Raggio di Dio: Romanzo - 08

nel palazzo del governo, e mostrò di volergli usare ogni maniera di
cortesie. Quella era la pace dello scorpione, come si diceva con
energica frase intorno al signor Almirante; e non senza ragione, poichè
il gran commendatore d'Alcántara, ch'era lo scorpione in discorso,
mentre faceva la bocca dolce al suo ospite, metteva in libertà il
Porras, che questi aveva condotto prigione, unico escluso dal perdono
concesso ai ribelli, come quegli che li aveva istigati e spinti alla
prova delle armi. Non pago di ciò, don Nicola Ovando parlava di voler
fare egli stesso un'inchiesta di ciò ch'era avvenuto alla Giamaica,
sostituendosi audacemente all'autorità del signor Almirante, e usurpando
il diritto dei reali di Spagna, ai quali si spettava, se mai, di
rivedere il processo e di far piena giustizia. Ma qui il signor
governatore non andò oltre la minaccia, che forse aveva fatta per
giustificare lo scarceramento del Porras, ed anche per fare dispetto al
suo ospite e indurlo ad abbreviare i termini del suo soggiorno a San
Domingo.
Messer Cristoforo non voleva già rimanere a lungo in quel triste luogo,
dove i segni dello sgoverno e della rapina erano troppi e troppo
evidenti; dove ancora non tacevano gli echi delle orribili carneficine
che avevano funestata da un capo all'altro la povera Haiti; dove infine
non c'era verso di ottenere alcuna soddisfazione delle sue rendite, e
nemmeno un'ombra di conti. Al signor governatore aveva oramai restituito
il naviglio, e un altro ne aveva acquistato del suo. E per tal modo, su
due legni proprii, come un privato armatore, riconduceva in Ispagna
tanti servitori della Corona, che per Castiglia e Leone avevano due anni
intieri messa a bei rischi la pelle. All'Ovando e al soggiorno di San
Domingo lasciava ancora tutti i ribelli del Porras, che il signor
governatore li premiasse pure secondo i gran meriti loro, e magari li
facesse del suo consiglio di governo. Ed egli, co' suoi due legni, si
mise alla vela il 12 di settembre.
Qui subito incominciò la disdetta. Avevano fatte appena due leghe di
cammino, che sulla nave dell'Almirante si spaccò per lungo l'albero di
maestra, dalla vetta fino in coperta. Buon legno, e stagionato, anche
tu? L'Almirante passò sulla seconda nave, che era sotto il comando
dell'Adelantado, e rimandò a San Domingo la caravella inservibile. Si
veleggiava con buon vento, e i cuori si riaprivano alla speranza;
quand'ecco, il 18 ottobre, una terribil fortuna di mare, che mette
l'unica nave in pericolo. Se n'esce sani, e torna il mare in bonaccia;
ma il giorno appresso, in quella gran calma, e quasi non lavorando le
vele, si spezza in quattro l'albero di maestra.
--Piove sul bagnato!--si contentò di dire l'Adelantado, che tosto,
consigliato dal fratello, a cui la gotta non consente di lasciare il
giaciglio, prende un'antenna di rispetto, ne fa un piccolo albero,
fortificandolo di legname preso dai castelli di poppa e di prora,
strettamente lega ogni cosa con gran giri di fune, e vi adatta la vela.
Si naviga ancora verso levante, ma incappando presto in un altro
fortunale, che porta via l'albero di trinchetto. In tal guisa
l'Atlantico rabbioso dava congedo al suo domatore: e in tal guisa, fatte
settecento leghe di mare e d'angoscia indicibile, nella mattina del 7
novembre il legno disalberato afferrava San Lucar di Barrameda, donde il
signor Almirante, sfinito da due anni e mezzo di continui travagli,
tormentato dalla gotta e più dal pensiero della umana malvagità, si
faceva trasportare a Siviglia.
