Ricordi di Parigi - 04
l'Imperatore d'Austria ha già messo il suo augusto suggello sopra
un impareggiabile cofano d'argento cesellato, che sarebbe stato la
vostra delizia. Ci rimane però dell'altro. Io mi permetterei di
suggerire alle signore facili a contentarsi un graziosissimo velo di
trina dell'esposizione belga, fatto con un filo che costa cinquemila
scudi il chilogramma; e agli sposi di giudizio un letto chinese di
legno di rosa intarsiato d'avorio che costa poco più di una
villetta passabile sulle rive del lago di Como. Alla porta della
camera si potrebbero mettere le due tende di seta ricamate d'oro e
d'argento, che sono in vendita nell'esposizione austriaca per mille e
duecento napoleoni. C'è la comodità di poter comprare delle sale
intere, anzi degl'interi appartamenti, d'ogni stile e d'ogni paese,
lì su due piedi, d'un colpo, con un gran risparmio di tempo e di
seccature. E ci sono pure delle ammirabili cose per le borse modeste.
Lo zaffiro del Rouvenat, circondato di diamanti, si può avere con
un milione e mezzo; e stiracchiando un poco, si può anche ottenere
a un prezzo ragionevole un curiosissimo diamante tagliato in forma di
una lanterna a gaz e incastonato in un candelabro d'oro microscopico,
ch'è una vera bellezza. Tutte cose che sulle prime fanno girare un
po' il capo, ma poi si scrollano le spalle, e si tira via senza
badarci, dicendo:--corbellerie, corbellerie--coll'indifferenza d'un
franco.... impostore.
E si va a vedere l'esposizione dei prodotti alimentari, meno
pericolosa per la fantasia: una passeggiata d'un miglio, o poco meno.
Chiudete gli occhi, pigliatevi la testa fra le mani, e cercate di
rappresentarvi tutto quanto di più strano e di più raro può
mettersi in corpo un uomo senza rischiare la vita: c'è tutto.
Potete bere, a quindici centesimi, un bicchiere delle quattordici
sorgenti d'acqua minerale della Francia, o un bicchiere d'acqua delle
Termopili, nella sezione greca, o birra della Danimarca che ha fatto
il giro del mondo; o se preferite i vini, vino di Champagne che si fa
sotto i vostri occhi, tutti i vini della Spagna in bottigline graziose
da mezza lira, che vi vende una bella ragazza di Jerez; e vini di
Porto e di Madera, imbottigliati nel 1792, a cento lire la bottiglia,
compresi i documenti storici «debitamente legalizzati.» E se il
vino di ottantasei anni vi par troppo giovane, trovate nella sezione
francese, in mezzo a una corona di sorelle nonagenarie, una bottiglia
di vin del Giura del 1774, coronata di semprevive, a un prezzo da
convenirsi. Trovate il chiosco dei vini di Sicilia e il chiosco dei
vini di Guiro; tutti i vini d'Australia nella capanna da minatore
eretta dal governo di Malbourne; e nella sezione delle colonie
inglesi, il misterioso vino di Costanza, del Capo di Buona Speranza, e
l'enigmatico vino del Romitaggio della nuova Galles, fatto con uva
secca. Ci avete il vino di Schiraz nella sezione di Persia, il vino di
Corinto accanto all'acqua delle Termopili, e potete gustare un Tokai
squisito nella trattoria rustica dell'Ungheria, al suono d'una banda
di zingari. Per mangiare poi non c'è che da chiedere. Nei
padiglioni delle colonie francesi una creola vi dà l'ananasso, una
mulatta vi dà il banano, un negro la vaniglia. Potete mangiare
della marmellata del Canadà e intingere in un bicchiere del famoso
Sant'Uberto di Vittoria dei biscotti che hanno attraversato
l'Atlantico. Potete scegliere fra i pesci celebrati della Norvegia e i
maiali illustri di Chicago. Potete fare anche meglio: prendervi un
pezzo di carne cruda venuta dall'Uraguay, ma fresca e sanguinante che
par della mattina, e andarvela a far cuocere voi stessi collo specchio
ustorio dell'Università di Tours, nella galleria delle arti
liberali di Francia. Poi ci sono le trattorie olandesi, americane,
inglesi e spagnuole. Avete al vostro servizio cento bei pezzi di
ragazze vestite di nero e di bianco in un monumentale _bouillon Duval_
che pare un tempio delle Indie. Se avete un debole per la Russia,
potete andare alla trattoria russa dove da manine polacche, moscovite,
armene, caucasee v'è servito il vero kumysy venuto dalle steppe
dell'Ural, o l'acqua igienica della Neva, o la _colebiaka_ d'erbaggi e
di pesce, o qualche altro pasticcio russo-turco condito con vin di
Cipro. Per dolci la Francia vi offre il palazzo di Fontainebleau e
delle cattedrali gotiche di zucchero, e dei mazzi gustosissimi di rose
e di violette, che sembran colte un'ora prima. Dopo il desinare,
ricevete il caffè gratis dalla repubblica del Guatemala, se pure
non preferite quello scelto e tritato dalle negre di Venezuela. E poi,
per _rincette_, potete sorseggiare un _bitter_ di nuova invenzione che
vi porge una svizzera in costume di Berna all'ombra d'un chioschetto
signorile; o andare nel chiosco olandese, dove tre belle frisone
rosee, col casco dorato, vi fanno sentire il curasò o lo scidam; o
arrischiarvi a gustare il liquor di fichi nel padiglione del Marocco,
rallegrato dagli strimpellamenti di tre suonatori, uno dei quali pesa
centonovanta chilogrammi a stomaco vuoto; o mettervi fra le labbra un
sigaro di nuovo genere che invece d'un nuvoletto di fumo vi caccia in
bocca un bicchierino di cognac. Ne avete abbastanza? Ma voi volete
fumare. Ebbene, ci sono i sigari avvelenati della Repubblica
d'Andorre, e la magnifica esposizione dei sigari di Cuba, d'ogni
grandezza e di ogni forma, dorati, stemmati, odorosi,--veri lavoretti
d'arte--profusi a miriadi,--davanti ai quali il fumatore italiano
estenuato dai patimenti passa «sospirando e fremendo.» Tutta
questa doppia galleria dei prodotti alimentari è ammirabile per
varietà e per ricchezza. È un'architettura interminabile di
bottiglie che s'alzano in torri, in scale a chiocciola, in gradinate
multicolori e scintillanti; una moltitudine di tempietti splendidi
d'oro e di cristalli, che potrebbero coprire delle statue di numi, e
coprono dei porci salati; una magnificenza di teatrini, d'altari, di
troni, di biblioteche, pieni di ghiottumi così graziosamente
disposti e decorati, che il gran pittore delle _Halles_ di Parigi ne
potrebbe cavare un quadro meraviglioso per uno dei suoi romanzi
avvenire.
