Ricordi del 1870-71 - 04
reggimento si restringe a proteggere la ritirata. Il Cucchiari tenta di
arrestare i soldati alla strada ferrata: non riesce; tenta di arrestarli
a mezza strada per Rivoltella, e non gli vien fatto neppure: li arresta
e li riordina finalmente presso quella città.
A quello spettacolo, il generale Mollard, stordito, angosciato,
fremente, non sa che risolvere. Attaccherà il nemico? La brigata Cuneo è
decimata, spossata, rifinita dalla sete e dal digiuno; e la brigata
Pinerolo, scarsa di fronte alle forze poderose degli Austriaci,
verserebbe invano il suo sangue. Si ritirerà anch’egli? Il nemico si
rovescierà allora sulla sinistra francese. Il Mollard ha deciso: rimarrà
fermo ai piedi delle alture, in aspetto minaccioso; terrà in rispetto il
nemico, pésto ancora e sanguinoso delle zuffe ostinate della mattina;
aspetterà colle armi in pugno il momento propizio a ritentar la fortuna.
La divisione Fanti, rimasta fino alle 11 a San Paolo di Lonato, s’è
mossa alla volta di Solferino, per ordine di Napoleone, a fine
d’appoggiare l’assalto del 1º corpo.
È un’ora e mezzo. Napoleone ordina che si prosegua a dar dentro nel
mezzo della fronte nemica. La brigata Maneque della guardia ributta gli
Austriaci dalle alture della Casa del Monte. La divisione Bazaine,
riordinata in furia, si getta alle spalle del 5º corpo, che si ritira
verso Pozzolengo. La divisione Forey va oltre, in forma di sostegno,
dietro la guardia imperiale. La divisione Ladmirault, decimata e
sfinita, si riposa nel villaggio di Solferino.
In questo mezzo il maresciallo Mac-Mahon, congiunto alla guardia, si
volge contro San Cassiano. Due batterie della guardia preparano
l’assalto cannoneggiando con fierissima foga il villaggio. Il Mac-Mahon
dà il segnale: una colonna di bersaglieri algerini si getta
impetuosamente sulla sinistra, il 15º fanteria sulla destra, segue una
zuffa breve, ma fiera, e San Cassiano viene in poter dei Francesi. Al di
là di San Cassiano s’innalza il monte Fontana, erto e difficile, fatto a
modo d’una scalinata d’alture, e tenuto da quattro reggimenti austriaci,
preparati a forte difesa. Sul primo rialzo del monte sorge una specie di
ridotto, da cui vien giù una pioggia di palle. Il Mac-Mahon comanda
l’assalto: è cosa di pochi istanti: l’eco del grido — Viva l’Imperatore!
— non è spento ancora, e già sul ridotto, coronato dall’artiglieria
della guardia, sventola il vessillo degli Algerini.
Il Mac-Mahon s’arresta per dar tempo alla guardia imperiale di giungere
sulla sua linea.
All’improvviso, gli Austriaci, come incitati da sovrumana forza alle
spalle, levando altissime grida, si precipitano con irresistibile impeto
sui bersaglieri algerini, e li cacciano indietro. Gli Algerini,
rafforzati da due battaglioni di fanteria, assaltano alla lor volta gli
Austriaci; ma incontrato un gagliardo rincalzo, son costretti per la
seconda volta a piegare. Che è questo?
Gli Austriaci combattevano sotto gli occhi del loro giovane imperatore.
Allora il Mac-Mahon prepara all’assalto tutto il corpo d’esercito. Il
momento è decisivo: gli Austriaci fanno l’ultimo sforzo sul centro, ed è
sforzo disperato; i due Imperatori, presenti e vicini, si sentono senza
vedersi, nel raddoppiato furore delle parti; là sta per sonare la
sentenza della grande giornata. Il segnale è dato, i Francesi si
scagliano su pel monte; feroce l’assalto, feroce la resistenza; le
artiglierie infuriano con orribile fracasso; il sangue corre; muore il
colonnello Douay, muore il colonnello Laure, cadono l’un sull’altro i
soldati; ma omai volgerà alla fine questo orrendo macello: gli
Austriaci, incalzati dalla furia delle baionette, dilaniati dalle
batterie della guardia, indietreggiano: la fortuna di Francia prevale.
In quel mentre l’11º reggimento degli usseri austriaci, respinto da uno
squadrone di cacciatori della guardia, bersagliato dall’11º battaglione
cacciatori, fulminato di fianco da due batterie, si riduce, miserando
avanzo, tra i suoi.
Gli Austriaci si ritirano nel villaggio di Cavriana, ridotto
dall’artiglieria francese in un mucchio di rovine.
Tutto ciò accadendo al centro, un sì spaventoso fragore rimbomba alla
destra del 4º corpo, che pare ne tremi il cielo e la terra. Sono
quarantadue cannoni francesi diretti dal generale Soleille, che traggono
di concerto sul 3º e sul 9º corpo nemico, alternativamente ributtati e
rincalzanti. Arde la battaglia, con mutabile risultamento intorno a
Casanova e Rebecco. Una brigata di cavalleria della divisione
Partouneaux vola in soccorso del generale Vinoy. Arriva da Medole il
generale Trochu colla brigata Bataille, la dispone in colonna d’assalto,
investe e ricaccia gli Austriaci fino alle prime case di Guidizzolo.
Ricevuto là dalle scariche improvvise di schiere profonde e compatte, si
ripiega su Baita. Giunge in quel punto col nerbo del 3º corpo il
maresciallo Canrobert, fatto sicuro, per l’ora tarda, d’ogni sorpresa da
Mantova. A quest’annuncio il generale Niel tenta un ultimo colpo: lancia
le truppe della divisione Trochu fra Casanova e la Baita, con una
batteria d’artiglieria.
In quel tempo, l’imperatore Francesco Giuseppe, visto squarciata nel
centro la sua linea di battaglia, per frenare il corso alla fortuna che
precipita, tenta un estremo sforzo a sinistra, contro i corpi del Niel e
del Canrobert, mandando tutto intero il suo Iº esercito all’assalto. Le
riserve del 3º, del 9º e dell’11º s’avanzano per sostenere le loro
malconce divisioni. Un sanguinosissimo combattimento comincia. Il
principe Windisch-Graetz si lancia avanti tra i primi, alla testa d’un
reggimento della brigata Greschke; si getta con impeto verso Casanova,
respinge i bersaglieri francesi che ne contrastano le vicinanze; le
colonne lo seguono mirabilmente ardite e ordinate; ma ecco, una palla
gli colpisce il cavallo, due altre feriscono lui e lo rovesciano di
sella, le file si disordinano, il 1º reggimento dei lancieri francesi,
condotto dal generale Labareyre, si avventa alla carica, e sgombra il
terreno intorno a Casanova; le fanterie ripigliano animo e si caccian
sotto; gli Austriaci voltan le spalle, e la bandiera del loro 35º
reggimento cade nelle mani del 76º francese. È questo uno dei più duri
incontri della giornata, e a più largo prezzo di sangue pagati: quattro
colonnelli, il Lacroix, il Capin, il Maleville, il Jourjon son rimasti
cadaveri sul campo.
Mentre qui ferveva più viva la battaglia, tre grandiose cariche di
cavalleria si succedevano sulla sinistra del 4º corpo. Il generale
Desvaux, viste da lontano alcune colonne austriache dirette verso
Guidizzolo, lanciava prima ad assalirle tutto il 5º reggimento usseri e
il 1º cacciatori di Africa della brigata Planhol, poi due volte il 3º
cacciatori d’Africa della brigata Forton. Il terreno folto d’alberi e
intersecato da fossi, avendo ritardata la prima carica, le colonne
austriache avevano avuto tempo per formare i quadrati; onde ai
reggimenti successivamente sopraggiunti non era riuscito di
scompigliarle. Ma avevano loro impedito di andare a ingrossare l’assalto
di Casanova, e agevolato così la vittoria del 4º corpo francese.
