Raggio di Dio: Romanzo - 11

in Italia, dov'egli trasferiva alla Spagna le pretensioni dinastiche
della casa d'Aragona, non era altrimenti libero di fare in tutto a suo
modo nelle terre di Castiglia; e più ancora si sentiva le mani legate
dopo la morte della moglie Isabella. Bene cercava egli di prolungarsi la
reggenza sui dominii della morta; ma da quei dominii, ostinate nella
sostanza quanto rispettose nella forma, resistevano le autorità da tanti
secoli stabilite, dell'alto clero e del basso, vescovi e capitoli,
abbazie, priorati, parrocchie e monasteri.
Anche i conventi di donne partecipavano a questo lavoro di resistenza: e
ciò s'intenderà facilmente, chi pensi che negli ordini monastici erano
allora numerosissime le figliuole delle grandi famiglie del regno,
famiglie a cui pure appartenevano i magnati del clero, alleanza naturale
di nobiltà religiosa e di nobiltà militare; e che delle personali
rinunzie al mondo le nobili claustrali si ricattavano, anch'esse
partecipando largamente alle ambizioni delle casate dond'erano uscite, e
di cui serbavano, se non in tutto il fasto mondano, certamente il
ricordo e l'orgoglio.
A quei centri di vita monastica affluivano, da quei centri si
diffondevano le notizie politiche utili a sapersi da ogni classe di
aderenti. Le vaste possessioni degli ordini religiosi favorivano il
continuo viavai dei razionali, dei vicarii, dei gastaldi, tramutati in
messaggeri. Il servizio delle poste pubbliche era in mano delle
università; quello delle poste segrete in mano dei conventi. E non
poteva dirsi una distinzione, ma piuttosto una affinità di uffici,
poichè nelle università primeggiavano i frati, come maestri di teologia
e d'eloquenza, di diritto canonico e civile, di filosofia, perfino di
medicina.
Ritornati a Segovia, Bartolomeo Fiesco e il mozzo Bonito seppero
avvenuto ciò che a Siviglia avevano udito imminente. Da cinque giorni la
Corte si era trasferita a Valladolid, nell'antico reame di Leon,
lasciando nel mezzo Medina del Campo, dov'era morta Isabella, e
avvicinandosi a Burgos, la capitale antica dei conti di Castiglia, e la
patria del Cid Campeador. Burgos, a cui si avvicinava Ferdinando, era
anche la città del pericolo per lui. Di laggiù, infatti, doveva
avanzarsi Giovanna, se mai si fosse risoluta di lasciare le Fiandre e di
approdare alla costa di Biscaglia. Ma egli, da Valladolid, risalendo da
levante la gran valle del Duero, aveva nella fida Aragona la sua
ritirata strategica. Perchè egli viveva in istato di guerra, tra tutte
le apparenze della pace; ed era guerra di ambizioni personali e di
diritti dinastici tra il padre e la temuta figliuola. Pazza la dicevano
a bassa voce, e sarebbe piaciuto a lui che pazza fosse gridata a larghi
polmoni: ma più pazza era, e più si doveva temerne il troppo sollecito
arrivo. Ah quei nobili Castigliani, così superbi e così ostinati! Non
c'era dunque verso di tirarli dalla sua?
Cristoforo Colombo aveva seguitata la Corte. Il capitano Fiesco seguitò
dunque il suo viaggio, muovendo lungo il corso dell'Adarà, fino alla
pianura insalubre di Medina del Campo; di là passato il Duero, proseguì
fin dove l'Esgueva, umile tributario, si getta nel Pisurga. Era
finalmente a Valladolid, la opulenta città, che ancora non possedeva i
centomila abitanti a cui giunse sotto Carlo Quinto, ma che aveva già tre
volte e più i ventimila a cui è ridiscesa nei tempi nostri. E già allora
Valladolid era fiorente d'industrie, famosa pel suo studio di
giurisprudenza, orgogliosa del suo Campo Grande, vastissima piazza,
fiancheggiata da diciassette conventi, dove già con grande concorso di
popolo si arrostivano Mori ed Ebrei, a maggior gloria di Dio
misericordioso. Da ventisei anni era stato legalmente riconosciuto e
diffuso il Sant'Uffizio nella felicissima terra di Spagna.
