Ricordi di Parigi - 06
là, dove vuole, e vi trascina, renitenti, barcollando ed ansando,
calpestando la ragione, il buon gusto, il buon senso, la verità. E
a un certo punto vi svincolate gridando:--No, Hugo, non ti seguo!--e
lo lasciate fuggir solo. Dov'è andato? È caduto? Ah! eccolo
là, sull'altura, colla fronte dorata dal sole. Ha vinto e ha
ragione. Ma egli ha tutto per combattere e per vincere: ha l'audacia,
la forza e le armi; ha il genio e la pazienza; è nato poeta e
s'è fatto; ha scavato dentro a sè stesso, con mano pertinace, la
vena più profonda dei suoi tesori; ogni opera sua è un immenso,
lavoro di scavazione, a cui si assiste leggendo, e si sente il
formidabile affanno del suo respiro. È una strana cosa veramente
l'arte sua. Egli non ci presenta il lavoro fatto, il risultamento
netto ed ultimo dei suoi sforzi, l'ultima idea a cui è arrivato per
una successione d'idee; ma ci fa seguire tutto il processo intimo del
suo pensiero, ci fa contare e toccare prima tutte le pietre con cui
innalzerà l'edifizio, ci fa assistere a tutti i suoi tentativi
inutili, a tutti i crollamenti successivi delle parti mal fabbricate,
e vediamo poi l'edifizio compiuto, ma circondato e ingombro dei
ruderi, ch'egli disdegna di spazzare. Il suo lavoro è uno strano
accoppiamento di pazienza da musicista e di furia da pittore ispirato.
Egli scrive come il Goya dipingeva. Ora minia, liscia, accarezza
l'opera propria, lento, quasi sonnolento, minuto, scrupoloso; si
diverte a stendere elenchi accurati di nomi e di cose, a spiegare il
proprio concetto con similitudini interminabili diligentemente
condotte; procede colle seste, cerca le simmetrie, dice, corregge,
aggiunge, modifica, rettifica, sfuma, cesella, brunisce. A un tratto
il soffio della grande ispirazione lo investe, e allora butta via il
pennello delicato, e, come il Goya faceva, dipinge a furia con quello
che gli casca fra le mani, spande i colori colle spugne, getta le
grandi macchie cogli strofinacci e le scope, dà i tocchi di
sentimento a colpi furiosi di pollice che sfondan la tela. Il suo
stile è tutto rilievi acuti, rialti di granito, punte di ferro e
vene d'oro, pieno d'asprezze e d'affondamenti oscuri, rotto qua e
là in grandi squarci, da cui si vedono prospetti confusi e lontani;
ora semplice fino all'ingenuità scolaresca, ora architettato
coll'arte sapiente d'un pensatore; a volta a volta acqua limpida e
mare in burrasca, su cui errano nuvole rosee che riflettono il sole o
nuvole nere da cui si sprigiona la folgore. Le immagini nuove e
potenti pullulano a miriadi sotto la sua penna, e le idee gli erompono
dal capo armate, impennacchiate, sfolgoranti; e sonanti, qualche volta
offuscate dalla ricchezza e schiacciate dal peso dell'armatura. Egli
non spende, profonde a piene mani, sperpera i tesori inesauribili
della sua potenza espressiva col furore d'un giuocatore forsennato. La
lingua sua non gli basta. Egli toglie ad imprestito il gergo della
plebe, la lingua furfantina delle galere, il balbettio informe ed
illogico dei bambini; tempesta la sua prosa di parole straniere di
cento popoli e di traslati proprii di tutte le letterature; e si
fabbrica superbamente un linguaggio suo, tutto colori e scintille,
pieno d'enimmi e di licenze, di laconismi potenti e di delicatezze
inimitabili; secondo il bisogno, triviale, tecnico, accademico,
vaporoso, brutale, solenne; così che lette le sue opere, non par
d'aver sentito parlare la lingua di un solo popolo e d'un solo secolo,
ma una vasta e confusa lingua d'un tempo avvenire, per la quale non ci
sia nulla d'inesprimibile e di straniero. Di questa potenza
espressiva, come del coraggio del suo genio, egli abusa, e allora
s'impiglia e si ravvolge nel proprio pensiero, e vi s'aggira come in
un labirinto, senza trovarne l'uscita. Ma anche nei suoi smarrimenti
è grande. Anche in quelle pagine affaticate, tormentate, astruse,
in cui volendo esprimere l'inesprimibile, tenta da tutte le parti il
proprio concetto, e accumula metafore su metafore, paragoni su
paragoni, e ricorre inutilmente al suo misterioso linguaggio di
tenebre e di luce, d'ombre e d'abissi, di _inconnu_ e di _insondable_,
e tutta la sua fortissima e ricchissima lingua non basta a render
nemmeno una pallida idea di quel non so che di immane e di mostruoso
che ha nel capo; in quelle pagine i freddi pedanti trovano con gioia
una presa assai facile alla critica che distrugge e deride; ma l'anima
dell'artista vi sente l'anelito del titano che lotta con una potenza
sovrumana, e assiste a quegli sforzi poderosi con un sentimento di
stupore e di rispetto, come a uno di quegli spettacoli in cui un uomo
rischia la vita. Eppure si, leggendo le opere sue, accade qualche
volta che, arrivati a un certo punto, lo squilibrio delle facoltà,
la continua prevalenza della fantasia sfrenata sulla ragione, la
eccessiva frequenza delle aberrazioni e delle cadute, vi stanca; i
lampi di genio non bastano più a compensarvi dei continui
sacrifizii che deve fare il vostro buon senso; siete sazii, sdegnati,
qualche volta nauseati; sentite il bisogno di riposarvi da quella
tortura; ritornate con piacere ai vostri scrittori sensati, rigorosi,
sempre eguali; respirate, vi ritrovate nel mondo reale, benedite la
logica, riacquistate la vostra dignità d'uomini e di lettori. E
lasciate in un canto l'Hugo per mesi, e qualche volta per anni, e vi
pare d'esservene staccati per sempre. Ma che! Egli v'aspetta. Un
giorno arriva finalmente in cui, tutt'a un tratto, un entusiasmo a cui
volete un'eco, un dolore che domanda un conforto, un bisogno istintivo
di strano o di terribile, vi risospinge verso quei libri. E allora
tutti gli entusiasmi sopiti si ridestano tumultuosamente. Egli
v'afferra di nuovo, vi soggioga, siete suoi, rivivete in lui per un
altro periodo della vostra vita. È perchè le somme linee delle
opere sue sono veramente d'un genio. L'abuso ch'egli fa d'un concetto
sublime, alla lettura, v'offende; ma spariti dalla memoria i
particolari errati o eccessivi, il concetto vi resta incancellabile, e
più s'appura col tempo, più vi pare che ingrandisca, e ingrandisce
davvero. Le sue grandi idee e i suoi grandi sentimenti son grandi tanto
che sovrastano ai difetti infiniti dell'arte sua, come le colonne d'un
tempio antico ai rottami ammucchiati ai suoi piedi. E di qui nasce il
fatto strano ch'egli ha più ammiratori ardenti delle sue creazioni
che lettori fedeli dei suoi volumi, e che moltissimi ammiratori suoi non
lo conoscono che nei frammenti delle sue opere, o nelle ispirazioni che
v'hanno attinte le altre arti. Chi strapperà più dalla memoria
umana Ernani, Triboulet, il campanaro di _Nôtre Dame_, l'amore di Ruy
Blas, la disperazione di Fantina? E chi può scordare i brividi di
terrore ch'egli ci ha fatto correre per le vene, e le lacrime che ci ha
fatto sgorgare dagli occhi? Poichè egli può tutto, ed è grande
nella tragedia e insuperabile nell'idillio. Noi tutti abbiamo sentito
scricchiolare le ossa d'Esmeralda nel letto della tortura, e abbiamo
visto faccia a faccia la morte, quando ce la presenta orrenda come in
Claudio Frollo appeso al cornicione della cattedrale, o furiosa come
sulla barricata di via Saint-Denis, o epica come sul campo di Waterloo,
o infinitamente triste come nelle nevi della Russia, o solennemente
lugubre, come nel naufragio dei Comprachicos. Ed è lo stess'uomo che
fa vibrare sovrumanamente le corde più delicate dell'anima; l'autore
del _Revenant_ su cui milioni di madri singhiozzarono, l'autore di quel
celeste _Idillio di Rue Plumet_, di quella santa agonia di Jean Valjean,
che strazia l'anima, e di quei versi meravigliosi, in cui Triboulet
spande piangendo l'immensa ed umile tenerezza del suo amore di padre.
