Ricordi di Parigi - 02

sfondava gli occhi a mille e duecento metri di distanza. Qua e là,
le grandi macchie dei cimiteri, dei giardini e dei parchi; isole verdi
in quell'oceano. Lontano, all'orizzonte, a traverso a brume violacee
leggerissime, contorni incerti di vasti sobborghi fumanti, dietro i
quali non si vede più, ma s'indovina ancora Parigi; da un'altra
parte, altri sobborghi enormi, affollati sulle alture, come eserciti
pronti a discendere, pieni di tristezze e di minaccie; a valle della
Senna, in una chiarezza un po' velata, come in un vasto polverio
luminoso, a tre miglia da noi, le architetture colossali e trasparenti
del Campo di Marte. Che belli slanci vertiginosi dello sguardo da
Belleville a Ivry, dal bosco di Boulogne a Pantin, da Courbevoie al
bosco di Vincennes, saltando di cupola in cupola, di torre in torre,
di colosso in colosso, di memoria in memoria, di secolo in secolo,
accompagnati, come da una musica, dall'immenso respiro di Parigi!
Povero e caro nido della mia famigliuola, dove sei? Poi il mio amico
mi disse:--Ridiscendiamo nell'inferno--e tornammo a tuffarci
nell'oscurità dell'interminabile scala a chiocciola, dove un
rintocco inaspettato della grande campana di Luigi XIV ci fece tremare
le vene e i polsi come un colpo di cannone.

E ritornammo sui _boulevards_. Era l'ora del desinare. In quell'ora il
movimento è tale da non poterne dare un'idea. Le carrozze passano a
sei di fronte, a cinquanta di fila, a grandi gruppi, a masse fitte e
serrate che si sparpagliano qua e là verso le vie laterali, e par
che escano le une dalle altre, come razzi, levando un rumore cupo e
monotono, come d'un solo enorme treno di strada ferrata che passi
senza fine. Allora tutta la vita gaia di Parigi si riversa là da
tutte le strade vicine, dalle gallerie, dalle piazze; arrivano e si
scaricano i cento omnibus del Trocadero; le carrozze e la folla a
piedi che viene dagli scali della Senna; flutti di gente che
attraversa la strada di corsa arrischiando le ossa, s'accalca sui
marciapiedi, assalta i chioschi da cui si spandono miriadi di
giornali, si disputa le sedie davanti ai caffè e rigurgita
all'imboccatura delle strade. Si accendono i primi lumi. Il grande
banchetto comincia. Da tutte le parti tintinnano e scintillano i
cristalli e le posate sulle tovaglie bianchissime, distese in vista di
tutti. Zaffate d'odori ghiotti escono dai grandi _restaurants_, di cui
si vanno illuminando le finestre dei piani superiori, lasciando vedere
scorci di sale luccicanti e ombre di donne che guizzano dietro le
tende di trina. Un'aria calda e molle, come di teatro, si spande,
pregna d'odor di sigari d'Avana, dell'odore acuto dell'assenzio che
verdeggia in diecimila bicchieri, delle fragranze che escono dalle
botteghe di fiori, di muschio, di vesti profumate, di capigliature
femminili;--un odore proprio dei _boulevards_ di Parigi, misto di
grand'albergo e d'alcova,--che dà alla testa. Le carrozze si
fermano; le _cocottes_ dai lunghi strascichi discendono, fra due ali
di curiosi, e spariscono come freccie nelle porte delle trattorie. Fra
la folla dei caffè suonano le risa argentine e forzate di quelle
che siedono a crocchio. Le «coppie» fendono audacemente la
calca. La gente comincia a serrarsi, in doppia fila, alle porte dei
teatri. La circolazione è interrotta ogni momento. Bisogna
camminare a zig-zag, a passetti, respingendo dolcemente gomiti e
toraci, fra una selva di cilindri e di gibus, fra i soprabiti neri, le
giubbe, i gran panciotti spettorati e le camicie ricamate, badando
sempre ai piedini e alle code, in mezzo a un mormorìo sordo,
diffuso, affrettato, sul quale echeggiano i colpi sonori delle
bottiglie stappate, dentro un polverìo finissimo che vien su da
quel terribile asfalto che brucia i talloni alle ragazze. Non è