Il capitano Fiesco, che pur non era di tenerissima fibra, torse gli
occhi da quella piazza che doveva costeggiare passando, e dove appunto
si stava rizzando un gran palco di legname per l'_auto da fè_ del giorno
vegnente; il mozzo Bonito rabbrividì, correndo involontariamente col
pensiero agli orrori della piazza di Xaragua, dove ottanta cacichi erano
stati bruciati sotto i suoi occhi; ed anche di un'altra piazza a San
Domingo, dove per lui era stato rizzato il palco ferale.
Avevano preso lingua per via; e non era stato facile ritrovare subito la
dimora del Vicerè delle Indie. Chi conosceva a Valladolid un vicerè
delle Indie? Per fortuna s'erano imbattuti nel servo Geronimo, che li
aveva condotti in una via fuori mano e mezzo campestre, dove sorgeva una
casa di povera apparenza, quasi una masseria di campagna, con un gran
portone pei carri, un pianterreno cieco, un piano superiore di poche
finestre non grandi, nè tutte in fila, e un secondo, che prendeva luce
più scarsa da quattro o cinque finestrini sotto i rozzi modiglioni del
tetto. In quella casa era andato ad ospizio il vicerè delle Indie,
presso un marinaio, Gil Garcìa, che, avendo riconosciuto il suo
Almirante, non aveva voluto lasciargli cercare alloggio più oltre.
--Forse lo trovereste migliore;--aveva detto il buon Garcìa;--ma
stancandovi nella ricerca. E pensate, mio signore, che se la casa è
povera, neanche a Valladolid son ricchi i cuori di chi possiede i
palazzi.
--Gil Garcìa, tutto il mondo è paese;--aveva risposto l'Almirante.--E
Valladolid è una gran capitale, se ha la tua casa per reggia.--
La fatica del viaggio non aveva troppo stancato il signor Almirante; e
il capitano Fiesco, entrandogli in camera, lo ritrovò seduto sul letto
in una di quelle alcove di cui gli Arabi avevano dato il nome e l'uso
alla Spagna, donde uso e nome passarono poscia all'altre parti di
Europa. Come già parecchi giorni innanzi, l'infermo si rianimò alla
vista dell'amico; e non sentì più i suoi dolori, udendo le nuove del
colloquio che questi aveva avuto con la marchesa di Moya.
Il Fiesco, naturalmente, non gli riferiva appuntino ogni cosa. Più che
dalla raccomandazione del segreto, si sentiva trattenuto dal timore di
rallegrar troppo il grande sventurato. Voleva, se mai, ragionarne prima
coll'Adelantado, dicendogli delle cose segrete almeno quel tanto che
fosse mestieri, per farne buon uso ad ogni opportunità. Espose in quella
vece all'Almirante come la marchesa di Moya gli fosse amica immutata ed
immutabile; vedendo poi quanta letizia si diffondesse sul volto
dell'ascoltatore, non tacque le confessioni che la nobil Beatrice di
Bovadilla gli aveva fatte così spontaneamente, senza puerile ritegno.
Impacciato si sentiva egli piuttosto a riferire quelle calde parole: ma
per fortuna il viso aveva abbastanza celato nella penombra dell'alcova,
poichè, stando seduto presso la sponda del letto, dava le spalle alla
luce; ond'ebbe più coraggio a dir tutto.
Don Cristoval appariva trasfigurato da quel tiepido soffio di buona
ventura. Gli si tingevano di vermiglio le gote; gli sfavillavano gli
occhi; un sorriso della sua balda gioventù gli sfiorava la bocca
bellissima. Qual miracolo si operava sotto gli sguardi del buon
messaggero! e qual altro maggiore non si doveva egli aspettare, dagli
sguardi della pietosa amica?
