Ricordi del 1870-71 - 10

spintone cinque o sei passi indietro, mi trovo in una corrente che move
verso l’uscita, mi ci abbandono, e in pochi minuti, pésto, sudante e
spossato, mi trovo fuori del Colosseo.
Ecco tutto quello ch’io vidi.
Stetti un momento là incerto tra il tornar dentro e l’andarmene, e poi
presi un partito fra i due; salii sur un rialzo del terreno accanto
all’arco di Costantino, e come soleva dirmi il mio amico Arbib, _mi misi
a fare della poesia inutile_, guardando il Colosseo. — Le solite grida —
pensavo — la solita confusione, la commedia solita delle radunanze
popolari; ma che importa quello che vi si faccia e quello che vi si
concluda? Sono grida di libertà, e basta perchè a sentirle di qui e a
sentirle uscire dal Colosseo, mi déstino nell’anima una gioia nuova,
ineffabile, superiore a tutte le gioie che mi sian mai venute finora
dall’amor di patria. — Viva il Re — viva la libertà — viva l’esercito —
....nel Colosseo! In questo campo! In mezzo a questi archi!
E giravo l’occhio intorno come per assicurarmi del luogo dov’ero.
— .... Il Bonghi dice che qui ci sentiremo piccoli. Perchè? Piccolo si
sentirà chi si vorrà misurare con chi fu grande. Noi qui non veniamo a
misurarci; ma ad ispirarci, ad attingere forza e coraggio, a meditare e
ad ammirare. Il Colosseo! — ho sentito dire; — che vi può dire il
Colosseo? Vi narrerà le glorie dei gladiatori e i supplizi dei
cristiani? Ed io vi rispondo: — Sì....
In quel punto uscì dall’anfiteatro un altissimo evviva e un allegro
suono di banda.
— Sì..., ecco che cosa mi dice il Colosseo. Mi dice che dove gli uomini
schiavi si sgozzavano per ricreare un tiranno, ora convengono i
cittadini a salutare un Re Eletto ed amato; mi dice che dove perirono
sotto le scuri o in mezzo alle fiamme gli apostoli della libertà e
dell’eguaglianza, ora convengono gli uomini liberi ed eguali a
esercitare i loro diritti e a compiere i loro doveri, coll’anima lieta e
serena: e vi par poco codesto? Vi par che si possa dire che il Colosseo
è muto?
Un altro scoppio di grida misto a suono di trombe mi giunse
all’orecchio.
E poi una voce distinta: Viva la libertà!
— Ah! — io esclamai, rivolto al Colosseo, come se mi potesse intendere;
— Consolati, vecchio gigante; così monco e sfracellato come ti trovi, tu
non fosti mai tanto bello nè tanto grande ai tempi degl’Imperatori!
In quel punto vi batteva su il sole, e tra arco e arco si vedeva dentro
un concitato sventolío di bandiere.


DELL’ISTRUZIONE DELLE DONNE.
ANEDDOTO.

Qualche tempo fa, un giornalista arguto e dotto ha pubblicamente
dichiarato di preferire le donne che scrivono _bacio_ con due c a quelle
che lo scrivono con un c solo; e quelle che prendono _Polonia_ per un
nome di donna, a quell’altre che sanno che la Polonia è un paese.
Leggendo il forbito articolo con cui quel giornalista s’adoperava a
dimostrare la ragionevolezza delle sue preferenze, io mi ricordai d’una
scenetta seguita a un mio amico, dalla quale mi parve potersi ricavar
qualche lume circa la quistione della _Polonia_ e del _bacio_. È un caso
tutto pratico, che forse non gioverà meno d’un ragionamento lungo.
Premetto che quest’amico ha scritto qualche cosa e scrive ancora. Non è
un’aquila, come suol dirsi; ma una tal quale attitudine alle lettere si
dice che l’abbia; quindi anche un po’ di vanità, la quale, benchè non
sia espressa in parole determinate, resulterà, temo, dal complesso del
racconto. I lettori gli perdonino, in considerazione della universalità
del difetto. Io riferirò le sue stesse parole.

