Ricordi del 1870-71 - 11

come un ammasso di pezzenti_; ma vera o falsa quest’opinione, _io non
soffrirò mai che il soldato sotto i miei ordini abbia a vergognarsi
della propria persona;_ ed invocherò con tutto il vigore il vostro aiuto
_per fare osservare quelle leggi che pagano il sudore del soldato e lo
proteggono dalla frode.»_
Bene e bravo!
S’occupava egli stesso della compra delle camicie pei soldati, e a furia
di ricerche, essendo riuscito a trovarne delle buone a tenuissimo
prezzo, scriveva al generale per fargli notare che nei corpi si pagano
molto di più e che sulla _massa_ dei soldati si ruba.
Per dare un premio ai sott’ufficiali di buona condotta, e perchè non gli
reggeva l’animo di vederli mal vestiti, il povero Foscolo anticipava
loro, di sua tasca, un po’ di danaro sui risparmi futuri delle loro
masse; faceva man mano accomodare gli oggetti dei soldati coi pochi
sussidii che la sua povertà gli concedeva di prestare; assisteva egli
stesso a tutti i contratti perchè non si defraudasse il soldato;
ratificava gli atti più minuti dell’amministrazione; esigeva che gli
operai e i mercanti andassero di persona al suo ufficio a prendere le
ricevute; e così a forza di pazienza e di cura faceva in modo che le
cose camminassero il meno peggio possibile.
«Interponete la vostra autorità, mio generale — egli scriveva — perchè
io possa vedere i miei soldati contenti di me come io sono omai divenuto
contento di loro. La sala di disciplina è vuota; il servizio, regolare;
i tre corpi, concordi, e tutti zelanti per il proprio dovere.»
Ma non era sempre così. Egli aveva ragione di lamentare, fin d’allora,
_la poca subordinazione in cui vivono naturalmente gl’individui lontani
dalle severità dei corpi_, ed esigeva che i sott’ufficiali contabili,
lontani dai suoi occhi, venissero a presentargli ogni giorno il proprio
lavoro. Brontolava anch’egli, fin d’allora, perchè i sott’ufficiali
tendevano a violare l’ordinanza dell’uniforme. Deplorava che il vestito
dei soldati fosse fatto, anche allora, a casaccio, e che la cintura dei
calzoni, in ispecie, non arrivasse al ventre, e che quei benedetti fondi
si logorassero in così poco tempo. E si doleva col generale che gli
ufficiali comandanti i drappelli lasciassero per la strada gli infermi e
si portassero via i cappotti; «_cosa non so se contro i regolamenti_ —
soggiungeva — _ma certamente contro l’umanità e la prudenza_;» anche
allora. — Gli toglievano i migliori sergenti; scriveva ai corpi, e i
corpi non gli davan retta; voleva chiudere i conti e non gli spedivan le
carte; ed egli s’indispettiva, povero Foscolo, e si rodeva, e si sfogava
col suo generale: «Sono assai male trattato; lasciatemi almeno il
foriere Gilli, unico capace ad aiutarmi nella noiosa, imbrogliata e per
me nuova contabilità di tre differenti Depositi.»
Oh povero autore dei _Sepolcri_!
E a questo s’aggiungevano altri guai. Il vivandiere aveva tre figliuole;
queste tre figliuole non _adornavan l’amor d’un velo candidissimo_,
punto punto; ne seguivano gelosie tra i sergenti, risse, duelli; e il
povero Foscolo era costretto a _consegnare_ i soldati in quartiere, ad
arrestare, ad inquisire, a stendere relazioni su relazioni. I sergenti
rubavano sui fogli di prestito; un sergente-maggiore gli scappava, un
soldato portava via le catene dai carri d’artiglieria, un altro veniva
alle mani coi cittadini, e lì richiami, proteste, scandali. E intanto
sopraggiungevano in folla i prigionieri inglesi, e bisognava rafforzare
il servizio di guardia, e il numero dei soldati non bastava, e i soldati
si lamentavano.
«Ah! mio generale — scriveva allora il Foscolo disperato — confesso che
la forza e la pazienza mi cominciano a mancare.»
L’anima del Foscolo, disse giustamente un critico, era lirica; lirica
nelle lettere famigliari, lirica negli articoli di giornale, lirica
nelle prefazioni, lirica persino nelle postille di commentatore. È vero,
e queste sue lettere sono liriche anch’esse, piene di passione, di
vigore, di vita.