--Lasciatemi pensare;--disse l'Almirante.--È un'ora ben lieta, questa
che voi mi portate.--
E pensò, mentre quell'altro rimaneva silenzioso a contemplarlo; pensò
lungamente, sorridendo ai suoi pensieri, che tramutati in immagini
parevano sprigionarsi dalla sua fronte, sciogliendo il volo tutto
intorno e facendo risplendere come un lembo di cielo l'aria rinchiusa
della malinconica alcova. Dunque ella non l'odiava? L'ombra di quel
morto non aveva offuscata la immagine di don Cristoval nel cuore di
Beatrice? Dunque ella era sempre Bovadilla, la pietosa, la soave
Bovadilla, ogni cui detto, ogni cui gesto, anche imperioso, recava
l'impronta della bontà, perchè lo aveva informato un senso d'amore? Ah,
dolce cosa, e balsamo divino ad ogni angoscia patita! E che orribil
tormento sarebbe la vecchiaia, la turpe, la paurosa vecchiaia, se non
potessimo vivere qualche volta del nostro passato, chiamarlo a rassegna,
goderne col pensiero, anche togliendo alle cose vissute i troppo chiari
e vigorosi contorni? Il vecchio fu giovane; amò, fu amato; e quel
ricordo, che è la sua beatitudine, è ancora la sua gloria. Per
quell'amore egli compì grandi cose, o gentili, memorabili sempre; per
quell'amore si sentì fatto migliore, sorrise alla vita, fu buono alle
creature che gli stavano intorno. E passano davanti agli occhi i lampi
di quelle giornate lontane; e figure da gran tempo obliate trascorrono
in quella luce, animando la scena. La bella donna che si amò tanto
forte, si muove in quel piccolo mondo, gloriosa e serena, sorridente
della sua giovinezza; e par che non guardi, par che non veda nulla
intorno a sè; ma voi sentite l'onda magnetica del suo sguardo, che
giunge a voi, che tutto v'involge, e v'inebria. Ah, lampi maravigliosi!
spiragli divini di un dolce passato! Il quadro luminoso si scolora ad un
tratto, e la visione si spegne; ma può ancora riaccendersi, può ancora
colorirsi; e di quelle fugaci apparizioni si vive. Triste cosa, che,
morti noi, spariscano anch'esse per sempre, nè possa più altri goderne!
Attimo di eternità che dilegua; ciò che fu, ritorna nella notte delle
cose che non furono mai. Perciò qualche volta la visione lascia un senso
di dolore nell'anima. L'amaro è nel dolce; e fors'anche ha mestieri di
quel senso d'amaro, per aver vita, e coscienza di sè stesso, il piacere.
Anche il capitano Fiesco pensava. Come sono maravigliosi questi vecchi,
che serbano ancora tanta gioventù dentro l'anima! Ed ancora, che
altezza di sentire in quest'uomo! Non fa egli ricordare i bei versi di
Dante? "E se il mondo sapesse il cor ch'egli ebbe, mendicando la vita a
frusto a frusto, assai lo loda, e più lo loderebbe". Amato dalla più
bella creatura del reame di Castiglia, ha rinunziato a quell'amore, che
poteva essere il suo premio, ben superiore a tutte le fortune, a tutte
le dignità della terra. Virtù, certamente; virtù, che dobbiamo coltivare
in noi, come un fiore divino! Ma questa virtù non è dato condurla oltre
i confini della umana natura; ed egli non si salvò dalla forza
indomabile della passione se non colla fuga. Avrebbe un certo Damiano
saputo fare altrettanto, ai tempi suoi, _consule Planco_? È vero che
Damiano non era un santo; non n'ha mai avuta la stoffa, con tanti
cardinali e un paio di papi in famiglia!
L'Almirante ruppe finalmente il silenzio, e insieme con le meditazioni
sue cessarono quelle un po' meno alte del suo reduce amico.
--La marchesa verrà, mi avete detto?
--Sì, messere, e presto. Ma silenzio, per carità; non si deve sapere
prima del fatto; non si deve averne sospetto.