più un andirivieni di gente; è un ribollimento, un rimescolìo
febbrile, come se sotto la strada divampasse una fornace immensa. È
un ozio che pare un lavoro, una festa faticosa, come una smania e un
timore di tutti di non arrivare in tempo a prender posto al gran
convito. Il vastissimo spazio non basta più alla moltitudine nera,
elegante, nervosa, sensuale, profumata, piena d'oro e d'appetiti, che
cerca con tutti i sensi tutti i piaceri. E di minuto in minuto lo
spettacolo si ravviva. Il via vai delle carrozze somiglia alla fuga
disordinata delle salmerie d'un esercito in rotta; i caffè
risuonano come officine; all'ombra degli alberi si stringono i dolci
colloqui; tutto s'agita e freme in quella mezza oscurità, non ancor
vinta dall'illuminazione notturna; e un non so che di voluttuoso spira
nell'aria, mentre la notte di Parigi, carica di follie e di peccati,
prepara le sue insidie famose. Quello è davvero il momento in cui
la grande città s'impadronisce di voi e vi soggioga, se anche foste
l'uomo più austero della terra. È il _lenocinio gallico_ del
Gioberti. È una mano invisibile che v'accarezza, una voce dolce che
vi parla nell'orecchio, una scintilla che vi corre nelle vene, una
voglia impetuosa di tuffarvi in quel vortice, e d'annegarvi...;
passata la quale si va a desinare benissimo a due lire e
settantacinque.

E anche il desinare è uno spettacolo per chi si ritrova
impensatamente, come accadde a noi, in una trattoria vasta e
rischiarata come un teatro, formata d'una sala unica, cinta d'una
larghissima galleria, dove si sfamano insieme cinquecento persone,
rumoreggiando come una grande assemblea di buon umore. E dopo vien
l'ultima scena della meravigliosa rappresentazione cominciata alle
otto della mattina in piazza della Bastiglia: la notte di Parigi.

Ritorniamo nel cuore della città. Qui par che faccia giorno
daccapo. Non è un'illuminazione; è un incendio. I _boulevards_
ardono. Tutto il pian terreno degli edifizi sembra in fuoco.
Socchiudendo gli occhi, par di vedere a destra e a sinistra due file
di fornaci fiammanti. Le botteghe gettano dei fasci di luce vivissima
fino a metà della strada e avvolgono la folla come in una polvere
d'oro. Da tutte le parti piovono raggi e chiarori diffusi che fanno
brillare i caratteri dorati e i rivestimenti lucidi delle facciate,
come se tutto fosse fosforescente. I chioschi, che si allungano in due
file senza fine, rischiarati di dentro, coi loro vetri di mille
colori, simili a enormi lanterne chinesi piantate in terra, o a
teatrini trasparenti di marionette, danno alla strada l'aspetto
fantastico e puerile d'una festa orientale I riflessi infiniti dei
cristalli, i mille punti luminosi che traspaiono fra i rami degli
alberi, le iscrizioni di fuoco che splendono sui frontoni dei teatri,
il movimento rapidissimo delle innumerevoli fiammelle delle carrozze,
che sembrano miriadi di lucciole mulinate dal vento, le lanterne
porporine degli omnibus, le grandi sale ardenti aperte sulla strada,
le botteghe che somigliano a cave d'oro e d'argento incandescente, le
centomila finestre illuminate, gli alberi che paiono accesi; tutti
questi splendori teatrali, frastagliati dalla verzura, che lascia
vedere ora sì ora no le illuminazioni lontane, e presenta lo
spettacolo ad apparizioni successive; tutta questa luce rotta,
rispecchiata, variopinta, mobilissima, piovuta e saettata, raccolta a
torrenti e sparpagliata a stelle e a diamanti, produce la prima volta
un'impressione di cui non si può dare l'idea. Par di vedere un solo
immenso fuoco d'artifizio, che debba spegnersi improvvisamente, e
lasciar tutta la città sepolta nel fumo. Sui marciapiedi non c'è
una riga d'ombra; ci si ritroverebbe una spilla. Tutti i visi sono
rischiarati. Si vede la propria immagine riflessa da tutte le parti.