......... Man mano che scrivevo qualche cosa (egli mi disse), ne mandavo
dieci o dodici copie a casa. La mia famiglia ne riteneva due o tre, e
regalava le altre ai vicini. Un giorno mia madre mi scrisse, fra le
altre cose, che mi facessi animo, che continuassi a lavorare con ardore,
poichè c’erano delle _signore impazienti_. Queste _signore impazienti_,
che essendo vicine e amiche di mia madre io avrei potuto conoscere alla
mia prima scappata a casa, mi stimolarono potentemente. Non ch’io
almanaccassi conquiste o cose simili, neanco per sogno; ma mi lusingava
l’idea di destare delle simpatie di lontano, di prepararmi
un’accoglienza particolarmente gentile, di arrivare là aspettato,
desiderato, che so io? Di tratto in tratto mi scrivevano da casa: _Si
legge, si legge_, ed io andavo in solluchero.
Finalmente venne l’occasione di tornare per qualche giorno in famiglia.
Non dico il fantasticare continuo ch’io feci durante il viaggio. Avevo
sempre davanti agli occhi le lettrici. Mi rappresentavo
coll’immaginazione l’arrivo, il primo incontro, le voci di sorpresa, le
strette di mano prolungate, gli occhi curiosi fissi nei miei a cercarvi
l’espressione degli affetti versati nelle scritture, le domande ingenue
intorno a questo o a quel particolare, di questo o quel lavoro, il voler
sapere come l’uno fu pensato, quando l’altro fu steso, di dove il terzo
fu tratto, e mille altre fanciullaggini, che son passate pel capo a
tutti coloro che imbrattarono un po’ di carta; e se qualcuno lo nega,
mente.
Potrei giurare che la mia non era una vanagloriaccia volgare. C’era
dell’ingenuità, e oserei anche dire, della gentilezza. Cercavo, e
sentivo in me il bisogno, non tanto d’una soddisfazione d’amor proprio
che mi servisse di premio, quanto d’un incoraggiamento, d’un saggio di
quello che potessero essere le gioie d’uno scrittore onesto, per trarne
stimolo a perseverare nello studio delle lettere e nel culto degli
affetti gentili, e nella risoluzione di non iscrivere mai altro che cose
utili e buone.
Nella città dove aveva scritto, non m’erano punto mancate soddisfazioni
della natura di quelle che andavo a cercare nel vicinato di mia madre;
ma non so perchè, mi pareva che queste dovessero essere assai più dolci
e più efficaci di quelle; principalmente perchè la mia famiglia ne
sarebbe stata testimone, ed io avrei goduto per me e per essa. Insomma,
arrivai, e le prime domande che feci in casa furono:
“E le vicine? Chi sono? Dove sono? Cosa fanno? Quando vengono?”
“Le vicine,” mi rispose mia madre, “sono le signore tali e tali. Le
troverai tutte insieme questa sera in casa della signora C., qui sotto,
al primo piano, alle otto. T’avverto che non sono giovani.”
“Nemmeno una?”
“Nemmeno una.”
Veramente, pensai, sarebbe stato meglio..... Ma che importa, in fondo?
La simpatia, l’amicizia, la _corrispondenza d’amorosi sensi_ quale deve
correre, in generale, fra chi scrive e chi legge, non ha che fare cogli
anni. O piuttosto ci ha che fare pel mio meglio: perchè i libri e gli
scrittori non diventano veri, sodi, indivisibili amici che in età
riposata, quando le gioie rumorose della vita non sono più per noi, e
l’anima si raccoglie in sè stessa.
“Bada.....” soggiunse mia madre, “non ti credere di trovare delle
letterate o delle dottoresse. Sono buone signore, ma nulla più che
buone. Di letteratura credo che se ne intendano poco.”