Sono le quattro. La battaglia, sull’ala destra francese, volge al suo
fine.
Il generale Trochu, colla brigata Bataille, mandato dal generale Niel
verso Guidizzolo subito dopo l’arrivo sul campo del maresciallo
Canrobert, incontra gli Austriaci sulle tre strade che sboccano dal
villaggio; li assalta alla baionetta, li ricaccia di fronte fino a un
miglio dalle prime case, li respinge dalla parte di Baita, s’impossessa
di due cannoni, e prende un grosso numero di prigionieri. Il colonnello
Broutta è mortalmente ferito di mitraglia.
Così termina la battaglia sull’ala destra.
Al centro, l’Austriaco è stato cacciato dalla guardia imperiale,
d’altura in altura, fino a Cavriana, e nel villaggio stesso di Cavriana,
dov’è il quartiere generale dell’Imperatore nemico, penetrarono i
volteggiatori della guardia e i bersaglieri algerini. Il Decaen e il La
Motterouge hanno respinto gli Austriaci da tutte le case della pianura.
L’imperatore Francesco Giuseppe dà l’ordine della ritirata a tutta la
linea.
In quel tempo dalla parte di Madonna della Scoperta il 2º reggimento
granatieri, sopraffatto dalle crescenti forze degli Austriaci, s’era
ridotto disordinatamente fuori di tiro, per riannodarsi e ritornare sul
campo. Tutta la brigata Savoia era entrata in linea e si manteneva salda
sui siti occupati, respingendo aspramente gli assalti dei nemici.
Alle due, nel campo dell’estrema sinistra, dura ancora l’incertezza di
prima. La 3ª divisione è come abbandonata in una solitudine trista. I
soldati, stracchi e muti, interrogano coll’occhio ansioso gli ufficiali,
cupi anch’essi, che si sentono ancora sonar nel cuore gli ultimi lamenti
dei compagni caduti. Il generale Mollard, torbido e accorato, erra pel
campo, alla ventura, chiuso nei suoi pensieri. Che sarà seguìto? Che fa
la 5ª divisione? E le altre? E i Francesi? Vincono? Perdono? Nessun
aiuto, nessun ordine, nessun avviso; la battaglia tace; dall’una e
dall’altra parte si posa sulle armi; e un vasto campo di cadaveri si
stende frammezzo, tristamente deserto, e tacito d’un silenzio terribile,
che par che attenda e invochi e accusi il sangue profuso invano, e le
vite spente senza gloria. Guai se in quella dolorosa aspettazione,
dinanzi a quel funesto spettacolo, nell’animo dei soldati sottentra al
furore l’orrore, lo sgomento della rotta al desiderio impaziente della
riscossa, e intiepidito l’ardore delle vene, la stremezza dei corpi
prevale! Ogni momento è un pericolo. — Ritirarsi? — si domanda Mollard;
qualcuno glielo consiglia. — Oh no! Mai! — Il suo sangue di soldato si
rimescola. — Dopo tre vittorie francesi, e forse mentre si calcan sul
capo gli allori della quarta! Dopo il trionfo di Milano, che non è
ancora stato legittimato da un trionfo sul campo! Dopo aver perduto su
quei colli il fiore dei nostri vecchi reggimenti! Dopo che fu sparso il
sangue di Arnaldi e spezzato il cuore di Berretta! E Goito, dunque? E
Pastrengo? E Santa Lucia? E Novara? Son nomi morti codesti, o non son
altro che nomi? Ritirarsi, no! Gli Italiani per provare il loro diritto
di vivere hanno da mostrare al mondo che sanno morire. — Sarebbe la
prima volta, esclama il Mollard con quel suo accento vibrato che ogni
parola sembra un colpo di spada, la prima volta che mi dovrei ritirare!
Questo mi fa andare in bestia! — E scopertosi il capo, stropiccia il
berretto colle mani convulse.
All’improvviso, da una parte del campo si sente una voce concitata: — Il
generale Mollard! — È un uffiziale d’ordinanza del Re, arrivato di
grande carriera, con una notizia sul volto. Il Mollard accorre. —
Generale! — quegli esclama; — Sua Maestà le fa sapere che i Francesi
vincono a Solferino, e ch’egli vuole che i suoi soldati vincano qui. La
5ª divisione è richiamata al campo. La brigata Aosta, un battaglione di
bersaglieri e una batteria d’artiglieria hanno ricevuto l’ordine di
venirsi a porre ai suoi comandi.
Un lampo di gioia passò sul volto di Mollard.
— Signori! — egli esclama volgendosi verso gli ufficiali del suo seguito
con piglio risoluto; — il Re vuole che si conquistino le alture, e si
conquisteranno.
E poi all’ufficiale d’ordinanza: — Vada a dire al Re che i suoi ordini
saranno eseguiti.
L’uffiziale parte di carriera.
La notizia si è propagata pel campo colla rapidità del pensiero, e il
campo ha mutato aspetto: gli ufficiali si cercano, si abbracciano e si
salutano da lungi; i soldati rialzano il guardo radiante alle bandiere;
in ogni parte è un sonar di fiere parole, un agitarsi impaziente, un
dare e un ricevere frettoloso di comandi, un partire e un accorrere
precipitoso di cavalieri, un rimescolìo, un ribollimento; fame, sete,
arsura, stanchezza, tutto è svanito; i soldati si risentono freschi e
gagliardi, come la mattina, all’uscir dei campi; un’altra aurora, più
splendida, sorge; tutti gli sguardi si volgono alle alture; il nemico è
grosso, le artiglierie fitte, i siti fortissimi; ma bisogna prenderli, e
si prenderanno, è ordine del Re.
Sono le quattro. Un’altra lieta voce corre pel campo. Arriva il generale
Cerale colla brigata Aosta, la brava brigata di Goito e di Santa Lucia,
il 1º battaglione bersaglieri, la 15ª batteria. Vengono, come a una
festa, baldanzosi e ridenti. — Viva la brigata Aosta! — si grida nel
campo. I reggimenti sfilano, ufficiali e soldati si salutano, le due
illustri bandiere, lacere e superbe, passano sventolando in mezzo alle
schiere riverenti.
Il generale Mollard dispone l’ordine dell’assalto: la brigata Aosta a
sinistra, la brigata Pinerolo a destra si slancieranno, convergendo, tra
la Contracania e San Martino; il 7º reggimento della brigata Cuneo terrà
dietro alla brigata Aosta; l’8º, fermo, guarderà il campo dal lato di
Peschiera.
Il cielo, fino allora limpidissimo, si rannuvola improvvisamente.
Un battaglione del 14º, una compagnia di bersaglieri e due pezzi
d’artiglieria si recheranno nascostamente a San Donnino, e al primo
colpo di cannone partito dal grosso della divisione, s’avanzeranno a
minacciare il nemico sulla sua sinistra. La 4ª batteria sosterrà la
brigata Pinerolo sulla destra, la 5ª sulla sinistra, la 6ª alla stazione
di Pozzolengo, la 15ª a destra della 6ª, i cavalleggieri di Monferrato
all’estrema destra.
Le nuvole dense e nerissime coprono tutta la faccia del cielo, e il
tuono rumoreggia.
Le truppe si moveranno tutte insieme, ordinate e silenziose; non un
colpo di cannone, non un colpo di fucile prima che sian giunte al punto
d’assalire alla baionetta. Sarà dato il segnale. Allora tutte le
artiglierie, di concerto, fulmineranno, suoneranno tutte le bande,
batteranno la carica tutti i tamburi, e sopra il fracasso dei tamburi,
delle bande, dei cannoni, tuonerà d’ogni parte un grido formidabile:
Viva il Re! e dieci mila baionette si scaglieranno sul nemico, e Dio sia
coll’Italia. La 5ª divisione non può tardare a giungere; sono le cinque,
tutto è disposto, giù gli zaini, e avanti.