Si vede tutto, in fondo ai caffè, sino agli ultimi specchi delle
sale riposte, incisi dai diamanti delle belle peccatrici. Nella folla
abbonda il bel sesso che di giorno pareva sopraffatto e disperso. Gli
sguardi languidi e interrogativi s'incrociano e gareggiano. Davanti a
ogni caffè c'è la platea d'un teatro, di cui il _boulevard_ è
il palcoscenico. Tutti i visi sono rivolti verso la strada. Ed è
curioso: fuor che le carrozze, non si sente nessun forte rumore. Si
guarda molto e si parla poco, o a bassa voce, come per rispetto al
luogo, o perchè la gran luce impone un certo riserbo. V'è una
specie di silenzio signorile. Andate innanzi, innanzi, sempre in mezzo
a un incendio, tra una folla immobile e una folla seduta, e vi sembra
di passare di salone in salone, in un immenso palazzo scoperto, o per
un seguito di vastissimi _patios_ spagnuoli, fra le pompe d'una
veglia, in mezzo a un milione di invitati, senza sapere quando
arriverete all'uscita, se pur c'è un'uscita.

E intanto, passo passo, arrivate sulla piazza dell'Opéra.
E qui Parigi notturna vi fa uno dei suoi più bei colpi di scena.
Avete dinanzi la facciata del Teatro, enorme e spudorata, risplendente
di lampade colossali negli intercolonni elegantissimi; dinanzi alla
quale sboccano le vie Auber e Halévy; a destra la gran fornace del
_boulevard_ degli Italiani; a sinistra il _boulevard_ infocato delle
Cappuccine che si prolunga fra i due muri ardenti del _boulevard_
della Maddalena; e voltandovi, vedete tre grandi vie divergenti che
v'abbagliano come tre abissi luminosi: la via della Pace, tutta
smagliante d'ori e di gioielli, in fondo alla quale si drizza sul
cielo stellato la mole nera della colonna Vendôme; l'_Avenue
dell'Opéra_ inondata di luce elettrica; la via Quattro settembre
lucente di mille fiammelle; e sette file continue di carrozze che
vengono dai due _boulevards_ e dalle cinque strade, incrociandosi
furiosamente sulla piazza, e una folla che accorre e una folla che
fugge, sotto una pioggia di luce rossa e di luce bianchissima, diffusa
da grandi globi di cristallo spulito, che fan l'effetto di ghirlande e
di corone di lune piene, e colorano gli alberi, gli alti edifizi, la
moltitudine, dei riflessi bizzarri e misteriosi della scena finale
d'un ballo fantastico. Qui proprio si prova per qualche momento una
sensazione che somiglia a quella dell'_hasciss_. Quella rosa di strade
sfolgoranti, che conducono al _Théâtre français_, alle _Tuileries_,
alla Concordia, ai Campi Elisi, che vi portano ciascuna una voce della
gran festa di Parigi, che vi chiamano e che v'attirano da sette parti
come le entrate maestose di sette palazzi fatati, vi accendono nel
cervello o nelle ossa il furore dei piaceri. Vorreste veder tutto ed
esser da per tutto ad un tempo; a sentire dalla bocca del grande Got
l'_efface_ sublime dei _Fourchambault_ a folleggiare a Mabille, a
nuotare nella Senna, a cenare alla _Maison dorée_; vorreste volare
di palco scenico in palco scenico, di ballo in ballo, di giardino in
giardino, di splendore in splendore, e profondere l'oro, lo
_champagne_ e i _bons mots_, e vivere dieci anni in una notte.

