Ricordi di Parigi - 05
li vidi sparsi per tutto il mondo, nei loro studi pieni di luce,
aperti sulle campagne solitarie, sui giardini, sul mare e sulle vie
rumorose; e pensai quanta vita avevano versato fra tutti in quelle
cento sale ch'io avevo attraversate di corsa, quanta parte
dell'anima loro c'era in quelle tele e in quei marmi innumerevoli,
quante ispirazioni d'amanti e di spose, quante veglie, quante
meditazioni, quanti pennelli spezzati, quanto sangue di cuori
trafitti, quante reminiscenze d'avventure e di pellegrinazioni
lontane, che vasta epopea d'amori, di dolori, di trionfi e di
miserie; e quanti eran già calati nel sepolcro, consunti dalla
febbre tremenda dell'arte, e quanti altri vi sarebbero discesi ancor
giovani e pieni di speranze; e che immenso tesoro d'immagini di
sentimenti e di idee portavan via da quel luogo milioni di
visitatori di tutta la terra; e pensando a queste cose, collo
sguardo rivolto a quella lunga fila di padiglioni, mi sentii
compreso improvvisamente d'un sentimento di affetto e di gratitudine
così vivo, che se in quel momento mi passava a tiro un pittore,
il primo venuto, gli saltavo al collo com'è vero il sole.
L'ultima sala delle belle arti mette nella galleria del lavoro. Non si
può immaginare un più strano cambiamento di scena. Qui tutto
è agitazione e strepito. Si vedono le piccole industrie all'opera.
C'è un gran numero di banchi circolari e quadrati, che servono
insieme d'officina e di bottega, dove lavorano continuamente uomini,
donne e ragazzi, in mezzo a una folla di curiosi, che formano una
catena non interrotta di grandi anelli neri mobilissimi da una
estremità all'altra dell'immensa sala. Qui si lavora l'oro, la
tartaruga, l'avorio, la madreperla, si fabbricano gli oggetti di
filigrana, si fanno i ventagli, le spazzole, i portamonete, gli
orologi. C'è, fra gli altri, un gruppo d'operaie che fabbricano le
bambole con una rapidità di prestigiatrici, e altre che fanno i
fiori di stoffa, di smalto, di penne d'uccelli del tropico, con una
sveltezza ed un garbo, che par di vederli sbocciare fra le loro dita.
In altre parti si tesse la seta, si dipinge la porcellana, si lavora
il rame, si fa la guttaperca, si fabbricano le pipe di schiuma. In un
angolo si vedono le pazienti manine normanne lavorare la trina. Nel
mezzo della sala si taglia il diamante. Qui piovono i biglietti di
visita, là le spille, più in là i bottoni; da una parte si
fanno le treccie e i _chignons_, dall'altra i canestrini e le
scatolette di paglia. Un gruppo d'indiani, col capo coperto di enormi
turbanti variopinti, lavorano agli scialli. È una lunghissima fila
di piccoli fornelli, di macchinette vibranti, di fiammelle di gaz, di
teste chine, di mani in moto, di gente che interroga e di gente che
spiega; un chiacchierio, un affaccendamento allegro, un lavorio
accelerato e sonoro, che mette la smania di far qualche cosa. E la
vôlta altissima ripercuote rumorosamente i sibili acuti che paiono
grida di gioia infantile, il picchiettio cadenzato di cento martelli,
lo stridore delle lime e delle seghe e mille tintinni cristallini e
metallici, e il ronzìo sordo della moltitudine che passa a
processioni, a turbe, a gruppi, come un esercito sbandato, per
riversarsi nei giardini esterni o nelle gallerie delle macchine.
Qui lo spettacolo è degno d'un'ode di Vittor Hugo. Sul primo
momento par di essere sotto una delle immense tettoie arcate delle
stazioni di Londra. Son due gallerie lunghe come il Campo di Marte,
larghe novanta uomini di fronte, e piene di luce, nelle quali mille
macchine enormi, un esercito di ciclopi di metallo, minacciosi e
splendidi, alzano le teste, le braccia, le mazze, le lame, fitte e
intricate, fino alle vôlte altissime, producendo il fragore d'una
battaglia. Una immensa trasformazione di cose si compie da tutte le
parti. Il foglio di carta esce in buste da lettera, lo spago in corde,
il bronzo in medaglie, il filo di ottone in spille, il filo di lana in
calze, il pezzo di legno in frammenti di mobili; la ricamatrice
svizzera ricama con trecento aghi, il papirografo inglese riproduce
trecento esemplari d'un manoscritto, la macchina dei saponi taglia i
cubi, gl'involta e li pesa; la macchina del Marinoni mette fuori i
giornali piegati; le gigantesche filatrici di Birmingham e di
Manchester lavorano accanto alle macchine d'estrazione delle miniere;
la grande macchina da ghiaccio getta il suo furioso soffio gelato in
mezzo agli aliti di fuoco delle macchine da gaz; altre lavorano i
diamanti, altre lacerano e torcono il metallo come una pasta, altre
lavano, raffinano, travasano, disegnano, dipingono, scrivono; in ogni
parte freme una vita meravigliosa ed orribile di mostri di cento
bocche e di cento mani, che irrita i nervi, introna le orecchie e
confonde l'immaginazione. Qua e là si vede la materia informe
sparire nel ventre tenebroso di quei colossi, riapparire in alto, dopo
qualche momento, già mezzo lavorata, e come portata in trionfo, e
poi rinascondersi, ricacciata giù sdegnosamente a subire le ultime
violenze.... Qui lavorano delle braccia di gigante, là delle dita
di fata. In una parte il lavoro si presenta sotto l'aspetto d'una
distruzione furiosa, fra denti enormi di ferro e artigli d'acciaio,
che stritolano e sbranano con un fracasso d'inferno, in cui si sente
un suono confuso di lamenti umani; in mezzo a un roteggio intricato,
vertiginoso, feroce, che sbricciolerebbe un titano come un gingillo di
vetro. In un'altra parte il mostro mansueto accarezza la materia
prigioniera, la palleggia, la lambisce, la liscia, delicatamente,
lentamente, in silenzio, come se facesse per gioco. Altre macchine
colossali, come quelle da maglie, fanno movimenti strani e misteriosi,
d'apparenza quasi umana, con una certa grazia languida d'ondulazioni
femminee; che ispirano un senso inesplicabile di ripugnanza, come se
fossero esseri viventi dei quali non sì riuscisse ad afferrare la
forma. Fra le grandi membra di tutti questi lavoratori smisurati,
s'agita come una vita segreta un indescrivibile lavorio di rotine che
sembrano immobili, di seghe che paion fili, di congegni delicatissimi
e quasi invisibili, che vibrano, tremano, trepidano, e ingigantiscono
ancora, col paragone della loro umile piccolezza, le ruote enormi, le
cerniere colossali, le caldaie titaniche, le correggie spropositate,
le gru, gli stantuffi, i tubi mostruosi, che si slanciano in alto come
colonne monumentali, e si succedono in una fila senza fine,
presentando l'aspetto di non so che bizzarra e deforme città di
metallo, in cui si dibatta fra le catene una legione di dannati o di
pazzi. Ma anche l'uomo lavora; un gran numero di donne cuciscono colle
macchinette; intorno alle grandi macchine vigilano degli operai, e
meccanici e artefici di tutti i paesi, vestiti trascuratamente,
osservano, notano, si caccian per tutto, fra gli stantuffi e le ruote,
a rischio della vita; fra i quali si vedono qua e là delle faccie
scarne e pallide, ma piene di vita, su cui lampeggia una volontà di
ferro e un'ambizione implacabile. Chi sa! operai oscuri oggi, forse
inventori gloriosi domani. Tutta l'enorme galleria è piena
dell'immenso affanno del lavoro. E sulle prime quell'agitazione
affatica e rattrista. Ma a poco a poco, facendovi l'udito e fermandovi
il pensiero, in quel fragore pauroso di fischi, di sbuffi, di scoppii,
di scricchiolamenti, di gemiti e d'ululati, si sente la voce profonda
delle moltitudini, le grida eccitatrici della lotta e l'urrà
formidabile della vittoria umana. L'uomo che, entrando, s'era sentito
schiacciato, riacquista la coscienza di sè, e contempla
quell'immensa forza, suscitata e disciplinata dal suo pensiero, con un
fremito d'alterezza, in cui tutto l'essere suo si rinvigorisce e
s'innalza. E quello smisurato arsenale di armi pacifiche, le bandiere
grandi come vele di nave che spenzolano dalla vôlta, gonfiate
dall'aria commossa dalle ruote innumerevoli, quei monumenti selvaggi
di cordami e di reti, le piramidi delle zappe che servirono a
dissodare i deserti del nuovo emisfero, i trofei degli strumenti per
la pesca dei grandi cetacei dei mari polari, i tronchi giganteschi
delle foreste vergini, le armature colossali dei palombari, le torri
di merci, e i fari giranti tra i nuvoli di fumo, i getti d'acqua e le
pioggie vaporose delle macchine a vapore, questo maestoso e terribile
spettacolo, salutato dalle detonazioni delle macchine da gaz, dagli
squilli delle trombe marine e dalle note solenni degli organi lontani,
che portano in quell'inferno la poesia della speranza e della
preghiera, a poco a poco s'impadronisce di voi, vi fa vibrare tutte le
facoltà dello spirito, vi fa scattare tutte le molle dell'operosità
e del coraggio, vi accende nel cuore la febbre della battaglia, e vi
fa uscire di là colla mente piena di disegni audaci e di
risoluzioni gloriose.