Le colonne partono per recarsi sul luogo di dove si slancieranno
all’assalto.
In quel momento il tuono scoppia con immenso fragore: un temporale
spaventevole, misto di grassa grandine e di pioggia dirotta, prorompe;
si leva un furiosissimo vento; fitti e vividi lampi balenano, e in pochi
minuti il vasto campo di battaglia è tutto rigagnoli e fango.
Le colonne si fermano.
Appena il temporale ha rimesso un po’ della sua prima furia, ecco
arrivare il generale Cucchiari, per la strada ferrata, colla brigata
Casale, e il colonnello Cadorna per la strada di Desenzano, colla
brigata Acqui. Tutta la 5ª divisione è sul campo. Il Mollard corre a
concertarsi con Cucchiari. La 5ª divisione romperà la destra del nemico,
e oltrepassandola, gli minaccerà la via di ritirata. La brigata Casale,
il 18º fanteria, l’8º bersaglieri, due batterie e uno squadrone di
Saluzzo anderanno all’assalto. Il 17º, il 5º bersaglieri, una batteria
restano sulla strada ferrata a guardar la parte di Peschiera. Ora è
tutto a segno, avanti, all’ultima prova.
Tutta la linea si muove.
La brigata Pinerolo s’avanza verso la Contracania. Il 14º è in prima
linea, col colonnello Balegno alla testa; il 13º lo segue; la 4ª e la 5ª
batteria lo proteggono. Tuona il primo colpo di cannone; il Balegno
manda il grido dell’assalto; il reggimento gli fa eco e si slancia
impetuoso, spaventevole, bello; ma, Dio! s’è slanciato troppo presto, le
scariche dei battaglioni austriaci e delle artiglierie lo straziano,
prima ch’ei sia arrivato lassù sarà dimezzato; il 13º, impedito dal
terreno, è rimasto addietro, lo ha perduto di vista, non lo può più
sostenere; il colonnello Balegno è ferito a morte, il reggimento
inferocito continua a salire, gli Austriaci raddoppiano il fuoco, le
file diradano miseramente, non si può più proseguire, no, non si faccia
spreco di vite, indietro, valorosi! Il reggimento dà indietro, riscende
ai piedi delle alture, si arresta alla casa Armia, si riordina: quanto
scemato! Il Balegno muore. — «Pazienza, — egli dice — muoio, ma l’ho
condotto io al fuoco il mio 14º!»
Avanti il 13º, alla riscossa. Lo comanda il bravo colonnello Caminati. —
Soldati! — egli grida colla sua voce poderosa: — ricordatevi di
mantenere la promessa che mi avete fatta! — Viva il Re! Viva il Re! —
risponde clamorosamente il 13º, e si slancia in furia; fulminato,
affretta la corsa; è alla Colombara, l’assalta, la circonda di cadaveri,
guadagna il terreno a palmo a palmo a colpi di baionetta. Il Caminati
cade. — Avanti, figliuoli! Difendete la bandiera! — e muore. Cresce,
alla vista di quel sangue, l’animo e l’impeto dei soldati; la Colombara
è presa. Ma una colonna austriaca s’avanza concitatamente sulla destra;
il nemico, ingrossato, rincalza di fronte; il 13º si difende per
mezz’ora, accanito; stretto da ogni parte, indietreggia, cede i siti
conquistati, ridiscende fino a casa Fenile. E due reggimenti respinti,
scellerata fortuna!
Le artiglierie tuonano intanto su tutta la linea. La brigata Aosta,
seguita dal 7º reggimento, respinge il nemico presso casa Raimondi, e
s’avanza coi bersaglieri a sinistra; il 5º reggimento lo scaccia da
Casanova, da Armia, da Monata; il 6º conquista le case Chiodina di sopra
e Chiodina di sotto. Ma qui comincia ad avversarci la sorte. Il 6º
assalta la Contracania; gli Austriaci, forti di numero e di sito, lo
ributtano e lo incalzano; tutta la brigata Aosta, involta nel movimento,
ripiega fino alla Monata e alle case vicine; assalita sulla sinistra, si
difende, perdendo terreno. Muore il maggiore Bosio del 6º reggimento, il
general Cerale è ferito, ferito il colonnello Vialardi; ferito il
colonnello Plochiù, ferito il maggiore Polastri, ferito il maggiore
Botteri, e cento altri valorosi.
La 5ª divisione combatte con varia fortuna contro San Martino, e dai due
lati della strada di Pozzolengo; si impadronisce delle case Chiodine e
della casa Plandro; il generale Cucchiari, il generale Pettinengo, il
generale Gozzani, ardenti di coraggio e d’entusiasmo, preparano i
soldati ad assalir le Casette e le alture della Chiesa; ma il nemico è
grosso e tenace, e l’assalto, pur troppo, qui come altrove, con molto
valore e molto spargimento di sangue tentato, riuscirà vano.
E anche la colonna di diversione mandata a San Donnino è stata respinta
dalle forze soverchianti della sinistra austriaca, e ha dovuto desistere
dalle offese.
Dunque da ogni parte s’ha la fortuna nemica; dunque è fatale che il
numero prevalga alla virtù, alla giustizia, all’amor di patria; che non
si possa strappare dalla nostra bandiera il velo nero di Novara; che
questo giorno solenne, da tanti anni sospirato, preparato, pregioito,
invece di rifarci delle antiche sventure, ce ne aggravi sul capo una di
più; che l’ira, da sì lungo tempo e così amaramente compressa in fondo
al cuore, ci resti soffocata e ci consumi; che sia delusa la speranza
d’Italia, la fiducia della Francia, l’aspettazione dell’Europa; che si
debba arrossire in faccia a coloro che son venuti a spargere il loro
sangue per noi, e mordere la polvere mentr’essi cantano vittoria?
Sono le sette.
Un’estrema prova. Un assalto generale su tutta la fronte; otto
reggimenti in linea; tutta la brigata Aosta, tutta la brigata Casale,
tutta la brigata Aqui, il 7º, il 14º, tre battaglioni bersaglieri, venti
cannoni tra la Perentonella e la Monata, tutta l’artiglieria della 5ª
divisione in batteria.
Avanti!
Oh per l’amore d’Italia, in nome della libertà e della giustizia, in
nome dei nostri morti, in nome di tutto quello che s’è patito e di tutto
quello che s’è amato, vincete! L’ultimo raggio del sole vi saluti
vittoriosi in vetta a quei colli; non tramonti con esso la gloria della
nostra bandiera; quest’è l’istante supremo: coraggio, fratelli, e voi,
madri d’Italia, pregate.
Tutta la linea si muove; le artiglierie prorompono tutte assieme in una
scarica formidabile che echeggia come scoppio di cento folgori fino ai
confini del campo; le batterie della 5ª divisione infuriano di fronte, i
venti cannoni della Monata di fianco; i tamburi battono la carica,
squillano le trombe dei bersaglieri, i generali e i colonnelli agitano
le sciabole alla testa delle colonne, sventolano le vecchie bandiere dei
reggimenti, diecimila baionette si spianano, diecimila altissime grida
s’innalzano, lo spazio interposto scompare. Il nemico si turba,
indietreggia, volta le spalle, è fugato.
Un altro fragoroso grido s’innalza da tutte le alture: — Viva il Re!
Subito, colla rapidità del lampo, trenta pezzi d’artiglierie
sull’altopiano a fulminare l’opposto pendìo che gli Austriaci tentano di
risalire, i battaglioni si stendono e li tempestano d’un gagliardo fuoco
di fila, i cavalleggieri di Monferrato li flagellano di fronte e di
fianco, un ultimo fuoco di mitraglia, è finito.