Eppure non è questo il più bello spettacolo della notte. Si va
innanzi fino alla Maddalena, si svolta in _Rue royale_, si sbocca in
piazza della Concordia, e là si lascia sfuggire la più alta e
più allegra esclamazione di meraviglia che strappi Parigi dalle
labbra d'uno straniero. Non c'è sicuramente un'altra piazza di
città europea dove la grazia, la luce, l'arte, la natura, s'aiutino
così mirabilmente fra loro per formare uno spettacolo che rapisca
l'immaginazione. A primo aspetto non si raccapezza nulla, nè i
confini della piazza, nè le distanze, nè dove si sia, nè che
cosa si veda. È uno sterminato teatro aperto, in mezzo a uno
sterminato giardino ardente, che fa pensare all'accampamento
illuminato di un esercito di trecento mila uomini. Ma quando si è
arrivati nel centro della piazza, ai piedi dell'obelisco di Sesostri,
fra le due fontane monumentali, e si vede a destra, in mezzo ai due
grandi edifizii a colonne del Gabriel, la splendida Via reale, chiusa
in fondo dalla facciata superba della Maddalena; a sinistra il ponte
della Concordia che sbocca in faccia al palazzo del Corpo legislativo,
imbiancato da un torrente di luce elettrica; dall'altra parte la vasta
macchia bruna dei giardini imperiali, inghirlandati di lumi, in fondo
a cui nereggiano le rovine delle Tuilerie; e dalla parte opposta il
viale maestoso dei Campi Elisi, chiuso dall'arco altissimo della
Stella, picchiettato di foco dalle lanterne di diecimila carrozze e
fiancheggiato da due boschi sparsi di caffè e di teatri
sfolgoranti; quando s'abbraccia con un sguardo le rive illuminate
della Senna, i giardini, i monumenti, la folla immensa e sparsa che
viene dal ponte, dai _boulevards_, dai boschetti, dai _quais_, dai
teatri, e brulica confusamente da tutti i lati della piazza, in quella
luce strana, fra i zampilli e le cascate d'acqua argentata, in mezzo
alle statue, ai candelabri giganteschi, alle colonne rostrali, alla
verzura, nell'aria limpida e odorosa di una bella notte d'estate;
allora si sente tutta la bellezza di quel luogo unico al mondo, e non
si può a meno di gridare:--Ah Parigi! Maledetta e cara Parigi!
Sirena sfrontata! È dunque proprio una verità che bisogna
fuggirti come una furia o adorarti come una dea?

Di là ci spingemmo ancora nei giardini dei Campi Elisi, a girare
fra i teatri a cielo aperto, i chioschi, gli alcazar, i circhi, i
concerti, le giostre, per interminabili viali affollati, da cui si
sentivano i suoni fragorosi delle orchestre, gli applausi e le risate
delle vaste platee trincanti, e le voci in falsetto delle cantatrici
di canzonette, delle quali si vedevano a traverso i cespugli le
nudità opulente e gli abiti zingareschi, in mezzo allo splendore
dei palchi scenici inquadrati fra le piante. E volevamo andare sino in
fondo. Ma più s'andava innanzi, più quel baccanale notturno
s'allargava e s'allungava; dietro a ogni gruppo d'alberi saltava fuori
un nuovo teatro e una nuova luminaria, ad ogni svolto di viale ci
trovavamo in faccia a una nuova baldoria; e d'altra parte il mio buon
Giacosa mi domandava grazia da un pezzo, con voce lamentevole,
dicendomi che gli occhi gli si chiudevano e che la testa non gli si
reggeva più sulle spalle. Allora si ritornò in piazza della
Concordia, si restò un momento in contemplazione davanti a quella
meraviglia di via di Rivoli, rischiarata per la lunghezza di due
miglia come una sala da ballo, e si rientrò a mezzanotte sonata nei
_boulevards_, ancora risplendenti, affollati, rumorosi, allegri come
sul far della sera, come se la giornata ardente di Parigi cominciasse
allora, come se la grande città avesse _ucciso il sonno_ per sempre
e fosse condannata da Dio al supplizio d'una festa eterna. E di là
trasportammo le nostre salme all'albergo.