Sperava di trovar pace colà, e di ricuperare tanto di forze da potersi
condurre a Medina del Campo, dov'era allora la Corte, necessariamente un
po' nomade in quel primo periodo di ricostituzione del regno. Ma non
ricuperò punto di forze, non avendo trovata la pace, bensì in gran
disordine le cose sue, poichè dal tempo della sua prigionìa, avendo il
Bovadilla preso possesso della sua casa e delle sue sostanze in San
Domingo, non pure non gli pagavan le rendite, ma non erano state neanche
esatte con la debita puntualità, e quel tanto che se ne veniva
raccogliendo restava nelle mani del governatore. Ond'egli, un mese dopo
l'arrivo a Siviglia, scriveva al figliuol suo Diego, ch'era paggio alla
Corte: "Il governatore m'ha crudelmente trattato. Mi dicon tutti che io
là posseggo undici o dodicimila castigliani; ed io non ne ho avuto un
quarto". Si aggiunga che quel quarto gli era servito a comperar le due
navi, per portare in Ispagna tanti buoni servitori della Corona, che
ancora un mese dopo l'arrivo a San Lucar di Barrameda non avevano
ricevuto il soldo di due anni e mezzo di onorati servizi; e a lui si
volgevano, chiedevano denari a lui, che non ne aveva per sè.
Nè solo scriveva al figliuolo che perorasse per lui e per la giustizia;
scriveva al re, scriveva alla regina. Ordinassero che fosse dato il
soldo a quella povera gente; comandassero all'Ovando di fargli pagare
senza indugio il dovuto, perchè, senza una lettera regia, nè quegli si
sarebbe mosso, nè gli stessi agenti dell'Almirante in San Domingo
avrebbero ardito aprir bocca; provedessero finalmente, in guisa che
meglio fossero amministrate laggiù le rendite della Corona; al qual
proposito bastava accennare che una immensa quantità d'oro si
ammonticchiava in mal costrutte case, esposte di continuo alla rapina,
al saccheggio. Aveva risposte, ma fredde, che lo rimandavano di giorno
in giorno, anzi peggio, di mese in mese. Erano andati alla Corte del re
Ferdinando e della regina Isabella, i suoi due fidati amici, Diego
Mendez e Alonzo Sanchez di Carvajal, ricevendo anch'essi un sacco e
sette sporte di buone parole. Più non poteva fare la regina, inferma, da
parecchi mesi inchiodata in un letto: più non voleva fare il re, largo
promettitore, non senza un'aria di canzonatura, che tirava, sia detto
col rispetto dovuto a su' Altezza reale, che tirava i ceffoni. Intanto,
trionfava il Porras, parente in quel brutto modo che sappiamo al regio
tesoriere Morales. E il re Ferdinando a tutte le sollecitazioni del
povero infermo di Siviglia mandava a rispondere: "si vedrà, si farà
quanto è dovuto, e più ancora"; la regina Isabella, in cui era riposta
l'ultima speranza dello sventurato Colombo, la regina Isabella moriva.
Povera donna, infelice regina, che non aveva avuto in tutta la sua vita
fortunosa un'ora di pace! Abbiamo narrate le vicende della giovinezza di
lei, e come le paresse liberazione andar moglie a Ferdinando d'Aragona.
Ma proprio allora incominciò la prigionia, non della persona, bensì
dell'anima generosa, del cuore pietoso d'Isabella di Castiglia e Leone.