Lo spettacolo più bello è quello che presenta la gente. A
certe ore il recinto dell'Esposizione è più popolato di molte
grandi città. I visitatori entrano per venti porte. I viali, i
vestiboli, le gallerie, i passaggi traversali, e il labirinto
infinito delle sale del campo di Marte, è tutto un brulicame
nero, in cui c'è da fare a non perdersi. Specialmente nelle
«sezioni estere», dove i venditori formano da sè soli una
specie d'esposizione antropologica dilettevolissima, C'è un gran
numero di belle ragazze inglesi che lavorano ai loro registri,
intente e impassibili, in mezzo a quel via vai, come se fossero in
casa propria. I Giapponesi,--vestiti all'europea,--chiaccherano rano
e giocano, seduti intorno ai loro tavolini, allegri, forse con un
po' d'ostentazione, per darsi l'aria di gente che si sente benissimo
al suo posto nel cuore della civiltà occidentale; e infatti hanno
già preso tanto l'aria di casa, che quasi nessuno li guarda. I
Chinesi, invece, hanno sempre intorno un cerchio di curiosi, ai
quali rivolgono di tratto in tratto uno sguardo sprezzante, che
rivela, come un lampo, la superbia cocciuta della loro razza; e poi
ripigliano la loro impassibilità di idoli, da cui li smuove
soltanto la voce dei compratori. Si vedon dei mercanti orientali, in
turbante, che strascicano le loro ciabatte in mezzo a tutte quelle
meraviglie, guardando intorno oziosamente colla stessa stupida e
irritante indifferenza che mostrerebbero nelle loro vecchie baracche
di bazar. Tratto tratto se ne trovano tre o quattro estatici davanti
a una faccia di cartapesta o a una marionetta che allarga le
braccia. Ci son molti algerini: arabi, mori, negri. S'incontrano
delle brigatelle di spahi, ravvolti nei loro grandi mantelli
bianchi; ma non son più le faccie baldanzose del 1859. L'orgoglio
del vecchio esercito d'Africa non brilla più nei loro grandi
occhi neri. Come cambia i volti una guerra perduta! Qua e là si
vede pure qualche faccia color di rame, e qualche vestimento
arlecchinesco dei paesi confinanti colla China. Oltre a questo
c'è una moltitudine immobile e muta di gente d'ogni paese, che
produce una strana illusione. Ogni momento rasentate col gomito
qualcuno, che vi pare una persona viva, ed è un grosso fantoccio
colorito e vestito di tutto punto, che vi fa restare a bocca aperta.
Ci sono dei selvaggi del Perù, degli indigeni d'Australia colle
loro grandi capigliature, lanose, dei guerrieri medioevali, delle
signore vestite in gala, dei soldati italiani, delle contadine di
Danimarca, delle lavandaie malesi, delle guardie civili di Spagna, e
annamiti e indiani e cafri e ottentotti, che vi si parano dinanzi
improvvisamente, e vi fissano in volto i loro occhi trasognati, come
fantasime. Lo spettacolo è ancora variato e rallegrato da un gran
numero di signore che girano su poltrone a ruote o su carrozzine da
bimbi, tirate davanti da un servitore, spinte per la spalliera dai
mariti, fiancheggiate dai ragazzi; matrone poderose, le cui
rotondità sporgono da tutte le parti fuori del piccolo veicolo,
lunghissime zitelle inglesi che ci stanno tutte raggruppate, colle
ginocchia aguzze all'altezza del mento; signoroni decrepiti che
godono là, probabilmente, l'ultimo piacere della vita; vecchie
patrizie paralitiche, e putti meravigliosamente biondi e rosati dei
paesi nordici, che formano tutti insieme, in quel labirinto di vie
fiancheggiate da case di vetro, una specie di corso in burletta,
degno della matita del Cham. Nella Via delle nazioni, all'ombra
delle capannette di paglia, molta gente fa colezione sulle ginocchia
come per viaggio, e i bimbi vanno a prender acqua alle fontane del
Giappone e dell'Italia; altri sgranocchiano pane e prosciutto
camminando; delle coppie coniugali dormono saporitamente sui sedili
in mezzo alla folla; e altre coppie, che hanno portato i loro amori
all'Esposizione, si servono di due capannine avvicinate per farsi
qualche carezza di contrabbando. È un divertimento poi, nelle
sale, studiare i varii tipi dei visitatori. Ci sono i cavalli matti
che scorazzano da tutte le parti senza vedere una maledetta, presi
da una specie d'esaltazione febbrile, e i visitatori pazienti, che
si son fatti un programma, che muovono un passo ogni quarto d'ora,
che meditano sui cataloghi, che guardano, fiutano e discutono ogni
menoma cosa, che impiegheranno probabilmente sei mesi a fare il giro
di tutto il Campo di Marte. Tra gli espositori, si vedono i visi
radianti dei fortunati, che hanno trovato là gloria e fortuna, e
troneggiano sui loro banchi in mezzo alla folla dei curiosi e dei
compratori; e i poveri diavoli trascurati, seduti nei loro cantucci
solitarii, colla testa bassa e la faccia malinconica, che meditano
sulle speranze perdute. Nelle ultime sale, i divani son tutti
occupati dai visitatori spossati. Si vedono delle famiglie intere di
buoni provinciali, sfiniti, sbalorditi, istupiditi; i papà tutti
in acqua, le mamme che soffocano, le ragazze ingobbite, i piccini
morti di sonno; proprio da farsi domandare:--Ma chi v'ha consigliato
di venire all'Esposizione, disgraziati?--L'affollamento maggiore
è sotto le grandi arcate delle Belle arti, e intorno al
Padiglione della città di Parigi, che drizza i suoi sei frontoni
imbandierati nel mezzo del Campo di Marte. Qui è il luogo di
convegno dello «stato maggiore» dell'Esposizione. Qui fanno
crocchio gli artisti e i commissarii di tutti i paesi, gli operai si
radunano e si sciolgono, i critici tagliano l'aria coi gesti
cattedratici, i giornalisti notano, i disegnatori schizzano, le
discussioni fervono, i curiosi cercano i visi illustri, i nuovi
arrivati si ritrovano, le «celebrità» dell'Esposizione passano
fra le scappellate e gli inchini. Ecco qui monsieur Hardy,
per esempio, l'architetto del Palazzo del Campo di Marte; ecco là
monsieur Duval, direttore dei lavori idraulici, e i signori Bourdais
e Davioud, architetti del Palazzo del Trocadero. E purchè abbiate
una faccia un po' straordinaria, e due amici ai fianchi, che vi
parlino in atto rispettoso, potete passare facilissimamente per un
principe o per un re che visita l'Esposizione in stretto incognito,
e sentirvi intorno, qua e là, un mormorio sommesso da vestibolo
di Corte. C'è da cavarsi tutti i gusti, da soddisfare tutti i
bisogni e da riparare a tutti gli accidenti. Potete telegrafare a
casa, scrivere le vostre lettere, fare il bagno, prendere di tanto
in tanto una scossetta elettrica, farvi pesare, portare,
fotografare, profumare, curare; ci sono stazioni di pompieri, corpi
di guardia, farmacie, infermerie: non manca che il camposanto. Ci
son poi le ore fisse per lo studio e per le esperienze scientifiche,
e allora i visitatori accorrono e s'affollano in quei dati punti.
Qui, nella sezione francese, si comunicano al pubblico le opere
della biblioteca del Corpo insegnante; più in là un professore
spiega i modelli anatomici; nella sezione russa si fanno gli
esperimenti del passaggio dell'aria a traverso i muri; un medico
americano fa funzionare i mobili chirurgici; un dentista opera
l'estrazione della carie con uno strumento a vapore. Si può
andare ad assistere alla fabbricazione delle sigarette di Francia, a
veder fare la carta dalla fabbrica Darblay, a vedere le esperienze
della luce elettrica nel padiglione russo, o quelle del
riscaldamento e dell'illuminazione nel parco del Campo di Marte.
Altri vanno a vedere alla prova il telefono Bell, o l'apparecchio
telegrafico che trasmette con un solo filo duecento cinquanta
dispacci in un'ora, o il semaforo del nostro Pellegrino; oppure a
leggere i vecchi processi per stregoneria esposti nel padiglione del
Ministero degl'interni di Francia. Intanto dei maestri spiegano i
nuovi metodi d'insegnamento, tutti gl'inventori di qualche cosa
hanno il loro circolo di uditori, tutte le nuove macchinette sono in
movimento, gli album colossali si aprono, le carte geografiche si
spiegano, i mappamondi girano, mille strumenti suonano; da ogni
parte c'è uno spettacolo, una scuola o una conferenza; l'Esposizione
è diventata un enorme ateneo internazionale che ci dà per
venti soldi tutto lo scibile umano.