«Vi raccomando mio fratello — scriveva al vice-presidente della
Repubblica italiana. — Egli è colto, coraggioso e bello.» Curioso quel
_bello_, messo lì in fondo a una supplica con quella franchezza; chi ce
lo mettesse ora!
«Il solo Bravosi — scrive al generale di divisione — resta fidecommesso
nella _stanza della rogna_; ed il solo Ragazzi, ladro, esce tutti i
giorni dalla sua prigione, fra l’immondizia e lo squallore, esempio
quotidiano ai malfattori.» È scolpito.
E poi certi passaggi curiosi. Scrivendo a un sergente-maggiore, dopo
un’invettiva violenta, conclude solennemente:
«E il cacciatore Gabbetto è creditore vostro di lire 3 per una camicia!»
Altrove una tirata sulle stufe, sulle marmitte, sui vetri rotti.
E di qualunque cosa parlasse, sempre lo stesso impeto, lo stesso fuoco,
come se declamasse una poesia o improvvisasse un’orazione.
Nè queste cure impedivano al Foscolo di studiare. Dopo gli esercizi
militari, che spesso Napoleone faceva fare per lunghe e lunghe ore anche
colla pioggia dirotta, e specie nei giorni di riposo, mentre i soldati
coltivavano gli orti intorno alle baracche, e gli ufficiali ballavano,
amoreggiavano o giocavano al biliardo, il Foscolo studiava ardentemente
la lingua inglese, incominciava la traduzione dello Sterne, scriveva la
stupenda Epistola a Vincenzo Monti; e commosso dallo spettacolo di
dugentomila uomini accampati sulla sponda dell’Oceano, meditava la
seconda edizione del Montecuccoli e volgea in mente _i carmi alteri come
il brando_ che dovevano accender la musa di Silvio Pellico; tanto è
vero, come scrisse il Pecchio, che chi sa rinunciare alla bottiglia,
alla pipa e alle carte, abbonda sempre di tempo anche in mezzo alle
funzioni della guerra. In una parola, il poeta fortificava in lui,
anzichè snervare il soldato, e gli dava lena a sopportare con animo
invitto i disagi, nonostante ch’egli avesse amato prima ed abbia amato
poi la vita molle ed agiata. L’amò poeta, soldato la disprezzò. E certo
doveva aver virtù di tal genere, — osservò giustamente uno de’ suoi
biografi. — nè altre virtù potevan renderlo così accetto, com’ei fu, ai
militari, non punto propensi a concedere la loro ammirazione a chi segue
più riposato cammino.
Tale fu la vita militare di Ugo Foscolo.
Da ultimo, per i mutamenti politici e per quelli dell’animo suo, si
stancò della carriera delle armi, e deliberò di escirne; ma non
l’ottenne senza difficoltà e senza noie. Aspettava una riforma, non
venne; chiese le demissioni, non gliele volevano dare; la divisa
militare gli pesava; cosa che segue sovente anche ai dì nostri a chi la
vestì con troppo ardore e troppe speranze.
«Questa divisa italiana — egli scriveva, — mi pare sì umiliata, sì
misera, sì perigliosa, che io darei un paio di scudi a chiunque la
portasse, quando io sono alle volte obbligato a portarla.»
E non la vestiva che per far rispettare la sua carrozza dai gabellieri.
Ma non fu colpa sua; a suo tempo ei l’amò, codesta divisa, e la vestì
con orgoglio, e con orgoglio scrisse a Gioachino Murat quelle memorabili
parole:
«Principe, le lettere sono il primo scopo della mia vita; ma io le ho
sempre associate alle armi per dar loro il coraggio e l’esperienza, che
distingue i grandi scrittori.»
E ricordino queste parole, e le ripetano sempre tutti i letterati
militari presenti e futuri.
E ricordino pure, in certi momenti d’uggia e di stizza, quando il giogo
della disciplina preme più forte, e il sangue comincia ad accendersi,
ricordino che molte volte anche l’autore dei _Sepolcri_ si sentì dire da
qualche maggiore arrabbiato:
— Signor Foscolo!... le scale son sudicie.... Signor Foscolo!... lei non
ha la cravatta d’ordinanza. Signor Foscolo!... si eserciti; lei non
maneggia ancor bene lo stile d’ufficio! —
E Foscolo, focoso, indocile, superbo; Foscolo, che travedeva cogli occhi
della mente le generazioni avvenire chinate innanzi alla sua immagine,
Foscolo stette a sentire, e mandò giù e tacque; e s’egli tacque, altri
può ben rassegnarsi a tacere: lo si pigli ad esempio anche in questo.