Le istesse gioie della maternità, che consolano tante donne d'un nodo
malaugurato, volsero in lutto per lei. Le era morto l'unico maschio, il
principe Giovanni; morta la diletta figliuola Isabella, e il
figliuoletto di lei, don Michele; restava Giovanna, misera creatura che
doveva rimanere nella storia col nome di Giovanna la pazza, maritata
all'arciduca Filippo d'Austria, bel giovane e dissoluto, che la rendeva
infelice vivendo, e doveva lasciarla infelicissima, morendo un anno di
poi. Di tutti questi dolori materni nutriva Isabella i suoi anni maturi;
e d'altri ancora, onde la colmò di continuo l'indole avara e tiranna del
suo consorte e signore. Quell'astuto Aragonese, che, lei morta appena,
sarebbe passato a seconde nozze con una principessa francese, non era
fatto davvero per darle allegrezza della vita e del regno. E cercò
sempre, la nobil donna, di nascondere al mondo la sua infelicità; fece
quanto potè, anche in punto di morte, per esser creduta la più felice
delle mogli.
"Che il mio corpo (diceva ella nel suo testamento) sia seppellito nel
monastero di San Francesco, nell'Alhambra della città di Granata, in un
modesto sepolcro, senz'altro monumento che una semplice pietra, su cui
sarà scolpita l'iscrizione. Desidero nondimeno, ed ordino, se il re mio
signore s'eleggesse sepoltura in una chiesa, o monastero, in alcun altro
luogo o parte de' miei regni, che il mio corpo sia pur tramutato e
sepolto accanto a quello di Sua Altezza; per forma che la unione di cui
abbiamo goduto in vita, e di cui speriamo la Dio mercè che le anime
nostre godranno nel cielo, possa essere raffigurata dalla unione dei
nostri corpi in terra."
Isabella moriva il 26 novembre del 1504, a Medina del Campo, in età di
cinquantaquattro anni. Il grand'uomo ch'ella aveva protetto,
intendendone l'ingegno e la missione divina, trattenuto dalla sua
infermità nelle mura di Siviglia, non aveva potuto rivederla un'ultima
volta: neanche gli fu dato di conoscer subito la notizia della morte di
lei. Sapendola aggravata dal male, e desideroso di recarsi al suo letto
d'agonia, non aveva trovato mezzo di trasporto più adatto d'una lettiga
che i canonici di Siviglia avevano usata poco prima per trasportare la
salma del cardinal di Mendoza. Ma i canonici temevano per il fatto loro,
che non andasse guasto o perduto; e l'istesso giorno che Isabella moriva
a Medina del Campo, si faceva in Siviglia tra quei canonici e il "vicerè
delle Indie" un regolare contratto per l'affitto di quella lettiga, di
quella bara, restando mallevadore don Francesco Pinedo, tesoriere della
marina, che la strana vettura sarebbe stata restituita. Già era per
salirvi il dolente; ma le trafitture del suo male e lo straordinario
rigore della stagione non gli permisero di mandare ad effetto il suo
divisamento.
La morte d'Isabella era il colpo di grazia al grande infelice. Viva la
regina, si poteva sperare ch'ella fosse un giorno e l'altro per vincer
l'animo iniquo di Ferdinando; e ad ogni modo si poteva esser certi che
la regia fede sarebbe stata mantenuta, com'era scritta in forme solenni.
Lei morta, le ragioni di Cristoforo Colombo, lasciate così a lungo
sospese, sarebbero state sicuramente disconosciute, e le speranze
deluse. E ancora tentava, scrivendo lettere su lettere, mescolando le
umili supplicazioni alle giuste querele. Nella primavera del 1505 tentò
per lui don Bartolomeo suo fratello di ottenere a voce quello che per
iscritto non si era potuto fin allora. L'Adelantado conduceva seco il
secondo figliuolo dell'Almirante; savio e costumato adolescente, allora
nei diciassette anni, che aveva partecipato alle fortunose vicende del
quarto viaggio. Si chiamava Fernando, l'adolescente; Fernando, come il
re; ma non gli valse altrimenti che ad ottenere un altro sacco di buone
parole.
