Raggio di Dio: Romanzo - 05
del colle. E mentre da quel lato il palazzo dei Fieschi dominava il
prospetto della superba Genova, fronteggiando il colle di Sarzano e la
mole dell'antico Castello, guardava da tramontana il vasto anfiteatro
del monte Peraldo colla sua gran cinta di mura alte sui greppi; da
mezzogiorno, poi, vedeva gran tratto di mare, solcato da centinaia di
vele, che uscivano dal porto o venivano all'approdo, passando sotto i
suoi occhi lungo la Marinella, detta altrimenti il seno di Giano; e da
levante, se pur non iscorgeva il Bisagno, nascosto sotto le alte mura di
Santa Chiara, godeva la scena incantevole del colle d'Albaro, colla
imminente piramide del monte Fasce e collo sfondo azzurro del
promontorio di Portofino, dietro a cui si stendeva la riviera di
Levante, oramai diventata un gran feudo dei Fieschi.
Al palazzo, che meglio si sarebbe detto castello, si accedeva da due
parti; da levante per un viale campestre, collegato alla via che
dall'Acquasola e dagli Archi di Santo Stefano metteva a San Giacomo di
Carignano, e là si presentava difeso da due grossi torrioni; da ponente,
ove appariva più alto, quasi impervio come una rupe Tarpea, si giungeva
ad esso dal borgo dei Lanieri, lungo il Rivo Torbido. Colà, passato
appena il convento e la chiesa de' Servi, si levava pel dorso della
Montagnola una gran cordonata di oltre cento scaglioni, onde si risaliva
ad un loggiato coperto, di là riuscendo ad un ingresso laterale
dell'edifizio, aperto sopra una vasta spianata di giardino. Arrivati
finalmente lassù, si godevano i particolari di quella nobile fabbrica,
onde da lontano si era ammirata soltanto la maestà del complesso. Non
dissimilmente dalla chiesa contigua, il palazzo era sui quattro lati
incrostato di marmi a fasce alterne bianche e nere, rotte a giuste
distanze da grandi finestre, partite a colonnini; e le finestre,
inframmezzate da statue, raccolte nelle loro nicchie sagomate con
bell'arte d'intagli, erano fiancheggiate da lunghi ramponi di ferro,
rivoltati a staffa, tutti terminati in un giglio di ferro battuto,
certamente in omaggio cortigianesco ai gigli di Francia. A quei ramponi
sporgenti, che altri casati di parte ghibellina usavano decorare d'un
capo d'aquila, si soleva nei giorni di pubblica festa appendere gli
scudi e l'arme di famiglia; il che dicevasi fare la impavesata. Nè
mancava la "conoscenza" ossia la insegna della gente, scudo, cimiero e
motto, espressi in pietra di Lavagna e murati ben alto sui prospetti del
palazzo. Più basso, per modo che si vedesse bene dai viandanti, era
murata la targa indicante il privilegio d'immunità dalla forza della
giustizia, onde il Comune aveva donate le case dei Fieschi. In quelle
targhe, o liste di marmo, poste sugli angoli dell'edifizio, si vedevano
scolpite due mani rivolte alla croce di Genova; ed erano i segni "_ultra
quae non licebat satellitibus homines infestare_".
Descritta la forma esterna del palazzo di Vialata, sarebbe forse utile
fare altrettanto per gli appartamenti e gli arredi. Ma noi abbiamo
soltanto da accompagnarci Bartolomeo Fieschi, il quale non vorrà
restarci lungamente; perciò tralasceremo una descrizione che troppo
somiglierebbe ad un inventario, nella sua aridità notarile. Luigi XII,
che alloggiò in Vialata nell'anno 1502, ebbe a dire, certamente
prendendo occasione dal palazzo del suo ospite, che le case dei
Genovesi erano più doviziose e meglio fornite della stessa sua reggia.
Io, per amore dell'arte, accennerò soltanto che nel vestibolo Gian
Aloise aveva fatto dipingere a buon fresco i Giganti fulminati da Giove;
motivo che indi a poco doveva essere imitato da Pierino del Vaga nella
caminata di Andrea Doria a Fassòlo. Rivalità di sfoggio signorile, che
incominciava a mostrarsi in forme artistiche e mitologiche, per girar
poi alle manifestazioni politiche e diguazzare nel sangue! Per opera di
un altro Gian Luigi, quarantadue anni più tardi, il Giove ottuagenario
di Fassòlo, mortogli il nipote Giannettino e minacciata da presso la
recente sua reggia, era costretto a fuggire di nottetempo infino ai
monti di Voltri; ritornato di là a cose quiete, non perdonò la paura che
gli avevan fatta provare, e prese a fulminare i Giganti di Vialata,
abbattendone l'orgoglio, diroccandone dalle fondamenta il palazzo
fastoso.