Ed oggi che la sua salma è restituita all’Italia, e di lui, della sua
indole, del suo cuore, della sua vita si parla e si scrive con ardore
nuovo e giudizi diversi, non ci sfuggano allo sguardo, tra le foglie
della corona d’alloro, i galloni del vecchio berretto di capitano; tra i
versi dei _Sepolcri_ raffiguriamoci le cifre e le righe dei registri;
poichè anche quel berretto coperse dei nobili sudori, e fors’anche su
quei registri, qualche volta, a tarda notte, in una cameretta solitaria
del quartiere di Valenciennes, egli lasciò cadere la fronte stanca e
contristata. Teniamo conto della pietà gentile ch’ei nutriva pei suoi
soldati laceri ed infermi, e dell’ira generosa con cui ne difendeva i
diritti e ne proclamava i sacrifizi; mettiamo sulla bilancia anche
quelle fatiche, quei disinganni, quei dolori; e in mezzo agl’inni e alle
musiche che lo salutano grande cittadino e grande poeta, sorga un grido
soldatesco accanto alla tomba, che dica:
Gloria al capitano Ugo Foscolo!
Forse, chi sa? s’egli si potesse destare un istante, quel grido, più che
ogni altro, varrebbe a richiamare sulle sue smorte labbra un sorriso e
un lampo nei suoi occhi infossati. Forse egli mormorerebbe con voce
commossa: — Oh!... il mio campo di Boulogne! I miei soldati! —


AI COSCRITTI.

Febbraio, 1870.
In queste sere s’è visto passare per la città molti coscritti. Passavano
per lo più a notte fatta, quando le vie sono illuminate, e comincia il
viavai delle carrozze, e quel vario agitarsi di gente allegra che è
solito nei giorni di carnovale. Passavano in fretta, due a due, vestiti
dei loro panni da paesani, ravvolti nelle coperte da campo, condotti da
pochi soldati, voltandosi di qua e di là a guardare le porte dei teatri,
le botteghe tappezzate di maschere e i banchi dei venditori di fiori,
coperti di ghirlande e di mazzi. Della gente, altri dava loro
un’occhiata di sfuggita, altri si fermava agli angoli delle vie per
vederli sfilare, e qualche cocchiere bestemmiava ch’era costretto a
fermare il legno; i fattorini dei caffè, col naso contro le vetrine,
accompagnavano collo sguardo il drappello frettoloso fin che spariva.
Una sera fra le altre, trovandomi con un amico mentre passava uno di
questi drappelli, gli dissi:
“Osserva in questo momento le faccie della gente che guarda, e dimmi se
ne vedi una che abbia una espressione decente. Costui che c’è vicino
ride d’una certa foggia di calzoni che aveva un coscritto che gli passò
dinanzi. Quest’altro ha mormorato a fior di labbra: — Gli hanno un
freddo da cani! — e se n’è andato cacciando il mento sotto il mantello,
più contento di sentirsi al caldo dopo aver visto qualcuno che batte i
denti. Quell’altro là guarda i coscritti colla stessa aria di curiosità
con cui si guardano i condannati condotti al palco. Questo giovanotto
che ti sta accanto ha esclamato: — Oh che vita! — Quello lì che hai
davanti ha brontolato: — Oh poveri disgraziati! — E tutti gli altri,
guardali bene, chi più chi meno hanno la testa chinata da un lato, e il
viso atteggiato a quella egoistica pietà che si compiace nel confronto
dei dolori altrui colla quiete e col benessere proprio; quella pietà
bugiarda e poltrona, che pronuncia la parola trista colla voce allegra,
e deplora senza amare; pietà che oscilla fra la compassione e lo
scherno, senza la sincerità dell’uno e la sfacciataggine dell’altro;
pietà più oltraggiosa del disprezzo. Perchè ciò?”