Dalla galleria delle macchine francesi si viene in un lunghissimo
viale tutto vermiglio di rose, e di là.... Ma non c'è un lettore
ragionevole il quale pretenda da me la descrizione dei così detti
«annessi» del palazzo del Campo di Marte; che formano essi soli
una seconda Esposizione universale. Sono due miglia di giardini,
d'orti, di tettoie, di padiglioni, di case rustiche, in cui ricomincia
la serie dei musei e delle officine; e c'è da girar per un mese.
Qui si trattengono soltanto gli «specialisti.» La maggior parte
dei visitatori non ci va che per rinfrescarsi la testa all'aria
libera. Ma là c'è da farsi un concetto di quel che costò la
costruzione di quella gran città passeggiera, e di quello che costa
continuamente il farla vivere. È una cosa che sgomenta davvero.
Bisogna considerare prima il grande lavoro del livellamento, per il
quale si smossero o si trasportarono cinquecentomila metri cubi di
terra; rappresentarsi l'enorme trincea che serpeggia sotto il palazzo
del Campo di Marte, e distribuisce in sedici grandi correnti l'aria
addensata dai venditori; abbracciare col pensiero l'azione poderosa
dei grandi «generatori» che provvedono il vapore alle macchine
motrici; il lavoro titanico delle trenta macchine motrici che
trasmettono la vita a tutte le macchine dell'Esposizione; il movimento
continuo delle formidabili trombe aspiranti che assorbono dei torrenti
dalla Senna e li rispandono, per un labirinto di canali e di serbatoi
sotterranei, ai condotti del Campo di Marte, ai bacini, alle fontane,
agli acquarii, agli ascensori delle torri, alla cascata del Trocadero;
rappresentarsi la rete infinita di strade ferrate che coprì quello
spazio durante i lavori di costruzione, e le macchine innumerevoli che
aiutarono le braccia dell'uomo al collocamento delle cose enormi; poi
richiamare alla mente il lavoro immenso e febbrile dell'ultimo mese,
un esercito d'operai d'ogni paese, formicolanti sull'orlo dei tetti,
sulla sommità delle cupole, nelle profondità della terra,
sospesi alle corde, ritti sulle impalcature vertiginose, a gruppi, a
catene, a sciami, di giorno, di notte, al lume delle fiaccole, al
bagliore della luce elettrica, in mezzo a nuvoli di polvere e di
vapori, sollecitati da mille voci in cento lingue, in mezzo al
frastuono d'un mare in tempesta e ai fremiti d'impazienza del
mondo,--e infine ricordarsi che ne uscì quasi inaspettatamente quel
meraviglioso _caravanserai_ di cento popoli, pieno di tesori, di
vegetazione e di vita,--e che ventiquattro mesi prima non c'era là
che un deserto;--allora non si frena più quel sentimento
d'ammirazione che, al primo entrare, era stato turbato da un effetto
spiacevole d'apparenza.
Ma questo grande spettacolo bisogna vederlo la sera dalle alte
gallerie del Trocadero. Lassù, abbracciando con uno sguardo solo,
come dalla cima d'un monte, quella vastissima spianata piena di
memorie, che vide le feste simboliche della Rivoluzione e senti gli
urrà degli eserciti di Marengo e di Waterloo; quel palazzo enorme e
magnifico, su cui sventolano tutte le bandiere della terra; il grande
fiume, i vasti parchi, i mille tetti, i cento torrenti umani che
serpeggiano nel recinto immenso, inondato dalla luce dorata e calda
del tramonto; la mente si apre a mille nuovi pensieri. Si pensa ai
milioni di creature umane che lavorarono per riempire quello
sterminato museo, dagli artisti gloriosi nel mondo ai lavoratori
solitarii e sconosciuti dei tugurii; alle mille cose là raccolte,
su cui è caduta la lacrima dell'operaia e stillato il sudore del
forzato; ai tesori conquistati a prezzo di vite innumerevoli; alle
vittorie conseguite dal lavoro accumulato di dieci generazioni; alle
ricchezze dei re, ai quaderni dei bimbi, alle sculture informi degli
schiavi, confusi tutti, sotto quelle vôlte, in una specie di santa
eguaglianza al cospetto del mondo; ai viaggi favolosi che fecero quei
lavori e quei prodotti, calati sulle slitte dalle montagne, portati
dalle carovane a traverso alle foreste e ai deserti, cavati dal fondo
del mare e dalle viscere della terra, trasportati per i fiumi immensi
e fra le tempeste degli oceani, come a un sacro pellegrinaggio; alle
mille speranze che li accompagnarono, alle mille ambizioni che vi si
fondano, alle idee infinite che scaturiranno dai confronti, ai nuovi
ardimenti che nasceranno dai trionfi, ai racconti favolosi che si
ripeteranno fin sotto le capanne delle più remote colonie; e
finalmente che, grazie a tutto ciò, mille mani che non si sarebbero
mai incontrate, si strinsero; che per un tempo molti odii, come in
virtù d'una tregua di Dio, si quetarono; che milioni d'uomini,
accorsi qui, si rispanderanno per tutta la terra portando un tesoro di
nomi cari, prima ignorati, di nuove ammirazioni, di nuove simpatie, di
nuove sperante, e un sentimento più grande e più potente
dell'amor di patria. Si pensano queste cose e si applaude senza
dubbio, in quei momenti, con più vivo entusiasmo all'Esposizione;
ma più che all'Esposizione si benedice a questa augusta legge, a
questo immortale e santo affanno: il Lavoro. E si vorrebbe vederlo,
come un nume, simboleggiato in una statua smisurata e splendida, che
avesse i piedi nelle viscere del globo e la testa più alta delle
montagne, e dirgli:--Gloria a te, secondo creatore della terra,
Signore formidabile e dolce. Noi consacriamo a te il vigore della
gioventù, la tenacia dell'età virile, la saggezza della
vecchiaia, il nostro entusiasmo, le nostre speranze, il nostro sangue;
e tu tempera i dolori, fortifica gli affetti, rasserena le anime,
prodiga le sante alterezze, dispensa i riposi fecondi, affratella gli
uomini, pacifica il mondo, sublime amico e divino Consolatore!