Ecco come passò il nostro primo giorno a Parigi.


UNO SGUARDO ALL'ESPOSIZIONE

La prima volta che entrai nel recinto dell'Esposizione dalla parte del
Trocadero, mi fermai qualche minuto in mezzo al ponte di Jena per
cercare una similitudine, che rendesse ai miei lettori futuri
un'immagine fedele di quello spettacolo. E mi venne in mente di
paragonare il senso che si prova entrando là dentro, a quello che
si proverebbe capitando in una gran piazza dove da una parte sonassero
le orchestre del Nouvel-Opéra e dell'Opéra-Comique, dall'altra
le bande di dieci reggimenti, e nel mezzo tutti gli strumenti musicali
della terra, dal nuovo pianoforte a doppia tastiera rovesciata fino al
corno e al tamburino dei selvaggi, accompagnati dai trilli in falsetto
di mille soprani da _cafè chantant_, dallo strepito d'una grandine
di petardi e dal rimbombo lontano del cannone. Non è una
similitudine da _Antologia_; ma dà un'idea della cosa.
Infatti, arrivando sul ponte di Jena, si sente il bisogno di chiuder
gli occhi per qualche momento, come arrivando su quella piazza si
sentirebbe il bisogno di tapparsi le orecchie.
Si resta nello stesso tempo meravigliati, stizziti, confusi e
esilarati; che so io?--incerti fra l'applauso e la scrollata di
spalle, fra l'ammirazione e la delusione; in una di quelle incertezze
in cui, per solito, dopo aver lungamente meditato, si prende la
risoluzione di accendere il sigaro.
Figuratevi, da una parte, sopra un'altura, quell'enorme spacconata
architettonica del palazzo del Trocadero, con una cupola più alta
di quella di San Pietro, fiancheggiata da due torri che arieggiano il
campanile, il minareto ed il faro; con quella pancia odiosa e quelle
due grandi ali graziosissime, colle sue cento colonnine greche, coi
suoi padiglioni moreschi, coi suoi archi bizantini; colorito e
decorato come una reggia indiana, da cui precipita un torrente d'acqua
in mezzo a una corona di statue dorate:--un arco d'anfiteatro immenso
che corona l'orizzonte e schiaccia intorno a sè tutte le altezze.