Nella sua gran caminata, dipinta da Leonardo dell'Aquila, finalese, e da
Giacomo Serfoglio, da Salto, l'eccelso Gian Aloise ricevette il parente
aspettato. Bartolomeo Fiesco era alloggiato da gentiluomo a Gioiosa
Guardia, con gusto severo ed onesta larghezza, secondo il costume dei
vecchi. Là dentro, in Vialata, era una varietà artistica che prendeva
accortamente da tutti paesi, ed una profusione di lusso da abbagliare la
vista. Tappeti di Fiandra coprivano i pavimenti; forzieri ferrati alla
francese si alternavano lungo le pareti a gran sedie intagliate di noce,
alcune sormontate dalle armi gattesche e roveresche accollate, altre
dalle armi gattesche e carrettesche, a ricordare i successivi
matrimonii di Gian Aloise con Bartolomea della Rovere, nepote di papa
Giulio II, e con Caterina del Carretto, sorella al marchese del Finale.
Archi turcheschi con le loro faretre, vecchi trofei di ammiragli della
casata, ornavano la gran cappa del camino, di pietra di Lavagna,
riccamente intagliato a fiori, fogliami, chimere ed altre forme di
mostri, non esclusi i soliti imperatori romani. Qua e là in vistose
credenze si accoglievano a centinaia gli arnesi di prezioso metallo;
idrie, guastade d'argento lavorato a rilievo e dorato, catini e piatti
d'argento istoriato, confettiere d'argento niellato alla barcellonese.
Ma più assai delle opere d'orefice, più ancora d'una collana di grosse
perle in numero di settantatrè, che si ammirava con altre gemme in una
vetrina particolare, colpivano il visitatore gli arazzi ond'erano
coperte le vaste pareti, con certe istorie del Testamento vecchio, tra
cui primeggiava per bontà di disegno e vivezza di colori, come per
terribilità di effetti, quella di Nabucodonosor, il gran colosso dal
piede d'argilla. In una sala attigua alla caminata il nostro capitano
Fiesco aveva già dovuto fermarsi a contemplare altri arazzi, che
recavano espressa la storia romanzesca di Biancafiore.
Al giungere del suo parente di Gioiosa Guardia si levò l'eccelso Gian
Aloise dal gran seggiolone di cuoio dorato su cui stava seduto, davanti
ad una tavola lunga, coperta di quel drappo turchino che fin d'allora si
chiamava "da consigli" poichè già si fabbricava a quell'uso, di coprir
tavole da adunanze. Nel mezzo del drappo erano ricamate le armi dei
Fieschi, ripetute da per tutto, perfino sul calamaio quadro di legno
d'ebano intarsiato, nel manico d'argento del temperatoio, e sul pernio
delle forbicette dorate che gli facevano compagnia. In tutti i
particolari, in tutte le minuzie, appariva il lusso sfoggiato e il
consapevole orgoglio d'un principe. Non ci maravigliamo se mirasse al
dominio di Pisa.
Dall'anno 1494 ardeva la guerra tra Firenze e Pisa, questa amando viver
libera, e quella volendo signoreggiarla. Nè a Genova nè al suo
potentissimo Gian Aloise Fiesco tornava che i Fiorentini dilatassero
maggiormente l'imperio, poichè non solo questi agognavano l'occupazione
di Pisa, ma insidiavano Pietrasanta e Sarzana. Per tali ragioni si
accoglieva l'ambasceria dei Pisani, che offrivano di congiungersi
perpetuamente con la Repubblica genovese, pronti ad accettarne le leggi.
Ma qui cominciavano ancora i dissensi. Erano nel Senato nobili e
popolani, cioè famiglie antiche feudali, e famiglie di popolo grasso,
salite ai primi gradi, ma non tenute pari a quell'altre, che pur da
talune popolari avevano lasciato occupare il dogato, designandole un
pochettino a scherno col soprannome di Cappellazzi. Erano queste le
famiglie dei Fregosi e degli Adorni, dei Montaldi e dei Guarchi, sempre
appoggiate a questa o a quella delle famiglie nobili, o feudali, dei
Fieschi e dei Grimaldi da un lato, dei Doria e degli Spinola dall'altro.
Ma l'appoggio era dato in guisa, che, le rivalità continuando tra i
Cappellazzi, non potesse mai prosperare e soverchiare una parte di loro,
e i nobili godessero tranquilli fuor di città i loro dominii feudali,
lavorando ancora ad estenderli come potessero, gli uni con la prevalenza
della parte guelfa, gli altri della parte ghibellina in Italia. Guelfi i
Fieschi e i Grimaldi, dovevano facilmente trionfare nei secoli XIV e XV,
in cui cadevano quasi da per tutto in Italia le fortune imperiali. Doria
e Spinola, dal canto loro, dovevano presto rifarsi, colla protezione di
Spagna. Intanto, nel periodo incerto della prevalenza francese in
Italia, e guelfi e ghibellini, essendo nobili tutti, parevano sentirla
ad un modo, per opporsi alle ambizioni dei popolari; onde si vide nel
primo trentennio del secolo XVI andar pienamente d'accordo i Fieschi coi
Doria.