VITTOR HUGO
I.
V'è uno scrittore, in Francia, salito in questi ultimi anni a un
tal grado di gloria e di potenza che nessun'ambizione letteraria
può aver mai sognato d'arrivare più alto. Egli è, per consenso
quasi universale, il primo poeta vivente d'Europa. Ha quasi
ottant'anni: è nato il secondo anno del secolo. _Le siècle avait
deux ans_. Era già celebre cinquant'anni sono, quando Alessandro
Dumas diceva ai suoi amici, parlando di lui:--_Nous sommes tous
flambés_--e non aveva, inteso che il dramma _Marion Delorme_. Il
suo nome e le sue opere sono sparsi per tutta la terra. D'un nuovo suo
libro spariscono centomila esemplari in pochi giorni. I suoi lavori
giovanili sono ancora ricercati oggi come quando annunziarono per la
prima volta il suo nome all'Europa. Tutti i suoi cinquanta volumi sono
pieni di gioventù e di vita come se fossero venuti alla luce, tutti
insieme, pochi anni sono. La vita di quest'uomo è stata una guerra
continua; una guerra letteraria, prima, bandita dal teatro; una guerra
politica, dopo, rotta nelle assemblee e proseguita in esilio: l'una
contro il classicismo, l'altra contro un'imperatore; tutt'e due vinte da
lui. Nessun altro scrittore del suo tempo fu più di lui combattuto, e
nessun altro sedette, vecchio, sopra un più alto piedestallo di
spoglie nemiche. Falangi d'avversarii furiosi gli attraversarono la
strada;--egli passò--e quelli disparvero. I suoi grandi rivali
discesero l'un dopo l'altro nel sepolcro, sotto i suoi occhi. Una serie
di sventure tragiche disperse la sua famiglia: tutti i rami della
quercia caddero l'un sull'altro fulminati; il vecchio tronco rimase
saldo ed immobile. Egli passò per tutte le prove: fu povero, fu
perseguitato, fu proscritto,--solo--vagabondo--vituperato--deriso;
ma continuò impassibilmente, con una ostinazione meravigliosa, il
suo enorme lavoro. In tempi in cui pareva finito, si rialzò tutt'a
un tratto, trasfigurato, con opere piene di nuove forze e di nuove,
promesse. Su tutte le vie della letteratura mise l'impronta dei suoi
passi giganteschi. Non tentò, assalì tutti i campi dell'arte, e
v'irruppe tempestando, rovesciando, sfracellando, lasciando da ogni
parte le traccie di una battaglia. Alla tribuna, nel teatro, in
tribunale, in patria, in esilio, nella poesia e nella critica, giovane
e settuagenario, fu sempre ad un modo, audace, ostinato, sfrenato,
provocatore, rude, furioso, selvaggio. E suscitò degli eserciti di
nemici, ma si trascinò dietro degli eserciti. Una legione di
scrittori fanatici e devoti gli si strinse e gli si stringe intorno, e
combatte in sua difesa e nel suo nome. Mille ingegni eletti, in varii
tempi, non brillarono d'altra luce che del riflesso del suo genio;
altri, attratti nella sua orbita, sparirono nel suo seno; altri
s'affaticarono inutilmente, tutta la vita, per levarsi dalla fronte
l'impronta ch'egli v'aveva stampata. La pittura, la scultura e la
musica s'impadronirono delle creazioni della sua mente, e le resero
popolari, per la seconda volta, in tutti i paesi civili. Una ricchezza
enorme d'immagini, di sentenze, di traslati, di modi, di forme nuove
dell'arte, profusa da lui, circola, vive e fruttifica in tutte le
letterature d'Europa. Egli è da mezzo secolo argomento continuo di
discussioni ardenti e feconde. Quasi tutte le nuove questioni
letterarie o hanno radice nelle sue opere o vi girano intorno
forzatamente, ed egli presiede, innominato e invisibile, a tutte le
contese. Ma ora le contese, per quello che riguarda lui, almeno in
Francia, sono quasi affatto cessate. La sua età, le sue sventure,
la sua immensa fama, la vitalità poderosa delle sue opere,
rinvigorita da recenti trionfi, la popolarità grande del suo nome
tenuta viva continuamente dalla sua parola e dalla sua presenza, lo
hanno messo quasi al di fuori e al di sopra della critica. I suoi
più acerrimi nemici letterarii d'un tempo tacciono; i suoi più
accaniti avversarii politici saettano il repubblicano, ma rispettano
il poeta, come una gloria della Francia. Chi non lo riconosce come
poeta drammatico, lo ammette come romanziere; chi lo respinge come
romanziere, lo adora come poeta lirico; altri che detestano il suo
gusto letterario, accettano le sue idee; altri che combattono le sue
idee, sono entusiasmati della sua forma; chi non ammira nessuna delle
sue opere partitamente, ammira ed esalta la vastità grandiosa
dell'edifizio che formano tutte insieme: nessuno gli contesta il
genio; nessuno, parlandone cogli stranieri, si mostra incurante od
ostile all'omaggio che gli vien reso; e anche chi l'odia, ne è
altero. Oltre a ciò, l'aura politica del momento gli è favorevole.
Egli è un poeta popolare e un tribuno vittorioso, e porta sulla
corona d'alloro come un'aureola sacra di genio tutelare della patria.
È arrivato a quel punto culminante della gloria, oltre il quale non
si può più salire che morendo. La sua casa è come una reggia.
Scrittori ed artisti di tutti i paesi, principi ed operai, donne e
giovanetti, entusiasti ardenti, vanno a visitarlo. Ogni sua apparizione
in pubblico è un trionfo. La sua immagine è da per tutto, il suo
nome suona ad ogni proposito. Si parla già di lui come d'una gloria
consacrata dai secoli, e gli si prodigan già quelle lodi smisurate e
solenni che non si concedono che ai morti. Ed egli è ancora pieno di
vita, di forza, d'idee, di disegni, ed annunzia ogni momento la
pubblicazione d'un'opera nuova. Ecco l'uomo di cui intendo di scrivere
oggi. Dopo l'Esposizione universale, Vittor Hugo. Un argomento val
l'altro, mi pare.
II.
Io credo, esprimendo quello che penso di Vittor Hugo, d'esprimere
presso a poco quello che ne pensano tutti i giovani del mio tempo. Non
c'è nessuno di noi, certamente, che non si ricordi dei giorni in
cui divorò, giovanetto, i primi volumi dell'Hugo che gli caddero
fra le mani. È stata senza dubbio per tutti una emozione nuova,
profonda, confusa, indimenticabile. Tutti ci siamo, domandati tratto
tratto, interrompendo la lettura:--Che uomo è costui?--Nello stesso
tempo dolce e tremendo, fantastico e profondo, insensato e sublime,
egli mette accanto a una stramberia rettorica che rivolta, la
rivelazione d'una grande verità che fa dare un grido di stupore.
Colla stessa potenza ci fa sentire la dolcezza del bacio di due amanti
e l'orrore di un delitto. È ingenuo come un fanciullo, è truce
come un uomo di sangue, è affettuoso come una donna, è mistico
come un profeta, è violento come un oratore della Convenzione, è
triste come un uomo senz'affetti e senza speranze. In cento pagine ci
mostra cento faccie. Egli sa esprimere tutto: sensazioni vaghe
dell'infanzia, su cui s'era mille volte tormentato invano il nostro
pensiero; i primi inesplicabili turbamenti amorosi della pubertà,
le lotte più intime del cuore della fanciulla e della coscienza
dell'assassino; profondità segrete dell'anima, che sentivamo in
noi, ma in cui l'occhio della nostra mente non era mai penetrato;
sfumature di sentimenti che credevamo ribelli al linguaggio umano.