No, mai parole più dolci, preghiere più soavi, grida d'amore
più appassionate, slanci d'affetto e di generosità più nobili e
più potenti, sono usciti da un cuore di poeta. E allora Vittor Hugo
è grande, buono, venerabile, augusto, e non c'è anima umana che in
quelle pagine non l'abbia benedetto ed amato. In momenti solenni della
vita, accanto al letto d'un moribondo, durante una grande battaglia
della coscienza, i suoi versi ripassano per la mente, come lampi, e
risuonano all'orecchio consigli d'un amico affettuoso e severo che ci
dica:--Sii uomo!--Poichè egli ha tutto sentito, tutto compreso e
tutto detto; ha le disperazioni tremende e le rassegnazioni sublimi; non
v'è dolore umano a cui non abbia detto una parola di conforto; non
c'è sventura al mondo su cui non abbia fatto versare delle lagrime.
Egli è il patrocinatore amoroso e terribile di tutte le miserie, dei
diseredati dalla natura e degli abbandonati dal mondo, di chi non ha
pane, di chi non ha patria, di chi non ha libertà, di chi non ha
speranze, di chi non ha luce. Questa è la sua grandezza vera e
incontestabile. Non c'è altro scrittore moderno che abbia esercitato
con una maggior quantità d'opere e con una più intrepida
ostinazione questo glorioso apostolato; che abbia maneggiato un pennello
più potente per dipingere le miserie, un coltello anatomico più
affilato per aprire i cuori straziati, uno scalpello più magistrale
per scolpire gli eroi della sventura, un ferro più rovente per
segnare la fronte di chi fa soffrire, una mano più delicata per
accarezzare la fronte di chi soffre. Egli è il grande assalitore e il
grande difensore; ha combattuto su tutte le arene; è salito su tutte
le sommità ed è sceso in tutte le bassure. E questo è ammirabile
in lui, che per quanto sia disceso, non s'è mai abbassato. La sua
mano è rimasta incontaminata fra tutte le sozzure in cui
sguazzò la sua penna. Egli non ha mai prostituito l'arte sua.
È austero e superbo. Non s'inflette e non ride. Il suo riso non
è che una maschera, dietro la quale s'intravvede sempre il suo
volto pallido e accigliato. Una specie di tristezza fatale pesa su
tutte le opere sue. Anche nella sua grande e costante aspirazione
alla virtù, alla concordia, alla pace, alla redenzione degli
oppressi e degli infelici, v'è qualcosa di malinconico e di
tetro, come se le mancasse l'alimento della speranza. Tutti i suoi
libri terminano con un grido straziante. Tutte le voci che escono
dalle sue opere formano, riunite, un lamento solenne, misto di
preghiera e di minaccia. La sua stessa credenza in Dio, quella
ch'egli chiama la suprema certezza della sua ragione, è forse
piuttosto un'aspirazione potentissima del suo cuore e un pascolo
immenso della sua immaginazione smisurata, che una fede ferma, in
cui la sua anima si riposi: la fede è una sorgente, a lui
necessaria, di torrenti di poesia, e Dio è un personaggio dei
suoi romanzi e dei suoi canti. Da qualunque lato si guardi,
apparisce in lui qualcosa di strano e di non chiaramente
esplicabile. L'uomo non emerge netto dallo scrittore. Si stende la
mano a toccarlo, e invece della carne umana, si sente una sostanza
nuova al tatto, che fa rimanere perplessi. La sua figura, velata,
s'innalza, s'abbassa, s'avvicina, s'allontana, e non presenta mai
per tanto tempo i contorni fermi e precisi, da poterseli fissare
immutabilmente nel pensiero. E così v'affaticate per anni intorno
alle sue opere senza riuscir mai a formarvene un giudizio che non
abbiate di tratto in tratto a mutare. Esse offrono mille parti
scoperte alla critica d'un fanciullo, e presentano mille aspetti
irresistibili all'ammirazione dell'uomo. C'è poco da obbiettare a
chi le lacera senza remissione, non si sa che cosa opporre a chi
n'è entusiasta appassionato. Distruggetele col ragionamento: esse
si rialzano da sè, a poco a poco, nella vostra mente, più
maestose e più salde. Disponetevi invece ad adorarle ciecamente,
e sarete ogni momento costretti a soffocare mille voci di protesta
che usciranno dal vostro cuore e dalla vostra ragione. Una sola cosa
è fuor di dubbio, ed è che non si può rifiutare a quest'uomo
il titolo augusto e solenne di Genio. Il più ostinato avversario
suo sente, in fondo a sè stesso, chè la qualificazione di
«ingegno», da qualunque attributo accompagnata, non basta per
lui. Potete preferirgli una legione d'altri ingegni viventi; ma
siete costretti a riconoscere che alle mille teste di quella legione
sovrasta la sua. Potete voltargli le spalle, ma non potete fare un
passo senza mettere il piede sulla sua ombra. Ma è difficile
credere che la ripugnanza dell'indole, o la disparità del gusto e
delle idee, o l'odio di parte possano tanto in un uomo da fargli
negare la grandezza che presentano insieme le creazioni, le lotte, i
trionfi, gli errori e gli ardimenti di questo vecchio formidabile.
Per me, penso ai suoi cinquanta volumi, pieni d'ispirazioni e di
fatiche, in cui si rivela col genio prepotente una volontà
indomabile o una tempra fisica d'acciaio; penso ai torrenti di vita
che uscirono dal suo petto, all'amore immenso che profuse, alle ire
selvaggie e agli odii implacabili che provocò e che gli infuriarono
nell'anima; ricorro la sua vita da quando giocava, ragazzo, sotto
gli occhi di sua madre, noi giardino delle _Feuillantines_; lo vedo,
sedicenne, quando scriveva in quindici giorni, per guadagnare una
scommessa, le pagine ardenti di Bug-Jargal; penso a quando comprò
il primo scialle a sua moglie coi denari dell'_Han d'Islanda_; me lo
raffiguro, fiero e impassibile, in mezzo alle tempeste delle
assemblee scatenate dalla sua parola temeraria; lo vedo servire
umilmente i quaranta bambini poveri seduti alla sua mensa a
Hauteville-house; me lo rappresento grave e triste, in mezzo alla
folla, dinanzi ai cento sepolcri illustri su cui fece sentire la sua
parola piena di maestà e di dolcezza; lo vedo per le vie di
Parigi, in mezzo alla moltitudine riverente, costernato e
invecchiato, seguire i feretri dei suoi figli; lo vedo in quelle sue
veglie febbrili, ch'egli descrisse così potentemente, quando di
lontano, nel silenzio della notte, sentiva squillare il corno di
Silva ed echeggiare il grido di Gennaro; lo vedo assistere nel
_Teatro francese_, dopo mezzo secolo dalla prima rappresentazione,
al trionfo clamoroso dell'_Hernani_, salutato dai primi scrittori e
dai primi artisti della Francia, come il loro Principe rieletto e
riconsacrato; penso al suo _Oriente_ splendido, al suo Medio evo
tremendo, alla _Preghiera per tutti_, all'infanta che perde la rosa
mentre Filippo II perde l'Armada, alla carica dei corazzieri della
guardia contro i quadrati del Wellington, alla scarpetta
d'Esmeralda, all'agonia d'Eponina, a tutte le creature del mondo
arcano, sfolgorante, immenso che uscì dal suo capo; al suo
esilio, alle sue sventure, ai suoi settantasette anni,--e sento una
mano che mi fa curvare la fronte.