Tornando alle offerte di Pisa, com'erano fatte solennemente al Senato
genovese, proponevano i popolari di accettarle, soccorrendo quella nobil
città, non senza concedere ai Pisani la cittadinanza di Genova, e
mandando famiglie genovesi quante più si potesse a stabilirsi in Pisa.
Consiglio generoso e prudente era quello; ma non poteva piacere a Gian
Aloise Fiesco, vicario e capitano generale della Riviera di Levante.
Pisa soccorsa con un esercito pari al bisogno, altro non significava che
la Riviera di Levante aperta a quell'esercito; onde per allora scemata
l'autorità del capitan generale, e in processo di tempo perduto l'util
dominio di quel vicariato. Pisa soccorsa con poca gente, significava
vittoria dei Fiorentini, col loro voltarsi minaccioso non pure contro
Pietrasanta e Sarzana, ma ancora e più contro i dominii feudali dei
Fieschi.
Di qui la opposizione che alle offerte dei Pisani aveva fatta Gian
Aloise in Senato, mettendo innanzi che non si potesse far nulla senza
il beneplacito del re Cristianissimo, a cui Genova si era data in balìa.
E perchè il re Luigi si trovava allora di qua dalle Alpi, si sentisse
lui, se n'esplorasse l'animo, prima di deliberare il soccorso di Pisa.
Così nascevano le due ambasciate d'ufficio; una ai Pisani, per dar buone
parole, l'altra al re Luigi, per averne il parere.
Ma il re Luigi doveva rispondere in quel modo che al Fiesco tornasse più
utile. E perchè la risposta volgesse favorevole alle ambizioni del
potente signore, andavano lettere di costui; portate da un suo
fidatissimo uomo, a quel re. In pari tempo occorreva guadagnar l'animo
dei Pisani, mandando loro un altr'uomo per chiedere se il valido e
sicuro aiuto d'un gran signore genovese non potesse convenir loro assai
più dell'incerto e scarso che dar poteva il Senato. Certo, ponendo in
questa forma il dilemma, i Pisani non avrebbero esitato un istante. E
perchè il re Cristianissimo si sarebbe acconciato ai fatti compiuti,
occorreva che l'uomo mandato ai Pisani fosse destro negoziatore e
capitano risoluto ad un tempo, cioè pronto a tirar dentro un grosso di
soldatesche, già preparato a due terzi di strada, per unirlo a difesa
della città con le forze di Pisa, comandate allora da Tarlatino di Città
di Castello, un condottiero che si poteva sperare di trar bellamente
agli interessi del futuro padrone.
Bartolomeo Fiesco era stato a sentire, tanto più attento, quanto più a
lui era rivolto il discorso; come spesso occorre nelle assemblee grandi
e piccole, che gli argomenti tutti dell'oratore e tutti i lenocinii
dell'arte sua mirano sempre ad uno tra gli ascoltatori, e gli altri
sono come zeri, destinati a far numero con quella unità. Certo, se il
capitano Fiesco accettava di esser egli l'uomo per Pisa, il partito di
soccorrer questa con le forze dei Fieschi era vinto; il re
Cristianissimo avrebbe approvato il fatto; Gian Giacopo Trivulzio
sarebbe rimasto colla voglia; i popolari genovesi non avrebbero più
potuto alzare la testa; mentre dal canto suo Gian Aloise avrebbe
posseduta di schianto una tal potenza principesca, da pesar poi, bene o
male, ma sempre moltissimo, sulla bilancia mal certa delle fortune
d'Italia.
Ma il capitano Fiesco non voleva esser quell'uomo. Più sentiva ragioni
che lo dovessero smuovere, più ne trovava da opporre. Lo aveva giudicato
male, il suo eccelso parente, argomentando di lui da sè stesso.
--Ahimè!--diss'egli, quando vide venire quell'altro a mezza
spada.--Riconosco la bellezza audace del vostro disegno; ma tanta
bellezza e tanta audacia non sono il fatto mio. Senza contare che io non
son destro ai maneggi politici, e mi ci troverei davvero come un pesce
fuor d'acqua, penso che nella parte militare dell'impresa fallirei per
precipitazione, che è il guaio dell'indole mia, e di cui non son mai
riescito a guarirmi. Troppo grande è il carico che vorrebbe darmi la
vostra fiducia, ed io sono troppo piccolo uomo.