Un filo di speranza era venuto al signor Almirante dalla notizia che
Diego di Deza, il dotto domenicano, allora vescovo di Palencia, ma
innalzato ad arcivescovo di Siviglia, sarebbe rimasto alcun tempo alla
Corte. Diego di Deza era stato l'unico dotto, e perciò l'unico
sostenitore di Cristoforo Colombo, nel famoso consiglio degli indotti di
Salamanca. Non avendo potuto persuadere i suoi ostinati colleghi, era
pure tornato utile al navigatore genovese, consigliandolo a restare in
Castiglia, aspettando una migliore occasione di vincere. Queste cose,
che tanto onoravano il Deza, mandò a ricordargli Cristoforo Colombo: ma
è da credere che l'arcivescovo di Siviglia non potesse far più, per
l'amico, nessuno di quei buoni uffici che aveva fatti il lettore di
filosofia del convento di San Domenico in Salamanca. Un altro amico
parve la man di Dio allo sventurato Colombo, quando se lo vide comparire
in casa, in quella medesima primavera del 1505. Quell'amico era Amerigo
Vespucci, che al tempo del terzo viaggio di Cristoforo Colombo al nuovo
Mondo, era stato con Alonzo d'Ojeda alle Antille, in quella spedizione
che fu il primo colpo dato da re Ferdinando ne' suoi patti solenni
coll'Almirante maggiore del mare Oceano e Vicerè governatore generale
delle Indie. La conoscenza di Amerigo Vespucci con Cristoforo Colombo
era anche più antica, poichè il Vespucci era stato computista presso il
fiorentino Giannotto Berardi, ricco negoziante in Ispagna, il quale
appunto aveva dovuto dare una sua nave alla grande spedizione
dell'Almirante, allora per l'ultima volta in auge presso la Corte
spagnuola.
Di lui scriveva l'Almirante al figlio Diego, il 3 febbraio 1505: "....
Ho parlato con Amerigo Vespucci, latore della presente, chiamato dal re
per affari di navigazione. Egli ebbe sempre desiderio di compiacermi; è
uomo molto dabbene; la fortuna gli fu avversa, siccome a molti altri; i
suoi lavori non gli profittarono come ragione voleva. Parte assai ben
disposto per me, e bramoso, se gli è possibile, di fare qualche cosa che
mi sia utile. Io di qui non so di che potrei incaricarlo, perchè ignoro
che voglia da lui la Corte; egli va, determinato di fare per me quanto
gli sarà possibile. Vedi in che può servirmi, e adóprati a questo
proposito, poichè egli farà ogni cosa; parlerà e metterà tutto in opera;
ma tutto sia segretamente, a fine di non destar sospetti contro di lui.
Io gli dissi quello che potei circa le cose mie, e lo informai della
ricompensa che mi ebbi ed ho per le mie fatiche".
La lettera era bella, e doveva infiammare il giovine Diego Colombo di
nobilissimo zelo a servire il buon Amerigo, che certo si adoperò per
l'amico, e da amico lo servì, dando il suo nome di battesimo a quella
parte del mondo, che senza l'ingegno, la costanza, la intrepidità del
navigator genovese sarebbe rimasta Dio sa quanto ancora sconosciuta, ma
sicuramente di là dagli anni di vita concessi dalla natura al buon
messere Amerigo. Non ci ebbe colpa, dicono, nella faccenda del nome; fu
un capriccio della gran matta, il giorno che, sollevata un pochino dagli
occhi la benda famosa, lesse a caso il nome del Vespucci sopra una carta
delle terre di recente scoperte da un altro.