Dalla parte opposta, a una grande distanza, rappresentatevi
quell'altro smisurato edificio di vetro e di ferro, dipinto, stemmato,
dorato, imbandierato, scintillante, coi suoi tre grandi padiglioni
trasparenti, colle sue statue colossali, colle sue sessanta porte,
maestoso come un tempio e leggiero come una sola immensa tenda d'un
popolo vagabondo. Fra questi due enormi edifizi teatrali,
raffiguratevi quel gran fiume e quel gran ponte; e a destra e a
sinistra del fiume, un labirinto indescrivibile d'orti e di giardini,
di roccie e di laghi, di salite, di discese, di grotte, d'acquarii, di
fontane, di scali, di viali fiancheggiati da statue: una miniatura di
mondo; una pianura e un'altura su cui ogni popolo della terra ha
deposto il suo balocco; un presepio internazionale, popolato di
botteghe e di caffè africani ed asiatici, di villini, di musei e
d'officine, in mezzo alle quali una piccola città barbaresca alza i
suoi minareti bianchi e le sue cupole verdi, e i tetti chinesi, i
chioschi di Siam, le terrazze persiane, i bazar di Egitto e del
Marocco, e innumerevoli edifizi di pietra, di marmo, di legno, di
vetro, di ferro, di tutti i paesi, di tutte le forme e di tutti i
colori, sorgono l'uno accanto all'altro e l'un sull'altro, formando
come un modellino di città cosmopolita, fabbricata, per
esperimento, dentro a un gran giardino botanico, per esser poi rifatta
più grande. Rappresentatevi questo spettacolo e la popolazione
stranissima di venditori e di guardiani che lo anima: tutti quei neri
ambigui, quegli arabi impariginati, quell'orientalume ritinto,
quell'Africa da comparsa, quell'Asia da camera ottica, tutta quella
barbarie ripulita, inverniciata e messa in vetrina col nastrino rosso
al collo; e quell'inesauribile folla nera di curiosi che girano
lentamente, coll'andatura stracca e gli occhi languidi, guardando da
tutte le parti senza saper dove battere il capo.... Ebbene? Che cosa
dirne? Non ci manca che il teatrino di Guignol. È un grande Broeck
assai più bello, senza dubbio, e più svariato di quello
d'Olanda; una bella enciclopedia figurata per i ragazzi studiosi:
proprio da far domandare se è da vendere prima che il 1879 butti in
aria ogni cosa con un gran colpo di scopa; uno spettacolo unico al
mondo, veramente; immenso, splendido e bruttino, che innamora.

Il primo senso schietto di meraviglia si prova entrando nel vestibolo
del palazzo del Campo di Marte. Par d'entrare in una enorme navata di
cattedrale scintillante d'oro e innondata di luce. È più lungo
d'un terzo della navata maggiore di San Pietro, e l'Arco della Stella
potrebbe ripararsi sotto le volte dei suoi padiglioni senza urtarvi la
fronte. Qui si comincia a sentire il ronzio profondo della folla di
dentro, che somiglia a quello d'una città in festa. La gente si
aggruppa intorno alla statua equestre di Carlo Magno, davanti al
tempietto classico delle porcellane di Sévres, ai piedi
dell'altissimo trofeo del Canadà, che s'innalza all'estremità
del vestibolo come un'antica torre d'assedio, e una doppia processione
sale e scende per le scale di quel bizzarro palazzo indiano, sostenuto
da cento colonnine e coronato da dieci cupole, nel quale bisogna
entrare assolutamente per accertarsi che non c'è una nidiata di
principessine dell'Indostan da rapire. Un gruppo di curiosi
affascinati circonda la vetrina dei diamanti reali d'Inghilterra, fra
i quali scintilla sopra un diadema il Kandevassy famoso, del valore di
tre milioni di lire, abbagliante e perfido come la pupilla fissa d'una
fata, che nello stesso punto vi arda il cuore e vi danni l'anima. Ma
tutto è oscurato dai tesori favolosi delle Indie, da quel monte di
armature, di coppe, di vassoi, di selle, di tappeti, di narghilè,
sfolgoranti d'oro, d'argento e di gemme, che fan pensare alle
ricchezze d'una di quelle regine insensate delle leggende arabe, dai
capricci immensi e inesorabili, che stancano le bacchette onnipotenti
dei genii. E veramente quando si pensa che son tutti doni spontanei di
principi o di popoli, ci si crede, senz'alcun dubbio; ma si guarda
intorno involontariamente, con una vaga idea di trovar là, a' piedi
della statua equestre del principe di Galles, tutti i donatori
scamiciati e legati. E si pensa pure, qualche volta, se in tutto quel
tratto di vestibolo pieno di tesori, compreso fra il palazzo indiano e
la statua del principe, accatastandoli bene dal pavimento alla volta,
pigiandoli, non lasciandoci nemmeno un piccolissimo vano, ci starebbe
la metà degli scheletri dei morti di fame nelle Indie al tempo
dell'ultima carestia.