--Ma pensate,--replicò Gian Aloise, non vedendo altro nella risposta del
capitano Fiesco che un effetto di modestia soverchia,--pensate che
sareste spalleggiato da tutti. Duemila uomini son pronti a Sarzana, e
mille a Pontremoli; tutta gente che al vostro cenno correrebbero sotto
Pisa. Non vi parlo della gente che ho tra Rapallo e Lavagna, che ben
sapete quant'è. L'avreste tutta, come si suol dire, sotto la mano.
--Ripeto, non è il fatto mio;--ribattè Bartolomeo Fiesco.--Voi mi fate
più esperto capitano che io non mi sia mai sognato di essere. Chi ha
comandato i cento, e magari i cinquecent'uomini, può ritrovarsi con
diecimila impacciato come un pulcino nella stoppa.
--Eh via! s'ha da credere? Chi è stato a tanti sbaragli, meritando la
lode e l'affetto del vicerè delle Indie occidentali, non vorrà mica
perder la testa in una faccenda che deve andare da sè.
--Se deve andare da sè come Voi dite, perchè metterci a capo un uomo che
mostrate di stimare più ch'egli non sia stato mai? Ogni altro, che abbia
risolutezza, dovrebbe bastare.
--Risolutezza e perspicacia;--ripigliò Gian Aloise.--E perspicacia ed
ambizione di far bene. Non avete Voi ambizione?
--No;--rispose Bartolomeo Fiesco.
--Per un Fiesco, è nuova;--ribattè Gian Aloise.--Per Bartolomeo delle
Indie, è strana.--
Lo toccavano sul vivo; e naturalmente gli saltò la mosca al naso; che la
pazienza non era mai stata il suo forte.
--Ecco;--diss'egli, assumendo a suo modo una cert'aria di gravità e
promettendo colla solennità dell'accento un lungo discorso;--facciamo ad
intenderci. Ne ho avute, delle ambizioni; e potrei averne ancora, ma in
un campo diverso. Bartolomeo delle Indie, avete detto, e sta bene.
Rimandatelo dunque alle Indie. Qui si fanno gran cose, che potranno
riuscir piccine alla prova; laggiù si fan cose piccine, che potranno
esser grandi. E questo, badate, non per diverso vedere, ma perchè laggiù
si taglia dalla pezza, potendo fare una cappa da gentiluomini, mentre
qui si raccozzano scampoli e stracci, volendo cucirsene un manto reale.
Perchè questo? Perchè qui siamo gli eredi di un gramo passato, e in
molti e in troppi ci contendiamo un osso già spolpato da Goti e Greci,
da Longobardi e Franchi, da Ungheri ed Alemanni; un osso, mi capite? che
oggi han preso a smidollare Francesi e Spagnuoli. Laggiù, vivaddio, non
si è eredi di nessuno; laggiù si può esser magari gli autori della
stirpe e gli arbitri del futuro, preparandolo con libertà, bene o male,
meritandone la gratitudine o le maledizioni dei posteri.
--Spaziate come un'aquila, cugino!--esclamò Gian Aloise.
--E sarò un nibbio, poi;--rispose il capitano Fiesco.--Ma vedo, se
permettete, un orizzonte più largo di questo; forse perchè ho viaggiato
di più in compagnia d'un uomo grande, l'unico grande che mi offrano le
storie, non escluso quel Carlomagno a cui si riferiscono le nostre
vanità, quando vanno più alte. Il mio grand'uomo, col suo ingegno e
colla sua costanza, ha trovato un mondo nuovo; quell'altro, con la sua
forza, con la sua onnipotenza, non è riuscito se non a rimpiastricciare
il vecchio, che gli è rimasto poi sempre un lavoraccio.
--Povero a voi, se foste vissuto a' suoi tempi! neanche un paladino
avreste voluto diventarci?
--Chi sa? Ed avrei forse ottenuto il gran titolo, facendo imprese da
cantarsi in piazza per rallegrare la gente. Questa che noi faremmo,
avendo la Riviera di Levante per via, e la foce d'Arno per meta, sia
pure importante come a Voi pare; ne posso ammettere l'utilità, non ne
vedo la grandezza, non ne sento il desiderio. Perdonate, illustre
cugino; e possa cascarmi la lingua, se ho qui la più lontana intenzione
di spiacervi; verrà giorno che anco dei Fieschi si perda il nobilissimo
seme. Già, con tanti vescovi, cardinali e papi nella nostra famiglia,
niente è più probabile di questo. Ed altre ne periranno egualmente, meno
nemiche nel corso dei secoli al precetto divino del _crescite et
multiplicamini_. Ma delle une e delle altre sarà molto che duri fra
mill'anni il confuso ricordo; laddove fra diecimila, se tanti ne camperà
questo povero globo, resterà viva la memoria della maravigliosa scoperta
di Cristoforo Colombo, lanaiolo e marinaio. Di me chi ricorderà che
giovane ho combattuto in patria, per utile degli Adorni e per danno dei
Fregosi? Un cenno fortuito di cronaca, forse, che anco potrà esser roso
dai tarli e travolto nella cesta delle cartacce. Ma le storie diranno,
ne ho fede, ai più lontani nepoti, che ero ancor io alla maravigliosa
scoperta, e che ai pericoli del mare ignoto fu recato per opera mia un
po' del buon sangue marinaro di certi conti venuti su da Lavagna.