Il quale seguitava ad illudersi; come s'era illuso, quando, ritornate da
San Domingo alcune navi cariche d'oro per la Corona, della parte dovuta
all'Almirante non portarono nulla, e dovevano esserci per lui almeno
settantamila scudi; come quando, essendo mossa questione di far partire
per il nuovo Mondo tre vescovi, indarno richiese che fosse ascoltato il
suo parere prima di eleggerli. Questa, per altro, era stata ingiuria
troppo grave alla sua dignità, e non aveva saputo tollerarla. Infermo
com'era, proponendosi di andare a Segovia, dove allora si ritrovava la
Corte, a far dimostrazione del suo desiderio di farla finita con tante
tergiversazioni indegne di un re, come con tante offese al suo buon
diritto, aveva chiesto per lettera il permesso di servirsi d'una mula
per il viaggio, non potendo sopportare lo scuotimento del cavallo. È qui
da sapere che il troppo frequente uso dei muli aveva fatto trascurare in
Ispagna l'allevamento dei cavalli; onde già il re Alfonso XI aveva
proibito l'uso dei muli per cavalcatura. Il divieto era stato mitigato
in processo di tempo, ma poi rimesso in tutto il suo vigore dal re
Ferdinando, che l'andare a dorso di mulo permetteva soltanto agli
ecclesiastici, alle donne, ai fanciulli. Incomportabili angherie pei
tempi nostri; ma allora un re poteva tutto quel che voleva; e a volere
non mancavan pretesti.
La licenza, chiesta da Cristoforo Colombo negli ultimi giorni del 1504,
non fu accordata se non il 23 febbraio dell'anno seguente. Il re
Ferdinando, evidentemente seccato dall'idea di quella visita, aveva
trovata quell'altra rémora, per allontanarsene quanto più potesse la
noia. Forse ricordava il proverbio: "piglia tempo e camperai". Tante
cose potevano accadere in due mesi! E ancora fu servito dalla mala
ventura del suo Almirante maggiore, a cui le pioggie rovinose di
quell'inverno avevano guaste le strade, di guisa che non gli venne fatto
di mettersi in cammino se non un mese più tardi.
Il colloquio di Segovia meriterebbe d'esser narrato in disteso. Ma se
uno degli interlocutori ci è caro, l'altro maledettamente ci è in uggia.
Si sta mal volentieri con lui; si guadagna un tanto a vederlo di
scorcio, e passando; specie quando si sa di dover presto ritornare alla
sua non lieta presenza.
Cuoceva al re di tante concessioni straordinarie ad un navigatore
straniero; concessioni la prima volta già fatte di mala voglia, tra per
finirla con un molesto dimandatore, e per la convinzione di non
impegnarsi a nulla. Che cosa avrebbe mai scoperto quel promettitore di
regni? Qualche altro scoglio in mezzo all'Oceano, da far riscontro a
Madera e Porto Santo; nel qual caso un titolo di vicerè contava poco, e
si poteva concederlo, in vista d'un bruscolo negli occhi ai Portoghesi,
fin allora troppo fortunati vicini. O non trovava niente; e buona notte
al titolo di vicerè, come a quello d'Almirante maggiore, che andava a
seppellirsi in fondo all'Oceano. E questa, poi, era la saldissima fede
di Ferdinando d'Aragona; il quale non aveva apposta la sua riverita
firma alle concessioni sullodate, se non per compiacere ad un vero
capriccio della regina di Castiglia e Leone, sua magnanima consorte,
troppo facile ad infiammarsi d'un disegno che a lui pareva d'imbroglione
o di matto. Quelle concessioni maledette, le aveva poi confermate al
ritorno del Genovese, non matto nè imbroglione, ma scopritore d'un
mondo; le aveva confermate nel caldo di un entusiasmo che per un istante
aveva sopraffatto anche lui. Ma il secondo viaggio, con tutte le spese
che aveva cagionate, con tutte le speranze forsennate che aveva pel
momento deluse, offriva il buon pretesto per scemare allo scopritore una
somma di privilegi, che parevano inconciliabili colla maestà del regno.