Ma che importa anche questo! io dicevo tra me. Meglio: anime ingenue,
schiette, non traviate dai libri, senza vernice di rettorica, di
affettazione, di sensitività raccattata e falsa: gente che legge col
cuore, e che risponde col cuore.
“Nota,” disse ancora mia madre, “che una di queste signore s’è tutta
turbata quando le dissi che tu dovevi arrivare, perchè aveva paura che
non sapessi parlar altro che italiano.”
Povera signora! io continuai a pensare. Quanto le deve riuscir più grato
e più dolce il veder espressi in una lingua a lei mal nota, e che pur
desidera di imparare, gli affetti più riposti, i moti più delicati, le
immagini più soavi dell’anima sua! Ah! così — ella deve esclamare
leggendo — così si dice! Così dirò! Da ora innanzi lo potrò esprimere
questo sentimento! Questo bisogno del cuore d’ora innanzi lo potrò
significare!
“Ma l’hanno letto tutto, il mio libro, non è vero?” domandai.
“Vorrei credere; me l’hanno detto, mi chiedevano sempre notizie di te,
mi pregavano continuamente di scriverti che tu facessi, che tu mandassi;
avrebbero voluto che tu scrivessi con dieci penne alla volta.”
Ah! io esclamava in cuor mio, sento che scriverò duecento volumi!
Venne l’ora della visita; erano avvisate, e m’aspettavano. Il marito
della signora del primo piano mi venne a prendere. Aspettavo dei
complimenti, ma non mi disse che le parole d’uso. Mi fece pietà. A che
duro giogo son condannate le donne! dicevo tra me. È impossibile che
costui comprenda sua moglie. Era in fatti un vecchiotto con una faccia
di citrullo da far cascare le braccia.
“Avrò l’onore” mi disse scendendo le scale “di presentarle le mie due
ragazze grandi.”
Arrivammo alla porta, egli suonò, io presi un’aria modesta, ed entrammo.
Era una sala grande, mobiliata con una certa eleganza, e illuminata da
tre bei lumi ad olio, posti su tre tavolini ai tre angoli più lontani
dalla porta. C’era una quindicina di persone divise in tre crocchi. La
padrona di casa, in quel momento, era assente. Il padrone mi condusse al
gruppo più vicino e mi presentò alle sue due ragazze, bruttine, che mi
salutarono con un certo ritegno.
Si contengono, pensai.
“La signora tale,” soggiunse il padrone indicandomi una signora sulla
quarantina, lunga ed asciutta, “è una grande amica della sua signora
madre.”
M’inchinai e sedetti.
La signora mi presentò suo figlio, un giovanetto di sedici anni, che mi
strinse la mano con un atto vivace, guardandomi fisso.
“Ci siamo!” dissi tra me; ora piovono gli allori.
“Dunque,” cominciò la signora dopo avermi squadrato da capo a piedi
(sorriso, sguardo penetrante, sorpresa, nulla di tutto questo. — Si
contiene! — pensai) “dunque lei è venuto a passare qualche giorno colla
mamma, non è vero?”
“Sì, signora.”
“Oh bravo! Ha fatto bene. E... come ci si trova a Firenze?”
“Bene... veramente. Non potrei desiderare di meglio.”
“E... sento che si occupa.”
“Un poco.”
“Scrive, scrive.”
Accennai di sì.
“Bravo, fa bene; se ne troverà contento. Non fa come gli altri giovani
che sciupano il tempo nei divertimenti, e poi viene il giorno che se ne
pentono. A star a tavolino, invece di bazzicare i cattivi compagni, si
guadagna sempre qualcosa, o, alla peggio, non ci si perde nulla, non è
vero?”
“Gran Dio!” io tra me dissi, “cos’è questo?”
“Abbiamo letto le cose sue, sa?”
Io chinai il capo.
“Sicuro. Oh! abbiamo letto, abbiamo letto. Ha fatto dei bei lavori, in
verità. No, no, se lo lasci dire, e poi già l’hanno detto anche degli
altri: si vede che c’è la stoffa.”