III.
«Vittor Hugo è certamente uno di quelli scrittori che ispirano
un più ardente desiderio di vederli; perchè i suoi cento aspetti
di scrittore ci fanno domandare ogni momento a quale di essi
corrisponda il suo aspetto d'uomo. Sarà il viso dell'Hugo che ci fa
inorridire o quello dell'Hugo che ci fa piangere? E ci riesce
ugualmente difficile rappresentarcelo benevolo e rappresentarcelo
truce. Io mi ricordo d'aver passato molte ore, giovanotto, all'ombra
d'un giardino, con un suo libro tra le mani, cercando di dipingermelo
coll'immaginazione, e componendo e ricomponendo cento volte il suo
viso e la sua persona, senza trovar mai una figura che m'appagasse. Il
suo spettro, di forme incerte, mi stava sempre davanti. Quest'uomo era
un enimma per me. Io non sapevo bene rendermi conto del sentimento che
m'ispirava. Alle volte mi pareva che, vedendolo, gli sarei corso
incontro coll'espansione di un figlio e mi sarei strette le sue mani
sul cuore; altre volte mi pareva che, incontrandolo improvvisamente,
mi sarei scansato con un sentimento di diffidenza e di timore, e avrei
detto sommessamente ai miei vicini:--Indietro! Hugo passa.--Che so io?
Era l'uomo che m'aveva spinto cento volte, col cuore gonfio di
tenerezza, tra, le braccia di mia madre; ma era anche l'uomo che
m'aveva fatto balzar sul letto, più volte, nel cuor della notte,
atterrito dall'apparizione improvvisa dei cinque cataletti di Lucrezia
Borgia. Sentivo per lui un affetto pieno di trepidazione e di
sospetto. Ma il desiderio di vederlo era ardente, e andò crescendo
cogli anni. Quanta è la potenza del genio! Voi arrivate in una
città enorme, trascorrete di divertimento in divertimento,
d'emozione in emozione, in mezzo a un popolo immenso e tumultuoso, fra
gente di ogni paese, fra i capolavori delle arti e delle industrie di
unta la terra, fra mille spettacoli, mille pompe o mille seduzioni.
Ebbene, tutto questo non è per voi che una cosa secondaria. Fra
quell'immenso spettacolo e voi si drizza il fantasma di un uomo che
non avete mai visto, che non vedrete forse mai, che non sa nemmeno che
siate al mondo; e questo fantasma occupa tutta la vostra mente e tutto
il vostro cuore. In quell'oceano di teste, voi non cercate che la sua.
A ogni vecchio che passi, il quale vi rammenti alla lontana la sua
immagine, una voce intima vi dice:--È lui!--e il vostro sangue si
rimescola. Tutta quell'enorme città non vi parla che di quell'uomo.
Le torri della Cattedrale sono popolate dei fantasmi della sua mente,
ad ogni svolto di strada vi si affaccia una creatura della sua
immaginazioni, i frontoni dei teatri vi rammentano i suoi trionfi, gli
alberi dei giardini vi bisbigliano i suoi versi e le acque della Senna
vi mormorano il suo nome. E allora prendete una risoluzione eroica e
rivolgete una domanda, da lungo tempo meditata, a un amico. E non si
può dire l'effetto che vi fanno queste cinque semplicissime
parole:--Via di Clichy, numero venti.
IV.
V'è una considerazione però, che rende titubanti molti
ammiratori che desiderano di visitare Vittor Hugo; ed è l'accusa
che gli si fa d'avere un immenso orgoglio. Certo è che egli sente
altissimamente di sè, e non lo nasconde. Tutti sanno quello che
disse, ancor giovane, all'attrice Mars, che si permetteva, alle prove
dell'_Hernani_, di criticare i suoi versi.--Signorina, voi dimenticate
con chi avete da fare. Voi avete un grande ingegno; non lo nego; ma ho
un grande ingegno. anch'io, e merito qualche riguardo.--Io lascio ad
altri il risolvere questa quistione: se, in qualche caso, uno
smisurato sentimento di sè non sia un elemento del genio: quello
che dà l'impulso ai grandi ardimenti; e se, ammessa la indole
artistica di Vittor Hugo, sia possibile concepire un Vittor Hugo
modesto. Mi ristringo a considerare il fatto. Si, Vittor Hugo
dev'essere sovranamente orgoglioso. Si riconosce da mille segni. Egli,
per esempio,--è cosa notissima,--non ammette la critica. Il genio,
dice, è _blocco_. Bisogna accettarlo intero o respingerlo intero.
L'opera del genio è un tempio in cui si deve entrare col capo
scoperto, e in silenzio. _On ne chicane pas le génie_. Ammirate,
ringraziate e tacete. Il genio non ha difetti. I suoi difetti sono il
rovescio delle sue qualità. Ecco tutto. Egli lo ha detto a chiare
note nel suo libro sullo Shakespeare, nel quale s'è servito del
tragico inglese per dire al mondo quello che pensa di se stesso. Il
ritratto ch'egli traccia dello Shakespeare è il ritratto suo;
quella deificazione che egli fa del genio, la quale per un uomo che
creda in Dio è quasi sacrilega, è, insomma, la sua apoteosi; in
quell'oceano a cui paragona i grandi poeti, si vede riflessa, prima
d'ogni altra, la sua grandezza; quella montagna che ha tutti i climi e
tutte le vegetazioni, è Vittor Hugo. In quegli elenchi, ch'egli fa
ad ogni pagina, dei genii di tutti i tempi e di, tutti i paesi, da
Giobbe al Voltaire, si capisce, si giurerebbe che, arrivato all'ultimo
nome, è stato, lì sul punto d'aggiungervi il suo, e che non lo
fece, non per modestia, ma per _salvare_, come, suol dirsi, _le
convenienze_. Egli tratta tutti quei grandi da pari a pari. Tutti i
genii, d'altra parte.--è una sua idea,--sono uguali. La regione
dei genii è la regione dell'eguaglianza. Egli parla di Dante come
d'un fratello. Ma oltre a queste ci sono mille altre manifestazioni
della coscienza ch'egli ha della sua grandezza: l'ardimento, superbo
con cui mette le mani nella scienza e con cui affronta, passando, i
più alti problemi della filosofia; la baldanza con cui ostenta le
sue licenze letterarie, come se fosse certo che, coniate da lui,
saranno moneta corrente e ricchezza comune; l'intonazione solenne
delle sue prefazioni, che, annunziano l'opera come un avvenimento
sociale; la cura scrupolosa con cui raccoglie o fa raccogliere tutte
le sue minime parole e gli atti più insignificanti della sua vita.
Quando vuol fare il modesto riesce all'effetto opposto, tanto
inesperto è in quell'arte, e tanto è abituato a passar la misura
in ogni cosa. Come quando comincia una lettera: «Un oscuro
lavoratore.» E così, sotto la forzata pacatezza con cui risponde
alle osservazioni di Lamartine sui _Miserabili_, si sente il ruggito
soffocato del leone ferito. La sua stessa prodigalità nella lode
tradisce l'uomo che crede di gettarla tanto dall'alto, da non aver da
temere l'orgoglio che ne potrà nascere, se anche crescesse
smisurato. E poi egli rivela l'animo suo candidamente. In un'occasione
in cui non volle lasciar rappresentare un suo dramma perchè un
altro aveva trattato lo stesso soggetto, disse:--Non voglio esser
paragonato,--A un editore che gli proponeva di pubblicare una scelta
delle sue poesie, rispose:--Voi mi avete l'aria d'un uomo che,
mostrando in una mano dei sassi raccolti sul Monte Bianco, creda di
poter dire alla gente: Ecco il Monte Bianco.--Egli si considera al di
sopra d'ogni confronto possibile con qualunque scrittore
contemporaneo. Non piglia, infatti, alcuna parte in quella guerra
continua che si movono gli scrittori di Francia a motti arguti e
maligni, che scorticano senza far stridere, e fanno il giro di Parigi.