Egli abbraccia colla mente tutto l'universo. Ha, se si può dire,
due anime che spaziano contemporaneamente in due mondi, e ogni opera
sua porta l'impronta di questa sua doppia natura. Chi non ha fatto
mille volte quest'osservazione? In alto v'è quel suo eterno _ciel
bleu_ che ricorre ad ogni pagina, i firmamenti mille volte percorsi,
gli astri continuamente invocati, gli angeli, le aurore, gli oceani di
luce, mille sogni e mille visioni della vita futura, un mondo tutto
ideale, in cui egli si sprofonda come un estatico, trasportando con
sè il lettore abbarbagliato e stordito; e sotto, dei mari neri e
tempestosi, tenebre su tenebre, la sua eterna _ombre_, i suoi
_abîmes_, i suoi _gouffres_, il bagno, la cloaca, la corte dei
miracoli, il carnefice, il rospo, la putredine, la deformità, la
miseria, tutto quanto v'ha di più orribile e di più immondo
sopra la terra. Il campo della sua creazione non ha confini.
Ravvicinate Cosetta e Lucrezia Borgia, Rolando della _Leggenda dei
secoli_ e Quasimodo, Dea e Maria Tudor, Gavroche e Carlo V, le sue
vergini morte a quindici anni, i suoi galeotti, i suoi sultani, le sue
guardie imperiali, i suoi pezzenti, i suoi frati, e vi parrà d'aver
dinanzi l'opera non d'un solo, ma d'una legione di poeti. Riandate
rapidamente tutte le sue creazioni: esse lasciano l'impressione
d'un'enorme epopea di frammenti, che risale da Caino a Napoleone il
grande, e una memoria confusa di amori divini, di lotte titaniche, di
miserie inaudite, di morti orrende, viste come a traverso a una bruma
paurosa, rotta qua e là da torrenti di luce, in cui formicola una
miriade di personaggi metà creature reali e metà fantasmi, che
sconvolgono l'immaginazione, Tutte le opere sue son come colorate dal
riflesso d'una vita arcana ch'egli abbia vissuta, altre volte, in un
mondo arcano, al quale par che alluda vagamente ad ogni pagina, e alle
cui porte s'affaccia continuamente, impaziente dei confini che gli
sono assegnati sulla terra, Una fantasmagoria immensa di cose ignote
all'umanità par che lo tormenti di continuo, come una visione
febbrile. Tutto quello che v'è di più strano e di più oscuro
sul limite che separa il mondo reale dal mondo dei sogni, egli lo
cerca, lo studia e lo fa suo. I re favolosi dell'Asia, le
superstizioni di tutti i secoli, le leggende più bizzarre di tutti
i paesi, i paesaggi più tetri della terra, i mostri più orribili
del mare, i fenomeni più spaventosi della natura, le agonie più
tragiche, tutte le stregonerie, tutti i delirii, tutte le
allucinazioni della mente umana sono passate per la sua penna. Egli
vede tutto per non so che prisma meraviglioso; a traverso il quale,
per contro, il lettore vede sempre lui. In fondo a tutte le sue scene
e dietro tutti i suoi personaggi spunta la sua testa enorme e superba.
Quasi tutte le sue creature portano l'impronta colossale del suo
suggello, e parlano il linguaggio del genio; sono, come lui, grandi
poeti o grandi sognatori; statue, a cui ha stampato sulla fronte il
suo nome; larve dai contorni più che umani, che si vedono
ingigantite come a traverso le nebbie dei mari polari, o accese della
luce d'una glorificazione teatrale che le trasfigura, Così Javert,
Gymplaine, Triboulet, Simoudain, Gilliat, Giosiana, Ursus, Quasimodo,
Jean Valjean. Così il suo Napoleone III, rappresentato come un
volgare malfattore, tutto d'un pezzo, liricamente. Pochi i personaggi
d'ossa e di carne, che abbiano la nostra statura e la nostra voce. E
così la sua cattedrale di _Notre Dame_, convertita da lui in un
monumento enorme e formidabile come una montagna delle Alpi. Tutte le
sue creazioni sono, com'egli dice delle onde di un oceano in tempesta,
_mélanges de montagne et de songe_. Solo nel primo momento della
concezione è osservatore tranquillo e fedele; poi la sua natura
invincibilmente lirica irrompe, ed egli afferra colla mano poderosa la
sua creatura, e la trasporta al di sopra della terra. Dalla prima
all'ultima pagina è sempre presente, despota orgoglioso e violento,
e ci fa della lettura una lotta. Ci caccia innanzi a spintoni, ci
solleva, ci stramazza, ci rialza, ci scrolla, ci umilia, ci travolge
nella sua fuga precipitosa, senza dar segno d'avvedersi che noi
esistiamo. Balziamo rapidissimamente fra i più opposti sentimenti
che può suscitar la lettura, dalla noia irritata all'entusiasmo
ardente, come palleggiati dalla sua mano. Eterne pagine si succedono
in cui l'Hugo non è più lui, Egli travia, erra a tentoni nelle
tenebre, e delira. Non sentiamo più la parola dell'uomo; ma l'urlo
o il balbettio del forsennato. E i periodi enormi cascano sui periodi
enormi, a valanghe, oscuri e pesanti, o i piccoli incisi sui piccoli
incisi, fitti e rabbiosi come la grandine, e s'incalzano e s'affollano
confusamente le assurdità, le vacuità, le iperboli pazze e le
pedanterie. Vittor Hugo pedante! Eppure sì; quando ci esprime cento
volte l'idea che abbiamo afferrata alla prima, quando ci mostra
lentamente e ostinatamente, una per una, le mille faccette d'una
pietra ch'egli crede un tesoro e ch'è un diamante falso. E in quel
frattempo, mentre sonnecchiamo o fremiamo, ci si affacciano alla
menti; le analisi spietate dei critici, lo ire dei classicisti, gli
anatemi dei pedanti, gli scherni dei suoi infiniti avversarii, e
stiamo per dir:--Han ragione!--Ma che! Arrivati in fondo alla pagina,
v'è un pensiero che ci fa balzare in piedi e gridare:--No, per Dio!
Hanno torto!--; una frase che ci s'inchioda nel cervello e nel cuore
per tutta la vita; una parola sublime, che ci compensa di tutto. E
l'Hugo è di nuovo là ritto e gigante sul piedestallo che
vacillava. Questa è la sua grande potenza: lo scatto improvviso, la
parola impreveduta che ci rimescola, il lampo inaspettato che illumina
la vasta regione sconosciuta, la porta bruscamente aperta e richiusa
per la quale intravvediamo il prodigio, un gran _coup dans la
poitrine_, come direbbe lo Zola, che ci toglie per un momento il
respiro, e ci lascia rotti e sgomenti. Non è l'aquila che si libra
sull'ali; è il masso che erompe dal vulcano, tocca le nubi e
ricasca. La sua arte è quasi tutta qui: un lungo lavorìo
paziente che prepara un effetto inatteso. Egli non ha riguardi per noi
mentre prepara; ci strapazza e ci provoca; è un lavoratore
sprezzante e brutale; non bada nè alle nostre impazienze, nè
alle nostre censure. I suoi difetti sono grandi come il suo genio; non
nèi, ma gobbe colossali, che ci fan torcere il viso. L'architettura
della più parte dei suoi romanzi è deforme. Sono episodi
spropositati, spedienti brutali, inverosimiglianze sfrontatamente
accumulate, fili di racconti pazzamente spezzati e riannodati;
divagazioni, o piuttosto corse furiose, di cui non si vede la meta, e
che fanno presentire a ogni passo un precipizio. Ma egli vuol condurvi
aperti sulle campagne solitarie, sui giardini, sul mare e sulle vie
rumorose; e pensai quanta vita avevano versato fra tutti in quelle
cento sale ch'io avevo attraversate di corsa, quanta parte
dell'anima loro c'era in quelle tele e in quei marmi innumerevoli,
quante ispirazioni d'amanti e di spose, quante veglie, quante
meditazioni, quanti pennelli spezzati, quanto sangue di cuori
trafitti, quante reminiscenze d'avventure e di pellegrinazioni
lontane, che vasta epopea d'amori, di dolori, di trionfi e di
miserie; e quanti eran già calati nel sepolcro, consunti dalla
febbre tremenda dell'arte, e quanti altri vi sarebbero discesi ancor
giovani e pieni di speranze; e che immenso tesoro d'immagini di
sentimenti e di idee portavan via da quel luogo milioni di
visitatori di tutta la terra; e pensando a queste cose, collo
sguardo rivolto a quella lunga fila di padiglioni, mi sentii
compreso improvvisamente d'un sentimento di affetto e di gratitudine
così vivo, che se in quel momento mi passava a tiro un pittore,
il primo venuto, gli saltavo al collo com'è vero il sole.