--E parlerà essa a Ferdinando?--
Qui il capitano Fiesco si ritrovò un pochettino impacciato a rispondere.
--Eh, lo immagino;--balbettò.--Vissuta tanto tempo a Corte, non passerà
dov'è la Corte senza rimetterci piede.
--E perchè non è venuta con voi?
--Che so io? che debbo dirvi, messere?--rispose il Fiesco, più
impacciato che mai.--Mi ha parlato vagamente di certe cose, che la
trattenevano ancora. Hanno sempre tanti impicci, le donne! e non tutte,
per cavarsi d'impicci, hanno l'arte e gli abiti del mozzo Bonito. Credo
ancora che avesse da sbrigare un negozio più grave. Ma neppur questo mi
ha detto, quantunque non fosse un segreto, poichè mi ha pregato di
lasciarle il frate scudiero. Le servirà di scorta in viaggio;--soggiunse
il capitano, felice di aver trovata una gretola, e scappando da
quella.--A mezza monaca mezzo frate, non vi pare? Badiamo, dico così per
dire; che il mio scudiero è frate, con tutti i tre voti. Ma egli pare
così poco un frate, vivendo sempre fuor di convento! Come le ha, le
dispense? non è il caso che se le pigli da sè?
--Dovreste saperne voi qualche cosa, che lo conducete pel
mondo;--osservò l'Almirante, sorridendo.--Ma non bisogna credere che
frate Alessandro manchi al precetto dell'obbedienza. Non facciamo
sospetti temerarii, e crediamo che abbia la sua brava licenza in
tasca.--
L'Almirante era allegro, e celiava, come ne' suoi giorni più belli.
Un'ondata di buona ventura entrava nella povera casa di Gil Garcìa;
bisognava approfittare del vento; e don Cristoval, che si sentiva
rinfrancato, volle vestirsi. Mentre il marinaio Geronimo lo aiutava in
quella bisogna, il capitano Fiesco scese in cortile a discorrere
coll'Adelantado. Con lui non poteva menare il can per l'aia; anche senza
dir tutto, doveva aprirsi con lui della prossima venuta della marchesa
di Moya, e del tentativo ch'ella si proponeva di fare. Per non mancare
alle promesse sue, bastava non dire che la nuova regina di Castiglia era
aspettata alla coste di Spagna. Restava, e bastava, che l'arrivo ne
fosse sperato, per giustificare il passo di donna Beatrice. Dopo tutto,
anche di quel poco che si lasciava uscir di bocca, il capitano Fiesco
raccomandava il segreto alla conosciuta prudenza dell'amico; il quale a
sua volta ne riconobbe tutta la importanza gelosa.
--Dicevo bene!--esclamò Bartolomeo Colombo.--Dicevo bene, se la marchesa
di Moya veniva proprio a parlare col re. Non è lei, l'antica dama di
palazzo della mite e generosa Isabella, che potrebbe commuover le
viscere al marito di Germana di Foix. E notate che io avevo già mulinato
il disegno di rivolgermi a questa, per chiedere il suo patrocinio. Sposa
novella, pensavo, avrà potere sul maturo consorte, e potrà usarne a
nostro vantaggio. Ma ho dovuto rinunziarci. La bionda reginetta è qui
come un pesce fuor d'acqua. Già molto è se la tollerano, questi signori
Castigliani, cedendo alle raccomandazioni del virtuoso Ximenes.
--Il confessore della morta regina!--esclamò il capitano Fiesco.
--Ma sì; lo vedete, il confessore di quella santa, costretto a
raccomandare la calma, a far mandar giù, come uno zuccherino, quella
profanazione del talamo reale? E non ha aspettato che si raffreddasse la
povera salma, il cattolico re! Appena era passato l'anno, e la nuova
regina passava i Pirenei. Ma che cosa non fa fare la maledetta cupidigia
del regno? Basta,--conchiuse lo sdegnoso Adelantado,--io non ci ho
niente da vedere, nè da spartire: il cardinal di Toledo riconosce il
male, e s'ingegna di ricavarne il bene. Signori miei, dice egli ai
nobili di Castiglia, abbiamo pazienza un po' tutti; pensiamo che
Germana di Foix, la graziosa nipote del re Cristianissimo, ci porta in
dote la rinunzia dei Francesi a tutte le terre che possedevano ancora
nel reame di Napoli.