Seguì un minuto di silenzio.
“Anche mio figlio, vede, ha disposizione a scrivere.”
Il ragazzo arrossì, interruppe sua madre, e mi lanciò una timida
occhiata.
“Sì, sì, ha della disposizione. Quando è in vena, vede, si mette a
tavolino e tira giù delle lettere di otto pagine, tutte d’un fiato,
senza fermarsi un momento. Ma bisogna che sia in vena. E scrive anche in
buon stile.”
“Mamma!” interruppe il figlio vergognandosi.
“Oh! ha ingegno anche lui. Peccato che lei non si fermi qui un po’ di
più, che avrebbero tempo a conoscersi e studiare insieme.... e farsi
vedere i lavori.... perchè tante volte, dicono, col confronto...”
“Ma no, mamma!” esclamò il figliuolo impazientito. “Ma cosa dici?
Qui.... il signore.... è uno scrittore.”
Io ero annientato.
“Ma è quello che dico,” rispose risentitamente la signora; “appunto
perchè scrive, ti potrebbe aiutare. Non ti dico mica che tu ne sappia
più di lui; ma quattr’occhi, come suol dirsi, vedono meglio di due, e
facendo i vostri lavori insieme, mi pare, posso ingannarmi, ma mi pare
che riuscirebbero anche meglio. L’emulazione...”
Comparve la padrona di casa: un viso di buona donna. Mi venne incontro
porgendomi tutt’e due le mani e sorridendo amichevolmente; mi balenò un
raggio di speranza; mi volsi a lei come al mio salvatore.
“Oh ben arrivato!” esclamò con voce carezzevole, “sono tanto contenta di
far la sua conoscenza, sono molto amica di sua madre, ho sentito spesso
parlar di lei....”
Ripresi fiato.
“Ho sentito che è un così bravo _scienziato_....”
Dio eterno! — io pensai — cos’ha capito costei? Addio speranza!
“Venga, venga con me, lo voglio presentare alle mie amiche.”
E presomi per mano, mi condusse in un altr’angolo dov’erano tre signore,
sedute in fila, tutt’e tre stecchite, serie, mute, che parevano statue.
Due erano giovani, ma poco piacenti.
La padrona di casa me le nominò tutt’e tre, e poi, accennando me a loro,
disse:
“Il signor tale.”
Fecero tutt’e tre un cenno col capo.
“Giovane molto.... distinto.”
Altro cenno come prima.
“Che è tanto bravo a far delle composizioni.”
Seguì un istante di silenzio, io stavo là immobile come pietrificato.
“Compone musica?” domandò una delle tre signore con aria noncurante.
“No, no,” riprese la padrona; “compone (e mi volse uno sguardo
interrogatore, stropicciando il pollice e l’indice della mano destra,
nell’atto di chi fa scorrere del denaro) compone.... delle prose, non è
vero?”
Accennai di sì. Le signore parvero poco soddisfatte; la padrona
scomparve, io sedetti. Una delle tre statue, forse mossa a compassione
dell’imbarazzo che mi si doveva leggere in viso, mi rivolse la parola.
Era un’amica di mia madre, una delle _lettrici_.
“Dunque,” disse dopo aver pensato un po’, “lei si diletta a scrivere?”
“Sì, signora.”
“È un bel passatempo.”
Io la guardai.
“E poi,” continuò essa, “è anche uno sfogo.”
“Già.”
“Abbiamo tutti dei momenti in cui la _piena dei pensieri_ ci sforza, per
così dire, ad espanderci. Si direbbe quasi che è un bisogno che ha
l’uomo.... lasciando poi da parte che è un ottimo esercizio, perchè
s’impara a scrivere con facilità.”
“Dio!”
“Non c’è niente di meglio che la pratica in materia di scrivere. Ha
qualche cosa di stampato?”