L'ultima sala delle belle arti mette nella galleria del lavoro. Non si
può immaginare un più strano cambiamento di scena. Qui tutto
è agitazione e strepito. Si vedono le piccole industrie all'opera.
C'è un gran numero di banchi circolari e quadrati, che servono
insieme d'officina e di bottega, dove lavorano continuamente uomini,
donne e ragazzi, in mezzo a una folla di curiosi, che formano una
catena non interrotta di grandi anelli neri mobilissimi da una
estremità all'altra dell'immensa sala. Qui si lavora l'oro, la
tartaruga, l'avorio, la madreperla, si fabbricano gli oggetti di
filigrana, si fanno i ventagli, le spazzole, i portamonete, gli
orologi. C'è, fra gli altri, un gruppo d'operaie che fabbricano le
bambole con una rapidità di prestigiatrici, e altre che fanno i
fiori di stoffa, di smalto, di penne d'uccelli del tropico, con una
sveltezza ed un garbo, che par di vederli sbocciare fra le loro dita.
In altre parti si tesse la seta, si dipinge la porcellana, si lavora
il rame, si fa la guttaperca, si fabbricano le pipe di schiuma. In un
angolo si vedono le pazienti manine normanne lavorare la trina. Nel
mezzo della sala si taglia il diamante. Qui piovono i biglietti di
visita, là le spille, più in là i bottoni; da una parte si
fanno le treccie e i _chignons_, dall'altra i canestrini e le
scatolette di paglia. Un gruppo d'indiani, col capo coperto di enormi
turbanti variopinti, lavorano agli scialli. È una lunghissima fila
di piccoli fornelli, di macchinette vibranti, di fiammelle di gaz, di
teste chine, di mani in moto, di gente che interroga e di gente che
spiega; un chiacchierio, un affaccendamento allegro, un lavorio
accelerato e sonoro, che mette la smania di far qualche cosa. E la
vôlta altissima ripercuote rumorosamente i sibili acuti che paiono
grida di gioia infantile, il picchiettio cadenzato di cento martelli,
lo stridore delle lime e delle seghe e mille tintinni cristallini e
metallici, e il ronzìo sordo della moltitudine che passa a
processioni, a turbe, a gruppi, come un esercito sbandato, per
riversarsi nei giardini esterni o nelle gallerie delle macchine.
Qui lo spettacolo è degno d'un'ode di Vittor Hugo. Sul primo
momento par di essere sotto una delle immense tettoie arcate delle
stazioni di Londra. Son due gallerie lunghe come il Campo di Marte,
larghe novanta uomini di fronte, e piene di luce, nelle quali mille
macchine enormi, un esercito di ciclopi di metallo, minacciosi e
splendidi, alzano le teste, le braccia, le mazze, le lame, fitte e
intricate, fino alle vôlte altissime, producendo il fragore d'una
battaglia. Una immensa trasformazione di cose si compie da tutte le
parti. Il foglio di carta esce in buste da lettera, lo spago in corde,
il bronzo in medaglie, il filo di ottone in spille, il filo di lana in
calze, il pezzo di legno in frammenti di mobili; la ricamatrice
svizzera ricama con trecento aghi, il papirografo inglese riproduce
trecento esemplari d'un manoscritto, la macchina dei saponi taglia i
cubi, gl'involta e li pesa; la macchina del Marinoni mette fuori i
giornali piegati; le gigantesche filatrici di Birmingham e di
Manchester lavorano accanto alle macchine d'estrazione delle miniere;
la grande macchina da ghiaccio getta il suo furioso soffio gelato in
mezzo agli aliti di fuoco delle macchine da gaz; altre lavorano i
diamanti, altre lacerano e torcono il metallo come una pasta, altre
lavano, raffinano, travasano, disegnano, dipingono, scrivono; in ogni
parte freme una vita meravigliosa ed orribile di mostri di cento
bocche e di cento mani, che irrita i nervi, introna le orecchie e
confonde l'immaginazione. Qua e là si vede la materia informe
sparire nel ventre tenebroso di quei colossi, riapparire in alto, dopo
qualche momento, già mezzo lavorata, e come portata in trionfo, e
poi rinascondersi, ricacciata giù sdegnosamente a subire le ultime
violenze.... Qui lavorano delle braccia di gigante, là delle dita
di fata. In una parte il lavoro si presenta sotto l'aspetto d'una
distruzione furiosa, fra denti enormi di ferro e artigli d'acciaio,
che stritolano e sbranano con un fracasso d'inferno, in cui si sente
un suono confuso di lamenti umani; in mezzo a un roteggio intricato,
vertiginoso, feroce, che sbricciolerebbe un titano come un gingillo di
vetro. In un'altra parte il mostro mansueto accarezza la materia
prigioniera, la palleggia, la lambisce, la liscia, delicatamente,
lentamente, in silenzio, come se facesse per gioco. Altre macchine
colossali, come quelle da maglie, fanno movimenti strani e misteriosi,
d'apparenza quasi umana, con una certa grazia languida d'ondulazioni
femminee; che ispirano un senso inesplicabile di ripugnanza, come se
fossero esseri viventi dei quali non sì riuscisse ad afferrare la
forma. Fra le grandi membra di tutti questi lavoratori smisurati,
s'agita come una vita segreta un indescrivibile lavorio di rotine che
sembrano immobili, di seghe che paion fili, di congegni delicatissimi
e quasi invisibili, che vibrano, tremano, trepidano, e ingigantiscono
ancora, col paragone della loro umile piccolezza, le ruote enormi, le
cerniere colossali, le caldaie titaniche, le correggie spropositate,
le gru, gli stantuffi, i tubi mostruosi, che si slanciano in alto come
colonne monumentali, e si succedono in una fila senza fine,
presentando l'aspetto di non so che bizzarra e deforme città di
metallo, in cui si dibatta fra le catene una legione di dannati o di
pazzi. Ma anche l'uomo lavora; un gran numero di donne cuciscono colle
macchinette; intorno alle grandi macchine vigilano degli operai, e
meccanici e artefici di tutti i paesi, vestiti trascuratamente,
osservano, notano, si caccian per tutto, fra gli stantuffi e le ruote,
a rischio della vita; fra i quali si vedono qua e là delle faccie
scarne e pallide, ma piene di vita, su cui lampeggia una volontà di
ferro e un'ambizione implacabile. Chi sa! operai oscuri oggi, forse
inventori gloriosi domani. Tutta l'enorme galleria è piena
dell'immenso affanno del lavoro. E sulle prime quell'agitazione
affatica e rattrista. Ma a poco a poco, facendovi l'udito e fermandovi
il pensiero, in quel fragore pauroso di fischi, di sbuffi, di scoppii,
di scricchiolamenti, di gemiti e d'ululati, si sente la voce profonda
delle moltitudini, le grida eccitatrici della lotta e l'urrà
formidabile della vittoria umana. L'uomo che, entrando, s'era sentito
schiacciato, riacquista la coscienza di sè, e contempla
quell'immensa forza, suscitata e disciplinata dal suo pensiero, con un
fremito d'alterezza, in cui tutto l'essere suo si rinvigorisce e
s'innalza. E quello smisurato arsenale di armi pacifiche, le bandiere
grandi come vele di nave che spenzolano dalla vôlta, gonfiate
dall'aria commossa dalle ruote innumerevoli, quei monumenti selvaggi
di cordami e di reti, le piramidi delle zappe che servirono a
dissodare i deserti del nuovo emisfero, i trofei degli strumenti per
la pesca dei grandi cetacei dei mari polari, i tronchi giganteschi
delle foreste vergini, le armature colossali dei palombari, le torri
di merci, e i fari giranti tra i nuvoli di fumo, i getti d'acqua e le
pioggie vaporose delle macchine a vapore, questo maestoso e terribile
spettacolo, salutato dalle detonazioni delle macchine da gaz, dagli
squilli delle trombe marine e dalle note solenni degli organi lontani,
che portano in quell'inferno la poesia della speranza e della
preghiera, a poco a poco s'impadronisce di voi, vi fa vibrare tutte le
facoltà dello spirito, vi fa scattare tutte le molle dell'operosità
e del coraggio, vi accende nel cuore la febbre della battaglia, e vi
fa uscire di là colla mente piena di disegni audaci e di
risoluzioni gloriose.