--E che Consalvo avrebbe potuto riprendere senza sforzo;--notò il
capitano Fiesco.--Ho anche sentito dire che per quella rinunzia del
Cristianissimo, il Cattolico si obbliga di pagargli in dieci anni
settecentomila ducati d'oro.
--Vero;--rispose l'Adelantado.--Per contro restano liberi dalla
prigionia i baroni di quel regno, che avevano militato in favore del
Cattolico. E di rimpatto,--soggiunse sarcasticamente,--è levata la
confisca fatta contro coloro che avevano seguitato il partito francese.
Sicchè, vedete, non si sa bene chi più ci guadagni. Questo rimane, per
altro, che il Cattolico deve pagare settecentomila scudi d'oro, farsi
amare da una sposina francese, e tollerare dalla nobiltà castigliana.
Grattacapi non gliene mancano, adunque; ma ci pensi lui. Il guaio per
noi è questo solo, che in tanta confusione n'andiamo di sotto. Perchè,
s'intendano o non s'intendano, contro di noi sono tutti, Castigliani ed
Aragonesi, ben risoluti di non farci giustizia.
--E il virtuoso Ximenes?
--C'è la Giunta degli scarichi; così dice egli a chi gliene parla. La
Giunta degli scarichi è il suo grande argomento. L'ha inventata lui,
difatti, per le questioni di Castiglia; e gli pare che sia la man di
Dio. Con questa, egli ha scaricato anche la sua stessa coscienza.
Poveraccio, finalmente! ha tanti carichi sulle spalle, che qualche volta
mi vien voglia di compatirlo. Sapete, mio caro Fiesco, che io non l'ho
con questa gente; l'ho colla nostra cattiva stella, che ci ha condotti
qui, a piatire da vent'anni con un bugiardo, ad inghiottire ogni sorta
di amari bocconi. Il mio grande fratello non vuol che si dica; e per
rispetto a lui sto zitto. Ma qualche volta la pazienza dà di fuori, come
se fosse una pentola. Se si dava retta a me, o con Francia, o con
Inghilterra, sarebbe stato un altro paio di maniche. Ripeto e torno a
dire: poichè il male è fatto e non si muta, venga Giovanna, e sia
l'ultimo tratto di dadi. Di questo, poi, si potrà toccarne
all'Almirante, quando sia il momento. Mi pare che una lettera alla
regina dovrà scriverla anche lui. Per ora non conviene dir nulla. Quella
sua gotta, o artritide che sia (sapete che i medici non sono neanche
d'accordo sull'indole del suo male) può aggravarsi di schianto, con ogni
commozione un po' forte; tanto che io non gli ho neppur detto una cosa,
che ora mi torna a mente. Vedete che smemorato! Ma anch'io ci perdo la
testa, con tanti pensieri. E si tratta appunto di voi.
--Di me?--chiese il Fiesco.
--Sì, di voi, che il re Ferdinando ha mandato a cercare.
--A cercar me? e come sa che io dovessi arrivare?
--Cioè;--ripigliò l'Adelantado,--maravigliatevi ch'egli sapesse del
vostro arrivo a Segovia; perchè là vi ha mandato a cercare, e non qui.
Due giorni dopo ch'eravate partito per Siviglia, venne da noi il dottor
fisico Villalobos, l'Esculapio di Corte. Che degnazione, non vi pare?
Credevo che fosse stato cortesemente mandato a visitar mio fratello; ma
quello era l'ultimo pensiero del sommo Villalobos. Si contentò di
qualche domanda, e non chiese neanche di vederlo. Mi chiese invece, così
di punto in bianco: è giunto da voi altri il signor conte di Lavagna?