Non c'era ancor l'oro a botti; c'era un mondo da sfruttare; doveva
scoprirlo tutto quell'uomo, aver la sua parte di tutto? Di qui la prima
violazione dei patti stabiliti con quell'uomo, e la licenza data ad
altri scopritori, che già diventavano legione; di qui tutto il resto,
che si compendia in un ragionamento crudele, ma semplicissimo: dobbiamo
noi lasciare tant'oro ad un marinaio fortunato, che ce ne ha ritrovata
la vena? dobbiamo noi lasciare tanti privilegi ad uno straniero, che
vuol trattar da pari a pari con noi, per il fatto che ha indovinata una
strada sul mare? E qui dubbiezze, che la pronta calunnia convertiva in
sospetti; qui malumori che la vigile perfidia traeva ad ostilità; qui
facili sdegni e dure risoluzioni, seguite da tardi pentimenti, ognuno
dei quali lasciava il suo lievito di rancori nell'animo di chi aveva
dovuto mostrarsi pentito, e disposto a render giustizia. Ma il re
Ferdinando, diventando a mano a mano più forte nei consigli della mite
Isabella, e già in via di allontanarne il cuore del suo infelice
protetto, era piuttosto vergognoso che poco desideroso di mostrarsi
sleale. E ancora, vivente la regina, si dovevano rispettar certe forme;
lei morta, e lui rimasto reggente di Castiglia in nome della figliuola
Giovanna, non c'era più ragione di rispettar neppur quelle.
Accolse dunque con fredda cortesia il gran suddito; ascoltò i lagni del
suo vicerè ed almirante maggiore, senza dargliene i titoli; venendo al
fatto, dichiarò di non potergli rispondere lì per lì, trattandosi di
quistioni complesse, e da parecchio tempo malamente intricate. Erano
giuste tutte le offese ch'egli diceva esser fatte ai suoi privilegi, con
le patenti date ad altri scopritori, ad altri governatori? C'era per
tutte queste faccende un Consiglio delle Indie. I re, disgraziatamente,
non potevano sapere appuntino ogni cosa, bastando loro di vigilare
dall'alto, perchè ad ognuno fosse facile sostener sue ragioni. Don
Cristoval sosteneva che il Consiglio delle Indie gli fosse nemico. Come
disingannarlo? come sincerarsi che si apponesse al vero? Doveva il re
sciogliere il consiglio delle Indie, in tal dubbio, e per una accusa di
parte? Non potendo scioglierlo, poteva prender licenza di non
rispettarlo? Questioni complesse, questioni intricate; ci sarebbe voluto
un arbitro, per vederci chiaro, e proferire un giudizio.
Don Cristoval si appigliò per disperato a quest'áncora di salvezza. Un
arbitro, sì, lo accettava. E perchè non sarebbe stato il vescovo di
Palencia, testè nominato arcivescovo di Siviglia, ma non ancora andato
ad occupar la sua sede? Era lì, sotto la mano, il buon Diego di Deza,
dottissimo uomo, savio, e prudente. Parve ottimo anche al re Ferdinando,
che con questa trovata aveva l'aria di concedere ogni cosa. Intanto si
levava di torno un argomentatore importuno; e guadagnava tempo, che era
l'essenziale. Piglia tempo e camperai.
Ma l'arbitro, che era parso a tutta prima un tocca e sana, non rimediava
a nulla di nulla. Sarebbe bisognato anzi tutto distinguere, stabilir
chiaramente le materie su cui dovesse esercitare la sua autorità.
Ferdinando intendeva su tutte; non così l'Almirante. Questi accettava
l'arbitro per ciò che riguardava i suoi diritti sull'entrate delle
Indie, arretrati da computare, redditi da stabilire pel futuro. E ci
fosse anche da dare un taglio, per amor di pace; l'Almirante non voleva
piatire per una questione di denaro; che anzi, senza arbitrato, si
sarebbe rimesso alla coscienza del re, e solamente accettava l'arbitrato
perchè il re non voleva far lui, per tema di apparir giudice e parte. Ma
egli, l'Almirante, non poteva egualmente sottoporre ad arbitrato i suoi
titoli di vicerè, d'almirante maggiore, di governator generale, coi
privilegi annessi e connessi, i quali ancora di recente erano stati
offesi coll'invio dei tre vescovi, senza averlo pure consultato.