Quella che attira più gente, a tutte le ore, è l'esposizione
delle belle arti. Ma a me manca quasi il coraggio d'entrarvi. Mi
conforta soltanto il pensiero di non aver da rendere che l'impressione
confusa della prima visita. Sono diciassette pinacoteche in una
successione di padiglioni che si estendono da un'estremità
all'altra del Campo di Marte;--il mondo intero--qui si può dire
propriamente,--il passato e il presente, le visioni dell'avvenire, le
battaglie, le feste, i martirii, le grida d'angoscia e le risate
pazze; tutta la grande commedia umana con l'infinita varietà delle
scene tra cui si svolge, dalla reggia alla capanna, dai deserti di
ghiaccio ai deserti di sabbia, dalle più sublimi altezze alle
più arcane profondità della terra. Questa è la parte dell'Esposizione
dove si ricevono le impressioni più vive. Quanti occhi rossi ho
veduti, quante espressioni di pietà, di dolore, d'orrore, e quanti
bei sorrisi di bei volti che mi rimasero nella memoria come un
riflesso dei quadri! Il museo enorme s'apre colla esposizione della
scultura di Francia, a cui seguono le sale dell'Inghilterra. Qui, a
dirla schiettamente, di tutta quella pittura corretta, pallida,
diafana, di colori limpidi, piena di pensieri delicati e di belle
minuzie, ricordo soltanto quella splendida glorificazione della
vecchiezza guerriera, dell'Herkomer, intitolata gl'_Invalidi di
Chelsea_, dinanzi ai quali si chinerebbe la fronte in atto di
venerazione; i _poveri di Londra_, di Luke Fildes, che m'hanno fatto
sentire il freddo d'una notte di gennaio e l'angoscia della miseria
senza tetto; e il _Daniele tra i leoni_ di Briton Rivière, nel
quale la tranquillità sublime dell'uomo in cospetto di quel gruppo
di belve fameliche, ma affascinate, soggiogate, schiacciate da una
forza sovrumana e invisibile, è resa con una potenza che mette in
cuore lo sgomento misterioso del prodigio. Dinanzi a cento altri
quadri, passo frettolosamente, spinto dall'impazienza di arrivare
all'Italia, dove trovo una folla sorridente che amoreggia colle
statue. Sento uno che brontola:--E dire che tutte queste cosettine ci
vengono dalla patria di Michelangelo!--Ma tutti i visi intorno
esprimono un sentimento d'ammirazione amorosa e serena. Davanti ai
quadri del De Nittis, il pittore ardito e fine di Parigi e di Londra,
c'è un gruppo di curiosi che si disputano lo spazio; e s'indovina
dal movimento dei volti, dalla vivacità dei gesti, dalla
concitazione dei dialoghi, quel cozzo forte di giudizi contrarii, da
cui scaturiscono le scintille che vanno a formare le aureole. Un tale
dice:--Belle pagine di giornale illustrato!--Ma l'aria dei
_boulevards_ si respira, l'umidità del Tamigi si sente, l'ora
s'indovina, i visi si riconoscono, tutta quella vita si vive.
Nell'altra sala guardo intorno se c'è il Pasini, per gridargli:
--Salve, o _fratello del sole!_--Il suo forte e splendido Oriente è
là, vagheggiato da cento occhi pensierosi. E vorrei vedere il
Michetti, quel caro viso di scapigliato di genio, per stringergli la
guancia tra l'indice e il pollice, e dirgli che adoro le gambine pazze
delle sue bagnanti e l'azzurro favoloso della sua marina. Ed ecco
finalmente Jenner. Qui osservo una cosa singolare. La gente che entra
con un sorriso sulle labbra, si ferma e corruga la fronte. Tutti i
visi, fuggitivamente, riflettono il viso intento e risoluto di Jenner,
come se tutti, per un momento, si sentissero nelle mani la lancetta
benefica del dottore e il braccio renitente del bambino; e tutti
pensano, e nessuno parla, e chi s'è già allontanato, o si
sofferma o ritorna, come tirato indietro a forza dal filo tenace d'un
pensiero. Che cara soddisfazione! E ne provo un'altra subito nella
sala vicina incontrando il viso onesto e benevolo del Monteverde il
quale mi accompagna fino alla frontiera d'Italia. E di là vo
innanzi nelle sale della pittura straniera, dove il cielo si rannuvola
e l'aria si raffredda. La Svezia e la Norvegia hanno dipinto i loro
crepuscoli melanconici, mattinate grigie di autunno, chiarori strani
di luna su mari strani, e pescatori e naufragi in cui si mostra
maggiore dell'arte l'amore dolce e profondo della patria, colorato
d'un sentimento di tristezza virile: centocinquanta quadri dominati
tutti dai «Soldati svedesi che portano il cadavere di re Carlo
XII» giù per la china d'una via solitaria, nella neve, sanguinosi,
tristi, superbi; bel quadro semplice e solenne dell'Oederstrom,
concepito da un'anima di poeta e sentito da un cuor di soldato.
Seguono gli Stati Uniti. Il colosso dalle cento teste ha ancora la sua
grossa mano di lavoratore un po' restìa al pennello. Io non ricordo
che la risata della bella donna dell'Hamilton, e le faccie buffe dei
ridacchioni del Brown. Il più degli altri quadri tradiscono i
pittori scappati di casa, che hanno rifatta la pelle a Parigi, a
Dusseldorf, a Monaco, a Roma,--e preso il colore--ma dilavato--della
nuova patria. E subito dopo, la Francia... che ha messo il mondo a
soqquadro. La storia, la leggenda, la mitologia, il cristianesimo,
l'epopea napoleonica e la vita mondana, il ritratto, la miniatura e il
quadro smisurato; l'audacia pazza e la pedanteria fradicia; c'è
ogni cosa; ma sopra tutto una ricchezza grande d'invenzione e di
pensiero, che rivela l'aiuto potente d'una letteratura immaginosa e
popolare, d'un sentimento drammatico vivo e diffuso, e della vita
varia, piena, appassionata, tumultuosa d'una metropoli enorme. Nelle
prime sale intravvedo i quadri sentimentali, leccati, del Bouguerau.
Il Dorè v'ha messo una delle sue mille visioni d'un mondo arcano,
in cui si riconosce appena qualche forma vaga di cose e di creature
terrene. Poi vien la storia dotta e severa d'Albert Maignan, e quella
immaginosa, confusa, vista come a traverso il velo d'un sogno, in una
grande lontananza di spazio e di tempo, dell'Isabey. In un'altra sala
si drizza davanti a Massimiano Ercole il fantasma spaventoso di San
Sebastiano, del Boulanger, e il Moreau affatica e tormenta le fantasie
coi suoi sogni biblici e mitologici pieni di terrori, d'illusioni e
d'enimmi, che restano conflitti nella memoria come le formule
misteriose e sinistre di uno scongiuro. Poi si succedono i ritratti
pieni di vita e di forza. Il Dubufe presenta Emilio Augier, il Gounod,
il Dumas; il Durand presenta il Girardin; il Perrin espone il Daudet;
e il Thiers rivive gloriosamente nella tela del Bonnat, davanti a cui
si accalca la folla. Un'altra folla silenziosa e immobile annunzia
nella medesima sala le miniature meravigliose del Meissonnier. Più
in là sorridono le patrizie eleganti del Cabanel, e il Laurens
strappa un sospiro presentando insieme, nel suo nobilissimo Marceau,
la bellezza, l'eroismo e la morte. Andando innanzi, trovo quella
meravigliosa curvatura di schiene che ha fatto sorridere il mondo:
l'_Eminence grise_ del Gerôme; e il giustiziere formidabile del
povero Henri Regnault: quadro splendido e triste, che serve di
coperchio a un sepolcro. E in fine le gigantesche e tragiche tele di
Benjamin Constant: Respha che respinge l'avoltoio dal patibolo dei
figli di Saul e Maometto II che irrompe in Costantinopoli fra le
rovine e la morte; nella stessa sala, dove lo schiavo avvelenato del
Sylvestre agonizza sotto gli occhi di Nerone impassibile, e il Davide
del Ferrier solleva la testa mostruosa del gigante. E in fondo
strepita e ride il grande baccanale del Duval. Di là si esce
affaticati e confusi, come dalla rappresentazione d'una tragedia dello
Shakespeare, e s'entra fra i vasti quadri storici dell'Austria-Ungheria,
splendidi d'armi, d'oro e di sete, e in mezzo ai grandi ritratti
alla Velasquez e alla Van Dyck, che danno al luogo l'aspetto grave e
magnifico d'una reggia. Qui vorrei baciare in fronte il Munkacsy,
che dipinse quella divina testa del Milton, e gridare un viva sonoro
davanti all'enorme, splendida, tumultuosa, temeraria tela del
Makart, tutta irradiata dal viso bianco di Carlo V, su cui brilla un
pensiero vasto come il suo regno, e un'espressione indimenticabile
di grazia giovanile e di maestà serena, che ci fa aggiungere un
applauso al clamore del suo trionfo. Ed ecco Don Chisciotte, le
_manolas_, i _majos_, i ritratti graziosi del Madrazo e la _Lucrezia
romana_ del Plasencia, in cui guizza un lampo degli ardimenti del
Goya. Ma c'è una parete dinanzi alla quale il cuore si stringe.