Mentre io mi voltavo a guardarla esterrefatto, si sentì in un angolo del
salotto una gran risata. Alzai gli occhi e vidi un gruppo di gente che
veniva verso di me, ridendo sgangheratamente. Qualcuno doveva aver
raccontato qualche aneddoto. La padrona di casa, premendosi una mano sul
petto per non scoppiare dal ridere, mi venne accanto; tutti gli altri
intorno. — Questa merita proprio che lei la descriva in uno dei suoi....
temi. — E interrotta tratto tratto dalle risa degli astanti, mi ripetè
l’aneddoto. Il quale, da quanto me ne lasciò comprendere l’infelicissimo
stato in cui mi trovavo, consisteva, a spremerne il sugo, in uno scambio
di cappelli seguito la sera innanzi fra due amici di casa, e non
riconosciuto che la sera dopo, nello stesso salotto.
“Lei deve farci una novella _sopra_,” disse la padrona.
“Una poesia!” disse un altro.
“No, un’ode!” esclamò un terzo.
E lì tutti a ridere.
“Amplificando,” mi disse il padrone di casa, con piglio di confidenza,
vedendo ch’io non parevo persuaso, “amplificando, aggiungendo, come
sanno far loro, se ne potrebbe fare, non dico mica un poema (e rise), ma
una cosettina.... Oh! il signor Lippi!”
Tutti insieme si allontanarono da me per correre intorno a un giovanotto
entrato allora, una faccia di scimunito, attillato, lisciato,
impomatato, che rispondeva con molto sussiego ai saluti, ai sorrisi e
alle dimostrazioni d’allegrezza che gli si facevano intorno. Mi parve di
capire che fosse un bravo dilettante di piano.
La padrona lo condusse dinanzi a me, e tutti gli altri dietro.
Me lo nominò, m’inchinai. Nominò me a lui, e soggiunse:
“Ne avrà sentito parlare.”
Egli, in mezzo al silenzio generale, alzò gli occhi alla volta
corrugando la fronte, stette un po’ pensando, e poi dondolò gravemente
la testa per dire che non mi conosceva.
Tutti mi guardarono, io arrossii.
Dopo pochi minuti quel tale era seduto dinanzi al piano e suonava; altri
giuocavano alle carte; altri, nell’angolo opposto, giuocavano a certi
giuochi di società di cui non mi ricordo. Da quel momento in poi io vidi
ogni cosa come a traverso d’un velo. Lasciato solo in un canto, divoravo
in silenzio la mia rabbia, la mia vergogna, la mia umiliazione; avrei
voluto essere dieci metri sotto terra; mi sentivo il più infelice degli
uomini. Oh i miei poveri sogni! mie speranze! miei libri! notti passate
a tavolino, colla fronte ardente e il cuore in sussulto! Pensavo a mia
madre e ne sentivo quasi pietà.... Se fosse qui — pensavo — se mi
vedesse! Ma io non pretendeva mica molto, io, — dicevo poi tra me
coll’accento d’un povero che si lamenta d’un rifiuto, — io non domandavo
mica d’essere ammirato, festeggiato, lodato; io cercava solamente una
parola gentile, uno sguardo che mi dicesse: — Ti conosco; — un sorriso
da cui potessi capire che qui si sa ch’io penso, sento, lavoro. Ma siete
dunque dei bruti, voialtri?
Ricordo, così in confuso, che mi fu portato il quaderno d’un bambino
perchè ci facessi le correzioni. Ricordo che mi fu presentato un maestro
di prima elementare, che mi domandò: — Che studi ha fatto? — dopo che la
padrona ci aveva lasciati soli dicendomi colla più ingenua bonarietà: —
Ho trovato una compagnia per lei. — Ricordo che mi fu domandato da una
signora se in Toscana si parla bene, e ch’io risposi che parlavano molto
bene i contadini; alle quali parole diedero tutti in una sonora risata.