--Queste,--diceva egli,--sono mie dignità, regolarmente conseguite e
guadagnate con l'opere mie a pro' della vostra Corona. Che se io ne
facessi getto, e mi adattassi a rinunziarne solo una parte, lascerei
credere di avere in alcuna cosa demeritato del regio favore, o di non
esserne stato mai degno. E se io ne son degno, perchè dispogliarmi? La
forza può tutto, ed io cederei alla forza; ma potrei appellarmi alla
divina giustizia, presso a cui, nella gloria che alle sue virtù era
dovuta, siede ora la nostra regina. Che direbbe ella, vedendo così
deluso il suo volere e non mantenuti i patti da lei liberamente
sottoscritti? Perchè i suoi voleri sian rispettati, non è stata nominata
una Giunta degli scarichi?--
Don Cristoval toccava un tasto assai delicato. Castiglia e Leone
vegliavano gelosamente alla custodia dei loro diritti. Nel matrimonio
della loro regina col re di Aragona si preparava la unione delle due
parti di Spagna in un solo reame; ma per intanto, uniti i sovrani,
restavano distinti i diritti; nè il regno più vasto voleva essere
assorbito dal più piccolo. Morta la regina di Castiglia e Leone, sotto
colore di far rispettare gli obblighi che per isgravio di coscienza
avesse ella potuto assumere in suo vivente (e qui si vedeva la mano del
clero di Castiglia, le cui ragioni di classe si confondevano con quelle
della patria dignità) era stata istituita quella Giunta, intitolata
degli "scarichi della coscienza regale", che doveva nel fatto riuscire a
freno del re Ferdinando, nel tempo della sua inevitabil reggenza in
Castiglia. E quell'uomo ch'era tuttavia così potente per far pesare la
sua autorità nelle cose d'Europa, sostituendo nella lontana penisola
italiana il predominio spagnuolo al predominio francese, non poteva
egualmente far pesare la sua volontà sul reame di Castiglia. Ne era il
reggente, finchè non giungesse la figliuola Giovanna, col suo giovine
marito, ad assumere la corona d'Isabella; e una giunta _de los
Descargos_ teneva infrenato il reggente. Casistica politica dei tempi; e
a qualche cosa serviva.
Ferdinando aveva avuto comune con Isabella il titolo di Cattolico; ed
era naturalmente devoto. Meglio sarebbe stato aver religione, pensare
che ogni promessa è debito, e che ogni debito è sacro. Egli tentò in
quella vece di persuadere l'ostinato avversario a recedere dalle sue
pretensioni, accettando un gran titolo di nobiltà e un vasto dominio in
Andalusia; Carrion de los Condes, niente di meno. Ma Cristoforo Colombo
non s'era mosso per ricchezze e per titoli; bensì per l'onore del suo
nome, che oramai era vincolato alle dignità conseguite. Ricusò dunque
dominii e marchesati; al re Ferdinando non rimase altro che di chinare
la testa, passando sotto il giogo _de los Descargos_. Giogo soave, per
altro, e con cui si guadagnava tempo, assai tempo, fin oltre il bisogno.
Quel vecchio ostinato, rotto nella salute, non avrebbe mica voluto durar
tanto da veder la Giunta degli Scarichi della coscienza regale metter
fine ai suoi delicatissimi uffici. Era composta di gran signori,
chiesastici e secolari: ferma nell'opporsi alle prepotenze del re su
Castiglia e Leone, non poteva sentire ugual voglia di render giustizia
ad uno straniero, il quale pretendeva titoli e privilegi non mai
ottenuti in tal copia nè con tale pienezza da alcun suddito di
Castiglia, di Leone, d'Aragona.