Povero e caro Fortuny, bel fiore di Siviglia sbocciato al sole di
Roma! I suoi capolavori son là, caldi, luminosi, pieni di riso e
di vita, divorati cogli occhi da una folla commossa, ed egli è
sotterra. E così il povero Zamoïcis non può più venir a
godere del trionfo delle sue belle scene di monaci e di pazzi, come
nelle sale austriache non può più affacciarsi il Cermak per
veder scintillare e inumidirsi mille occhi davanti al suo glorioso
Montenegrino ferito. Quanti cari e nobili artisti mancano alla
festa! Lo sguardo li cerca ancora tra la folla mentre il pensiero
corre ai cimiteri lontani, e i loro quadri spandono intorno la
tristezza dell'ultimo addio. Delle sale successive non conservo che
una reminiscenza vaga di mari in tempesta, di steppe illuminate
dalla luna, di tramonti solenni sopra immense solitudini di neve, e
paesaggi tristi di Finlandia e d'Ukrania, fra cui m'appariscono
confusamente i volti minacciosi d'Ivan il Terribile e di Pietro il
Grande, e i cadaveri insanguinati dei martiri bulgari. Qui l'arte
pare che riposi un poco per rialzarsi più vigorosa e più
ardita. E si rialza infatti nel Belgio, ricca, ispirata, improntata
d'un carattere proprio, nudrita di forti studi e di tradizioni
gloriose. A. Stevens e il Villems espongono i loro quadri di
costumi, mirabili di grazia e di colorito, e I. Stevens i suoi cani
inimitabili; il Wauters o il Cluysenaar superano trionfalmente gli
alti pericoli del quadro storico e le difficoltà delicate del
ritratto; e altri cento artisti gareggiano con una varietà
stupenda di paesaggi pieni di poesia, di marine melanconiche, di
teste adorabili di fanciulli, di scherzi arguti, di fantasie
gentili, che sollevano la mente ed allargano il cuore. Poi il
Portogallo e la Grecia; grandi nomi, piccole cose. Eppure ci son dei
quadretti trascurati e spregiati, che lasciano un'impressione
indelebile, come la madre megarese del Rallis, quella povera moglie
di pescatore seduta nella sua povera stanza, che tien le mani
incrocicchiate e gli occhi fissi sopra una culla vuota, fatta di
quattro tavole rozze, in atto di dire;--Non c'è più!--mentre i
pannilini ancora freschi fanno comprendere che l'han portato via
poco prima, e su quella desolazione scende per la finestra aperta il
raggio allegro dell'alba che lo svegliava ogni giorno: espressione
manchevole forse, ma d'un sentimento sublime, che mette nel petto il
tremito d'un singhiozzo. Dopo la Grecia vien la pittura facile e
fresca della Svizzera, svariata di cento stili; immagine vera d'un
paese di cento pezzi e d'una famiglia d'artisti vaganti alla ricerca
d'un ideale, d'una scuola, d'un centro di sentimenti e di idee; che
frammischiano alla loro _patria dal rozzo fianco_, alle cascate,
alle gole, ai ghiacciai, agli uragani delle Alpi, le rive ridenti di
Sorrento, le architetture arabescate del Cairo, le solitudini
ardenti della Siria, la campagna desolata di Roma, e ogni sorta di
ricordi della loro vita varia e avventurosa; somigliante a quella
degli avi loro, che vestirono la divisa di tutti i principi e
versarono sangue per tutte le bandiere, Alla Svizzera tien dietro la
Danimarca, che ricorda al mondo le sue glorie guerriere, colla
battaglia d'Isted, del Sonne, e colla battaglia navale di Lemern,
del Mastrand. Ma è bello, è commovente il veder passare tutti
questi popoli, ognuno dei quali mostra con amore e con alterezza i
suoi soldati, i suoi re, le suo belle donne, i suoi bimbi, le sue
cattedrali, le sue montagne. L'impulso di simpatia che non si
sentirebbe per ciascuno, visto a parte, si sente per tutti,
vedendoli insieme; e il cuore risponde e acconsente a tutti quei
palpiti d'amor di patria con un'espansione d'affetto che abbraccia
il mondo. Gli altri quadri danesi son paesaggi che rendono effetti
pallidi di sole sopra campagne nevose, su parchi e su castelli
feudali, e su grandi boschi, e scene intime di costumi, sentite
ingenuamente e rese con fedeltà scrupolosa, che lasciano nella
memoria mille immagini di volti, di atteggiamenti, di oggetti, di
faccende, come farebbe il soggiorno d'un mese in Danimarca. E di qui
riesco, quasi senza avvedermene, nelle sale dell'Olanda, dinanzi a
una pittura che par velata dai vapori delle grandi pianure allagate,
e vedo infatti vagamente, come a traverso un velo, i poveri e gli
infermi dell'Israels, il pittore della sventura; le belle marine del
Mesdag, i _polders_ del Gabriel, i gatti di Enrichetta Ronner, e
cento altri quadri grigi, foschi, umidi, di cattivo umore, fra i
quali cerco inutilmente un raggio della luce miracolosa del
Rembrandt o un riflesso del grande riso irresistibile dello Steen.
Ultima è la vasta sala della Germania, magnifica e triste, nella
quale si avverte, appena entrati, il vuoto enorme lasciato dal
Kaulbach. Ma è una pittura poderosa, ringiovanita a tutte le
sorgenti vive, fortificata di larghi studi, varia, ardita, virile,
piena di sentimento, finissima d'osservazione e d'intenti, che desta
un'ammirazione pensierosa e scuote il cuore nelle sue più intime
fibre. Non scorderò mai più, certo, nè le teste vive e parlanti
dello Knaus, nè l'officina ardente del Menzel, nè i superbi
cosacchi del Brandt, nè la profonda tristezza del _Battesimo_
dell'Hoff, nè il comicissimo riso dei soldati e delle nutrici del
Werner, nè la madre e il padre ammirabili dell'Hildebrand che
interrogano il volto smorto del bimbo infermo sgomentati da un
presentimento tremendo. E con questa tristezza nel cuore, esco
dall'Esposizione delle Belle Arti. Ma mi venne un altro pensiero,
appena fui fuori. Mi si affacciarono alla mente i mille artisti di
cui avevo visto le opere, sconosciuti e famosi, giovani che mandaron
là la loro prima ispirazione e vecchi che ci lasciarono l'ultima;
un impareggiabile cofano d'argento cesellato, che sarebbe stato la
vostra delizia. Ci rimane però dell'altro. Io mi permetterei di
suggerire alle signore facili a contentarsi un graziosissimo velo di
trina dell'esposizione belga, fatto con un filo che costa cinquemila
scudi il chilogramma; e agli sposi di giudizio un letto chinese di
legno di rosa intarsiato d'avorio che costa poco più di una
villetta passabile sulle rive del lago di Como. Alla porta della
camera si potrebbero mettere le due tende di seta ricamate d'oro e
d'argento, che sono in vendita nell'esposizione austriaca per mille e
duecento napoleoni. C'è la comodità di poter comprare delle sale
intere, anzi degl'interi appartamenti, d'ogni stile e d'ogni paese,
lì su due piedi, d'un colpo, con un gran risparmio di tempo e di
seccature. E ci sono pure delle ammirabili cose per le borse modeste.