“Perchè tutta questa gente non capisce il soldato,” mi rispose l’amico;
“perchè vedendo passare codesto drappello di coscritti, la maggior parte
non considerano altro che la privazione del teatro, della passeggiata e
della bettola, e non vanno colla mente più in là della caserma dove ci
si diverte poco e si dorme a disagio. Nessuno di costoro, io credo,
scorge nel fatto stesso di questa privazione, nel contrasto di questi
giovani che cominciano ora una vita di abnegazione e di stento, con
tutta l’altra gente che ne comincia una di allegrezza e di festa,
nessuno vi scorge l’idea grande e generosa che v’è significata e posta
in atto, e che deve impedire la pietà suscitando l’ammirazione. Quando
nel soldato non si vede più che una persona gravata di molte fatiche e
priva di molti divertimenti, quando non lo si capisce più che come
individuo, vuol dire che non lo si capisce più affatto.”
Gli domandai se credeva che fossero molti quelli che non lo capivano
più.
“La maggior parte,” egli mi rispose. “Nel nostro paese, siamo oramai
pervenuti a quei giorni pronosticati dal Bossuet, in cui gli uomini non
hanno più la mente e il cuore ad altra cosa, che agli affari e ai
piaceri. Fuori di lì pare che non s’intenda e non si senta più nulla. La
morale, il dovere, l’abnegazione, il sagrificio, i principii più sacri
del pari che i sentimenti più nobili, sembra che pel generale degli
uomini si siano mutati come nei fantasmi d’un sogno, che brillano a
brevi istanti nel pensiero, e dileguano. E non è punto da meravigliare
quando si pensi che suol accadere dei popoli lo stesso che degli uomini,
e specialmente dei giovani. Come un giovane, dopo essersi sciolto (per
forza di qualche doloroso disinganno) da una passione violenta contratta
con molta speranza di felicità e di fortuna, ricade in un abbandono
spossato e tristo, e rinnega tutti gli affetti gentili che quella
passione gli aveva suscitati nel cuore, e deride tutti gli alti
propositi che gli aveva fatto fermare, e si butta allo scettico, e
divien freddo e duro; così il nostro paese dopo quella grande espansione
d’entusiasmo, di virtù e di fede che ha fatto quattro anni or sono con
esito tanto diverso dalla sua aspettazione, ora è caduto nell’apatia,
stanco, incredulo e svogliato. In mezzo a questo desolante spettacolo di
fracidi vizi e di virtù frolle, come dice il Giusti, l’esercito è quanto
gli rimane di meglio; ma la maggior parte, ripeto, non lo comprende più.
E perchè per comprenderlo bisogna aver cuore, e quando non s’ha cuore la
mente sola non basta ad afferrare il senso di certe cose; perchè quando
dal cuore sono fuggiti certi sentimenti e certe virtù, non si può più
capire un’istituzione che appunto da quelle virtù e da quei sentimenti
trae la sua vita e la sua forza; perchè quando non s’ha più spirito di
abnegazione e di sacrificio non si vede più che cosa importi a uno Stato
il possedere una grande scuola in cui quello spirito si fortifichi e
s’inspiri. Quindi, si considera l’esercito come un’altra qualunque
istituzione, di cui, quando non si toccano i frutti dì per dì, si dice
ch’è inutile. Non vi si vede dentro il grande lavoro morale che vi si
fa, i caratteri molli che vi si ritemperano, i buoni principii che vi si
rassodano, le aspirazioni generose che vi si attingono; tutto questo non
dà nell’occhio, non si tocca, non si sente; chi è che va a frugar
nell’anima dei quarantamila uomini che ogni anno tornano a casa? Si
vedono passar per le strade, uscir di quartiere, girare in piazza
d’armi, fare la sentinella, combattere le battaglie finte, finire il
servizio, e tornarsene, e tutto è lì; l’esercito non è altro e non
significa altro. Qual meraviglia che il coscritto desti un sentimento di
pietà in chi vede l’esercito sotto quest’aspetto? È un uomo che va a
sgobbare e a soffrire.”