Ricordo che sul punto d’accommiatarmi, mentre tutti mi stavano guardando
con un’aria così tra di curiosità e di compassione per la mia musoneria,
un bambino mi salutò gridando: — Addio, poeta! — saluto che provocò
un’ultima e sonora risata di tutta la compagnia. E finalmente mentre ero
già in fondo alla scala un ultimo: — Scriva! Scriva! — della padrona,
che mi fece l’effetto d’una stoccata nel petto.
— Mai più, — dicevo tra me un’ora dopo buttandomi a letto ancora tutto
pieno di amarezza e di stizza; — mai più in mezzo a codesta gente!
Semplicità? Primitività? Candore? Ma è una ignoranza che opprime, una
volgarità che schiaccia, un cretinismo che soffoca tutto quello che v’è
di più nobile e di più alto nell’intelletto umano! Ma i figliuoli di
codeste buone donne, se Dio ne guardi, avranno un lampo d’ingegno, se
avranno cuore, se sentiranno il bisogno d’espandersi, d’essere
riconosciuti, confortati, ispirati, ma cosa troveranno in casa? Far di
queste figure dinanzi alle madri degli altri.... vada; ma dinanzi alla
propria, ah! dev’essere duro!
E dopo d’allora, ogni volta che in una casa di gente bennata mi fanno
sentir declamar versi e leggere composizioni italiane dalle bambine che
vanno a scuola, non mi annoio più, come una volta, non mi stizzisco più,
non mi par più che sia un’ostentazione sciocca e ridicola, perchè penso
che quelle bambine, quando saranno madri di famiglia e terranno
conversazione in casa, a nessun giovane che studi e che lavori faranno
mai passare una serata d’inferno come quella ch’io passai.....

Così il mio amico. Mi pare, ripeto, che sia un caso pratico abbastanza
eloquente. Lascio la conclusione ai lettori e fo punto.... Ah! mi sono
scordato di dire, ma credo quasi inutile d’aggiungere, che tutte quelle
signore, se non scrivevano _bacio_ con due _c_, certamente, nell’atto di
scrivere, dovevano stare un po’ sopra pensiero; eppure credo che fossero
ancora superiori d’un grado alla donna tipo del giornalista in discorso,
perchè Polonia sapevano tutte che non era una creatura come loro.


IL CAPITANO UGO FOSCOLO.
[Firenze, 24 giugno 1871.]

Tutti, al giungere della salma di Ugo Foscolo, si levano il cappello e
abbassano riverentemente la fronte esclamando: — Onore al grande poeta.
Io mi pianto qui diritto, alzo la testa, porto la mano aperta alla tesa
del cappello ed esclamo con accento soldatesco: — Onore al capitano Ugo
Foscolo!
Il capitano Foscolo è poco conosciuto.
Nei collegi militari, quando un giovanetto dà segno di esser nato alle
lettere e alla poesia, i maestri gli sogliono dire: — Bravo, studii, non
si perda d’animo, la poesia si può benissimo conciliare colle armi;
veda, per esempio, nell’antichità Tirteo; in tempi posteriori,
Cervantes, Calderon de la Barca, Camoens; in Italia, Dante, che combattè
a Campaldino, come lei sa; poi, in Grecia, Riga; Koërner in Germania;
Ugo Foscolo.... —
Alto! signor maestro; alto dinanzi al giacinto greco educato ai soli
d’Italia, come disse Francesco Domenico. Per gli altri, vada; ma di Ugo
Foscolo, che è tanto vicino a noi, si dovrebbe dire qualcosa di più e di
meglio che la solita formola: poeta e guerriero, quando lo si cita ai
giovani poeti che un giorno saranno ufficiali. Guerriero! Gran cosa! Che
un uomo dotato d’ingegno poetico eccellente abbia potuto andare alla
guerra, non deve parer cosa singolare e mirabile se non a chi tenga come
verità ammessa e riconosciuta che dire poeta, spaccone e poltrone, sia
come dire bianco, rosso e verde. E questo un professore non lo deve
credere. Al contrario, stando alla sentenza del Leopardi, secondo la
quale non può immaginare e scrivere cose veramente nobili e grandi se
non chi, avendone il modo, le farebbe; un maestro deve sempre mostrare
di meravigliarsi che tutti i poeti, e massime i più bellicosi, non siano
andati a fare il soldato quando se ne presentò l’occasione.