--Questi poveri conti ve ne ringrazieranno dai loro sepolcri;--notò Gian
Aloise imbizzito.
--E faran bene, vedete?--ripigliò senza scomporsi Bartolomeo Fiesco.--I
vecchi, infatti, che oggi si gloriano di tante cose destinate a perire,
avranno ottenuto nella persona mia la loro parte di gloria vera,
nell'opera stupenda, indimenticabile, eterna, d'un uomo nuovo, d'un
marinaio, d'un lanaiuolo. Ecco la mia ambizione, Gian Aloise; la quiete,
oramai, non avendo più nulla a fare di ciò che m'era più a grado, e il
cuore avendo pur esso i suoi diritti; la quiete della mia bicocca, e la
certezza d'una pagina non brutta nella storia del mondo. Soldato ero, e
al bisogno potrei ritornare, se fossero in giuoco l'onore e la sicurezza
dei Fieschi. Avessero anche il torto, non istarei a guardare, e dal
posto mio non mancherei all'appello. Ma questo per difesa, e sentendo la
voce del sangue. Ci sono obblighi sacri, come ci sono necessità
ineluttabili. Anche il primo dei filosofi, uso alle più ardue
speculazioni della mente, mangia beve e dorme e veste panni come
l'ultimo degl'imbecilli. Facciamo l'obbligo nostro, cediamo alle
necessità della vita; ma il pensiero sia libero, e resti il cuore nei
vincoli cari ch'egli stesso s'è imposti. Non mi date ragione?
--Siete un bel matto;--disse Gian Aloise, ridendo.
La masticava male, per altro, e non rideva di cuore. Come avrebb'egli
potuto, dopo quella intemerata del suo caro parente, la cui poca
ambizione gli guastava in un punto i superbi disegni? Il potente signore
di cinquanta castella, da Montobbio a Pontremoli, vicario e capitano
generale della Riviera di Levante da Rapallo a Sarzana, principe del
Senato e quasi protettore della Repubblica di Genova, non aveva tra
tanti consanguinei, nè tra gli aderenti più saldi, l'uomo che potesse
andare a Pisa per lui. O piuttosto ne avrebbe avuti cento, ma non
adatti, non arnesi, come suol dirsi, da bosco e da riviera, diplomatici
ad un tempo e soldati, accorti per tastare il terreno, dare indietro
senza parere, o andare fino al fondo senza esitare un istante. Avveduto
com'era, l'eccelso Gian Aloise non voleva dare un passo se non era certo
del fatto suo, bene sapendo che in un fallo commesso, e non riparabile,
egli avrebbe perduta, non che l'impresa, la fama.
Rise, adunque, ma per dissimulare la stizza; e rimase freddo, ostentando
di parlar d'altro. Freddi al pari di lui rimasero gli altri della nobil
casata; tra i quali Emanuele ed Ettore Fieschi erano certamente i più
ragguardevoli dopo di lui. Freddissimi poi i tre giovani figli di Gian
Aloise, che erano per ordine di nascita Geronimo, Scipione e Sinibaldo;
i primi due destinati a morir presto, e il terzo a raccogliere l'eredità
di tutti, avendo poi da Maria della Rovere l'ultimo dei Gian Luigi, e il
più famoso per la sua tragica fine. Tutti costoro si sentivano un po'
offesi, più ancora che dal rifiutato viaggio di Pisa, dalla poca stima
che il capitano Fiesco faceva dei nobili di antica stirpe, a paragone
d'un uomo nuovo, d'un lanaiuolo, che aveva scoperto il nuovo Mondo.
Scoprire un nuovo Mondo, gran che! Ciò poteva toccare in sorte ad ogni
marinaio, sbalestrato dalle tempeste lontano dai lidi conosciuti. Vincer
battaglie, occupar terre murate, sbalzar rivali di seggio, ottener
signorie, era quello il gran fatto, da cui si riconosceva la bontà dei
cavalieri antichi. Mettere un oscuro lanaiuolo più su della loro
prosapia! una prosapia discendente per più o meno sicuri rami del real
sangue di Borgogna! Ma tanto valeva allora dichiararsi partigiano dei
Popolari, che finalmente, se non erano nobili feudali, in gran parte
avevano contratto parentado con essi, e da trecent'anni si erano
illustrati nelle più alte magistrature della repubblica.