Bene si avvide Cristoforo Colombo, che da quella parte non c'era niente
a sperare. Passavano i mesi, e la Giunta studiava ancora, o diceva di
studiare. Nè per altra via aveva potuto smuovere il re, quantunque le
buone parole non mancassero mai. E giunto così alla primavera del 1505,
dopo aver scritto in quel modo che sappiamo al conte Fiesco, suo
compagno di gloria, così scriveva desolato ad un altro amico, a Don
Diego di Deza, fatto arbitro un istante, ma senza frutto, della sua
querela col re.
"Pare che Sua Altezza non estimi a proposito di mantenere le promesse,
da lui e dalla regina, la quale or si trova nel sen della gloria,
ricevute sotto la lor parola e sotto il loro sigillo. Opporsi al volere
di lui sarebbe un lottar contro il vento. Io ho fatto tutto ciò che
dovevo; lascio il resto a Dio."


CAPITOLO IX.
Spera di sole.

Segovia, nella Vecchia Castiglia, poco distante dalle falde
settentrionali della Sierra di Guadarrama, è una città nobile e bella,
come tutte le città molto antiche di qualsivoglia paese, che possono
piacere e non piacere, secondo i gusti e gli umori, ma che bisogna
accettar come sono. A buon conto l'avevano per bellissima i suoi
dodicimila abitanti del 1506, tenendosi molto della sua zecca, che era
la più vecchia della Spagna; delle sue diciotto chiese, compresa la
cattedrale di stile tra gotico e moresco, non meno decorosa del duomo di
Salamanca, e provveduta d'un campanile a gran pezza più alto; finalmente
del suo Alcazar, saldamente piantato su d'una roccia dominante, antico
soggiorno dei re Mori, e per allora della Corte spagnuola, nomade al
solito, e già meditante il suo trapasso a qualche città meno antica,
forse, ma più adatta a ricevere i nuovi sovrani di Castiglia, il cui
arrivo dalle Fiandre si sperava sempre imminente.
L'orgoglio di Segovia era il suo acquedotto romano, di cento e
sessantun arco, in due file sovrapposte, tutti di pietre riquadrate e
senza cemento. L'aveva fatto costrurre Traiano, come i Segoviani
affermavano? Poteva essere; ma in verità non era neanche necessario
ricorrere a quel virtuoso imperatore, nato Spagnuolo, per intendere il
fatto di quella maraviglia d'arte in Ispagna, essendo nota la
imparzialità Romana in materia edilizia, e l'usanza costante di decorare
di grandi opere di pubblica utilità ogni parte più lontana del
vastissimo impero. L'acquedotto di Segovia non aveva altro torto che di
fare tropp'ombra in certe strade della città per cui veniva a passare,
tragittandosi dall'una all'altra delle due colline su cui ella era
fabbricata, in forma di nave, a cui il fiumicello Eresma faceva uffizio
di chiglia. Ma è detto che ogni gloria si paghi; e Segovia pagava la sua
gloria a quel modo, come pagava la sua sicurezza antica con un giro di
mura turrite, aperte da sette porte, quattro delle quali mettevano ad
altrettanti sobborghi. Donde si vede che fin d'allora Segovia non capiva
in sè stessa. E faceva mostra d'un'insolita animazione, in quella fine
d'inverno del 1506, tra tanti fumi di grandezze cortigiane, quasi non
sentendo più il freddo, ignorando perfino di avere tra le sue mura,
all'ombra dell'acquedotto di Traiano, un grand'uomo, ma grande davvero,
e non di quelli che si distinguevano per classi.
Povero grand'uomo, a sessant'anni già vecchio, mani e piedi rattrappiti
dalla gotta, senz'altra energia che degli occhi sfolgoranti, senz'altra
gioventù che della bocca, rimasta sempre bellissima! Stava a letto la
più parte del giorno, poichè quell'anno l'inverno s'era mantenuto
rigidissimo, invadendo anche ed usurpando i principii della primavera;
ond'egli, latinista impenitente, soleva dire col suo malinconico
sorriso: "_in cauda venenum_". Per poche ore, intorno al mezzodì,