Dopo quattordici ore!
La vittoria era stata agevolata dal general Fanti. La 2ª divisione,
ch’era la sua, partita da San Paolo di Lonato alla volta di Solferino,
aveva ricevuto l’ordine dal Re di mandare la brigata Piemonte a Madonna
della Scoperta e la brigata Aosta al generale Mollard. Quando la brigata
Piemonte arrivava al campo del generale Durando, gli Austriaci, per
ordine dell’Imperatore, si ritiravano. Allora il Re affidava codesta
brigata e la 1ª divisione al generale La Marmora, ordinandogli di
correre in soccorso dell’estrema sinistra. Arrivati colà, il generale
Durando colla 1ª divisione, cacciava il nemico da monte Maino; il
general Fanti colla brigata Piemonte lo respingeva fino a Pozzolengo, e
collocata una batteria sul monte San Giovanni tempestava di granate le
spalle degli Austriaci combattenti a San Martino.
È scesa la notte; l’esercito austriaco si affolla disordinatamente sopra
i ponti del Mincio, e ripassa.
L’imperatore dei Francesi pianta il suo quartiere generale a Cavriana e
va a riposare nella stessa casa e nella stessa stanza dove riposava la
notte innanzi l’imperatore degli Austriaci.
Il vastissimo campo di battaglia tace. I villaggi e le case risonanti
poc’anzi di urli feroci e di colpi, risonano ora di voci lamentevoli e
fioche, di parole di dolore, di preghiera, di conforto, di pace. Da casa
Marino a Cavriana, da Medole a San Martino, cinque mila cadaveri e
ventitre mila feriti sono sparsi; le colline e le valli miseramente
insanguinate, i campi devastati e pesti, diroccate le case, e per tutto
armi disperse, cannoni atterrati, e cavalli giacenti, e tracce funeste
di desolazione e di morte.
I due eserciti riposano.
Qua e là scintillano i primi fuochi del bivacco, illuminando all’intorno
generali e soldati, vinti e vincitori, stesi per terra, chi ferito e chi
dormente, gli uni accanto agli altri, alla rinfusa, come eguali ed
amici.
Ed erano eguali, sì, generali e soldati, nella fortissima virtù dei
sacrificii, nella generosa devozione ai loro Principi e nel divino amore
della patria; amici sì, vincitori e vinti, nella sublime religion del
valore, d’ambo le parti, in quel giorno memorabile, splendidamente
glorificata col sangue.
Sono trascorsi dieci anni, o caduti dei tre eserciti; e come quel giorno
giacevano confusi i vostri cadaveri sul campo, oggi riposano le vostre
ossa in una tomba comune, sulla quale sventolano le bandiere dei tre
popoli a significare che siete tutti egualmente amati, venerati e
pianti.
L’INAUGURAZIONE DEGLI OSSARI DI SAN MARTINO E SOLFERINO.
[Pozzolengo, 24 giugno 1870, sera.]
Nello spazio di trenta giorni gl’Italiani hanno celebrato l’anniversario
di due memorabili battaglie nazionali: — il 29 maggio, Curtatone e
Montanara; — il 24 giugno, San Martino e Solferino; — e le hanno
celebrate nella forma più nobile e più solenne: — onorando la memoria
dei morti.
Scrivo da Pozzolengo, come scrissi da Mantova, coll’anima ancora tutta
piena della religiosa maestà della cerimonia; ma quanto diversamente
commosso! Alla mestizia non divisibile dal cuore in un giorno di
commemorazione di morti, si univa sì, a Mantova, un sentimento di
orgoglio, pensando che i vinti Italiani erano usciti da quella battaglia
non meno gloriosi che gli Austriaci vincitori. Ma era pur tristo il
pensare che quel valore e quel sangue non eran bastati a risparmiare
all’Italia altri dieci anni di servitù, di carceri, di patiboli, di
proscrizioni; che quello stesso terreno bagnato dal sangue dei nostri
soldati era rimasto in poter dei nemici, senza un segno che serbasse la
memoria dei caduti e ne raccomandasse il compianto; che dopo quella
sventura, più d’una volta la bandiera italiana aveva ancora dovuto
coprirsi d’un velo di lutto, e l’esercito seminar vanamente di cadaveri
altri campi. Ma oggi il ricordo dei morti è uno con quello d’una grande
vittoria; da questi colli ove scrivo, l’Italia gettò al mondo il suo
grido più possente di libertà; qui ella creò una di quelle parole — San
Martino, — che rimangono nel cuore dei popoli e degli eserciti,
ispiratrici di coraggio ne’ pericoli e di conforto nelle sventure, fino
alle generazioni più tarde; qui per la prima volta il nemico sentì
veramente nella ostinazione disperata degli assalti che con quei
quaranta battaglioni saliva su pei colli contesi l’Italia, e il suo Re.
E vi si aggiunge il particolare significato dato alla cerimonia dalla
presenza sul campo di battaglia dei rappresentanti dei tre popoli che
pochi anni sono vi hanno combattuto una delle più grosse e più
sanguinose battaglie moderne. È l’unanimità delle nazioni nel culto
dell’amor di patria, nella venerazione del valore e nella pietà della
sventura; sono i popoli stessi che si stringono la mano sui sepolcri dei
loro figli, per dirsi che la guerra non ha lasciato traccia d’odii o di
rancori; che, cessata la cagione del dissidio, all’ira sottentra
l’affetto e nel nemico sorge l’amico; che gli orgogli nazionali si
fondono e scompaiono in un sentimento umanitario sovrano che stringe
popoli, monarchi ed eserciti nell’amplesso fecondo della pace, sotto la
grande bandiera della civiltà.
Questa mattina — ventiquattro giugno milleottocentosettanta — il cielo
era sereno e splendido come dodici anni or sono, quando risonava delle
grida dei primi assalti e del rimbombo delle prime cannonate.
Arrivarono alla stazione di Pozzolengo, verso le otto, i due treni della
strada ferrata ch’eran partiti la notte da Milano e da Venezia. Scesero
dal primo il principe Umberto e il principe di Carignano, dal secondo i
rappresentanti della Camera e del Senato. V’era il ministro della guerra
e il ministro d’agricoltura e commercio, i prefetti di Mantova, di
Brescia, di Verona, di Padova di Vicenza; i sindaci di quasi tutte le
città del Veneto e della Lombardia; molti generali dell’esercito e della
guardia nazionale, ufficiali di tutte le armi, pubblicisti italiani e
stranieri, e una folla d’altra gente, invitata alla festa dal Comitato
della Società di Solferino e San Martino.
La Francia era rappresentata dal cavaliere de la Haye, luogotenente
colonnello di stato maggiore dell’esercito francese, accompagnato dal
visconte di Larochefoucault e dal visconte du Ponseau. L’Austria era
rappresentata dal cavaliere Alessio de Pollak, luogotenente colonnello
di stato maggiore dell’esercito austriaco.
Gran gente era affollata intorno alla stazione. Appena i Principi
comparvero, s’udirono vivissimi applausi, con suoni di bande e colpi di
cannone. Dopo i Principi, la folla cercò subito con gran desiderio i due
ufficiali stranieri. L’ufficiale austriaco vestiva una divisa
completamente verde, con un cappello a due punte come quello dei nostri
generali, e un pennacchio come gli uffiziali dei nostri bersaglieri. È
un uomo alto, sottile, di lineamenti delicati, di aspetto simpatico, di
modi cortesi. L’ufficiale francese, una robusta e fiera figura di
soldato. Fin dai primi momenti la gente spiegò una particolare simpatia
per l’ufficiale austriaco, ed era ben naturale. Egli rappresentava
l’esercito che in quella giornata era stato battuto; fra tutti i
convenuti alla festa egli era il solo cui la vista di que’ luoghi, la
arrestare i soldati alla strada ferrata: non riesce; tenta di arrestarli
a mezza strada per Rivoltella, e non gli vien fatto neppure: li arresta
e li riordina finalmente presso quella città.