Lo zaffiro del Rouvenat, circondato di diamanti, si può avere con
un milione e mezzo; e stiracchiando un poco, si può anche ottenere
a un prezzo ragionevole un curiosissimo diamante tagliato in forma di
una lanterna a gaz e incastonato in un candelabro d'oro microscopico,
ch'è una vera bellezza. Tutte cose che sulle prime fanno girare un
po' il capo, ma poi si scrollano le spalle, e si tira via senza
badarci, dicendo:--corbellerie, corbellerie--coll'indifferenza d'un
franco.... impostore.
E si va a vedere l'esposizione dei prodotti alimentari, meno
pericolosa per la fantasia: una passeggiata d'un miglio, o poco meno.
Chiudete gli occhi, pigliatevi la testa fra le mani, e cercate di
rappresentarvi tutto quanto di più strano e di più raro può
mettersi in corpo un uomo senza rischiare la vita: c'è tutto.
Potete bere, a quindici centesimi, un bicchiere delle quattordici
sorgenti d'acqua minerale della Francia, o un bicchiere d'acqua delle
Termopili, nella sezione greca, o birra della Danimarca che ha fatto
il giro del mondo; o se preferite i vini, vino di Champagne che si fa
sotto i vostri occhi, tutti i vini della Spagna in bottigline graziose
da mezza lira, che vi vende una bella ragazza di Jerez; e vini di
Porto e di Madera, imbottigliati nel 1792, a cento lire la bottiglia,
compresi i documenti storici «debitamente legalizzati.» E se il
vino di ottantasei anni vi par troppo giovane, trovate nella sezione
francese, in mezzo a una corona di sorelle nonagenarie, una bottiglia
di vin del Giura del 1774, coronata di semprevive, a un prezzo da
convenirsi. Trovate il chiosco dei vini di Sicilia e il chiosco dei
vini di Guiro; tutti i vini d'Australia nella capanna da minatore
eretta dal governo di Malbourne; e nella sezione delle colonie
inglesi, il misterioso vino di Costanza, del Capo di Buona Speranza, e
l'enigmatico vino del Romitaggio della nuova Galles, fatto con uva
secca. Ci avete il vino di Schiraz nella sezione di Persia, il vino di
Corinto accanto all'acqua delle Termopili, e potete gustare un Tokai
squisito nella trattoria rustica dell'Ungheria, al suono d'una banda
di zingari. Per mangiare poi non c'è che da chiedere. Nei
padiglioni delle colonie francesi una creola vi dà l'ananasso, una
mulatta vi dà il banano, un negro la vaniglia. Potete mangiare
della marmellata del Canadà e intingere in un bicchiere del famoso
Sant'Uberto di Vittoria dei biscotti che hanno attraversato
l'Atlantico. Potete scegliere fra i pesci celebrati della Norvegia e i
maiali illustri di Chicago. Potete fare anche meglio: prendervi un
pezzo di carne cruda venuta dall'Uraguay, ma fresca e sanguinante che
par della mattina, e andarvela a far cuocere voi stessi collo specchio
ustorio dell'Università di Tours, nella galleria delle arti
liberali di Francia. Poi ci sono le trattorie olandesi, americane,
inglesi e spagnuole. Avete al vostro servizio cento bei pezzi di
ragazze vestite di nero e di bianco in un monumentale _bouillon Duval_
che pare un tempio delle Indie. Se avete un debole per la Russia,
potete andare alla trattoria russa dove da manine polacche, moscovite,
armene, caucasee v'è servito il vero kumysy venuto dalle steppe
dell'Ural, o l'acqua igienica della Neva, o la _colebiaka_ d'erbaggi e
di pesce, o qualche altro pasticcio russo-turco condito con vin di
Cipro. Per dolci la Francia vi offre il palazzo di Fontainebleau e
delle cattedrali gotiche di zucchero, e dei mazzi gustosissimi di rose
e di violette, che sembran colte un'ora prima. Dopo il desinare,
ricevete il caffè gratis dalla repubblica del Guatemala, se pure
non preferite quello scelto e tritato dalle negre di Venezuela. E poi,
per _rincette_, potete sorseggiare un _bitter_ di nuova invenzione che
vi porge una svizzera in costume di Berna all'ombra d'un chioschetto
signorile; o andare nel chiosco olandese, dove tre belle frisone
rosee, col casco dorato, vi fanno sentire il curasò o lo scidam; o
arrischiarvi a gustare il liquor di fichi nel padiglione del Marocco,
rallegrato dagli strimpellamenti di tre suonatori, uno dei quali pesa
centonovanta chilogrammi a stomaco vuoto; o mettervi fra le labbra un
sigaro di nuovo genere che invece d'un nuvoletto di fumo vi caccia in
bocca un bicchierino di cognac. Ne avete abbastanza? Ma voi volete
fumare. Ebbene, ci sono i sigari avvelenati della Repubblica
d'Andorre, e la magnifica esposizione dei sigari di Cuba, d'ogni
grandezza e di ogni forma, dorati, stemmati, odorosi,--veri lavoretti
d'arte--profusi a miriadi,--davanti ai quali il fumatore italiano
estenuato dai patimenti passa «sospirando e fremendo.» Tutta
questa doppia galleria dei prodotti alimentari è ammirabile per
varietà e per ricchezza. È un'architettura interminabile di
bottiglie che s'alzano in torri, in scale a chiocciola, in gradinate
multicolori e scintillanti; una moltitudine di tempietti splendidi
d'oro e di cristalli, che potrebbero coprire delle statue di numi, e
coprono dei porci salati; una magnificenza di teatrini, d'altari, di
troni, di biblioteche, pieni di ghiottumi così graziosamente
disposti e decorati, che il gran pittore delle _Halles_ di Parigi ne
potrebbe cavare un quadro meraviglioso per uno dei suoi romanzi
avvenire.