Filippino, da ultimo, non sapeva che pesci pigliare. Se in quel momento
non gli fosse passata davanti agli occhi la immagine di Fior d'oro,
lasciandogli intravvedere anche il pericolo di non accostarsi più a lei,
certamente egli avrebbe rizzato muso più di tutti al suo pazzo
congiunto. E dire che era stato lui, Filippino, a metter gli occhi sul
capitano delle Indie, per la commissione di Pisa; lui a muoversi per
Chiavari e andarlo a cercare in Gioiosa Guardia, per condurlo davanti
all'eccelso Gian Aloise! E dire che di quella impresa si era tanto
lodato in cuor suo! Che figura doveva essere in quella vece la sua, nel
cospetto del signor di Vialata, che tanto si riprometteva da
quell'alzata d'ingegno del giovane innamorato!
Il capitano Fiesco aveva preveduto l'effetto del suo rifiuto sull'animo
di Gian Aloise; a quella freddezza si era ben preparato. Perciò, vedendo
languire la conversazione, e per cagion sua, non volle restare a farla
morire del tutto, nè altrimenti mostrarsi impacciato.
--Ad un povero cavaliere,--incominciò egli allora,--ad un povero
cavaliere che non vi può servire a nulla (e potete credere che gliene
dolga nel profondo dell'anima) Voi concederete licenza di ritornare alla
sua bicocca, non è vero?--
Gian Aloise fece da principio un gran cenno del capo, che pareva un
segno di condiscendenza dell'olimpio Giove. Quindi con gravità
d'accento, onde trapelava un pochettino d'ironia, lasciò cadere dal
labbro queste misurate parole.
--Non piaccia a Dio che vogliam dare alla nostra cara figlioccia
maggior dispiacere di quello che ha avuto, restando un giorno lontana
dal suo dolce marito. Ad un pronto commiato, che voi mostrate di
desiderare senza neppur trattenervi alla nostra tavola per quest'oggi,
mettiamo per altro una condizione, che troverete onesta ed assai
temperata. Alla regina di Xaragua, che fu donna d'alto cuore e di forti
propositi, riferirete tutto ciò che vi abbiamo detto, e la prova di
fiducia che eravamo disposti a darvi. Così, buon cugino, avremo conforto
a pensare che per la prima volta forse, ma non senza giusto motivo, la
contessa Juana sentirà un po' diverso da Voi; in fatto di ambizione, per
esempio, ed anche in fatto di amicizia. Lasciatemelo dire,--soggiunse il
vecchio gentiluomo, vedendo che il capitano Fiesco faceva l'atto di
provarsi a rispondere,--perchè davvero vi siete mostrato più tenero
della quiete vostra che della mia amicizia. Non la perdete, però; Gian
Aloise Fiesco ha il cuore più alto che la gente non creda.--
Il capitano Fiesco pensò che fosse meglio star zitto, lasciando
all'eccelso parente la soddisfazione d'aver parlato per l'ultimo.
Altrimenti, di parola in parola, Dio sa quel che sarebbe avvenuto;
questo, ad esempio, ch'egli si sarebbe ripigliati tutti i suoi buoni
argomenti, li avrebbe appesi all'arcione, e sarebbe corso a spron
battuto su Pisa.
S'inchinò, dunque, con aria di molta confusione, e non disse parola in
risposta a quel discorso agrodolce di Gian Aloise.
--Mi permetterete,--balbettò in quella vece,--di offrire i miei omaggi a
madonna Caterina?
--Potete andare; è laggiù nelle sue stanze.--
Il capitano Fiesco non se lo fece dire due volte, e si allontanò,
salutando con molta disinvoltura tutta la sua illustre casata.
La nobile Fiesca era là, a pochi passi dalla caminata, nell'anticamera,
o, per usar la lingua del tempo, nella "guardacamera" della sua sala di
ricevimento. Non ci voleva molta perspicacia ad intendere che la signora
contessa era stata in ascolto alla toppa dell'uscio. Ella stessa, del
resto, lo confessò candidamente al suo visitatore.
--Vi ho udito;--diss'ella.--Vi eravate molto animato, e non ho perduto
neppur una delle vostre parole.
--Immaginate, madonna Caterina;--rispose egli umilmente,--come io sia
addolorato di non aver potuto rispondere meglio alla fiducia del vostro
eccelso consorte.