A quello spettacolo, il generale Mollard, stordito, angosciato,
fremente, non sa che risolvere. Attaccherà il nemico? La brigata Cuneo è
decimata, spossata, rifinita dalla sete e dal digiuno; e la brigata
Pinerolo, scarsa di fronte alle forze poderose degli Austriaci,
verserebbe invano il suo sangue. Si ritirerà anch’egli? Il nemico si
rovescierà allora sulla sinistra francese. Il Mollard ha deciso: rimarrà
fermo ai piedi delle alture, in aspetto minaccioso; terrà in rispetto il
nemico, pésto ancora e sanguinoso delle zuffe ostinate della mattina;
aspetterà colle armi in pugno il momento propizio a ritentar la fortuna.
La divisione Fanti, rimasta fino alle 11 a San Paolo di Lonato, s’è
mossa alla volta di Solferino, per ordine di Napoleone, a fine
d’appoggiare l’assalto del 1º corpo.
È un’ora e mezzo. Napoleone ordina che si prosegua a dar dentro nel
mezzo della fronte nemica. La brigata Maneque della guardia ributta gli
Austriaci dalle alture della Casa del Monte. La divisione Bazaine,
riordinata in furia, si getta alle spalle del 5º corpo, che si ritira
verso Pozzolengo. La divisione Forey va oltre, in forma di sostegno,
dietro la guardia imperiale. La divisione Ladmirault, decimata e
sfinita, si riposa nel villaggio di Solferino.
In questo mezzo il maresciallo Mac-Mahon, congiunto alla guardia, si
volge contro San Cassiano. Due batterie della guardia preparano
l’assalto cannoneggiando con fierissima foga il villaggio. Il Mac-Mahon
dà il segnale: una colonna di bersaglieri algerini si getta
impetuosamente sulla sinistra, il 15º fanteria sulla destra, segue una
zuffa breve, ma fiera, e San Cassiano viene in poter dei Francesi. Al di
là di San Cassiano s’innalza il monte Fontana, erto e difficile, fatto a
modo d’una scalinata d’alture, e tenuto da quattro reggimenti austriaci,
preparati a forte difesa. Sul primo rialzo del monte sorge una specie di
ridotto, da cui vien giù una pioggia di palle. Il Mac-Mahon comanda
l’assalto: è cosa di pochi istanti: l’eco del grido — Viva l’Imperatore!
— non è spento ancora, e già sul ridotto, coronato dall’artiglieria
della guardia, sventola il vessillo degli Algerini.
Il Mac-Mahon s’arresta per dar tempo alla guardia imperiale di giungere
sulla sua linea.
All’improvviso, gli Austriaci, come incitati da sovrumana forza alle
spalle, levando altissime grida, si precipitano con irresistibile impeto
sui bersaglieri algerini, e li cacciano indietro. Gli Algerini,
rafforzati da due battaglioni di fanteria, assaltano alla lor volta gli
Austriaci; ma incontrato un gagliardo rincalzo, son costretti per la
seconda volta a piegare. Che è questo?
Gli Austriaci combattevano sotto gli occhi del loro giovane imperatore.
Allora il Mac-Mahon prepara all’assalto tutto il corpo d’esercito. Il
momento è decisivo: gli Austriaci fanno l’ultimo sforzo sul centro, ed è
sforzo disperato; i due Imperatori, presenti e vicini, si sentono senza
vedersi, nel raddoppiato furore delle parti; là sta per sonare la
sentenza della grande giornata. Il segnale è dato, i Francesi si
scagliano su pel monte; feroce l’assalto, feroce la resistenza; le
artiglierie infuriano con orribile fracasso; il sangue corre; muore il
colonnello Douay, muore il colonnello Laure, cadono l’un sull’altro i
soldati; ma omai volgerà alla fine questo orrendo macello: gli
Austriaci, incalzati dalla furia delle baionette, dilaniati dalle
batterie della guardia, indietreggiano: la fortuna di Francia prevale.
In quel mentre l’11º reggimento degli usseri austriaci, respinto da uno
squadrone di cacciatori della guardia, bersagliato dall’11º battaglione
cacciatori, fulminato di fianco da due batterie, si riduce, miserando
avanzo, tra i suoi.
Gli Austriaci si ritirano nel villaggio di Cavriana, ridotto
dall’artiglieria francese in un mucchio di rovine.
Tutto ciò accadendo al centro, un sì spaventoso fragore rimbomba alla
destra del 4º corpo, che pare ne tremi il cielo e la terra. Sono
quarantadue cannoni francesi diretti dal generale Soleille, che traggono
di concerto sul 3º e sul 9º corpo nemico, alternativamente ributtati e
rincalzanti. Arde la battaglia, con mutabile risultamento intorno a
Casanova e Rebecco. Una brigata di cavalleria della divisione
Partouneaux vola in soccorso del generale Vinoy. Arriva da Medole il
generale Trochu colla brigata Bataille, la dispone in colonna d’assalto,
investe e ricaccia gli Austriaci fino alle prime case di Guidizzolo.
Ricevuto là dalle scariche improvvise di schiere profonde e compatte, si
ripiega su Baita. Giunge in quel punto col nerbo del 3º corpo il
maresciallo Canrobert, fatto sicuro, per l’ora tarda, d’ogni sorpresa da
Mantova. A quest’annuncio il generale Niel tenta un ultimo colpo: lancia
le truppe della divisione Trochu fra Casanova e la Baita, con una
batteria d’artiglieria.
In quel tempo, l’imperatore Francesco Giuseppe, visto squarciata nel
centro la sua linea di battaglia, per frenare il corso alla fortuna che
precipita, tenta un estremo sforzo a sinistra, contro i corpi del Niel e
del Canrobert, mandando tutto intero il suo Iº esercito all’assalto. Le
riserve del 3º, del 9º e dell’11º s’avanzano per sostenere le loro
malconce divisioni. Un sanguinosissimo combattimento comincia. Il
principe Windisch-Graetz si lancia avanti tra i primi, alla testa d’un
reggimento della brigata Greschke; si getta con impeto verso Casanova,
respinge i bersaglieri francesi che ne contrastano le vicinanze; le
colonne lo seguono mirabilmente ardite e ordinate; ma ecco, una palla
gli colpisce il cavallo, due altre feriscono lui e lo rovesciano di
sella, le file si disordinano, il 1º reggimento dei lancieri francesi,
condotto dal generale Labareyre, si avventa alla carica, e sgombra il
terreno intorno a Casanova; le fanterie ripigliano animo e si caccian
sotto; gli Austriaci voltan le spalle, e la bandiera del loro 35º
reggimento cade nelle mani del 76º francese. È questo uno dei più duri
incontri della giornata, e a più largo prezzo di sangue pagati: quattro
colonnelli, il Lacroix, il Capin, il Maleville, il Jourjon son rimasti
cadaveri sul campo.
Mentre qui ferveva più viva la battaglia, tre grandiose cariche di
cavalleria si succedevano sulla sinistra del 4º corpo. Il generale
Desvaux, viste da lontano alcune colonne austriache dirette verso
Guidizzolo, lanciava prima ad assalirle tutto il 5º reggimento usseri e
il 1º cacciatori di Africa della brigata Planhol, poi due volte il 3º
cacciatori d’Africa della brigata Forton. Il terreno folto d’alberi e
intersecato da fossi, avendo ritardata la prima carica, le colonne
austriache avevano avuto tempo per formare i quadrati; onde ai
reggimenti successivamente sopraggiunti non era riuscito di
scompigliarle. Ma avevano loro impedito di andare a ingrossare l’assalto
di Casanova, e agevolato così la vittoria del 4º corpo francese.