Lo spettacolo più bello è quello che presenta la gente. A
certe ore il recinto dell'Esposizione è più popolato di molte
grandi città. I visitatori entrano per venti porte. I viali, i
vestiboli, le gallerie, i passaggi traversali, e il labirinto
infinito delle sale del campo di Marte, è tutto un brulicame
nero, in cui c'è da fare a non perdersi. Specialmente nelle
«sezioni estere», dove i venditori formano da sè soli una
specie d'esposizione antropologica dilettevolissima, C'è un gran
numero di belle ragazze inglesi che lavorano ai loro registri,
intente e impassibili, in mezzo a quel via vai, come se fossero in
casa propria. I Giapponesi,--vestiti all'europea,--chiaccherano rano
e giocano, seduti intorno ai loro tavolini, allegri, forse con un
po' d'ostentazione, per darsi l'aria di gente che si sente benissimo
al suo posto nel cuore della civiltà occidentale; e infatti hanno
già preso tanto l'aria di casa, che quasi nessuno li guarda. I
Chinesi, invece, hanno sempre intorno un cerchio di curiosi, ai
quali rivolgono di tratto in tratto uno sguardo sprezzante, che
rivela, come un lampo, la superbia cocciuta della loro razza; e poi
ripigliano la loro impassibilità di idoli, da cui li smuove
soltanto la voce dei compratori. Si vedon dei mercanti orientali, in
turbante, che strascicano le loro ciabatte in mezzo a tutte quelle
meraviglie, guardando intorno oziosamente colla stessa stupida e
irritante indifferenza che mostrerebbero nelle loro vecchie baracche
di bazar. Tratto tratto se ne trovano tre o quattro estatici davanti
a una faccia di cartapesta o a una marionetta che allarga le
braccia. Ci son molti algerini: arabi, mori, negri. S'incontrano
delle brigatelle di spahi, ravvolti nei loro grandi mantelli
bianchi; ma non son più le faccie baldanzose del 1859. L'orgoglio
del vecchio esercito d'Africa non brilla più nei loro grandi
occhi neri. Come cambia i volti una guerra perduta! Qua e là si
vede pure qualche faccia color di rame, e qualche vestimento
arlecchinesco dei paesi confinanti colla China. Oltre a questo
c'è una moltitudine immobile e muta di gente d'ogni paese, che
produce una strana illusione. Ogni momento rasentate col gomito
qualcuno, che vi pare una persona viva, ed è un grosso fantoccio
colorito e vestito di tutto punto, che vi fa restare a bocca aperta.
Ci sono dei selvaggi del Perù, degli indigeni d'Australia colle
loro grandi capigliature, lanose, dei guerrieri medioevali, delle
signore vestite in gala, dei soldati italiani, delle contadine di
Danimarca, delle lavandaie malesi, delle guardie civili di Spagna, e
annamiti e indiani e cafri e ottentotti, che vi si parano dinanzi
improvvisamente, e vi fissano in volto i loro occhi trasognati, come
fantasime. Lo spettacolo è ancora variato e rallegrato da un gran
numero di signore che girano su poltrone a ruote o su carrozzine da
bimbi, tirate davanti da un servitore, spinte per la spalliera dai
mariti, fiancheggiate dai ragazzi; matrone poderose, le cui
rotondità sporgono da tutte le parti fuori del piccolo veicolo,
lunghissime zitelle inglesi che ci stanno tutte raggruppate, colle
ginocchia aguzze all'altezza del mento; signoroni decrepiti che
godono là, probabilmente, l'ultimo piacere della vita; vecchie
patrizie paralitiche, e putti meravigliosamente biondi e rosati dei
paesi nordici, che formano tutti insieme, in quel labirinto di vie
fiancheggiate da case di vetro, una specie di corso in burletta,
degno della matita del Cham. Nella Via delle nazioni, all'ombra
delle capannette di paglia, molta gente fa colezione sulle ginocchia
come per viaggio, e i bimbi vanno a prender acqua alle fontane del
Giappone e dell'Italia; altri sgranocchiano pane e prosciutto
camminando; delle coppie coniugali dormono saporitamente sui sedili
in mezzo alla folla; e altre coppie, che hanno portato i loro amori
all'Esposizione, si servono di due capannine avvicinate per farsi
qualche carezza di contrabbando. È un divertimento poi, nelle
sale, studiare i varii tipi dei visitatori. Ci sono i cavalli matti
che scorazzano da tutte le parti senza vedere una maledetta, presi
da una specie d'esaltazione febbrile, e i visitatori pazienti, che
si son fatti un programma, che muovono un passo ogni quarto d'ora,
che meditano sui cataloghi, che guardano, fiutano e discutono ogni
menoma cosa, che impiegheranno probabilmente sei mesi a fare il giro
di tutto il Campo di Marte. Tra gli espositori, si vedono i visi
radianti dei fortunati, che hanno trovato là gloria e fortuna, e
troneggiano sui loro banchi in mezzo alla folla dei curiosi e dei
compratori; e i poveri diavoli trascurati, seduti nei loro cantucci
solitarii, colla testa bassa e la faccia malinconica, che meditano
sulle speranze perdute. Nelle ultime sale, i divani son tutti
occupati dai visitatori spossati. Si vedono delle famiglie intere di
buoni provinciali, sfiniti, sbalorditi, istupiditi; i papà tutti
in acqua, le mamme che soffocano, le ragazze ingobbite, i piccini
morti di sonno; proprio da farsi domandare:--Ma chi v'ha consigliato
di venire all'Esposizione, disgraziati?--L'affollamento maggiore
è sotto le grandi arcate delle Belle arti, e intorno al
Padiglione della città di Parigi, che drizza i suoi sei frontoni
imbandierati nel mezzo del Campo di Marte. Qui è il luogo di
convegno dello «stato maggiore» dell'Esposizione. Qui fanno
crocchio gli artisti e i commissarii di tutti i paesi, gli operai si
radunano e si sciolgono, i critici tagliano l'aria coi gesti
cattedratici, i giornalisti notano, i disegnatori schizzano, le
discussioni fervono, i curiosi cercano i visi illustri, i nuovi
arrivati si ritrovano, le «celebrità» dell'Esposizione passano
fra le scappellate e gli inchini. Ecco qui monsieur Hardy,
per esempio, l'architetto del Palazzo del Campo di Marte; ecco là
monsieur Duval, direttore dei lavori idraulici, e i signori Bourdais
e Davioud, architetti del Palazzo del Trocadero. E purchè abbiate
una faccia un po' straordinaria, e due amici ai fianchi, che vi
parlino in atto rispettoso, potete passare facilissimamente per un
principe o per un re che visita l'Esposizione in stretto incognito,
e sentirvi intorno, qua e là, un mormorio sommesso da vestibolo
di Corte. C'è da cavarsi tutti i gusti, da soddisfare tutti i
bisogni e da riparare a tutti gli accidenti. Potete telegrafare a
casa, scrivere le vostre lettere, fare il bagno, prendere di tanto
in tanto una scossetta elettrica, farvi pesare, portare,
fotografare, profumare, curare; ci sono stazioni di pompieri, corpi
di guardia, farmacie, infermerie: non manca che il camposanto. Ci
son poi le ore fisse per lo studio e per le esperienze scientifiche,
e allora i visitatori accorrono e s'affollano in quei dati punti.
Qui, nella sezione francese, si comunicano al pubblico le opere
della biblioteca del Corpo insegnante; più in là un professore
spiega i modelli anatomici; nella sezione russa si fanno gli
esperimenti del passaggio dell'aria a traverso i muri; un medico
americano fa funzionare i mobili chirurgici; un dentista opera
l'estrazione della carie con uno strumento a vapore. Si può
andare ad assistere alla fabbricazione delle sigarette di Francia, a
veder fare la carta dalla fabbrica Darblay, a vedere le esperienze
della luce elettrica nel padiglione russo, o quelle del
riscaldamento e dell'illuminazione nel parco del Campo di Marte.
Altri vanno a vedere alla prova il telefono Bell, o l'apparecchio
telegrafico che trasmette con un solo filo duecento cinquanta
dispacci in un'ora, o il semaforo del nostro Pellegrino; oppure a
leggere i vecchi processi per stregoneria esposti nel padiglione del
Ministero degl'interni di Francia. Intanto dei maestri spiegano i
nuovi metodi d'insegnamento, tutti gl'inventori di qualche cosa
hanno il loro circolo di uditori, tutte le nuove macchinette sono in
movimento, gli album colossali si aprono, le carte geografiche si
spiegano, i mappamondi girano, mille strumenti suonano; da ogni
parte c'è uno spettacolo, una scuola o una conferenza; l'Esposizione
è diventata un enorme ateneo internazionale che ci dà per
venti soldi tutto lo scibile umano.