Se ne sta in disparte, muto. E non sarebbe atto, d'altra parte, a
questa specie di guerra. Dicono: perchè non ha «spirito.»
Egli ha risposto acerbamente a questa critica.--Dire che un uomo di
genio non ha spirito, è una gran consolazione per i moltissimi
uomini di spirito che non hanno genio.--Ma la critica è giusta
forse, benchè si trovino nei suoi discorsi parlamentari dei
mirabili esempi di risposte improvvise a botte inaspettate. Il suo
scherno ha spesso il conio del grande ingegno; ma non provoca il riso
salato e pepato della vera arguzia francese. Lo stiletto sottile
dell'ironia sfugge dalle sue mani di colosso; egli non è atto che a
dare i grandi colpi di mazza che sfracellano il casco e la testa. E
poi oramai si ritiene quasi al di sopra della letteratura. Si riguarda
quasi come un sacerdote di tutte le genti, sopravvissuto, per decreto
della Provvidenza, a mille prove e a mille sventure, per vegliare
sull'umanità. Questo apparisce lucidamente dalle sue apostrofi ai
popoli, dalle sue intimazioni ai monarchi, dal tono di profezia che
dà ai suoi presentimenti, dalla forma di responso che dà alle
sue sentenze, dal carattere di minaccia che dà ai suoi rimproveri,
da tutto il suo linguaggio spezzato in affermazioni altiere e in
giudizii assoluti, come se ogni sua proposizione fosse un decreto, da
incidersi sul bronzo o nel marmo per le generazioni avvenire. Tutte
queste cose, o sapute prima o intese dire, fanno lungamente esitar lo
straniero che vuol andare a battere alla sua porta. Certo che, dopo la
prima esitanza, si fanno delle riflessioni incoraggianti. Si pensa,
per esempio, che il sentimento che ci trattiene dal presentarci a un
uomo orgoglioso che ammiriamo, non è, in fondo, che un sentimento
d'orgoglio. Poi si pensa a quanti scrittorelli miserabili di mente e
di cuore, a quanti pedanti fradici e impotenti, a quanti imbrattacarte
sconosciuti di villaggio non si sentono da meno di Vittor Hugo. E
infine ci si dice che è una pazza presunzione la nostra, di credere
che a noi, messi in luogo suo, non darebbe punto al capo la gloria di
primo poeta d'Europa. E allora si ripiglia coraggio. Ma pure è una
cosa che spaventa quel presentarsi là sconosciuti, senz'altra scusa
che l'impulso del cuore, davanti a un uomo famoso nel mondo, nella
grande città che lo festeggia, in casa sua, in mezzo a una folla di
ammiratori, per dirgli... che cosa? Voglio vedervi!
V.
E non ostante, una mattina, mi trovai senza avvedermene nel cortile
della casa N.° 20 di via Clichy, in faccia al finestrino del
portinaio, e sentii con un certo stupore, come se parlasse un altro,
la mia voce che diceva:--Sta qui Vittor Hugo?--Ero ben certo che
stava là; eppure restai un po' meravigliato nel sentirmi
rispondere:--Si signore, al secondo piano--coll'accento della più
fredda indifferenza. Mi parve molto strano che a quel portinaio
paresse tanto naturale che là ci stesse Vittor Hugo. Poi, tutt'a
un tratto, mi parve un'assurdissima cosa l'andarmi a presentare a
quell'uomo in quella maniera. E dissi forte a me stesso:--Ma tu sei
matto!--e rimasi profondamente assorto, per qualche minuto, nella
contemplazione d'un gatto che dormiva sopra una finestra del pian
terreno. E l'ho da dire tal quale? Sentivo un leggierissimo tremito
nelle ginocchia, come se mi fosse già passata da un pezzo l'ora
della colezione. Poi non ricordo più bene. So che m'accorsi
improvvisamente che salivo le scale; ma colla profonda sicurezza
che, arrivato alla porta, sarei tornato giù senza sonare. Salivo
lentamente; sopra uno scalino mi sentivo un coraggio da leone; sopra
un altro scalino mi pigliava la tentazione di voltar le spalle e di
scappar come un ladro. Mi fermai due o tre volte per asciugarmi la
fronte, che stillava. Oh mai nessun alpinista, ne son sicuro, ha
fatto un'ascensione più affannosa di quella! Avrei voluto tornar
indietro; ma non potevo. Che so io? C'erano Cinquecento De Amicis,
di tutte le stature, che ingombravano la scala dietro di me,
affollati e stretti come acciughe tra il muro e la ringhiera, che mi
dicevano tutt'insieme a bassa voce;--Avanti!--All'improvviso, come
se fino allora avessi pensato a tutt'altro, mi trovai ai piedi
dell'ultima branca di scala, in faccia alla porta. Allora non so
come, bruscamente, tutte le paure sparirono. Sentii un impulso
potente che mi diedero insieme mille ricordi dell'adolescenza e
della giovinezza, il sangue mi diede un tuffo violento, Cosetta mi
mormorò:--Coraggio!--Ernani mi disse:--Sali!--Gennaro mi
gridò:--Suona!--E suonai.--Dio eterno! Mi parve di sentir sonare
a distesa, per un quarto d'ora filato, la gran campana di _Notre
Dâme_, e stetti là trepidante come se quel suono dovesse aver
messo sottosopra mezza Parigi. Finalmente nello stesso punto sentii
l'impressione d'un pugno nel petto e vidi spalancarsi la porta. Mi
trovai dinanzi una governante, una bella donna, vestita con garbo.
In un angolo dell'anticamera due servitori lucidavano dei candelieri
d'argento. Per una porta aperta si vedeva in un'altra stanza una
tavola mezzo sparecchiata, con un giornale nel mezzo, Cose
insignificanti e indimenticabili.
Domandai alla governante con una voce da tenore sgolato se stava là
Vittor Hugo. Mi rispose di sì, con un'indifferenza, anche lei, che
mi fece gran meraviglia. Domandai se avrebbe potuto ricevermi. Mi
rispose che era ancora a letto. Io rimasi là, senza parola,
scombussolato. L'idea di aver da fare un'altra volta l'ascensione di
quella montagna, mi sgomentava. Ma la governante doveva esser abituata
a veder dei giovani presentarsi così, col viso un po' alterato,
alla porta del suo padrone, e a indovinare dal viso il sentimento che
li moveva; perchè mi diede un'occhiata tra sorridente e pietosa,
come se volesse dire:--Ho capito! Sei uno dei tanti--e soggiunse con
un accento benevolo:--Credo però che sia svegliato.... posso
domandargli quando la potrà ricevere--e senza darmi tempo di
rispondere, disparve. A me pareva di sognare o di essere briaco. Mi
sfuggiva il sentimento della realtà. Mi domandavo se il Vittor Hugo
ch'era nella stanza accanto fosse proprio quel Vittor Hugo che io
cercavo, e non mi pareva possibile. E avrei voluto, infatti, che non
fosse possibile. Mi pareva d'aver commesso un atto insensato.--Ma cosa
ho fatto!--mi dicevo.--Bisogna che mi abbia dato volta il cervello. E
cosa seguirà adesso?--E pensando ch'era possibile ch'egli non mi
volesse ricevere, mi sentivo salire delle ondate di sangue alla testa.