--Non vi addolorate, cugino;--replicò la nobil signora.--Il mio cuore di
donna vi ha dato ragione. Ma son cose da proporsi? ad un giovanotto che
da un anno appena ha impalmata la più bella e la più cara creatura del
mondo? E che idee di grandezza nuova son queste, che possono mettere a
repentaglio l'antica? Che follìa, poi, di rendere, con sempre più vaste
ambizioni, scontenti i figliuoli del loro stato presente, che è già così
alto, e tanto invidiato?
--Intendo la madre:--notò Bartolomeo Fiesco;--ma la discendente di
Aleramo potrà forse giudicare più benignamente le vaste ambizioni di
Gian Aloise.
--V'ingannate, cugino. La discendente di Aleramo sa che il grand'uomo si
attenne alla marca che gli era stata data in custodia, nè volle alzar
gli occhi, o metter la mira più in alto. E Guglielmo Lungaspada, e
Gerberga sua moglie, amarono far lignaggio di cavalieri contenti al più
modesto ma ancora assai nobile ufficio di governare pacificamente un
popolo di quieti ed onesti lavoratori. Lungi dal pensiero di accrescere
il dominio, o di tenerlo raccolto in un ramo della famiglia, lo
spartirono equamente tra i loro figliuoli; e dove le città della
spiaggia, fatte ricche dal mare, vollero esser padrone di sè, non furono
i signori del Carretto quelli che si ostinarono a tenerle sotto tutela.
Quando poi la cupidigia e l'ingiustizia tolsero ad uno di loro la parte
sua, e che voleva esser sua per vincolo di amore, sapete bene che Dio
non tardò a reintegrarne la famiglia nel suo giusto possesso. Ed io
vengo di là, buon cugino; vengo da quel dolce Finaro che sempre tenne
fede ai miei padri, meritando ch'essi non levassero gli occhi a cose più
alte, ma più vane, e più pericolose per giunta.--
Così parlava il cuore d'una madre. Sentiva egli già, cuore presago, le
matte ambizioni condurre a ruina la casa? Quarantadue anni ancora, e
nell'ambizioso figliuolo del suo Sinibaldo non pure la grandezza della
casa doveva perire, ma la istessa progenie dei Fieschi.
CAPITOLO VI.
Filemone e Bauci.
Era partito per Genova con una scorta di sei balestrieri a cavallo, non
volendo scomparire con la gente di messer Filippino, e piacendogli di
onorare per una volta tanto il suo antico luogotenente Giovanni Passano,
diventato in certo qual modo suo genero, ma sopra tutto suo "alter ego"
in Genova per ragion di negozi. Quanto a sè, viaggiava volentieri da
solo, come quando al suo ritorno dal forte di San Tommaso, davanti alle
cascatelle del rio Verde, era caduto nella imboscata dei selvaggi di
Maguana; ricordo piacevole, com'è sempre quello d'un pericolo corso e
scampato; ricordo piacevolissimo, perchè dal pericolo di morte gli era
venuto il suo raggio di vita, alla presenza di Anacoana, la bellissima
tra le belle, la perla di Haiti, il fior di Xaragua.
Povera madonna Catarina Bescapè della piazza del Regisole in Pavia, come
impallidivate al paragone! Già non eravate più che un'ombra, una larva,
come tutte quelle giovani bellezze di Cuba e di Haiti, Samana Taorib,
Caritaba non meno Taorib, Abarima più Taorib di tutte, e non meno
dimenticata anche lei. Il gran sole di Maguana aveva facilmente
prospetto della superba Genova, fronteggiando il colle di Sarzano e la
mole dell'antico Castello, guardava da tramontana il vasto anfiteatro
del monte Peraldo colla sua gran cinta di mura alte sui greppi; da
mezzogiorno, poi, vedeva gran tratto di mare, solcato da centinaia di
vele, che uscivano dal porto o venivano all'approdo, passando sotto i
suoi occhi lungo la Marinella, detta altrimenti il seno di Giano; e da
levante, se pur non iscorgeva il Bisagno, nascosto sotto le alte mura di
Santa Chiara, godeva la scena incantevole del colle d'Albaro, colla
imminente piramide del monte Fasce e collo sfondo azzurro del
promontorio di Portofino, dietro a cui si stendeva la riviera di
Levante, oramai diventata un gran feudo dei Fieschi.