Questo disse il mio amico. Però badate, o lettori: coloro per cui le
parole di sacrifizio e di abnegazione non sono che parole, coloro, che a
parlargli il linguaggio del cuore sorridono, coloro che tengono la
vostra vita per una vita di forzati, in cui non si faccia nulla per
impulso spontaneo di virtù e tutto per timor della pena, badate, costoro
quando mostrano di pigliare a petto la vostra causa, mentono. Chi vi
compiange invece di ammirarvi e di farvi coraggio, è quegli stesso che
compiange l’operaio che suda per procacciare il pane ai suoi figliuoli,
perchè in lui come in voi non capisce il sacrifizio, e come non lo
capisce, così lo suppone un dolore senza conforti, da cui l’anima
naturalmente repugni, come dal più duro supplizio. E come lo suppone
senza conforti, così non sa rendersi ragione del come e del perchè
possano esistere nel cuor vostro de’ sentimenti che ve lo facciano parer
leggiero, che ve lo facciano compiere lietamente, e considerarlo come un
dovere, e ricordarlo, dopo fatto, come una gloria. Costoro sono quegli
stessi che si domandano perchè il soldato Perrier si sia fatto uccidere
per salvare la vita al sottotenente Cocatrix; perchè il sottotenente
Gabba abbia amato meglio di pigliarsi una palla nel fianco che
rispondere al nemico: — Mi arrendo; — perchè Alfredo Cappellini abbia
voluto morire quando poteva mettersi in salvo senza venir meno al suo
onore. Con che scopo? domandano. Con che scopo!
Ma abbiatelo per fermo: quando non s’ha punta virtù di sacrifizio,
quando non s’ha cuore da amare questa virtù per sè stessa, senza scopo e
senza perchè; quando si disconoscono questi grandi sentimenti che sono
quanto v’è di più eletto e di più rispettabile nell’uomo, allora non c’è
più nè magnanimità, nè coraggio, nè forza, e neanche onestà vera e soda.
L’uomo non è più onesto se non quanto e finchè gli conviene. Non
riconoscendo più altro movente e altra norma alle azioni proprie che
l’utile e l’interesse diretto del suo benessere, quando questo cessa
come consigliere di onestà, l’istinto brutale sottentra e l’ordine
morale è sconvolto.
Ma voi non siete di costoro; voi siete giovani, voi avete lasciato or
ora le vostre famiglie e serbate l’anima piena di fede e di affetto, e
intraprendete lietamente questa nuova vita faticosa ed austera a cui
foste chiamati.
Per ciò a voi si può parlare un linguaggio che altri non capirebbe o
volgerebbe in riso; a voi si possono porgere i consigli che il cuore
detta e che si rivolgono al cuore; voi non torcete il labbro, per Dio,
quando si fa appello ai sentimenti più generosi dell’anima umana.
Anzitutto non bisogna nascondervi la verità. Noi non siamo di coloro che
mettono in luce un solo aspetto della vita militare, il migliore. Noi
diciamo apertamente ch’essa è dura e penosa. Per aver diritto di porgere
dei conforti, convien mostrare di conoscere le ragioni per cui si
stimano necessarii. E queste ragioni son molte. Il soldato vive lontano
da casa, sacrifica la libertà, ed è sottomesso a una legge
inesorabilmente severa. Un accesso di collera, un offuscarsi momentaneo
della ragione può esser causa dell’infelicità dell’intera sua vita, lo
può perdere per sempre. Bisogna ch’egli rompa bruscamente tutte le
abitudini del passato; bisogna che rinunci a molti di que’ piccoli
comodi e di quei modesti piaceri d’elezione che ogni altra condizione
sociale, per quanto umile, permette. In molte occasioni, bisogna ch’ei
ponga a repentaglio la salute e la vita nello stesso modo che altri
arrischierebbe al giuoco uno scudo, senza esitazione e senza rammarico.
Bisogna che molte volte egli sopporti fatiche tremende, che trascinano
l’anima alla disperazione; fatiche a cui egli stesso si meraviglia poi
d’aver potuto resistere, come quelle che reputava fermamente superiori
alle forze mortali. La fame, la sete che mette il fuoco nelle viscere,
deforma il sembiante umano e ottenebra l’intelletto; lo sfinimento che
prostra l’uomo a terra come privo di vita; il sole che infiamma il
cervello; la caldura che mozza il respiro; la trista solitudine del
casotto nelle notti d’inverno, in mezzo al gelo e alla neve; le
infermità non credute, che non esentano dalla fatica, e la convertono in
un tormento e in un pericolo; le lunghe ore d’immobilità e di silenzio
nelle rassegne; la compagnia obbligata di persone invise o sprezzate o
ripugnanti; i sonni brevi e interrotti da subite chiamate e dalla
necessità improvvisa di fatiche nuove; il cibo qualche volta malsano o
scarso o tardo; le mille esigenze della condotta fuori del servizio; le
cure minute e tediose della divisa e delle armi; l’isolamento da ogni
classe di cittadini in città sconosciute; in qualche luogo e in qualche
caso la diffidenza della popolazione, o l’antipatia, o l’ira aperta e
l’odio; e mille altre cose.