Sono le quattro. La battaglia, sull’ala destra francese, volge al suo
fine.
Il generale Trochu, colla brigata Bataille, mandato dal generale Niel
verso Guidizzolo subito dopo l’arrivo sul campo del maresciallo
Canrobert, incontra gli Austriaci sulle tre strade che sboccano dal
villaggio; li assalta alla baionetta, li ricaccia di fronte fino a un
miglio dalle prime case, li respinge dalla parte di Baita, s’impossessa
di due cannoni, e prende un grosso numero di prigionieri. Il colonnello
Broutta è mortalmente ferito di mitraglia.
Così termina la battaglia sull’ala destra.
Al centro, l’Austriaco è stato cacciato dalla guardia imperiale,
d’altura in altura, fino a Cavriana, e nel villaggio stesso di Cavriana,
dov’è il quartiere generale dell’Imperatore nemico, penetrarono i
volteggiatori della guardia e i bersaglieri algerini. Il Decaen e il La
Motterouge hanno respinto gli Austriaci da tutte le case della pianura.
L’imperatore Francesco Giuseppe dà l’ordine della ritirata a tutta la
linea.
In quel tempo dalla parte di Madonna della Scoperta il 2º reggimento
granatieri, sopraffatto dalle crescenti forze degli Austriaci, s’era
ridotto disordinatamente fuori di tiro, per riannodarsi e ritornare sul
campo. Tutta la brigata Savoia era entrata in linea e si manteneva salda
sui siti occupati, respingendo aspramente gli assalti dei nemici.
Alle due, nel campo dell’estrema sinistra, dura ancora l’incertezza di
prima. La 3ª divisione è come abbandonata in una solitudine trista. I
soldati, stracchi e muti, interrogano coll’occhio ansioso gli ufficiali,
cupi anch’essi, che si sentono ancora sonar nel cuore gli ultimi lamenti
dei compagni caduti. Il generale Mollard, torbido e accorato, erra pel
campo, alla ventura, chiuso nei suoi pensieri. Che sarà seguìto? Che fa
la 5ª divisione? E le altre? E i Francesi? Vincono? Perdono? Nessun
aiuto, nessun ordine, nessun avviso; la battaglia tace; dall’una e
dall’altra parte si posa sulle armi; e un vasto campo di cadaveri si
stende frammezzo, tristamente deserto, e tacito d’un silenzio terribile,
che par che attenda e invochi e accusi il sangue profuso invano, e le
vite spente senza gloria. Guai se in quella dolorosa aspettazione,
dinanzi a quel funesto spettacolo, nell’animo dei soldati sottentra al
furore l’orrore, lo sgomento della rotta al desiderio impaziente della
riscossa, e intiepidito l’ardore delle vene, la stremezza dei corpi
prevale! Ogni momento è un pericolo. — Ritirarsi? — si domanda Mollard;
qualcuno glielo consiglia. — Oh no! Mai! — Il suo sangue di soldato si
rimescola. — Dopo tre vittorie francesi, e forse mentre si calcan sul
capo gli allori della quarta! Dopo il trionfo di Milano, che non è
ancora stato legittimato da un trionfo sul campo! Dopo aver perduto su
quei colli il fiore dei nostri vecchi reggimenti! Dopo che fu sparso il
sangue di Arnaldi e spezzato il cuore di Berretta! E Goito, dunque? E
Pastrengo? E Santa Lucia? E Novara? Son nomi morti codesti, o non son
altro che nomi? Ritirarsi, no! Gli Italiani per provare il loro diritto
di vivere hanno da mostrare al mondo che sanno morire. — Sarebbe la
prima volta, esclama il Mollard con quel suo accento vibrato che ogni
parola sembra un colpo di spada, la prima volta che mi dovrei ritirare!
Questo mi fa andare in bestia! — E scopertosi il capo, stropiccia il
berretto colle mani convulse.
All’improvviso, da una parte del campo si sente una voce concitata: — Il
generale Mollard! — È un uffiziale d’ordinanza del Re, arrivato di
grande carriera, con una notizia sul volto. Il Mollard accorre. —
Generale! — quegli esclama; — Sua Maestà le fa sapere che i Francesi
vincono a Solferino, e ch’egli vuole che i suoi soldati vincano qui. La
5ª divisione è richiamata al campo. La brigata Aosta, un battaglione di
bersaglieri e una batteria d’artiglieria hanno ricevuto l’ordine di
venirsi a porre ai suoi comandi.
Un lampo di gioia passò sul volto di Mollard.
— Signori! — egli esclama volgendosi verso gli ufficiali del suo seguito
con piglio risoluto; — il Re vuole che si conquistino le alture, e si
conquisteranno.
E poi all’ufficiale d’ordinanza: — Vada a dire al Re che i suoi ordini
saranno eseguiti.
L’uffiziale parte di carriera.
La notizia si è propagata pel campo colla rapidità del pensiero, e il
campo ha mutato aspetto: gli ufficiali si cercano, si abbracciano e si
salutano da lungi; i soldati rialzano il guardo radiante alle bandiere;
in ogni parte è un sonar di fiere parole, un agitarsi impaziente, un
dare e un ricevere frettoloso di comandi, un partire e un accorrere
precipitoso di cavalieri, un rimescolìo, un ribollimento; fame, sete,
arsura, stanchezza, tutto è svanito; i soldati si risentono freschi e
gagliardi, come la mattina, all’uscir dei campi; un’altra aurora, più
splendida, sorge; tutti gli sguardi si volgono alle alture; il nemico è
grosso, le artiglierie fitte, i siti fortissimi; ma bisogna prenderli, e
si prenderanno, è ordine del Re.
Sono le quattro. Un’altra lieta voce corre pel campo. Arriva il generale
Cerale colla brigata Aosta, la brava brigata di Goito e di Santa Lucia,
il 1º battaglione bersaglieri, la 15ª batteria. Vengono, come a una
festa, baldanzosi e ridenti. — Viva la brigata Aosta! — si grida nel
campo. I reggimenti sfilano, ufficiali e soldati si salutano, le due
illustri bandiere, lacere e superbe, passano sventolando in mezzo alle
schiere riverenti.
Il generale Mollard dispone l’ordine dell’assalto: la brigata Aosta a
sinistra, la brigata Pinerolo a destra si slancieranno, convergendo, tra
la Contracania e San Martino; il 7º reggimento della brigata Cuneo terrà
dietro alla brigata Aosta; l’8º, fermo, guarderà il campo dal lato di
Peschiera.
Il cielo, fino allora limpidissimo, si rannuvola improvvisamente.
Un battaglione del 14º, una compagnia di bersaglieri e due pezzi
d’artiglieria si recheranno nascostamente a San Donnino, e al primo
colpo di cannone partito dal grosso della divisione, s’avanzeranno a
minacciare il nemico sulla sua sinistra. La 4ª batteria sosterrà la
brigata Pinerolo sulla destra, la 5ª sulla sinistra, la 6ª alla stazione
di Pozzolengo, la 15ª a destra della 6ª, i cavalleggieri di Monferrato
all’estrema destra.
Le nuvole dense e nerissime coprono tutta la faccia del cielo, e il
tuono rumoreggia.
Le truppe si moveranno tutte insieme, ordinate e silenziose; non un
colpo di cannone, non un colpo di fucile prima che sian giunte al punto
d’assalire alla baionetta. Sarà dato il segnale. Allora tutte le
artiglierie, di concerto, fulmineranno, suoneranno tutte le bande,
batteranno la carica tutti i tamburi, e sopra il fracasso dei tamburi,
delle bande, dei cannoni, tuonerà d’ogni parte un grido formidabile:
Viva il Re! e dieci mila baionette si scaglieranno sul nemico, e Dio sia
coll’Italia. La 5ª divisione non può tardare a giungere; sono le cinque,
tutto è disposto, giù gli zaini, e avanti.