Sì, gli risposi, non avendo ragione di nasconder la cosa, nè parendomi
savio negarla. Sua Altezza, ripigliò, lo vedrebbe molto volentieri;
rammenta sempre di averlo ricevuto due anni fa, al suo ritorno dalla
Giamaica; è un amabile cavaliere, e Sua Altezza, che ama molto
gl'Italiani, sarà felice di riceverlo. Risposi, naturalmente, di non
poter fare così presto l'ambasciata; voi esser venuto in Ispagna per
vostre ragioni d'interesse, e solo per l'amicizia vostra col signor
Almirante aver mandata innanzi agli affari una visita a Segovia, ma
subito esser partito per Cadice, che ne sapevo io? per Granata, o per
Malaga, avendo da incontrare certi mercatanti e banchieri del vostro
paese. Infine, alla bell'e meglio ho cucite insieme le mie quattro
bugie, come un altro Ferdinando; con questa differenza, che le mie erano
molto innocenti, sicuramente meno gravi delle sue. Ho soggiunto,
s'intende, poichè n'ero richiesto, e non volevo apparire bugiardo poi,
che sareste tornato ancora, dopo sbrigate le vostre faccende, a prendere
i comandi dal vostro veneratissimo capo, e che in tale incontro vi avrei
avvertito del desiderio di Sua Altezza, tanto onorevole per voi, tanto
caro, tanto lusinghiero, e chi più n'ha ne metta.--
Il conte Fiesco cascava dalle nuvole: cascava, cascava, e non toccava
mai terra.
--Che diamine vorrà egli da me?--chiese egli, stupito.--Parlarmi
dell'Almirante, mentre lo ha qui sotto la mano?
--Oh, non credo che si tratti di ciò;--rispose l'Adelantado.--Per quanto
gli piaccia mentire, mostrandosi mondo di colpe, puro come un agnellino,
di nient'altro dolente che delle esorbitanti pretensioni del signor
Almirante Colon, egli non manda di sicuro a cercar la gente a cui
versare nel seno le sue giustificazioni.
--Allora?
--Allora, mio caro, voi siete il conte di Lavagna.
--Così poco, don Bartolomeo, così poco, che quasi non m'avviene di
ricordarmene; e qui, nella gloria del vostro immortale fratello, meno
che mai, ve lo giuro.
--Ma conte di Lavagna restate. E m'è entrato in testa che il re
Ferdinando, abbandonato da tanti gentiluomini di qui, vada in busca dei
più illustri d'ogni terra. Non siete voi anche nipote di quel Giacomo,
che mezzo secolo fa è stato vicerè di Napoli? Ferdinando li conosce, i
grandi nomi d'Italia; e vi vorrà alla sua corte.
--Io! starei fresco;--scappò detto al capitano.--Più fresco ch'io non
sia già per l'antico soprannome degli avi;--soggiunse, ridendo al
bisticcio che gli fioriva spontaneo dal labbro.
--Eppure, chi sa? da cosa nasce cosa....
--E il tempo la governa, volevate dire? Ma non è da uomini gravi
almanaccare, quando ci vuol poco a saperne l'intiero.
--Certo, bisognerà andare; e più presto andrete sarà meglio. Non
volevate già chiedere udienza, tentando di fare, come dicevate, il
vostro giuoco doppio? Ecco che l'occasione vi si presenta; anzi vi è
venuta incontro.
--Amico,--rispose il capitano Fiesco,--pensavo bene di destreggiarmi a
quel modo, avendo poca sicurezza da una parte e dall'altra. Ora, dopo il
colloquio di Siviglia, mi pareva che il meglio fosse di non far più
nulla qui, aspettando tutto di Fiandra.
--E neanche a Valladolid sarà male vedere;--ribattè l'Adelantado.--Non
foss'altro, per esser ben certi che non c'è nulla da sperare. Di nulla
infatti vi parlerà, se non gliene entrate voi stesso. Vi vuole a Corte,
credetemi; son volpe vecchia, e gioco che c'indovino.