Ma che perciò? Perchè la vita del soldato trae con sè questi mali,
dovremmo noi fare come certi suoi mascherati amici, che dopo averglieli
enumerati dal primo all’ultimo, ricominciano dall’ultimo per ritornare
al primo? Che amicizia è questa, di aprir la piaga pel solo gusto di
vederci dentro, senza spargervi il balsamo risanatore?
Noi diciamo invece al coscritto: — Questi sono i mali che tu avrai da
patire, e sono molti e non lievi; ma non disanimarti: intraprendi la tua
strada coll’animo armato di coraggio e di costanza, non lasciarti
accasciare sui primi passi. Non c’è vita, per quanto dura, che non abbia
le sue consolazioni. Di queste te ne verrà una parte dalla natura stessa
della vita che tu farai; vita nuova e varia e piena di accidenti
impreveduti e strani; vita in cui ai giorni lenti e tristi s’avvicendano
molto spesso i giorni allegri e rapidi. Muterai sovente soggiorno e
conoscerai molta parte del tuo paese che ora t’è ignoto poco meno che un
paese straniero; e vedrai terre e città per te nuove d’aspetto e di
costumi, e ti si aprirà la mente a nuove idee, e acquisterai in pochi
mesi l’esperienza di varii anni, e molte di quelle cognizioni che nessun
tempo ti avrebbe fatto acquistare se tu fossi rimasto a casa tua. Altre
consolazioni tu potrai ricavare dalla tua coscienza, purchè tu gliele
sappia domandare. Non sorridere; non c’è soldato, per quanto ei
comprenda male i suoi doveri, per quanto ei si tenga poco della sua
divisa e senta leggermente la dignità del suo carattere, non c’è
soldato, anche fra i più svogliati e i più scontenti, il quale in fondo
al cuore non celi pure un po’ d’alterezza, un orgoglio indistinto, una
tal quale compiacenza d’essere soldato; o se non la sente fin ch’è
soldato, la sentirà poi, la sentirà di sicuro. Non sono rari i soldati
che maledicono una volta all’ora l’uniforme che vestono e la vita che
menano; ma sono certamente rarissimi quelli che, tornati a casa, non si
tengono onorati d’aver vestito quell’uniforme e di aver menata quella
vita. Non c’è vecchio soldato il quale non comprenda e non senta che
quei cinque anni di vita militare gli hanno lasciato in fondo al cuore
qualche cosa di buono e di stimabile; qualche cosa che gli conferisce
una superiorità incontestata sugli altri; un diritto particolare alla
pubblica considerazione. E tu procura di nutrire e di mantenere in te
questo sentimento fin da quando ti trovi al servizio. Perchè di una
qualità di cui sarai certamente lieto ed altero molto tempo dopo che
l’avrai rilasciata, non dovresti essere altero e lieto mentre l’hai? Non
è giusto nè utile. Tientene dunque di essere soldato. Se non avrai
questo sentimento, le fatiche e le privazioni ti parranno doppiamente
penose, perchè ti mancherà l’alimento principale che dà la forza per
sostenerle: la soddisfazione di compiere un dovere che onora.