Quella che attira più gente, a tutte le ore, è l'esposizione
delle belle arti. Ma a me manca quasi il coraggio d'entrarvi. Mi
conforta soltanto il pensiero di non aver da rendere che l'impressione
confusa della prima visita. Sono diciassette pinacoteche in una
successione di padiglioni che si estendono da un'estremità
all'altra del Campo di Marte;--il mondo intero--qui si può dire
propriamente,--il passato e il presente, le visioni dell'avvenire, le
battaglie, le feste, i martirii, le grida d'angoscia e le risate
pazze; tutta la grande commedia umana con l'infinita varietà delle
scene tra cui si svolge, dalla reggia alla capanna, dai deserti di
ghiaccio ai deserti di sabbia, dalle più sublimi altezze alle
più arcane profondità della terra. Questa è la parte dell'Esposizione
dove si ricevono le impressioni più vive. Quanti occhi rossi ho
veduti, quante espressioni di pietà, di dolore, d'orrore, e quanti
bei sorrisi di bei volti che mi rimasero nella memoria come un
riflesso dei quadri! Il museo enorme s'apre colla esposizione della
scultura di Francia, a cui seguono le sale dell'Inghilterra. Qui, a
dirla schiettamente, di tutta quella pittura corretta, pallida,
diafana, di colori limpidi, piena di pensieri delicati e di belle
minuzie, ricordo soltanto quella splendida glorificazione della
vecchiezza guerriera, dell'Herkomer, intitolata gl'_Invalidi di
Chelsea_, dinanzi ai quali si chinerebbe la fronte in atto di
venerazione; i _poveri di Londra_, di Luke Fildes, che m'hanno fatto
sentire il freddo d'una notte di gennaio e l'angoscia della miseria
senza tetto; e il _Daniele tra i leoni_ di Briton Rivière, nel
quale la tranquillità sublime dell'uomo in cospetto di quel gruppo
di belve fameliche, ma affascinate, soggiogate, schiacciate da una
forza sovrumana e invisibile, è resa con una potenza che mette in
cuore lo sgomento misterioso del prodigio. Dinanzi a cento altri
quadri, passo frettolosamente, spinto dall'impazienza di arrivare
all'Italia, dove trovo una folla sorridente che amoreggia colle
statue. Sento uno che brontola:--E dire che tutte queste cosettine ci
vengono dalla patria di Michelangelo!--Ma tutti i visi intorno
esprimono un sentimento d'ammirazione amorosa e serena. Davanti ai
quadri del De Nittis, il pittore ardito e fine di Parigi e di Londra,
c'è un gruppo di curiosi che si disputano lo spazio; e s'indovina
dal movimento dei volti, dalla vivacità dei gesti, dalla
concitazione dei dialoghi, quel cozzo forte di giudizi contrarii, da
cui scaturiscono le scintille che vanno a formare le aureole. Un tale
dice:--Belle pagine di giornale illustrato!--Ma l'aria dei
_boulevards_ si respira, l'umidità del Tamigi si sente, l'ora
s'indovina, i visi si riconoscono, tutta quella vita si vive.
Nell'altra sala guardo intorno se c'è il Pasini, per gridargli:
--Salve, o _fratello del sole!_--Il suo forte e splendido Oriente è
là, vagheggiato da cento occhi pensierosi. E vorrei vedere il
Michetti, quel caro viso di scapigliato di genio, per stringergli la
guancia tra l'indice e il pollice, e dirgli che adoro le gambine pazze
delle sue bagnanti e l'azzurro favoloso della sua marina. Ed ecco
finalmente Jenner. Qui osservo una cosa singolare. La gente che entra
con un sorriso sulle labbra, si ferma e corruga la fronte. Tutti i
visi, fuggitivamente, riflettono il viso intento e risoluto di Jenner,
come se tutti, per un momento, si sentissero nelle mani la lancetta
benefica del dottore e il braccio renitente del bambino; e tutti
pensano, e nessuno parla, e chi s'è già allontanato, o si
sofferma o ritorna, come tirato indietro a forza dal filo tenace d'un
pensiero. Che cara soddisfazione! E ne provo un'altra subito nella
sala vicina incontrando il viso onesto e benevolo del Monteverde il
quale mi accompagna fino alla frontiera d'Italia. E di là vo
innanzi nelle sale della pittura straniera, dove il cielo si rannuvola
e l'aria si raffredda. La Svezia e la Norvegia hanno dipinto i loro
crepuscoli melanconici, mattinate grigie di autunno, chiarori strani
di luna su mari strani, e pescatori e naufragi in cui si mostra
maggiore dell'arte l'amore dolce e profondo della patria, colorato
d'un sentimento di tristezza virile: centocinquanta quadri dominati
tutti dai «Soldati svedesi che portano il cadavere di re Carlo
XII» giù per la china d'una via solitaria, nella neve, sanguinosi,
tristi, superbi; bel quadro semplice e solenne dell'Oederstrom,
concepito da un'anima di poeta e sentito da un cuor di soldato.
Seguono gli Stati Uniti. Il colosso dalle cento teste ha ancora la sua
grossa mano di lavoratore un po' restìa al pennello. Io non ricordo
che la risata della bella donna dell'Hamilton, e le faccie buffe dei
ridacchioni del Brown. Il più degli altri quadri tradiscono i
pittori scappati di casa, che hanno rifatta la pelle a Parigi, a
Dusseldorf, a Monaco, a Roma,--e preso il colore--ma dilavato--della
nuova patria. E subito dopo, la Francia... che ha messo il mondo a
soqquadro. La storia, la leggenda, la mitologia, il cristianesimo,
l'epopea napoleonica e la vita mondana, il ritratto, la miniatura e il
quadro smisurato; l'audacia pazza e la pedanteria fradicia; c'è
ogni cosa; ma sopra tutto una ricchezza grande d'invenzione e di
pensiero, che rivela l'aiuto potente d'una letteratura immaginosa e
popolare, d'un sentimento drammatico vivo e diffuso, e della vita
varia, piena, appassionata, tumultuosa d'una metropoli enorme. Nelle
prime sale intravvedo i quadri sentimentali, leccati, del Bouguerau.
Il Dorè v'ha messo una delle sue mille visioni d'un mondo arcano,
in cui si riconosce appena qualche forma vaga di cose e di creature
terrene. Poi vien la storia dotta e severa d'Albert Maignan, e quella
immaginosa, confusa, vista come a traverso il velo d'un sogno, in una
grande lontananza di spazio e di tempo, dell'Isabey. In un'altra sala
si drizza davanti a Massimiano Ercole il fantasma spaventoso di San
Sebastiano, del Boulanger, e il Moreau affatica e tormenta le fantasie
coi suoi sogni biblici e mitologici pieni di terrori, d'illusioni e
d'enimmi, che restano conflitti nella memoria come le formule
misteriose e sinistre di uno scongiuro. Poi si succedono i ritratti
pieni di vita e di forza. Il Dubufe presenta Emilio Augier, il Gounod,
il Dumas; il Durand presenta il Girardin; il Perrin espone il Daudet;
e il Thiers rivive gloriosamente nella tela del Bonnat, davanti a cui
si accalca la folla. Un'altra folla silenziosa e immobile annunzia
nella medesima sala le miniature meravigliose del Meissonnier. Più
in là sorridono le patrizie eleganti del Cabanel, e il Laurens
strappa un sospiro presentando insieme, nel suo nobilissimo Marceau,
la bellezza, l'eroismo e la morte. Andando innanzi, trovo quella
meravigliosa curvatura di schiene che ha fatto sorridere il mondo:
l'_Eminence grise_ del Gerôme; e il giustiziere formidabile del
povero Henri Regnault: quadro splendido e triste, che serve di
coperchio a un sepolcro. E in fine le gigantesche e tragiche tele di
Benjamin Constant: Respha che respinge l'avoltoio dal patibolo dei
figli di Saul e Maometto II che irrompe in Costantinopoli fra le
rovine e la morte; nella stessa sala, dove lo schiavo avvelenato del
Sylvestre agonizza sotto gli occhi di Nerone impassibile, e il Davide
del Ferrier solleva la testa mostruosa del gigante. E in fondo
strepita e ride il grande baccanale del Duval. Di là si esce
affaticati e confusi, come dalla rappresentazione d'una tragedia dello
Shakespeare, e s'entra fra i vasti quadri storici dell'Austria-Ungheria,
splendidi d'armi, d'oro e di sete, e in mezzo ai grandi ritratti
alla Velasquez e alla Van Dyck, che danno al luogo l'aspetto grave e
magnifico d'una reggia. Qui vorrei baciare in fronte il Munkacsy,
che dipinse quella divina testa del Milton, e gridare un viva sonoro
davanti all'enorme, splendida, tumultuosa, temeraria tela del
Makart, tutta irradiata dal viso bianco di Carlo V, su cui brilla un
pensiero vasto come il suo regno, e un'espressione indimenticabile
di grazia giovanile e di maestà serena, che ci fa aggiungere un
applauso al clamore del suo trionfo. Ed ecco Don Chisciotte, le
_manolas_, i _majos_, i ritratti graziosi del Madrazo e la _Lucrezia
romana_ del Plasencia, in cui guizza un lampo degli ardimenti del
Goya. Ma c'è una parete dinanzi alla quale il cuore si stringe.