--Io poi son volpe giovane;--disse di rimando il capitano Fiesco;--ed ho
buone gambe, per andargli lontano mille miglia. Gioiosa Guardia mi è
troppo cara, e non ci voleva meno di una lettera del signor Almirante,
per trarmene fuori. Ma questi non è un re.
--E neanche un vicerè, se i re si rimangiano la parola e la
firma;--soggiunse l'Adelantado.--Povero fratello! Io non ho la sua
dottrina, nè vedo in certe cose più in là d'una spanna. Egli pensa
all'onor suo e del suo nome, e combatte. Io, al posto suo, avrei già
mandato tutti e ogni cosa all'inferno. Aver scoperto un mondo nuovo, non
è gloria bastante? Si va magari a piantar cavoli, come fece Diocleziano,
dopo aver governato l'antico.
--Che non meritava neanche questa scesa di testa;--aggiunse il capitano,
spremendo il sugo di tutta la filosofia che aveva imparata nello Studio
pavese.
Ma sì; che ubbìa era quella del signor Almirante, di voler essere
ricompensato de' suoi servigi? di voler mantenuti i suoi titoli, i suoi
diritti, i suoi privilegi? Una bella ingratitudine patita esalta l'eroe,
più d'un premio ottenuto. Ma forse egli voleva ben ribadire la
ingratitudine di Ferdinando il Cattolico alla gogna della posterità. Nel
qual caso, bisogna credere ch'egli avesse ragione, più del fratello don
Bartolomeo, del capitano Fiesco e di noi.
Il capitano era giunto alle coste di Spagna meglio in arnese delle altre
volte. Potè dunque farsi bello di qualche eleganza, tanto da far dire
all'Adelantado: "voi volete, conte Fiesco, dar nell'occhio a Germana di
Foix". Rideva il capitano alla celia, ma rideva stentato, pensando ad
una visita che faceva di mala voglia. Rideva ancora, rideva giallo,
andando la mattina seguente al palazzo reale; rise verde senz'altro,
quando, già sicuro di esser rimandato ad altra ora, magari ad un altro
giorno, si sentì dire dal gentiluomo di camera:
--Sua Altezza il re vi aspetta, signor conte di Lavagna. Voglia Vostra
Eccellenza passare.--
Eccellenza, niente di meno! E infatti, non era egli un conte di Lavagna?
e non aveva titolo di Eccellenza l'illustre Gian Aloise? Bartolomeo
Fiesco non era neanche a Genova, dove la maggiore autorità del cugino
potesse fargli ombra colla sua luce; era in Ispagna, dove la gran luce
dell'eccelso parente poteva benissimo riverberarsi da lontano su lui.
Accettò dunque l'"eccellenza", e passò.


CAPITOLO XII.
La Sfinge regale.

Ferdinando d'Aragona non era stato in sua gioventù nè bello nè brutto.
Di carnagione più giallo che bianco; larghe le guance ed angusta la
fronte; lungo il naso e breve lo spazio tra il naso e il labbro
superiore; ombreggiato questo da due baffettini tagliati corti sulla
tumida bocca; tondo il mento e piuttosto prominente; gli occhi grossi e
sgusciati, donde aveva un'aria un po' sciocca; queste le note principali
del viso, e non tali da offrirvi una immagine di Apollo. Ma la gioventù,
quando c'era, attenuava i difetti; una folta capigliatura nera,
scendente fin quasi all'arco delle sopracciglia, ne scusava la poca
eleganza; e il giovanotto, finalmente, era re. Gli anni, poi, avevano
mutato l'aspetto di quel re, non in tutto a suo benefizio, per quanta
gravità gli aggiungessero. Spariti i baffi, appariva un tantino più
lungo il naso, e le labbra sporgevano più tumide. Gli occhi avevano
piuttosto acquistato che perso; ma l'acquisto era di due borse nel basso
delle occhiaie, e di certi pendoni sopra le palpebre, che velando quegli
occhi a mezzo non li aggraziavano punto. Portava sempre lunghi i
capelli fino all'altezza delle spalle; ma erano capelli grigi, e non
bene ravviati; nè più dalla fronte scendevano all'arco delle
sopracciglia. Ma a questo guaio rimediava il copricapo, di velluto nero,
mezzo berretta e mezzo corona, che il re Ferdinando, fattosi maturo
negli anni, non si levava mai nel cospetto della gente. La corona
appariva sul davanti del copricapo in tutta la sua maestà; spariva
presso alle tempia, sotto i capi d'una rivolta che correva tutto intorno
alla testiera. Indossava una tunica lunga oltre il ginocchio, anch'essa
di velluto nero, dal cui sparato, trattenuto con lacci di seta, appariva
il bianco della camicia pieghettata. Una giornéa di broccato cremisino,
colle rivolte di vaio, senza maniche, aperta davanti, lasciava vedere il
collare di gran mastro d'Alcántara, scendente sul petto, ma senza
abbondanza di catena. Era modesto, quel re, non amava sfoggiare il suo
grado: mezza corona e mezza berretta; detto questo, non ci sarebbe altro
da aggiungere.
