamente
stanchi di quell'immenso teatro, impregnato d'odor di gaz e di
pasciulì, dove ogni spettacolo finisce in una canzonetta; un giorno
in cui siete stufi di bisticci, di _blague_, d'intingoli, di tinture,
di _réclame_, di voci fesse, di sorrisi falsi, di piaceri comprati;
e allora l'odiate, quella città svergognata, e vi pare che per
purificarvi da tre mesi di quella vita, dovreste vivere un anno sulla
sommità d'una montagna, e provate una smania irresistibile di
correre ai campi aperti e all'aria pura, di sentir l'odore della
terra, di rinverginarvi l'anima e il sangue nella solitudine, faccia a
faccia colla natura.
La sfuriata è fatta: sta bene. Facciamoci in là perchè passi,
come dicono gli Spagnuoli. A Parigi si può dire quello che si