Improvvisamente la governante ricomparve e disse gentilmente:--Il
signor Vittor Hugo la riceverà con piacere questa sera alle nove e
calpestando la ragione, il buon gusto, il buon senso, la verità. E
a un certo punto vi svincolate gridando:--No, Hugo, non ti seguo!--e
lo lasciate fuggir solo. Dov'è andato? È caduto? Ah! eccolo
là, sull'altura, colla fronte dorata dal sole. Ha vinto e ha
ragione. Ma egli ha tutto per combattere e per vincere: ha l'audacia,
la forza e le armi; ha il genio e la pazienza; è nato poeta e
s'è fatto; ha scavato dentro a sè stesso, con mano pertinace, la
vena più profonda dei suoi tesori; ogni opera sua è un immenso,
lavoro di scavazione, a cui si assiste leggendo, e si sente il
formidabile affanno del suo respiro. È una strana cosa veramente
l'arte sua. Egli non ci presenta il lavoro fatto, il risultamento
netto ed ultimo dei suoi sforzi, l'ultima idea a cui è arrivato per
una successione d'idee; ma ci fa seguire tutto il processo intimo del
suo pensiero, ci fa contare e toccare prima tutte le pietre con cui
innalzerà l'edifizio, ci fa assistere a tutti i suoi tentativi
inutili, a tutti i crollamenti successivi delle parti mal fabbricate,
e vediamo poi l'edifizio compiuto, ma circondato e ingombro dei
ruderi, ch'egli disdegna di spazzare. Il suo lavoro è uno strano
accoppiamento di pazienza da musicista e di furia da pittore ispirato.
Egli scrive come il Goya dipingeva. Ora minia, liscia, accarezza
l'opera propria, lento, quasi sonnolento, minuto, scrupoloso; si
diverte a stendere elenchi accurati di nomi e di cose, a spiegare il
proprio concetto con similitudini interminabili diligentemente
condotte; procede colle seste, cerca le simmetrie, dice, corregge,
aggiunge, modifica, rettifica, sfuma, cesella, brunisce. A un tratto
il soffio della grande ispirazione lo investe, e allora butta via il
pennello delicato, e, come il Goya faceva, dipinge a furia con quello
che gli casca fra le mani, spande i colori colle spugne, getta le
grandi macchie cogli strofinacci e le scope, dà i tocchi di
sentimento a colpi furiosi di pollice che sfondan la tela. Il suo
stile è tutto rilievi acuti, rialti di granito, punte di ferro e
vene d'oro, pieno d'asprezze e d'affondamenti oscuri, rotto qua e
là in grandi squarci, da cui si vedono prospetti confusi e lontani;
ora semplice fino all'ingenuità scolaresca, ora architettato
coll'arte sapiente d'un pensatore; a volta a volta acqua limpida e
mare in burrasca, su cui errano nuvole rosee che riflettono il sole o
nuvole nere da cui si sprigiona la folgore. Le immagini nuove e
potenti pullulano a miriadi sotto la sua penna, e le idee gli erompono
dal capo armate, impennacchiate, sfolgoranti; e sonanti, qualche volta
offuscate dalla ricchezza e schiacciate dal peso dell'armatura. Egli
non spende, profonde a piene mani, sperpera i tesori inesauribili
della sua potenza espressiva col furore d'un giuocatore forsennato. La
lingua sua non gli basta. Egli toglie ad imprestito il gergo della
plebe, la lingua furfantina delle galere, il balbettio informe ed
illogico dei bambini; tempesta la sua prosa di parole straniere di
cento popoli e di traslati proprii di tutte le letterature; e si
fabbrica superbamente un linguaggio suo, tutto colori e scintille,
pieno d'enimmi e di licenze, di laconismi potenti e di delicatezze
inimitabili; secondo il bisogno, triviale, tecnico, accademico,
vaporoso, brutale, solenne; così che lette le sue opere, non par
d'aver sentito parlare la lingua di un solo popolo e d'un solo secolo,
ma una vasta e confusa lingua d'un tempo avvenire, per la quale non ci
sia nulla d'inesprimibile e di straniero. Di questa potenza
espressiva, come del coraggio del suo genio, egli abusa, e allora
s'impiglia e si ravvolge nel proprio pensiero, e vi s'aggira come in
un labirinto, senza trovarne l'uscita. Ma anche nei suoi smarrimenti
è grande. Anche in quelle pagine affaticate, tormentate, astruse,
in cui volendo esprimere l'inesprimibile, tenta da tutte le parti il
proprio concetto, e accumula metafore su metafore, paragoni su
paragoni, e ricorre inutilmente al suo misterioso linguaggio di
tenebre e di luce, d'ombre e d'abissi, di _inconnu_ e di _insondable_,
e tutta la sua fortissima e ricchissima lingua non basta a render
nemmeno una pallida idea di quel non so che di immane e di mostruoso
che ha nel capo; in quelle pagine i freddi pedanti trovano con gioia
una presa assai facile alla critica che distrugge e deride; ma l'anima
dell'artista vi sente l'anelito del titano che lotta con una potenza
sovrumana, e assiste a quegli sforzi poderosi con un sentimento di
stupore e di rispetto, come a uno di quegli spettacoli in cui un uomo
rischia la vita. Eppure si, leggendo le opere sue, accade qualche
volta che, arrivati a un certo punto, lo squilibrio delle facoltà,
la continua prevalenza della fantasia sfrenata sulla ragione, la
eccessiva frequenza delle aberrazioni e delle cadute, vi stanca; i
lampi di genio non bastano più a compensarvi dei continui
sacrifizii che deve fare il vostro buon senso; siete sazii, sdegnati,
qualche volta nauseati; sentite il bisogno di riposarvi da quella
tortura; ritornate con piacere ai vostri scrittori sensati, rigorosi,
sempre eguali; respirate, vi ritrovate nel mondo reale, benedite la
logica, riacquistate la vostra dignità d'uomini e di lettori. E
lasciate in un canto l'Hugo per mesi, e qualche volta per anni, e vi
pare d'esservene staccati per sempre. Ma che! Egli v'aspetta. Un
giorno arriva finalmente in cui, tutt'a un tratto, un entusiasmo a cui
volete un'eco, un dolore che domanda un conforto, un bisogno istintivo
di strano o di terribile, vi risospinge verso quei libri. E allora
tutti gli entusiasmi sopiti si ridestano tumultuosamente. Egli
v'afferra di nuovo, vi soggioga, siete suoi, rivivete in lui per un
altro periodo della vostra vita. È perchè le somme linee delle
opere sue sono veramente d'un genio. L'abuso ch'egli fa d'un concetto
sublime, alla lettura, v'offende; ma spariti dalla memoria i
particolari errati o eccessivi, il concetto vi resta incancellabile, e
più s'appura col tempo, più vi pare che ingrandisca, e ingrandisce
davvero. Le sue grandi idee e i suoi grandi sentimenti son grandi tanto
che sovrastano ai difetti infiniti dell'arte sua, come le colonne d'un
tempio antico ai rottami ammucchiati ai suoi piedi. E di qui nasce il
fatto strano ch'egli ha più ammiratori ardenti delle sue creazioni
che lettori fedeli dei suoi volumi, e che moltissimi ammiratori suoi non
lo conoscono che nei frammenti delle sue opere, o nelle ispirazioni che
v'hanno attinte le altre arti. Chi strapperà più dalla memoria
umana Ernani, Triboulet, il campanaro di _Nôtre Dame_, l'amore di Ruy
Blas, la disperazione di Fantina? E chi può scordare i brividi di
terrore ch'egli ci ha fatto correre per le vene, e le lacrime che ci ha
fatto sgorgare dagli occhi? Poichè egli può tutto, ed è grande
nella tragedia e insuperabile nell'idillio. Noi tutti abbiamo sentito
scricchiolare le ossa d'Esmeralda nel letto della tortura, e abbiamo
visto faccia a faccia la morte, quando ce la presenta orrenda come in
Claudio Frollo appeso al cornicione della cattedrale, o furiosa come
sulla barricata di via Saint-Denis, o epica come sul campo di Waterloo,
o infinitamente triste come nelle nevi della Russia, o solennemente
lugubre, come nel naufragio dei Comprachicos. Ed è lo stess'uomo che
fa vibrare sovrumanamente le corde più delicate dell'anima; l'autore
del _Revenant_ su cui milioni di madri singhiozzarono, l'autore di quel
celeste _Idillio di Rue Plumet_, di quella santa agonia di Jean Valjean,
che strazia l'anima, e di quei versi meravigliosi, in cui Triboulet
spande piangendo l'immensa ed umile tenerezza del suo amore di padre.