Dalla galleria delle macchine francesi si viene in un lunghissimo
viale tutto vermiglio di rose, e di là.... Ma non c'è un lettore
ragionevole il quale pretenda da me la descrizione dei così detti
«annessi» del palazzo del Campo di Marte; che formano essi soli
una seconda Esposizione universale. Sono due miglia di giardini,
d'orti, di tettoie, di padiglioni, di case rustiche, in cui ricomincia
la serie dei musei e delle officine; e c'è da girar per un mese.
Qui si trattengono soltanto gli «specialisti.» La maggior parte
dei visitatori non ci va che per rinfrescarsi la testa all'aria
libera. Ma là c'è da farsi un concetto di quel che costò la
costruzione di quella gran città passeggiera, e di quello che costa
continuamente il farla vivere. È una cosa che sgomenta davvero.
Bisogna considerare prima il grande lavoro del livellamento, per il
quale si smossero o si trasportarono cinquecentomila metri cubi di
terra; rappresentarsi l'enorme trincea che serpeggia sotto il palazzo
del Campo di Marte, e distribuisce in sedici grandi correnti l'aria
addensata dai venditori; abbracciare col pensiero l'azione poderosa
dei grandi «generatori» che provvedono il vapore alle macchine
motrici; il lavoro titanico delle trenta macchine motrici che
trasmettono la vita a tutte le macchine dell'Esposizione; il movimento
continuo delle formidabili trombe aspiranti che assorbono dei torrenti
dalla Senna e li rispandono, per un labirinto di canali e di serbatoi
sotterranei, ai condotti del Campo di Marte, ai bacini, alle fontane,
agli acquarii, agli ascensori delle torri, alla cascata del Trocadero;
rappresentarsi la rete infinita di strade ferrate che coprì quello
spazio durante i lavori di costruzione, e le macchine innumerevoli che
aiutarono le braccia dell'uomo al collocamento delle cose enormi; poi
richiamare alla mente il lavoro immenso e febbrile dell'ultimo mese,
un esercito d'operai d'ogni paese, formicolanti sull'orlo dei tetti,
sulla sommità delle cupole, nelle profondità della terra,
sospesi alle corde, ritti sulle impalcature vertiginose, a gruppi, a
catene, a sciami, di giorno, di notte, al lume delle fiaccole, al
bagliore della luce elettrica, in mezzo a nuvoli di polvere e di
vapori, sollecitati da mille voci in cento lingue, in mezzo al
frastuono d'un mare in tempesta e ai fremiti d'impazienza del
mondo,--e infine ricordarsi che ne uscì quasi inaspettatamente quel
meraviglioso _caravanserai_ di cento popoli, pieno di tesori, di
vegetazione e di vita,--e che ventiquattro mesi prima non c'era là
che un deserto;--allora non si frena più quel sentimento
d'ammirazione che, al primo entrare, era stato turbato da un effetto
spiacevole d'apparenza.
Ma questo grande spettacolo bisogna vederlo la sera dalle alte
gallerie del Trocadero. Lassù, abbracciando con uno sguardo solo,
come dalla cima d'un monte, quella vastissima spianata piena di
memorie, che vide le feste simboliche della Rivoluzione e senti gli
urrà degli eserciti di Marengo e di Waterloo; quel palazzo enorme e
magnifico, su cui sventolano tutte le bandiere della terra; il grande
fiume, i vasti parchi, i mille tetti, i cento torrenti umani che
serpeggiano nel recinto immenso, inondato dalla luce dorata e calda
del tramonto; la mente si apre a mille nuovi pensieri. Si pensa ai
milioni di creature umane che lavorarono per riempire quello
sterminato museo, dagli artisti gloriosi nel mondo ai lavoratori
solitarii e sconosciuti dei tugurii; alle mille cose là raccolte,
su cui è caduta la lacrima dell'operaia e stillato il sudore del
forzato; ai tesori conquistati a prezzo di vite innumerevoli; alle
vittorie conseguite dal lavoro accumulato di dieci generazioni; alle
ricchezze dei re, ai quaderni dei bimbi, alle sculture informi degli
schiavi, confusi tutti, sotto quelle vôlte, in una specie di santa
eguaglianza al cospetto del mondo; ai viaggi favolosi che fecero quei
lavori e quei prodotti, calati sulle slitte dalle montagne, portati
dalle carovane a traverso alle foreste e ai deserti, cavati dal fondo
del mare e dalle viscere della terra, trasportati per i fiumi immensi
e fra le tempeste degli oceani, come a un sacro pellegrinaggio; alle
mille speranze che li accompagnarono, alle mille ambizioni che vi si
fondano, alle idee infinite che scaturiranno dai confronti, ai nuovi
ardimenti che nasceranno dai trionfi, ai racconti favolosi che si
ripeteranno fin sotto le capanne delle più remote colonie; e
finalmente che, grazie a tutto ciò, mille mani che non si sarebbero
mai incontrate, si strinsero; che per un tempo molti odii, come in
virtù d'una tregua di Dio, si quetarono; che milioni d'uomini,
accorsi qui, si rispanderanno per tutta la terra portando un tesoro di
nomi cari, prima ignorati, di nuove ammirazioni, di nuove simpatie, di
nuove sperante, e un sentimento più grande e più potente
dell'amor di patria. Si pensano queste cose e si applaude senza
dubbio, in quei momenti, con più vivo entusiasmo all'Esposizione;
ma più che all'Esposizione si benedice a questa augusta legge, a
questo immortale e santo affanno: il Lavoro. E si vorrebbe vederlo,
come un nume, simboleggiato in una statua smisurata e splendida, che
avesse i piedi nelle viscere del globo e la testa più alta delle
montagne, e dirgli:--Gloria a te, secondo creatore della terra,
Signore formidabile e dolce. Noi consacriamo a te il vigore della
gioventù, la tenacia dell'età virile, la saggezza della
vecchiaia, il nostro entusiasmo, le nostre speranze, il nostro sangue;
e tu tempera i dolori, fortifica gli affetti, rasserena le anime,
prodiga le sante alterezze, dispensa i riposi fecondi, affratella gli
uomini, pacifica il mondo, sublime amico e divino Consolatore!