Dato uno sguardo al vestibolo, m'affacciai subito con viva
curiosità alla porta interna che dà sulla via delle nazioni.
Sì, è un po' una cosa da teatrino, ma bella; un grazioso scherzo
combinato da venti popoli, ingegnosamente; mezzo mondo veduto di
scorcio; la via d'una grande città di là da venire, in un tempo
di fratellanza universale, quando saranno sparite le patrie. A primo
aspetto non sembra che una splendida bizzarria, e si pensa che il
mondo ha avuto un quarto d'ora di buon umore. Tutta quella linea
così mattamente spezzettata di tetti acutissimi, di torricciuole
gotiche, di chioschetti e di campanili, di guglie e di piramidi,
quella fuga di facciate di colori vivissimi, lucenti di mosaici e di
dorature, ornate di stemmi, decorate di statue, coronate di bandierine
che s'aprono in colonnati ed in portici e sporgono in terrazze a
balaustri, in balconi vetrati, in loggie aeree, in scale esterne e in
gradinate, fra aiuole di fiori e zampilli di fontane; quella fila di
villini, di reggie, di chiostri, di palazzine, dei quali non si
riconosce subito nè la nazionalità nè lo stile, non destano
da principio che un senso di confusione piacevole, come il frastuono
allegro d'una festa. Ma dopo la prima corsa, quando si son
riconosciuti gli edifizi, lo spettacolo muta significato. Allora da
ognuna di quelle facciate esce un'idea, l'espressione di un sentimento
diverso della vita, e come un soffio d'aria d'un altro cielo e d'un
altro secolo, che bisbiglia nomi d'imperatori e di poeti, e porta il
suono di musiche lontane, piene di pensieri e di memorie. E fanno una
impressione strana tutti quei belli edifizi muti e senza vita. Pure
che dentro vi si prepari qualche cosa, e che al sonare di mezzogiorno,
come da tante cassette di orologi, debbano affacciarsi improvvisamente
a tutte quelle finestre e a tutte quelle porte, e correre lungo le
balaustrate, castellani inglesi e borgomastri fiamminghi, girolamiti
del Portogallo e sacerdoti dell'Elefante bianco, mandarini e sultane,
e ateniesi del tempo di Pericle e gentildonne italiane del
quattordicesimo secolo, e fatte le loro riverenze automatiche,
rientrare alla battuta dell'ultim'ora. La via è lunghissima. Stando
a metà si vede appena in fondo, confusamente, la facciata rossa e
bianca dei Paesi Bassi e la ricchissima porta claustrale del
Portogallo, accanto alla quale i piccoli Stati africani ed asiatici
aggruppano le loro bizzarre architetture variopinte, schiacciate
dall'edifizio elegante ed altiero dell'America del Sud. Più in qua
signoreggia il palazzo del Belgio, severo e magnifico, colle sue belle
colonne di marmo scuro, dai capitelli dorati; e fra il Belgio
aristocratico e la Danimarca pensierosa, fa capolino timidamente, come
una prigioniera, la piccola Grecia bianca e gentile. Alcune facciate
par che abbiano un senso politico. La Svizzera slancia innanzi
bruscamente, con una specie d'insolenza democratica, il suo enorme
tetto bernese accanto alla mole giallastra della santa Russia, che
affetta la superbia minacciosa d'un castello imperiale. Fra il lungo
porticato austriaco e la faccia nera e fantastica della China, s'alza
la Spagna arabescata e dorata dei Califfi; e fanno uno strano senso,
dopo le due casette semplici e quasi melanconiche della Scandinavia,
le arcate teatrali d'Italia, messe in rilievo dalle tende purpuree;
dietro alle quali salta fuori inaspettatamente la facciata rustica del
Giappone colle sue grandi carte geografiche piene di pretensione
scolaresca. E finalmente, più vicino all'entrata, dan nell'occhio
gli Stati Uniti sdegnosi, che non vollero prender parte alla gara,
contentandosi di esporre fieramente i loro cinquanta stemmi
repubblicani sopra una piccola casa bianca e vetrata, accanto alla
quale s'alzano i cinque edifizi graziosi dell'Inghilterra. Una folla
di stranieri che vanno e vengono, tutti col viso rivolto dalla stessa
parte, cercando curiosamente l'immagine della patria, e riconoscendola
con un sorriso, dà a questa strana via un aspetto amabile
d'allegrezza, e come un'aria di pace e di cortesia, che mette il
desiderio di distribuire strette di mano da tutte le parti, e di
fondare un giornaletto settimanale per intimare il disarmo
dell'Europa.