Quindi, parlando del Foscolo ai giovani militari, si dovrebbe dir loro,
non già: — Vedete, esempio stupendo! Foscolo scrisse versi immortali e
si battè da valoroso; — ma bensì: — Vedete, virtù rara! Foscolo il
letterato, Foscolo il poeta, Foscolo colla testa piena di Omero, di
Virgilio e di Dante, Foscolo fece il suo servizio d’ufficiale con una
sollecitudine da contentare il colonnello più brontolone dell’esercito
imperiale; Foscolo tenne la _contabilità_ di tre depositi con una
diligenza da disgradarne l’ufficiale d’amministrazione più consumato;
Foscolo s’occupò delle camicie, delle scarpe, dei cappotti, della zuppa
dei suoi soldati con una cura costante, affettuosa, paterna; ed amò
infatti i suoi soldati come figliuoli, e ne fu amato come padre.
Qui sta il mirabile, qui la virtù caratteristica di Foscolo soldato, che
gli altri poeti non ebbero, o che degli altri, almeno, non possiamo
citare. Combattere da valoroso, certo, è qualcosa; ma far bene il
servizio di quartiere e tenere in regola i registri, per un poeta, è
molto di più; chè, in fin dei conti, nel combattere c’è poesia, o s’è
assuefatti a vedercene, mentre in quelle altre faccende, chi ce la
vuole, bisogna che ce la metta tutta di suo. E il Foscolo ce la mise, e
per questo, ripeto, più che per altro, fu singolare e mirabile; e per
questo vuol essere ricordato e lodato.
Bello è vedere il Foscolo, giovanissimo, ma pure colla profonda certezza
di esser nato alla gloria e di riuscire un giorno _da più che qualcosa_,
il Foscolo che aveva speso la sua adolescenza negli studi, e trionfato a
Venezia col _Tieste_, e scritto la celebre ode a Buonaparte, e redatto
il _Monitore Italiano_ con Pietro Custodi e Melchiorre Gioia, e riempito
omai del suo nome mezza Italia; bello è vederlo, al primo grido di
guerra, dimenticar versi, fama ed amore, e abbandonarsi tutto allo
_spirito guerriero che gli ruggìa dentro_, e fare come semplice soldato
le campagne del VII, e combattere a Cento, a Forte Urbano, alla Trebbia,
a Novi, in Toscana. Bello il vederlo sui monti di Genova, sotto gli
occhi del maresciallo Soult, slanciarsi tra i primi all’assalto del
forte dei Due Fratelli, e cader ferito, e meritare le lodi del generale
Massena. Bello il vederlo la sera, stanco delle lunghe fazioni del
giorno, arringare il popolo genovese, ridotto ormai a cibarsi di gatti e
di buccie di limone, e accenderlo di coraggio e di speranza; e potendo
stare meno a disagio nello stato maggiore, preferire d’aver comuni cogli
altri i digiuni e gli stenti del soldato; e tra questi stenti, in mezzo
alle grida delle madri genovesi moribonde di fame, scrivere l’ode a
_Luigi Pallavicini_ e la lettera fatidica a Buonaparte. Bello infine
vederlo pellegrinare pei campi italiani, _facendo_, com’egli scrisse, da
_difensore ufficioso ai soldati colpevoli sottoposti ai Consigli di
guerra_; e compiere la sua missione topografica nella Valtellina
traducendo Omero, e raccogliere documenti per la storia dell’arte
militare, e dar opera alla pubblicazione del Montecuccoli, e cercare
ogni mezzo di rendersi utile e d’usare il suo ingegno in pro
dell’esercito e della patria. Tutto questo è bellissimo; ma non vale le
poche lettere d’ufficio scritte da Valenciennes al capo di stato
maggiore e al generale di divisione.