Povero e caro Fortuny, bel fiore di Siviglia sbocciato al sole di
Roma! I suoi capolavori son là, caldi, luminosi, pieni di riso e
di vita, divorati cogli occhi da una folla commossa, ed egli è
sotterra. E così il povero Zamoïcis non può più venir a
godere del trionfo delle sue belle scene di monaci e di pazzi, come
nelle sale austriache non può più affacciarsi il Cermak per
veder scintillare e inumidirsi mille occhi davanti al suo glorioso
Montenegrino ferito. Quanti cari e nobili artisti mancano alla
festa! Lo sguardo li cerca ancora tra la folla mentre il pensiero
corre ai cimiteri lontani, e i loro quadri spandono intorno la
tristezza dell'ultimo addio. Delle sale successive non conservo che
una reminiscenza vaga di mari in tempesta, di steppe illuminate
dalla luna, di tramonti solenni sopra immense solitudini di neve, e
paesaggi tristi di Finlandia e d'Ukrania, fra cui m'appariscono
confusamente i volti minacciosi d'Ivan il Terribile e di Pietro il
Grande, e i cadaveri insanguinati dei martiri bulgari. Qui l'arte
pare che riposi un poco per rialzarsi più vigorosa e più
ardita. E si rialza infatti nel Belgio, ricca, ispirata, improntata
d'un carattere proprio, nudrita di forti studi e di tradizioni
gloriose. A. Stevens e il Villems espongono i loro quadri di
costumi, mirabili di grazia e di colorito, e I. Stevens i suoi cani
inimitabili; il Wauters o il Cluysenaar superano trionfalmente gli
alti pericoli del quadro storico e le difficoltà delicate del
ritratto; e altri cento artisti gareggiano con una varietà
stupenda di paesaggi pieni di poesia, di marine melanconiche, di
teste adorabili di fanciulli, di scherzi arguti, di fantasie
gentili, che sollevano la mente ed allargano il cuore. Poi il
Portogallo e la Grecia; grandi nomi, piccole cose. Eppure ci son dei
quadretti trascurati e spregiati, che lasciano un'impressione
indelebile, come la madre megarese del Rallis, quella povera moglie
di pescatore seduta nella sua povera stanza, che tien le mani
incrocicchiate e gli occhi fissi sopra una culla vuota, fatta di
quattro tavole rozze, in atto di dire;--Non c'è più!--mentre i
pannilini ancora freschi fanno comprendere che l'han portato via
poco prima, e su quella desolazione scende per la finestra aperta il
raggio allegro dell'alba che lo svegliava ogni giorno: espressione
manchevole forse, ma d'un sentimento sublime, che mette nel petto il
tremito d'un singhiozzo. Dopo la Grecia vien la pittura facile e
fresca della Svizzera, svariata di cento stili; immagine vera d'un
paese di cento pezzi e d'una famiglia d'artisti vaganti alla ricerca
d'un ideale, d'una scuola, d'un centro di sentimenti e di idee; che
frammischiano alla loro _patria dal rozzo fianco_, alle cascate,
alle gole, ai ghiacciai, agli uragani delle Alpi, le rive ridenti di
Sorrento, le architetture arabescate del Cairo, le solitudini
ardenti della Siria, la campagna desolata di Roma, e ogni sorta di
ricordi della loro vita varia e avventurosa; somigliante a quella
degli avi loro, che vestirono la divisa di tutti i principi e
versarono sangue per tutte le bandiere, Alla Svizzera tien dietro la
Danimarca, che ricorda al mondo le sue glorie guerriere, colla
battaglia d'Isted, del Sonne, e colla battaglia navale di Lemern,
del Mastrand. Ma è bello, è commovente il veder passare tutti
questi popoli, ognuno dei quali mostra con amore e con alterezza i
suoi soldati, i suoi re, le suo belle donne, i suoi bimbi, le sue
cattedrali, le sue montagne. L'impulso di simpatia che non si
sentirebbe per ciascuno, visto a parte, si sente per tutti,
vedendoli insieme; e il cuore risponde e acconsente a tutti quei
palpiti d'amor di patria con un'espansione d'affetto che abbraccia
il mondo. Gli altri quadri danesi son paesaggi che rendono effetti
pallidi di sole sopra campagne nevose, su parchi e su castelli
feudali, e su grandi boschi, e scene intime di costumi, sentite
ingenuamente e rese con fedeltà scrupolosa, che lasciano nella
memoria mille immagini di volti, di atteggiamenti, di oggetti, di
faccende, come farebbe il soggiorno d'un mese in Danimarca. E di qui
riesco, quasi senza avvedermene, nelle sale dell'Olanda, dinanzi a
una pittura che par velata dai vapori delle grandi pianure allagate,
e vedo infatti vagamente, come a traverso un velo, i poveri e gli
infermi dell'Israels, il pittore della sventura; le belle marine del
Mesdag, i _polders_ del Gabriel, i gatti di Enrichetta Ronner, e
cento altri quadri grigi, foschi, umidi, di cattivo umore, fra i
quali cerco inutilmente un raggio della luce miracolosa del
Rembrandt o un riflesso del grande riso irresistibile dello Steen.
Ultima è la vasta sala della Germania, magnifica e triste, nella
quale si avverte, appena entrati, il vuoto enorme lasciato dal
Kaulbach. Ma è una pittura poderosa, ringiovanita a tutte le
sorgenti vive, fortificata di larghi studi, varia, ardita, virile,
piena di sentimento, finissima d'osservazione e d'intenti, che desta
un'ammirazione pensierosa e scuote il cuore nelle sue più intime
fibre. Non scorderò mai più, certo, nè le teste vive e parlanti
dello Knaus, nè l'officina ardente del Menzel, nè i superbi
cosacchi del Brandt, nè la profonda tristezza del _Battesimo_
dell'Hoff, nè il comicissimo riso dei soldati e delle nutrici del
Werner, nè la madre e il padre ammirabili dell'Hildebrand che
interrogano il volto smorto del bimbo infermo sgomentati da un
presentimento tremendo. E con questa tristezza nel cuore, esco
dall'Esposizione delle Belle Arti. Ma mi venne un altro pensiero,
appena fui fuori. Mi si affacciarono alla mente i mille artisti di
cui avevo visto le opere, sconosciuti e famosi, giovani che mandaron
là la loro prima ispirazione e vecchi che ci lasciarono l'ultima;