No, mai parole più dolci, preghiere più soavi, grida d'amore
più appassionate, slanci d'affetto e di generosità più nobili e
più potenti, sono usciti da un cuore di poeta. E allora Vittor Hugo
è grande, buono, venerabile, augusto, e non c'è anima umana che in
quelle pagine non l'abbia benedetto ed amato. In momenti solenni della
vita, accanto al letto d'un moribondo, durante una grande battaglia
della coscienza, i suoi versi ripassano per la mente, come lampi, e
risuonano all'orecchio consigli d'un amico affettuoso e severo che ci
dica:--Sii uomo!--Poichè egli ha tutto sentito, tutto compreso e
tutto detto; ha le disperazioni tremende e le rassegnazioni sublimi; non
v'è dolore umano a cui non abbia detto una parola di conforto; non
c'è sventura al mondo su cui non abbia fatto versare delle lagrime.
Egli è il patrocinatore amoroso e terribile di tutte le miserie, dei
diseredati dalla natura e degli abbandonati dal mondo, di chi non ha
pane, di chi non ha patria, di chi non ha libertà, di chi non ha
speranze, di chi non ha luce. Questa è la sua grandezza vera e
incontestabile. Non c'è altro scrittore moderno che abbia esercitato
con una maggior quantità d'opere e con una più intrepida
ostinazione questo glorioso apostolato; che abbia maneggiato un pennello
più potente per dipingere le miserie, un coltello anatomico più
affilato per aprire i cuori straziati, uno scalpello più magistrale
per scolpire gli eroi della sventura, un ferro più rovente per
segnare la fronte di chi fa soffrire, una mano più delicata per
accarezzare la fronte di chi soffre. Egli è il grande assalitore e il
grande difensore; ha combattuto su tutte le arene; è salito su tutte
le sommità ed è sceso in tutte le bassure. E questo è ammirabile
in lui, che per quanto sia disceso, non s'è mai abbassato. La sua
mano è rimasta incontaminata fra tutte le sozzure in cui
sguazzò la sua penna. Egli non ha mai prostituito l'arte sua.
È austero e superbo. Non s'inflette e non ride. Il suo riso non
è che una maschera, dietro la quale s'intravvede sempre il suo
volto pallido e accigliato. Una specie di tristezza fatale pesa su
tutte le opere sue. Anche nella sua grande e costante aspirazione
alla virtù, alla concordia, alla pace, alla redenzione degli
oppressi e degli infelici, v'è qualcosa di malinconico e di
tetro, come se le mancasse l'alimento della speranza. Tutti i suoi
libri terminano con un grido straziante. Tutte le voci che escono
dalle sue opere formano, riunite, un lamento solenne, misto di
preghiera e di minaccia. La sua stessa credenza in Dio, quella
ch'egli chiama la suprema certezza della sua ragione, è forse
piuttosto un'aspirazione potentissima del suo cuore e un pascolo
immenso della sua immaginazione smisurata, che una fede ferma, in
cui la sua anima si riposi: la fede è una sorgente, a lui
necessaria, di torrenti di poesia, e Dio è un personaggio dei
suoi romanzi e dei suoi canti. Da qualunque lato si guardi,
apparisce in lui qualcosa di strano e di non chiaramente
esplicabile. L'uomo non emerge netto dallo scrittore. Si stende la
mano a toccarlo, e invece della carne umana, si sente una sostanza
nuova al tatto, che fa rimanere perplessi. La sua figura, velata,
s'innalza, s'abbassa, s'avvicina, s'allontana, e non presenta mai
per tanto tempo i contorni fermi e precisi, da poterseli fissare
immutabilmente nel pensiero. E così v'affaticate per anni intorno
alle sue opere senza riuscir mai a formarvene un giudizio che non
abbiate di tratto in tratto a mutare. Esse offrono mille parti
scoperte alla critica d'un fanciullo, e presentano mille aspetti
irresistibili all'ammirazione dell'uomo. C'è poco da obbiettare a
chi le lacera senza remissione, non si sa che cosa opporre a chi
n'è entusiasta appassionato. Distruggetele col ragionamento: esse
si rialzano da sè, a poco a poco, nella vostra mente, più
maestose e più salde. Disponetevi invece ad adorarle ciecamente,
e sarete ogni momento costretti a soffocare mille voci di protesta
che usciranno dal vostro cuore e dalla vostra ragione. Una sola cosa
è fuor di dubbio, ed è che non si può rifiutare a quest'uomo
il titolo augusto e solenne di Genio. Il più ostinato avversario
suo sente, in fondo a sè stesso, chè la qualificazione di
«ingegno», da qualunque attributo accompagnata, non basta per
lui. Potete preferirgli una legione d'altri ingegni viventi; ma
siete costretti a riconoscere che alle mille teste di quella legione
sovrasta la sua. Potete voltargli le spalle, ma non potete fare un
passo senza mettere il piede sulla sua ombra. Ma è difficile
credere che la ripugnanza dell'indole, o la disparità del gusto e
delle idee, o l'odio di parte possano tanto in un uomo da fargli
negare la grandezza che presentano insieme le creazioni, le lotte, i
trionfi, gli errori e gli ardimenti di questo vecchio formidabile.
Per me, penso ai suoi cinquanta volumi, pieni d'ispirazioni e di
fatiche, in cui si rivela col genio prepotente una volontà
indomabile o una tempra fisica d'acciaio; penso ai torrenti di vita
che uscirono dal suo petto, all'amore immenso che profuse, alle ire
selvaggie e agli odii implacabili che provocò e che gli infuriarono
nell'anima; ricorro la sua vita da quando giocava, ragazzo, sotto
gli occhi di sua madre, noi giardino delle _Feuillantines_; lo vedo,
sedicenne, quando scriveva in quindici giorni, per guadagnare una
scommessa, le pagine ardenti di Bug-Jargal; penso a quando comprò
il primo scialle a sua moglie coi denari dell'_Han d'Islanda_; me lo
raffiguro, fiero e impassibile, in mezzo alle tempeste delle
assemblee scatenate dalla sua parola temeraria; lo vedo servire
umilmente i quaranta bambini poveri seduti alla sua mensa a
Hauteville-house; me lo rappresento grave e triste, in mezzo alla
folla, dinanzi ai cento sepolcri illustri su cui fece sentire la sua
parola piena di maestà e di dolcezza; lo vedo per le vie di
Parigi, in mezzo alla moltitudine riverente, costernato e
invecchiato, seguire i feretri dei suoi figli; lo vedo in quelle sue
veglie febbrili, ch'egli descrisse così potentemente, quando di
lontano, nel silenzio della notte, sentiva squillare il corno di
Silva ed echeggiare il grido di Gennaro; lo vedo assistere nel
_Teatro francese_, dopo mezzo secolo dalla prima rappresentazione,
al trionfo clamoroso dell'_Hernani_, salutato dai primi scrittori e
dai primi artisti della Francia, come il loro Principe rieletto e
riconsacrato; penso al suo _Oriente_ splendido, al suo Medio evo
tremendo, alla _Preghiera per tutti_, all'infanta che perde la rosa
mentre Filippo II perde l'Armada, alla carica dei corazzieri della
guardia contro i quadrati del Wellington, alla scarpetta
d'Esmeralda, all'agonia d'Eponina, a tutte le creature del mondo
arcano, sfolgorante, immenso che uscì dal suo capo; al suo
esilio, alle sue sventure, ai suoi settantasette anni,--e sento una
mano che mi fa curvare la fronte.