Ma l'abito non fa il monaco, e Ferdinando d'Aragona sapeva ben
dissimulare il suo orgoglio di re. Lo obbligavano a ciò le stesse
circostanze tra cui esercitava il potere supremo. Era quello il tempo
che le monarchie d'Europa si venivano formando, in mezzo a difficoltà
non poche nè lievi, costretto a destreggiarsi di continuo per girare gli
ostacoli, per evitare i pericoli, per domare la superbia dei grandi
vassalli, per vincere le resistenze dell'alto clero, per procacciarsi il
favore della piccola nobiltà, per amicarsi il popolo, appagandolo con
qualche concessione, maravigliandolo con qualche esempio di giustizia.
I leoni dovevano farsi volpi, secondo l'occasione; i lupi vestirsi da
agnelli, senza rinunziare del tutto alla primitiva natura, e
ripigliandone al buon momento le forme. Così da Ottaviano Augusto a
Carlo Magno si era usato con frutto; e ognuno a suo modo imitava i
grandi esemplari. Fortunati coloro che meglio a proposito sapevano
applicare ai casi particolari le massime generali d'una tirannide intesa
a fortificare una dinastia, e in pari tempo a formare uno stato.
Quando il conte Fiesco entrò nella sala reale, don Ferdinando andava su
e giù passeggiando, senza rumore, con le sue scarpe di velluto, foderate
anch'esse di vaio. All'entrare del gentiluomo genovese si volse, fece un
bel gesto, atteggiò le grosse labbra ad un sorriso, fermandosi su due
piedi in mezzo alla stanza.
--Conte,--diss'egli,--bisogna dunque mandarvi a cercare? Si passa in
Castiglia, e non si viene a visitare il re d'Aragona?--
Era la sua regola, dopo la morte d'Isabella: aveva ripigliato il suo
titolo di re d'Aragona, e voleva farlo sentire, ripetendolo in ogni
incontro. Ostentazione di modestia, che non ingannava nessuno: ma gli
piaceva di far così; tanto più gli piaceva, in quanto che, se avesse
fatto altrimenti, gliel avrebbero apposto ad ambizione, vedendoci anche
una usurpazione non tollerabile.
--Vostra Altezza mi perdoni;--rispose il conte, inchinandosi.--Il mio
viaggio in Ispagna era per ragioni di traffico. Un debito di amicizia e
di gratitudine mi aveva consigliato il giro largo a Segovia; ma dovevo
correre a Siviglia per certi negozi, che non volevano indugio più lungo.
_Genuensis, ergo mercator_;--soggiunse egli sorridendo, per modo di
conclusione.
--Sappiamo, sappiamo;--disse il re, accennando una scranna, ed
invitandolo con gesto benigno a sedergli vicino.--E siete ritornato, e
vi terremo, non è vero?
--Ahimè, mio signore, altre ragioni mi chiamano a casa. Solo la malattia
del signor Almirante mi tratterrà qualche giorno. Speriamo che non sia