Per prima cosa entrai nell'immenso palazzo coperto delle
«sezioni straniere» e mi trovai in mezzo al magnifico disordine
dell'Esposizione d'Inghilterra. Qui la prima idea che passa per il
capo è di voltar le spalle e di tornarsene a casa. Il primo giorno
si passa fra tutte quelle meraviglie inglesi con una indifferenza di
cretini. Si gira per un pezzo in mezzo ai cristallami purissimi, alle
ceramiche, alle orerie, ai mobili, a oggetti d'arte improntati delle
ispirazioni di tutti i tempi o di tutti i popoli; frutti dell'ingegno
e della pazienza, che riuniscono la bellezza e l'utile, e accusano il
lusso severo d'un'aristocrazia straricca e fedele alle sue tradizioni,
e l'osservazione variatissima di un popolo sparso per tutta la terra;
e qui si sente l'aria delle grandi officine di Manchester, là si
vive un istante in un castello delle rive del Tamigi, più in là
spira la poesia intima e quieta dell'_home_ modesto, che aspetta la
fortuna dal navigatore lontano. Si passa fra le grandi alghe marine
del Capo di Buona Speranza, fra i canguri e gli eucalipti di Victoria
e della Nuova Galles, fra i minerali di Queensland, fra i gioielli
bizzarri dell'Australia del Sud, tra un'esposizione interminabile di
flore, di faune, di industrie e di costumi di tutte le colonie
dell'immenso regno, e non s'è ancora arrivati in fondo che s'è
già fatto cento volte col pensiero il giro del globo, e s'è
sazii. Ma ogni cambiamento di «sezione» fa l'effetto di una
rinfrescata alla fronte. Cento passi più in là, è un altro
mondo. Vi trovate improvvisamente davanti a uno spettacolo nuovissimo.
È da ogni parte un sollevarsi e un abbassarsi di letti chirurgici,
un allargarsi e un restringersi di sedie, che sembravan vive, per le
operazioni oculistiche; un girar di tavole anatomiche, un aprirsi di
dentiere, un alzarsi di ferri minacciosi e feroci, uno scricchiolio e
uno scintillamento che mette freddo nelle ossa. Non c'è bisogno di
chiedere in che parte del mondo ci si trovi. L'oreficeria solida, i
vasi enormi d'argento, gli orologi dei minatori della California, i
trofei delle ascie di Boston, i congegni elettrici, le carte monetate,
le vetrine irte di ferro e le mitragliatrici formidabili; una certa
fierezza poderosa e rude di cose utili, annunzia l'esposizione degli
Stati Uniti, non so se rallegrata o rattristata da una musica
fragorosa d'organi, d'armonium e di pianoforti, la quale seconda
mirabilmente le divagazioni della fantasia in mezzo ai mille oggetti
che ricordano le lotte e i lavori immani dei coloni nelle solitudini
del nuovo mondo. Ma un nuovo spettacolo cancella subito questa
impressione violenta, La ricchezza dei legni scolpiti delle vetrine
annunzia il paese delle grandi foreste, e mille immagini rammentano la
dolce tristezza dei bei laghi coronati di montagne irte di pini e
bianche di neve. In mezzo ai prodotti delle miniere di Falum e ai
blocchi di nikel, si alzano i trofei di pelliccie, circondati di teste