Un altro conforto lo troverai nei tuoi amici. La vita molle, snerva e
intisichisce il sentimento dell’amicizia; la vita rigida, lo rafforza e
lo dilata. La parola _camerata_, che propriamente significa amico di
caserma, vuol dire assai cose di più che la parola amico, perchè accenna
alla natura speciale dell’affetto che fa nascere tra soldato e soldato
la comunanza della vita militare. Camerata vuol dire un compagno che ti
vuol bene, perchè avete mangiato molto tempo insieme la minestra della
stessa marmitta; perchè in marcia avete molte volte dormito l’uno
accanto all’altro sui mucchi di pietre della strada; perchè molte volte
vi siete portato il rancio l’uno all’altro quand’eravate di guardia, e
molte volte vi deste il cambio di sentinella, e vi aiutaste a stringervi
il cinturino, e v’imprestaste la giberna per andare alla parata della
guardia, e la pipa per passare il meno noiosamente possibile le ore di
uscita nei giorni ch’eravate consegnati. Per tutte queste ragioni il
camerata è più che un compagno e un amico, è un fratello; anzi, più che
un fratello, perchè la comunanza dei pericoli della guerra infonde in
questo affetto fraterno un non so che di forte, di solenne e di sacro,
che tra fratelli, nella vita ordinaria, manca. E tu vedrai, coscritto,
che i tuoi più cari ricordi d’amicizia saranno sempre quelli della
caserma; che il viso di cui ricorderai più lungamente la fisonomia sarà
quello del tuo vicino di letto; che i motti, gli scherzi, i consigli,
gli atti garbati, i servizii amichevoli, le testimonianze e le prove di
affetto e di fedeltà che porterai per maggior tempo nel cuore saranno
quelli dei tuoi compagni di squadra; che fra i servigi di cui
conserverai più viva e durevole la gratitudine sarà quello d’un sorso
d’acqua datoti da un camerata in un’ardente giornata di luglio dopo
molti chilometri di cammino, una visita ch’egli t’abbia fatto
all’ospedale quand’eri malato, o una lira ch’egli ti abbia prestata in
una tua occasione di bisogno. Credi, coscritto, a quest’affetto, che è
quanto di più bello e di più nobile ha la vita del soldato. È un affetto
che non si dimostra colle carezze e colle tenere parole; è un affetto
chiuso e ruvido; ma profondo, ma schietto, ma tale che tu ci puoi
confidare sempre e con sicurezza intera. Hai tu mai veduto due soldati
della stessa compagnia che s’incontrano e si riconoscono dopo molti anni
che hanno finito il servizio, quando son tutti e due padri di famiglia,
mutati di viso, di panni e di costumi? Se tu gli hai veduti, e se il
loro grido di sorpresa, la loro gioia, il subito illuminarsi del loro
volto e l’impeto affettuoso con cui si sono gettati l’uno nelle braccia
dell’altro non t’ha fatto dire: — Io li invidio — allora tu hai il petto
vuoto come un tamburo. Ma no, tu avrai goduto della loro gioia, e
sinceramente ammirato l’intima corrispondenza dei loro cuori, e detto a
te stesso: — Quando sarò soldato, sarà codesto uno dei miei più cari
conforti.

Un altro dei tuoi conforti, sarà la memoria affettuosa della tua
famiglia. L’amore della patria e della bandiera non è veramente schietto
e gagliardo se non quando germoglia dall’affetto della famiglia, che di
tutti gli affetti è l’origine e l’alimento. L’amor di patria non è che
l’amore della propria famiglia esteso dalle mura della nostra casa
paterna fino ai confini dello Stato di cui siamo cittadini. Lo spirito
di abnegazione che ci dà forza per faticare e soffrire, e coraggio per
combattere e affrontare la morte in difesa del paese, non è che quello
stesso spirito che ci induce a lavorare e a sudare più che non faremmo
per noi, quando nostro padre è vecchio e inetto al lavoro; non è che lo
spirito che ci fa vegliare le notti al capezzale di nostra madre colpita
dal contagio, quando gli amici e i parenti paurosi l’hanno abbandonata;
è lo stesso spirito fatto più potente e più ardito. L’amor di patria non
è che l’amore d’una vasta parentela ignota; quando questo manca, nessun
altro affetto attecchisce e mette radici profonde.
Custoditelo dunque, quest’affetto; mantenetelo vivo ed intero come lo
sentiste nell’istante in cui vi siete separati dalla vostra famiglia;
preservatelo religiosamente dalle offese del tempo, del mal esempio e
dei cattivi costumi; preservate quest’affetto, il quale alla sua volta
preserverà voi da molte bassezze, da molte colpe e da molti rimorsi. Non
è possibile che un figliuolo sinceramente affettuoso e devoto si macchii
mai di una codardia. Il pensare che un tal atto imprime il marchio del
disonore sulla fronte di chi gli ha dato la vita, e contrista gli ultimi
suoi giorni, basta per sè solo a rattenerlo sulla via del dovere e della
virtù in qual più difficile cimento egli si venga a trovare. Il soldato
che contamina il suo nome e tradisce la sua bandiera apre nel cuore dei
suoi la più terribile ferita che vi possa aprir mano umana. Al
contrario, nessun orgoglio è ad un tempo più caro e più legittimo in una
famiglia, che quel d’aver dato all’esercito un bravo soldato. E il far
sì che la nostra famiglia vada giustamente altera di noi, e aggiunga
all’affetto naturale che ci porta il sentimento della gratitudine, è una
delle più generose e gentili prove di virtù che possa dar l’uomo sulla