VITTOR HUGO
I.
V'è uno scrittore, in Francia, salito in questi ultimi anni a un
tal grado di gloria e di potenza che nessun'ambizione letteraria
può aver mai sognato d'arrivare più alto. Egli è, per consenso
quasi universale, il primo poeta vivente d'Europa. Ha quasi
ottant'anni: è nato il secondo anno del secolo. _Le siècle avait
deux ans_. Era già celebre cinquant'anni sono, quando Alessandro
Dumas diceva ai suoi amici, parlando di lui:--_Nous sommes tous
flambés_--e non aveva, inteso che il dramma _Marion Delorme_. Il
suo nome e le sue opere sono sparsi per tutta la terra. D'un nuovo suo
libro spariscono centomila esemplari in pochi giorni. I suoi lavori
giovanili sono ancora ricercati oggi come quando annunziarono per la
prima volta il suo nome all'Europa. Tutti i suoi cinquanta volumi sono
pieni di gioventù e di vita come se fossero venuti alla luce, tutti
insieme, pochi anni sono. La vita di quest'uomo è stata una guerra
continua; una guerra letteraria, prima, bandita dal teatro; una guerra
politica, dopo, rotta nelle assemblee e proseguita in esilio: l'una
contro il classicismo, l'altra contro un'imperatore; tutt'e due vinte da
lui. Nessun altro scrittore del suo tempo fu più di lui combattuto, e
nessun altro sedette, vecchio, sopra un più alto piedestallo di
spoglie nemiche. Falangi d'avversarii furiosi gli attraversarono la
strada;--egli passò--e quelli disparvero. I suoi grandi rivali
discesero l'un dopo l'altro nel sepolcro, sotto i suoi occhi. Una serie
di sventure tragiche disperse la sua famiglia: tutti i rami della
quercia caddero l'un sull'altro fulminati; il vecchio tronco rimase
saldo ed immobile. Egli passò per tutte le prove: fu povero, fu
perseguitato, fu proscritto,--solo--vagabondo--vituperato--deriso;
ma continuò impassibilmente, con una ostinazione meravigliosa, il
suo enorme lavoro. In tempi in cui pareva finito, si rialzò tutt'a
un tratto, trasfigurato, con opere piene di nuove forze e di nuove,
promesse. Su tutte le vie della letteratura mise l'impronta dei suoi
passi giganteschi. Non tentò, assalì tutti i campi dell'arte, e
v'irruppe tempestando, rovesciando, sfracellando, lasciando da ogni
parte le traccie di una battaglia. Alla tribuna, nel teatro, in
tribunale, in patria, in esilio, nella poesia e nella critica, giovane
e settuagenario, fu sempre ad un modo, audace, ostinato, sfrenato,
provocatore, rude, furioso, selvaggio. E suscitò degli eserciti di
nemici, ma si trascinò dietro degli eserciti. Una legione di
scrittori fanatici e devoti gli si strinse e gli si stringe intorno, e
combatte in sua difesa e nel suo nome. Mille ingegni eletti, in varii
tempi, non brillarono d'altra luce che del riflesso del suo genio;
altri, attratti nella sua orbita, sparirono nel suo seno; altri
s'affaticarono inutilmente, tutta la vita, per levarsi dalla fronte
l'impronta ch'egli v'aveva stampata. La pittura, la scultura e la
musica s'impadronirono delle creazioni della sua mente, e le resero
popolari, per la seconda volta, in tutti i paesi civili. Una ricchezza
enorme d'immagini, di sentenze, di traslati, di modi, di forme nuove
dell'arte, profusa da lui, circola, vive e fruttifica in tutte le
letterature d'Europa. Egli è da mezzo secolo argomento continuo di
discussioni ardenti e feconde. Quasi tutte le nuove questioni
letterarie o hanno radice nelle sue opere o vi girano intorno
forzatamente, ed egli presiede, innominato e invisibile, a tutte le
contese. Ma ora le contese, per quello che riguarda lui, almeno in
Francia, sono quasi affatto cessate. La sua età, le sue sventure,
la sua immensa fama, la vitalità poderosa delle sue opere,
rinvigorita da recenti trionfi, la popolarità grande del suo nome
tenuta viva continuamente dalla sua parola e dalla sua presenza, lo
hanno messo quasi al di fuori e al di sopra della critica. I suoi
più acerrimi nemici letterarii d'un tempo tacciono; i suoi più
accaniti avversarii politici saettano il repubblicano, ma rispettano
il poeta, come una gloria della Francia. Chi non lo riconosce come
poeta drammatico, lo ammette come romanziere; chi lo respinge come
romanziere, lo adora come poeta lirico; altri che detestano il suo
gusto letterario, accettano le sue idee; altri che combattono le sue
idee, sono entusiasmati della sua forma; chi non ammira nessuna delle
sue opere partitamente, ammira ed esalta la vastità grandiosa
dell'edifizio che formano tutte insieme: nessuno gli contesta il
genio; nessuno, parlandone cogli stranieri, si mostra incurante od
ostile all'omaggio che gli vien reso; e anche chi l'odia, ne è
altero. Oltre a ciò, l'aura politica del momento gli è favorevole.
Egli è un poeta popolare e un tribuno vittorioso, e porta sulla
corona d'alloro come un'aureola sacra di genio tutelare della patria.
È arrivato a quel punto culminante della gloria, oltre il quale non
si può più salire che morendo. La sua casa è come una reggia.
Scrittori ed artisti di tutti i paesi, principi ed operai, donne e
giovanetti, entusiasti ardenti, vanno a visitarlo. Ogni sua apparizione
in pubblico è un trionfo. La sua immagine è da per tutto, il suo
nome suona ad ogni proposito. Si parla già di lui come d'una gloria
consacrata dai secoli, e gli si prodigan già quelle lodi smisurate e
solenni che non si concedono che ai morti. Ed egli è ancora pieno di
vita, di forza, d'idee, di disegni, ed annunzia ogni momento la
pubblicazione d'un'opera nuova. Ecco l'uomo di cui intendo di scrivere
oggi. Dopo l'Esposizione universale, Vittor Hugo. Un argomento val
l'altro, mi pare.
II.
Io credo, esprimendo quello che penso di Vittor Hugo, d'esprimere
presso a poco quello che ne pensano tutti i giovani del mio tempo. Non
c'è nessuno di noi, certamente, che non si ricordi dei giorni in
cui divorò, giovanetto, i primi volumi dell'Hugo che gli caddero
fra le mani. È stata senza dubbio per tutti una emozione nuova,
profonda, confusa, indimenticabile. Tutti ci siamo, domandati tratto
tratto, interrompendo la lettura:--Che uomo è costui?--Nello stesso
tempo dolce e tremendo, fantastico e profondo, insensato e sublime,
egli mette accanto a una stramberia rettorica che rivolta, la
rivelazione d'una grande verità che fa dare un grido di stupore.
Colla stessa potenza ci fa sentire la dolcezza del bacio di due amanti
e l'orrore di un delitto. È ingenuo come un fanciullo, è truce
come un uomo di sangue, è affettuoso come una donna, è mistico
come un profeta, è violento come un oratore della Convenzione, è
triste come un uomo senz'affetti e senza speranze. In cento pagine ci
mostra cento faccie. Egli sa esprimere tutto: sensazioni vaghe
dell'infanzia, su cui s'era mille volte tormentato invano il nostro
pensiero; i primi inesplicabili turbamenti amorosi della pubertà,
le lotte più intime del cuore della fanciulla e della coscienza
dell'assassino; profondità segrete dell'anima, che sentivamo in
noi, ma in cui l'occhio della nostra mente non era mai penetrato;
sfumature di sentimenti che credevamo ribelli al linguaggio umano.