Le colonne partono per recarsi sul luogo di dove si slancieranno
all’assalto.
In quel momento il tuono scoppia con immenso fragore: un temporale
spaventevole, misto di grassa grandine e di pioggia dirotta, prorompe;
si leva un furiosissimo vento; fitti e vividi lampi balenano, e in pochi
minuti il vasto campo di battaglia è tutto rigagnoli e fango.
Le colonne si fermano.
Appena il temporale ha rimesso un po’ della sua prima furia, ecco
arrivare il generale Cucchiari, per la strada ferrata, colla brigata
Casale, e il colonnello Cadorna per la strada di Desenzano, colla
brigata Acqui. Tutta la 5ª divisione è sul campo. Il Mollard corre a
concertarsi con Cucchiari. La 5ª divisione romperà la destra del nemico,
e oltrepassandola, gli minaccerà la via di ritirata. La brigata Casale,
il 18º fanteria, l’8º bersaglieri, due batterie e uno squadrone di
Saluzzo anderanno all’assalto. Il 17º, il 5º bersaglieri, una batteria
restano sulla strada ferrata a guardar la parte di Peschiera. Ora è
tutto a segno, avanti, all’ultima prova.
Tutta la linea si muove.
La brigata Pinerolo s’avanza verso la Contracania. Il 14º è in prima
linea, col colonnello Balegno alla testa; il 13º lo segue; la 4ª e la 5ª
batteria lo proteggono. Tuona il primo colpo di cannone; il Balegno
manda il grido dell’assalto; il reggimento gli fa eco e si slancia
impetuoso, spaventevole, bello; ma, Dio! s’è slanciato troppo presto, le
scariche dei battaglioni austriaci e delle artiglierie lo straziano,
prima ch’ei sia arrivato lassù sarà dimezzato; il 13º, impedito dal
terreno, è rimasto addietro, lo ha perduto di vista, non lo può più
sostenere; il colonnello Balegno è ferito a morte, il reggimento
inferocito continua a salire, gli Austriaci raddoppiano il fuoco, le
file diradano miseramente, non si può più proseguire, no, non si faccia
spreco di vite, indietro, valorosi! Il reggimento dà indietro, riscende
ai piedi delle alture, si arresta alla casa Armia, si riordina: quanto
scemato! Il Balegno muore. — «Pazienza, — egli dice — muoio, ma l’ho
condotto io al fuoco il mio 14º!»
Avanti il 13º, alla riscossa. Lo comanda il bravo colonnello Caminati. —
Soldati! — egli grida colla sua voce poderosa: — ricordatevi di
mantenere la promessa che mi avete fatta! — Viva il Re! Viva il Re! —
risponde clamorosamente il 13º, e si slancia in furia; fulminato,
affretta la corsa; è alla Colombara, l’assalta, la circonda di cadaveri,
guadagna il terreno a palmo a palmo a colpi di baionetta. Il Caminati
cade. — Avanti, figliuoli! Difendete la bandiera! — e muore. Cresce,
alla vista di quel sangue, l’animo e l’impeto dei soldati; la Colombara
è presa. Ma una colonna austriaca s’avanza concitatamente sulla destra;
il nemico, ingrossato, rincalza di fronte; il 13º si difende per
mezz’ora, accanito; stretto da ogni parte, indietreggia, cede i siti
conquistati, ridiscende fino a casa Fenile. E due reggimenti respinti,
scellerata fortuna!
Le artiglierie tuonano intanto su tutta la linea. La brigata Aosta,
seguita dal 7º reggimento, respinge il nemico presso casa Raimondi, e
s’avanza coi bersaglieri a sinistra; il 5º reggimento lo scaccia da
Casanova, da Armia, da Monata; il 6º conquista le case Chiodina di sopra
e Chiodina di sotto. Ma qui comincia ad avversarci la sorte. Il 6º
assalta la Contracania; gli Austriaci, forti di numero e di sito, lo
ributtano e lo incalzano; tutta la brigata Aosta, involta nel movimento,
ripiega fino alla Monata e alle case vicine; assalita sulla sinistra, si
difende, perdendo terreno. Muore il maggiore Bosio del 6º reggimento, il
general Cerale è ferito, ferito il colonnello Vialardi; ferito il
colonnello Plochiù, ferito il maggiore Polastri, ferito il maggiore
Botteri, e cento altri valorosi.
La 5ª divisione combatte con varia fortuna contro San Martino, e dai due
lati della strada di Pozzolengo; si impadronisce delle case Chiodine e
della casa Plandro; il generale Cucchiari, il generale Pettinengo, il
generale Gozzani, ardenti di coraggio e d’entusiasmo, preparano i
soldati ad assalir le Casette e le alture della Chiesa; ma il nemico è
grosso e tenace, e l’assalto, pur troppo, qui come altrove, con molto
valore e molto spargimento di sangue tentato, riuscirà vano.
E anche la colonna di diversione mandata a San Donnino è stata respinta
dalle forze soverchianti della sinistra austriaca, e ha dovuto desistere
dalle offese.
Dunque da ogni parte s’ha la fortuna nemica; dunque è fatale che il
numero prevalga alla virtù, alla giustizia, all’amor di patria; che non
si possa strappare dalla nostra bandiera il velo nero di Novara; che
questo giorno solenne, da tanti anni sospirato, preparato, pregioito,
invece di rifarci delle antiche sventure, ce ne aggravi sul capo una di
più; che l’ira, da sì lungo tempo e così amaramente compressa in fondo
al cuore, ci resti soffocata e ci consumi; che sia delusa la speranza
d’Italia, la fiducia della Francia, l’aspettazione dell’Europa; che si
debba arrossire in faccia a coloro che son venuti a spargere il loro
sangue per noi, e mordere la polvere mentr’essi cantano vittoria?
Sono le sette.
Un’estrema prova. Un assalto generale su tutta la fronte; otto
reggimenti in linea; tutta la brigata Aosta, tutta la brigata Casale,
tutta la brigata Aqui, il 7º, il 14º, tre battaglioni bersaglieri, venti
cannoni tra la Perentonella e la Monata, tutta l’artiglieria della 5ª
divisione in batteria.
Avanti!
Oh per l’amore d’Italia, in nome della libertà e della giustizia, in
nome dei nostri morti, in nome di tutto quello che s’è patito e di tutto
quello che s’è amato, vincete! L’ultimo raggio del sole vi saluti
vittoriosi in vetta a quei colli; non tramonti con esso la gloria della
nostra bandiera; quest’è l’istante supremo: coraggio, fratelli, e voi,
madri d’Italia, pregate.
Tutta la linea si muove; le artiglierie prorompono tutte assieme in una
scarica formidabile che echeggia come scoppio di cento folgori fino ai
confini del campo; le batterie della 5ª divisione infuriano di fronte, i
venti cannoni della Monata di fianco; i tamburi battono la carica,
squillano le trombe dei bersaglieri, i generali e i colonnelli agitano
le sciabole alla testa delle colonne, sventolano le vecchie bandiere dei
reggimenti, diecimila baionette si spianano, diecimila altissime grida
s’innalzano, lo spazio interposto scompare. Il nemico si turba,
indietreggia, volta le spalle, è fugato.
Un altro fragoroso grido s’innalza da tutte le alture: — Viva il Re!
Subito, colla rapidità del lampo, trenta pezzi d’artiglierie
sull’altopiano a fulminare l’opposto pendìo che gli Austriaci tentano di
risalire, i battaglioni si stendono e li tempestano d’un gagliardo fuoco
di fila, i cavalleggieri di Monferrato li flagellano di fronte e di
fianco, un ultimo fuoco di mitraglia, è finito.