III.
«Vittor Hugo è certamente uno di quelli scrittori che ispirano
un più ardente desiderio di vederli; perchè i suoi cento aspetti
di scrittore ci fanno domandare ogni momento a quale di essi
corrisponda il suo aspetto d'uomo. Sarà il viso dell'Hugo che ci fa
inorridire o quello dell'Hugo che ci fa piangere? E ci riesce
ugualmente difficile rappresentarcelo benevolo e rappresentarcelo
truce. Io mi ricordo d'aver passato molte ore, giovanotto, all'ombra
d'un giardino, con un suo libro tra le mani, cercando di dipingermelo
coll'immaginazione, e componendo e ricomponendo cento volte il suo
viso e la sua persona, senza trovar mai una figura che m'appagasse. Il
suo spettro, di forme incerte, mi stava sempre davanti. Quest'uomo era
un enimma per me. Io non sapevo bene rendermi conto del sentimento che
m'ispirava. Alle volte mi pareva che, vedendolo, gli sarei corso
incontro coll'espansione di un figlio e mi sarei strette le sue mani
sul cuore; altre volte mi pareva che, incontrandolo improvvisamente,
mi sarei scansato con un sentimento di diffidenza e di timore, e avrei
detto sommessamente ai miei vicini:--Indietro! Hugo passa.--Che so io?
Era l'uomo che m'aveva spinto cento volte, col cuore gonfio di
tenerezza, tra, le braccia di mia madre; ma era anche l'uomo che
m'aveva fatto balzar sul letto, più volte, nel cuor della notte,
atterrito dall'apparizione improvvisa dei cinque cataletti di Lucrezia
Borgia. Sentivo per lui un affetto pieno di trepidazione e di
sospetto. Ma il desiderio di vederlo era ardente, e andò crescendo
cogli anni. Quanta è la potenza del genio! Voi arrivate in una
città enorme, trascorrete di divertimento in divertimento,
d'emozione in emozione, in mezzo a un popolo immenso e tumultuoso, fra
gente di ogni paese, fra i capolavori delle arti e delle industrie di
unta la terra, fra mille spettacoli, mille pompe o mille seduzioni.
Ebbene, tutto questo non è per voi che una cosa secondaria. Fra
quell'immenso spettacolo e voi si drizza il fantasma di un uomo che
non avete mai visto, che non vedrete forse mai, che non sa nemmeno che
siate al mondo; e questo fantasma occupa tutta la vostra mente e tutto
il vostro cuore. In quell'oceano di teste, voi non cercate che la sua.
A ogni vecchio che passi, il quale vi rammenti alla lontana la sua
immagine, una voce intima vi dice:--È lui!--e il vostro sangue si
rimescola. Tutta quell'enorme città non vi parla che di quell'uomo.
Le torri della Cattedrale sono popolate dei fantasmi della sua mente,
ad ogni svolto di strada vi si affaccia una creatura della sua
immaginazioni, i frontoni dei teatri vi rammentano i suoi trionfi, gli
alberi dei giardini vi bisbigliano i suoi versi e le acque della Senna
vi mormorano il suo nome. E allora prendete una risoluzione eroica e
rivolgete una domanda, da lungo tempo meditata, a un amico. E non si
può dire l'effetto che vi fanno queste cinque semplicissime
parole:--Via di Clichy, numero venti.
IV.
V'è una considerazione però, che rende titubanti molti
ammiratori che desiderano di visitare Vittor Hugo; ed è l'accusa
che gli si fa d'avere un immenso orgoglio. Certo è che egli sente
altissimamente di sè, e non lo nasconde. Tutti sanno quello che
disse, ancor giovane, all'attrice Mars, che si permetteva, alle prove
dell'_Hernani_, di criticare i suoi versi.--Signorina, voi dimenticate
con chi avete da fare. Voi avete un grande ingegno; non lo nego; ma ho
un grande ingegno. anch'io, e merito qualche riguardo.--Io lascio ad
altri il risolvere questa quistione: se, in qualche caso, uno
smisurato sentimento di sè non sia un elemento del genio: quello
che dà l'impulso ai grandi ardimenti; e se, ammessa la indole
artistica di Vittor Hugo, sia possibile concepire un Vittor Hugo
modesto. Mi ristringo a considerare il fatto. Si, Vittor Hugo
dev'essere sovranamente orgoglioso. Si riconosce da mille segni. Egli,
per esempio,--è cosa notissima,--non ammette la critica. Il genio,
dice, è _blocco_. Bisogna accettarlo intero o respingerlo intero.
L'opera del genio è un tempio in cui si deve entrare col capo
scoperto, e in silenzio. _On ne chicane pas le génie_. Ammirate,
ringraziate e tacete. Il genio non ha difetti. I suoi difetti sono il
rovescio delle sue qualità. Ecco tutto. Egli lo ha detto a chiare
note nel suo libro sullo Shakespeare, nel quale s'è servito del
tragico inglese per dire al mondo quello che pensa di se stesso. Il
ritratto ch'egli traccia dello Shakespeare è il ritratto suo;
quella deificazione che egli fa del genio, la quale per un uomo che
creda in Dio è quasi sacrilega, è, insomma, la sua apoteosi; in
quell'oceano a cui paragona i grandi poeti, si vede riflessa, prima
d'ogni altra, la sua grandezza; quella montagna che ha tutti i climi e
tutte le vegetazioni, è Vittor Hugo. In quegli elenchi, ch'egli fa
ad ogni pagina, dei genii di tutti i tempi e di, tutti i paesi, da
Giobbe al Voltaire, si capisce, si giurerebbe che, arrivato all'ultimo
nome, è stato, lì sul punto d'aggiungervi il suo, e che non lo
fece, non per modestia, ma per _salvare_, come, suol dirsi, _le
convenienze_. Egli tratta tutti quei grandi da pari a pari. Tutti i
genii, d'altra parte.--è una sua idea,--sono uguali. La regione
dei genii è la regione dell'eguaglianza. Egli parla di Dante come
d'un fratello. Ma oltre a queste ci sono mille altre manifestazioni
della coscienza ch'egli ha della sua grandezza: l'ardimento, superbo
con cui mette le mani nella scienza e con cui affronta, passando, i
più alti problemi della filosofia; la baldanza con cui ostenta le
sue licenze letterarie, come se fosse certo che, coniate da lui,
saranno moneta corrente e ricchezza comune; l'intonazione solenne
delle sue prefazioni, che, annunziano l'opera come un avvenimento
sociale; la cura scrupolosa con cui raccoglie o fa raccogliere tutte
le sue minime parole e gli atti più insignificanti della sua vita.
Quando vuol fare il modesto riesce all'effetto opposto, tanto
inesperto è in quell'arte, e tanto è abituato a passar la misura
in ogni cosa. Come quando comincia una lettera: «Un oscuro
lavoratore.» E così, sotto la forzata pacatezza con cui risponde
alle osservazioni di Lamartine sui _Miserabili_, si sente il ruggito
soffocato del leone ferito. La sua stessa prodigalità nella lode
tradisce l'uomo che crede di gettarla tanto dall'alto, da non aver da
temere l'orgoglio che ne potrà nascere, se anche crescesse
smisurato. E poi egli rivela l'animo suo candidamente. In un'occasione
in cui non volle lasciar rappresentare un suo dramma perchè un
altro aveva trattato lo stesso soggetto, disse:--Non voglio esser
paragonato,--A un editore che gli proponeva di pubblicare una scelta
delle sue poesie, rispose:--Voi mi avete l'aria d'un uomo che,
mostrando in una mano dei sassi raccolti sul Monte Bianco, creda di
poter dire alla gente: Ecco il Monte Bianco.--Egli si considera al di
sopra d'ogni confronto possibile con qualunque scrittore
contemporaneo. Non piglia, infatti, alcuna parte in quella guerra
continua che si movono gli scrittori di Francia a motti arguti e
maligni, che scorticano senza far stridere, e fanno il giro di Parigi.