Egli abbraccia colla mente tutto l'universo. Ha, se si può dire,
due anime che spaziano contemporaneamente in due mondi, e ogni opera
sua porta l'impronta di questa sua doppia natura. Chi non ha fatto
mille volte quest'osservazione? In alto v'è quel suo eterno _ciel
bleu_ che ricorre ad ogni pagina, i firmamenti mille volte percorsi,
gli astri continuamente invocati, gli angeli, le aurore, gli oceani di
luce, mille sogni e mille visioni della vita futura, un mondo tutto
ideale, in cui egli si sprofonda come un estatico, trasportando con
sè il lettore abbarbagliato e stordito; e sotto, dei mari neri e
tempestosi, tenebre su tenebre, la sua eterna _ombre_, i suoi
_abîmes_, i suoi _gouffres_, il bagno, la cloaca, la corte dei
miracoli, il carnefice, il rospo, la putredine, la deformità, la
miseria, tutto quanto v'ha di più orribile e di più immondo
sopra la terra. Il campo della sua creazione non ha confini.
Ravvicinate Cosetta e Lucrezia Borgia, Rolando della _Leggenda dei
secoli_ e Quasimodo, Dea e Maria Tudor, Gavroche e Carlo V, le sue
vergini morte a quindici anni, i suoi galeotti, i suoi sultani, le sue
guardie imperiali, i suoi pezzenti, i suoi frati, e vi parrà d'aver
dinanzi l'opera non d'un solo, ma d'una legione di poeti. Riandate
rapidamente tutte le sue creazioni: esse lasciano l'impressione
d'un'enorme epopea di frammenti, che risale da Caino a Napoleone il
grande, e una memoria confusa di amori divini, di lotte titaniche, di
miserie inaudite, di morti orrende, viste come a traverso a una bruma
paurosa, rotta qua e là da torrenti di luce, in cui formicola una
miriade di personaggi metà creature reali e metà fantasmi, che
sconvolgono l'immaginazione, Tutte le opere sue son come colorate dal
riflesso d'una vita arcana ch'egli abbia vissuta, altre volte, in un
mondo arcano, al quale par che alluda vagamente ad ogni pagina, e alle
cui porte s'affaccia continuamente, impaziente dei confini che gli
sono assegnati sulla terra, Una fantasmagoria immensa di cose ignote
all'umanità par che lo tormenti di continuo, come una visione
febbrile. Tutto quello che v'è di più strano e di più oscuro
sul limite che separa il mondo reale dal mondo dei sogni, egli lo
cerca, lo studia e lo fa suo. I re favolosi dell'Asia, le
superstizioni di tutti i secoli, le leggende più bizzarre di tutti
i paesi, i paesaggi più tetri della terra, i mostri più orribili
del mare, i fenomeni più spaventosi della natura, le agonie più
tragiche, tutte le stregonerie, tutti i delirii, tutte le
allucinazioni della mente umana sono passate per la sua penna. Egli
vede tutto per non so che prisma meraviglioso; a traverso il quale,
per contro, il lettore vede sempre lui. In fondo a tutte le sue scene
e dietro tutti i suoi personaggi spunta la sua testa enorme e superba.
Quasi tutte le sue creature portano l'impronta colossale del suo
suggello, e parlano il linguaggio del genio; sono, come lui, grandi
poeti o grandi sognatori; statue, a cui ha stampato sulla fronte il
suo nome; larve dai contorni più che umani, che si vedono
ingigantite come a traverso le nebbie dei mari polari, o accese della
luce d'una glorificazione teatrale che le trasfigura, Così Javert,
Gymplaine, Triboulet, Simoudain, Gilliat, Giosiana, Ursus, Quasimodo,
Jean Valjean. Così il suo Napoleone III, rappresentato come un
volgare malfattore, tutto d'un pezzo, liricamente. Pochi i personaggi
d'ossa e di carne, che abbiano la nostra statura e la nostra voce. E
così la sua cattedrale di _Notre Dame_, convertita da lui in un
monumento enorme e formidabile come una montagna delle Alpi. Tutte le
sue creazioni sono, com'egli dice delle onde di un oceano in tempesta,
_mélanges de montagne et de songe_. Solo nel primo momento della
concezione è osservatore tranquillo e fedele; poi la sua natura
invincibilmente lirica irrompe, ed egli afferra colla mano poderosa la
sua creatura, e la trasporta al di sopra della terra. Dalla prima
all'ultima pagina è sempre presente, despota orgoglioso e violento,
e ci fa della lettura una lotta. Ci caccia innanzi a spintoni, ci
solleva, ci stramazza, ci rialza, ci scrolla, ci umilia, ci travolge
nella sua fuga precipitosa, senza dar segno d'avvedersi che noi
esistiamo. Balziamo rapidissimamente fra i più opposti sentimenti
che può suscitar la lettura, dalla noia irritata all'entusiasmo
ardente, come palleggiati dalla sua mano. Eterne pagine si succedono
in cui l'Hugo non è più lui, Egli travia, erra a tentoni nelle
tenebre, e delira. Non sentiamo più la parola dell'uomo; ma l'urlo
o il balbettio del forsennato. E i periodi enormi cascano sui periodi
enormi, a valanghe, oscuri e pesanti, o i piccoli incisi sui piccoli
incisi, fitti e rabbiosi come la grandine, e s'incalzano e s'affollano
confusamente le assurdità, le vacuità, le iperboli pazze e le
pedanterie. Vittor Hugo pedante! Eppure sì; quando ci esprime cento
volte l'idea che abbiamo afferrata alla prima, quando ci mostra
lentamente e ostinatamente, una per una, le mille faccette d'una
pietra ch'egli crede un tesoro e ch'è un diamante falso. E in quel
frattempo, mentre sonnecchiamo o fremiamo, ci si affacciano alla
menti; le analisi spietate dei critici, lo ire dei classicisti, gli
anatemi dei pedanti, gli scherni dei suoi infiniti avversarii, e
stiamo per dir:--Han ragione!--Ma che! Arrivati in fondo alla pagina,
v'è un pensiero che ci fa balzare in piedi e gridare:--No, per Dio!
Hanno torto!--; una frase che ci s'inchioda nel cervello e nel cuore
per tutta la vita; una parola sublime, che ci compensa di tutto. E
l'Hugo è di nuovo là ritto e gigante sul piedestallo che
vacillava. Questa è la sua grande potenza: lo scatto improvviso, la
parola impreveduta che ci rimescola, il lampo inaspettato che illumina
la vasta regione sconosciuta, la porta bruscamente aperta e richiusa
per la quale intravvediamo il prodigio, un gran _coup dans la
poitrine_, come direbbe lo Zola, che ci toglie per un momento il
respiro, e ci lascia rotti e sgomenti. Non è l'aquila che si libra
sull'ali; è il masso che erompe dal vulcano, tocca le nubi e
ricasca. La sua arte è quasi tutta qui: un lungo lavorìo
paziente che prepara un effetto inatteso. Egli non ha riguardi per noi
mentre prepara; ci strapazza e ci provoca; è un lavoratore
sprezzante e brutale; non bada nè alle nostre impazienze, nè
alle nostre censure. I suoi difetti sono grandi come il suo genio; non
nèi, ma gobbe colossali, che ci fan torcere il viso. L'architettura
della più parte dei suoi romanzi è deforme. Sono episodi
spropositati, spedienti brutali, inverosimiglianze sfrontatamente
accumulate, fili di racconti pazzamente spezzati e riannodati;
divagazioni, o piuttosto corse furiose, di cui non si vede la meta, e
che fanno presentire a ogni passo un precipizio. Ma egli vuol condurvi