Dopo quattordici ore!
La vittoria era stata agevolata dal general Fanti. La 2ª divisione,
ch’era la sua, partita da San Paolo di Lonato alla volta di Solferino,
aveva ricevuto l’ordine dal Re di mandare la brigata Piemonte a Madonna
della Scoperta e la brigata Aosta al generale Mollard. Quando la brigata
Piemonte arrivava al campo del generale Durando, gli Austriaci, per
ordine dell’Imperatore, si ritiravano. Allora il Re affidava codesta
brigata e la 1ª divisione al generale La Marmora, ordinandogli di
correre in soccorso dell’estrema sinistra. Arrivati colà, il generale
Durando colla 1ª divisione, cacciava il nemico da monte Maino; il
general Fanti colla brigata Piemonte lo respingeva fino a Pozzolengo, e
collocata una batteria sul monte San Giovanni tempestava di granate le
spalle degli Austriaci combattenti a San Martino.
È scesa la notte; l’esercito austriaco si affolla disordinatamente sopra
i ponti del Mincio, e ripassa.
L’imperatore dei Francesi pianta il suo quartiere generale a Cavriana e
va a riposare nella stessa casa e nella stessa stanza dove riposava la
notte innanzi l’imperatore degli Austriaci.
Il vastissimo campo di battaglia tace. I villaggi e le case risonanti
poc’anzi di urli feroci e di colpi, risonano ora di voci lamentevoli e
fioche, di parole di dolore, di preghiera, di conforto, di pace. Da casa
Marino a Cavriana, da Medole a San Martino, cinque mila cadaveri e
ventitre mila feriti sono sparsi; le colline e le valli miseramente
insanguinate, i campi devastati e pesti, diroccate le case, e per tutto
armi disperse, cannoni atterrati, e cavalli giacenti, e tracce funeste
di desolazione e di morte.
I due eserciti riposano.
Qua e là scintillano i primi fuochi del bivacco, illuminando all’intorno
generali e soldati, vinti e vincitori, stesi per terra, chi ferito e chi
dormente, gli uni accanto agli altri, alla rinfusa, come eguali ed
amici.
Ed erano eguali, sì, generali e soldati, nella fortissima virtù dei
sacrificii, nella generosa devozione ai loro Principi e nel divino amore
della patria; amici sì, vincitori e vinti, nella sublime religion del
valore, d’ambo le parti, in quel giorno memorabile, splendidamente
glorificata col sangue.
Sono trascorsi dieci anni, o caduti dei tre eserciti; e come quel giorno
giacevano confusi i vostri cadaveri sul campo, oggi riposano le vostre
ossa in una tomba comune, sulla quale sventolano le bandiere dei tre
popoli a significare che siete tutti egualmente amati, venerati e
pianti.
L’INAUGURAZIONE DEGLI OSSARI DI SAN MARTINO E SOLFERINO.
[Pozzolengo, 24 giugno 1870, sera.]
Nello spazio di trenta giorni gl’Italiani hanno celebrato l’anniversario
di due memorabili battaglie nazionali: — il 29 maggio, Curtatone e
Montanara; — il 24 giugno, San Martino e Solferino; — e le hanno
celebrate nella forma più nobile e più solenne: — onorando la memoria
dei morti.
Scrivo da Pozzolengo, come scrissi da Mantova, coll’anima ancora tutta
piena della religiosa maestà della cerimonia; ma quanto diversamente
commosso! Alla mestizia non divisibile dal cuore in un giorno di
commemorazione di morti, si univa sì, a Mantova, un sentimento di
orgoglio, pensando che i vinti Italiani erano usciti da quella battaglia
non meno gloriosi che gli Austriaci vincitori. Ma era pur tristo il
pensare che quel valore e quel sangue non eran bastati a risparmiare
all’Italia altri dieci anni di servitù, di carceri, di patiboli, di
proscrizioni; che quello stesso terreno bagnato dal sangue dei nostri
soldati era rimasto in poter dei nemici, senza un segno che serbasse la
memoria dei caduti e ne raccomandasse il compianto; che dopo quella
sventura, più d’una volta la bandiera italiana aveva ancora dovuto
coprirsi d’un velo di lutto, e l’esercito seminar vanamente di cadaveri
altri campi. Ma oggi il ricordo dei morti è uno con quello d’una grande
vittoria; da questi colli ove scrivo, l’Italia gettò al mondo il suo
grido più possente di libertà; qui ella creò una di quelle parole — San
Martino, — che rimangono nel cuore dei popoli e degli eserciti,
ispiratrici di coraggio ne’ pericoli e di conforto nelle sventure, fino
alle generazioni più tarde; qui per la prima volta il nemico sentì
veramente nella ostinazione disperata degli assalti che con quei
quaranta battaglioni saliva su pei colli contesi l’Italia, e il suo Re.
E vi si aggiunge il particolare significato dato alla cerimonia dalla
presenza sul campo di battaglia dei rappresentanti dei tre popoli che
pochi anni sono vi hanno combattuto una delle più grosse e più
sanguinose battaglie moderne. È l’unanimità delle nazioni nel culto
dell’amor di patria, nella venerazione del valore e nella pietà della
sventura; sono i popoli stessi che si stringono la mano sui sepolcri dei
loro figli, per dirsi che la guerra non ha lasciato traccia d’odii o di
rancori; che, cessata la cagione del dissidio, all’ira sottentra
l’affetto e nel nemico sorge l’amico; che gli orgogli nazionali si
fondono e scompaiono in un sentimento umanitario sovrano che stringe
popoli, monarchi ed eserciti nell’amplesso fecondo della pace, sotto la
grande bandiera della civiltà.
Questa mattina — ventiquattro giugno milleottocentosettanta — il cielo
era sereno e splendido come dodici anni or sono, quando risonava delle
grida dei primi assalti e del rimbombo delle prime cannonate.
Arrivarono alla stazione di Pozzolengo, verso le otto, i due treni della
strada ferrata ch’eran partiti la notte da Milano e da Venezia. Scesero
dal primo il principe Umberto e il principe di Carignano, dal secondo i
rappresentanti della Camera e del Senato. V’era il ministro della guerra
e il ministro d’agricoltura e commercio, i prefetti di Mantova, di
Brescia, di Verona, di Padova di Vicenza; i sindaci di quasi tutte le
città del Veneto e della Lombardia; molti generali dell’esercito e della
guardia nazionale, ufficiali di tutte le armi, pubblicisti italiani e
stranieri, e una folla d’altra gente, invitata alla festa dal Comitato
della Società di Solferino e San Martino.
La Francia era rappresentata dal cavaliere de la Haye, luogotenente
colonnello di stato maggiore dell’esercito francese, accompagnato dal
visconte di Larochefoucault e dal visconte du Ponseau. L’Austria era
rappresentata dal cavaliere Alessio de Pollak, luogotenente colonnello
di stato maggiore dell’esercito austriaco.
Gran gente era affollata intorno alla stazione. Appena i Principi
comparvero, s’udirono vivissimi applausi, con suoni di bande e colpi di
cannone. Dopo i Principi, la folla cercò subito con gran desiderio i due
ufficiali stranieri. L’ufficiale austriaco vestiva una divisa
completamente verde, con un cappello a due punte come quello dei nostri
generali, e un pennacchio come gli uffiziali dei nostri bersaglieri. È
un uomo alto, sottile, di lineamenti delicati, di aspetto simpatico, di
modi cortesi. L’ufficiale francese, una robusta e fiera figura di
soldato. Fin dai primi momenti la gente spiegò una particolare simpatia
per l’ufficiale austriaco, ed era ben naturale. Egli rappresentava
l’esercito che in quella giornata era stato battuto; fra tutti i
convenuti alla festa egli era il solo cui la vista di que’ luoghi, la
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