Scrisse queste lettere come comandante di tre depositi del così detto
_Esercito dell’Oceano_, al campo di Boulogne. Era suo vivissimo
desiderio di seguire in Inghilterra il _genio di Bonaparte_, per vedere
coi suoi occhi una spedizione, _la quale per i cambiamenti di sistema di
guerra e pei progressi della marina, avrebbe fatto epoca negli annali
delle guerre_. Ma pur troppo il suo desiderio andò deluso, ed egli non
vide combattere altre colonne che quelle del _dare_ e dell’_avere_, e
invece di riportare vittorie si dovettero contentare di riportar
_totali_.
La sua corrispondenza data dal giorno in cui assunse il comando dei tre
depositi, il 3 gennaio 1805. Le lettere sue sarebbero quarantotto; di
conosciute non ve n’è che dieci o dodici; ma bastano a far capire con
che buon volere e che cuore il Foscolo facesse il dover suo. Si vede che
il proprio servizio egli lo pigliava sul serio quanto il proprio genio,
e che il suo maggior dolore era di non poter compiere questo servizio
meglio di quel che facesse, sia perchè si trovava male in arnese fin dal
giorno del suo arrivo al campo, sia perchè i depositi difettavano di
tutto, persino del più necessario alla vita; coloro cui spettava di
provvedervi avendo il capo alla guerra più assai che ad ogni altra cosa.
Un gran tormento per lui era l’amministrazione.
I superiori gli raccomandavano continuamente l’economia, e a lui non
bastava il cuore di farla con quei poveri soldati già ridotti agli
estremi. «Mi ingegnerò; — rispondeva al generale — e d’ora in poi darò
solo la metà paga; ma è impossibile, atteso il freddo e il bisogno che
il soldato ha della birra, di fargliela aspettar tutta.»
I soldati dei depositi erano travagliati dalla febbre; ma poco male la
febbre. «I rognosi — scrivea egli al suo capo di stato maggiore — vanno
guarendo; ma i nuovi arrivati ne hanno avuto la loro porzione.»
Anche la rogna!
E sempre, in queste sue lettere, l’accento della più sincera e più calda
premura: «Io vi supplico, mio generale, di scrivermi s’io devo
continuare a far somministrare il pane da zuppa.» E un’altra volta: «Vi
supplico di far sì che i capi dei corpi mi mandino la porzione di massa
pel pane da zuppa. Il capo battaglione Begani è testimonio delle noie
con cui mi punge il fornaio pel suo credito di un mese; e fra otto
giorni sarò forzato a sospendere la zuppa. Che se a questa privazione
s’aggiunge anche la privazione della paga, immaginate che diverrà del
povero soldato!»
A dar un’idea dello stato in cui codesti soldati si trovavano, valgano i
seguenti periodi, che sono veramente commoventi, e si notino quelle
parole sul cappotto, sui depositi, sulle rappezzature, sulle frodi, che
son proprio quelle stesse che si senton dire tutti i giorni nei nostri
reggimenti: mali sempre veri e lamenti sempre inutili.
«Il buon volere di tutti i soldati — scrive al generale — e le cure dei
sotto-ufficiali hanno sino ad ora riparato con l’industria e con le
rappezzature _l’imminente nudità_. E posso dire che i tre depositi
giunti a Valenciennes _logori e indecentissimi_ potrebbero presentemente
ad una rivista sostenere il confronto della tenuta con ogni individuo
de’ reggimenti; ove per altro non si guardi più oltre della scorza e si
conceda il _cappotto copritore di magagne_ a quegl’infelici che non
hanno nè uniforme, nè giubba con maniche. Ma tutti questi ripari vanno
diventando insufficienti, e _le rappezzature consumano una parte della
paga del povero soldato. So che i Corpi sogliono riguardare i depositi