Se ne sta in disparte, muto. E non sarebbe atto, d'altra parte, a
questa specie di guerra. Dicono: perchè non ha «spirito.»
Egli ha risposto acerbamente a questa critica.--Dire che un uomo di
genio non ha spirito, è una gran consolazione per i moltissimi
uomini di spirito che non hanno genio.--Ma la critica è giusta
forse, benchè si trovino nei suoi discorsi parlamentari dei
mirabili esempi di risposte improvvise a botte inaspettate. Il suo
scherno ha spesso il conio del grande ingegno; ma non provoca il riso
salato e pepato della vera arguzia francese. Lo stiletto sottile
dell'ironia sfugge dalle sue mani di colosso; egli non è atto che a
dare i grandi colpi di mazza che sfracellano il casco e la testa. E
poi oramai si ritiene quasi al di sopra della letteratura. Si riguarda
quasi come un sacerdote di tutte le genti, sopravvissuto, per decreto
della Provvidenza, a mille prove e a mille sventure, per vegliare
sull'umanità. Questo apparisce lucidamente dalle sue apostrofi ai
popoli, dalle sue intimazioni ai monarchi, dal tono di profezia che
dà ai suoi presentimenti, dalla forma di responso che dà alle
sue sentenze, dal carattere di minaccia che dà ai suoi rimproveri,
da tutto il suo linguaggio spezzato in affermazioni altiere e in
giudizii assoluti, come se ogni sua proposizione fosse un decreto, da
incidersi sul bronzo o nel marmo per le generazioni avvenire. Tutte
queste cose, o sapute prima o intese dire, fanno lungamente esitar lo
straniero che vuol andare a battere alla sua porta. Certo che, dopo la
prima esitanza, si fanno delle riflessioni incoraggianti. Si pensa,
per esempio, che il sentimento che ci trattiene dal presentarci a un
uomo orgoglioso che ammiriamo, non è, in fondo, che un sentimento
d'orgoglio. Poi si pensa a quanti scrittorelli miserabili di mente e
di cuore, a quanti pedanti fradici e impotenti, a quanti imbrattacarte
sconosciuti di villaggio non si sentono da meno di Vittor Hugo. E
infine ci si dice che è una pazza presunzione la nostra, di credere
che a noi, messi in luogo suo, non darebbe punto al capo la gloria di
primo poeta d'Europa. E allora si ripiglia coraggio. Ma pure è una
cosa che spaventa quel presentarsi là sconosciuti, senz'altra scusa
che l'impulso del cuore, davanti a un uomo famoso nel mondo, nella
grande città che lo festeggia, in casa sua, in mezzo a una folla di
ammiratori, per dirgli... che cosa? Voglio vedervi!
V.
E non ostante, una mattina, mi trovai senza avvedermene nel cortile
della casa N.° 20 di via Clichy, in faccia al finestrino del
portinaio, e sentii con un certo stupore, come se parlasse un altro,
la mia voce che diceva:--Sta qui Vittor Hugo?--Ero ben certo che
stava là; eppure restai un po' meravigliato nel sentirmi
rispondere:--Si signore, al secondo piano--coll'accento della più
fredda indifferenza. Mi parve molto strano che a quel portinaio
paresse tanto naturale che là ci stesse Vittor Hugo. Poi, tutt'a
un tratto, mi parve un'assurdissima cosa l'andarmi a presentare a
quell'uomo in quella maniera. E dissi forte a me stesso:--Ma tu sei
matto!--e rimasi profondamente assorto, per qualche minuto, nella
contemplazione d'un gatto che dormiva sopra una finestra del pian
terreno. E l'ho da dire tal quale? Sentivo un leggierissimo tremito
nelle ginocchia, come se mi fosse già passata da un pezzo l'ora
della colezione. Poi non ricordo più bene. So che m'accorsi
improvvisamente che salivo le scale; ma colla profonda sicurezza
che, arrivato alla porta, sarei tornato giù senza sonare. Salivo
lentamente; sopra uno scalino mi sentivo un coraggio da leone; sopra
un altro scalino mi pigliava la tentazione di voltar le spalle e di
scappar come un ladro. Mi fermai due o tre volte per asciugarmi la
fronte, che stillava. Oh mai nessun alpinista, ne son sicuro, ha
fatto un'ascensione più affannosa di quella! Avrei voluto tornar
indietro; ma non potevo. Che so io? C'erano Cinquecento De Amicis,
di tutte le stature, che ingombravano la scala dietro di me,
affollati e stretti come acciughe tra il muro e la ringhiera, che mi
dicevano tutt'insieme a bassa voce;--Avanti!--All'improvviso, come
se fino allora avessi pensato a tutt'altro, mi trovai ai piedi
dell'ultima branca di scala, in faccia alla porta. Allora non so
come, bruscamente, tutte le paure sparirono. Sentii un impulso
potente che mi diedero insieme mille ricordi dell'adolescenza e
della giovinezza, il sangue mi diede un tuffo violento, Cosetta mi
mormorò:--Coraggio!--Ernani mi disse:--Sali!--Gennaro mi
gridò:--Suona!--E suonai.--Dio eterno! Mi parve di sentir sonare
a distesa, per un quarto d'ora filato, la gran campana di _Notre
Dâme_, e stetti là trepidante come se quel suono dovesse aver
messo sottosopra mezza Parigi. Finalmente nello stesso punto sentii
l'impressione d'un pugno nel petto e vidi spalancarsi la porta. Mi
trovai dinanzi una governante, una bella donna, vestita con garbo.
In un angolo dell'anticamera due servitori lucidavano dei candelieri
d'argento. Per una porta aperta si vedeva in un'altra stanza una
tavola mezzo sparecchiata, con un giornale nel mezzo, Cose
insignificanti e indimenticabili.
Domandai alla governante con una voce da tenore sgolato se stava là
Vittor Hugo. Mi rispose di sì, con un'indifferenza, anche lei, che
mi fece gran meraviglia. Domandai se avrebbe potuto ricevermi. Mi
rispose che era ancora a letto. Io rimasi là, senza parola,
scombussolato. L'idea di aver da fare un'altra volta l'ascensione di
quella montagna, mi sgomentava. Ma la governante doveva esser abituata
a veder dei giovani presentarsi così, col viso un po' alterato,
alla porta del suo padrone, e a indovinare dal viso il sentimento che
li moveva; perchè mi diede un'occhiata tra sorridente e pietosa,
come se volesse dire:--Ho capito! Sei uno dei tanti--e soggiunse con
un accento benevolo:--Credo però che sia svegliato.... posso
domandargli quando la potrà ricevere--e senza darmi tempo di
rispondere, disparve. A me pareva di sognare o di essere briaco. Mi
sfuggiva il sentimento della realtà. Mi domandavo se il Vittor Hugo
ch'era nella stanza accanto fosse proprio quel Vittor Hugo che io
cercavo, e non mi pareva possibile. E avrei voluto, infatti, che non
fosse possibile. Mi pareva d'aver commesso un atto insensato.--Ma cosa
ho fatto!--mi dicevo.--Bisogna che mi abbia dato volta il cervello. E
cosa seguirà adesso?--E pensando ch'era possibile ch'egli non mi
volesse ricevere, mi sentivo salire delle ondate di sangue alla testa.
Improvvisamente la governante ricomparve e disse gentilmente:--Il
signor Vittor Hugo la riceverà con piacere questa sera alle nove e