Al palazzo, che meglio si sarebbe detto castello, si accedeva da due
parti; da levante per un viale campestre, collegato alla via che
dall'Acquasola e dagli Archi di Santo Stefano metteva a San Giacomo di
Carignano, e là si presentava difeso da due grossi torrioni; da ponente,
ove appariva più alto, quasi impervio come una rupe Tarpea, si giungeva
ad esso dal borgo dei Lanieri, lungo il Rivo Torbido. Colà, passato
appena il convento e la chiesa de' Servi, si levava pel dorso della
Montagnola una gran cordonata di oltre cento scaglioni, onde si risaliva
ad un loggiato coperto, di là riuscendo ad un ingresso laterale
dell'edifizio, aperto sopra una vasta spianata di giardino. Arrivati
finalmente lassù, si godevano i particolari di quella nobile fabbrica,
onde da lontano si era ammirata soltanto la maestà del complesso. Non
dissimilmente dalla chiesa contigua, il palazzo era sui quattro lati
incrostato di marmi a fasce alterne bianche e nere, rotte a giuste
distanze da grandi finestre, partite a colonnini; e le finestre,
inframmezzate da statue, raccolte nelle loro nicchie sagomate con
bell'arte d'intagli, erano fiancheggiate da lunghi ramponi di ferro,
rivoltati a staffa, tutti terminati in un giglio di ferro battuto,
certamente in omaggio cortigianesco ai gigli di Francia. A quei ramponi
sporgenti, che altri casati di parte ghibellina usavano decorare d'un
capo d'aquila, si soleva nei giorni di pubblica festa appendere gli
scudi e l'arme di famiglia; il che dicevasi fare la impavesata. Nè
mancava la "conoscenza" ossia la insegna della gente, scudo, cimiero e
motto, espressi in pietra di Lavagna e murati ben alto sui prospetti del
palazzo. Più basso, per modo che si vedesse bene dai viandanti, era
murata la targa indicante il privilegio d'immunità dalla forza della
giustizia, onde il Comune aveva donate le case dei Fieschi. In quelle
targhe, o liste di marmo, poste sugli angoli dell'edifizio, si vedevano
scolpite due mani rivolte alla croce di Genova; ed erano i segni "_ultra
quae non licebat satellitibus homines infestare_".
Descritta la forma esterna del palazzo di Vialata, sarebbe forse utile
fare altrettanto per gli appartamenti e gli arredi. Ma noi abbiamo
soltanto da accompagnarci Bartolomeo Fieschi, il quale non vorrà
restarci lungamente; perciò tralasceremo una descrizione che troppo
somiglierebbe ad un inventario, nella sua aridità notarile. Luigi XII,
che alloggiò in Vialata nell'anno 1502, ebbe a dire, certamente
prendendo occasione dal palazzo del suo ospite, che le case dei
Genovesi erano più doviziose e meglio fornite della stessa sua reggia.
Io, per amore dell'arte, accennerò soltanto che nel vestibolo Gian
Aloise aveva fatto dipingere a buon fresco i Giganti fulminati da Giove;
motivo che indi a poco doveva essere imitato da Pierino del Vaga nella
caminata di Andrea Doria a Fassòlo. Rivalità di sfoggio signorile, che
incominciava a mostrarsi in forme artistiche e mitologiche, per girar
poi alle manifestazioni politiche e diguazzare nel sangue! Per opera di
un altro Gian Luigi, quarantadue anni più tardi, il Giove ottuagenario
di Fassòlo, mortogli il nipote Giannettino e minacciata da presso la
recente sua reggia, era costretto a fuggire di nottetempo infino ai
monti di Voltri; ritornato di là a cose quiete, non perdonò la paura che
gli avevan fatta provare, e prese a fulminare i Giganti di Vialata,
abbattendone l'orgoglio, diroccandone dalle fondamenta il palazzo
fastoso.
Nella sua gran caminata, dipinta da Leonardo dell'Aquila, finalese, e da
Giacomo Serfoglio, da Salto, l'eccelso Gian Aloise ricevette il parente
aspettato. Bartolomeo Fiesco era alloggiato da gentiluomo a Gioiosa
Guardia, con gusto severo ed onesta larghezza, secondo il costume dei
vecchi. Là dentro, in Vialata, era una varietà artistica che prendeva
accortamente da tutti paesi, ed una profusione di lusso da abbagliare la
vista. Tappeti di Fiandra coprivano i pavimenti; forzieri ferrati alla
francese si alternavano lungo le pareti a gran sedie intagliate di noce,
alcune sormontate dalle armi gattesche e roveresche accollate, altre
dalle armi gattesche e carrettesche, a ricordare i successivi
matrimonii di Gian Aloise con Bartolomea della Rovere, nepote di papa
Giulio II, e con Caterina del Carretto, sorella al marchese del Finale.
Archi turcheschi con le loro faretre, vecchi trofei di ammiragli della
casata, ornavano la gran cappa del camino, di pietra di Lavagna,
riccamente intagliato a fiori, fogliami, chimere ed altre forme di
mostri, non esclusi i soliti imperatori romani. Qua e là in vistose
credenze si accoglievano a centinaia gli arnesi di prezioso metallo;
idrie, guastade d'argento lavorato a rilievo e dorato, catini e piatti
d'argento istoriato, confettiere d'argento niellato alla barcellonese.
Ma più assai delle opere d'orefice, più ancora d'una collana di grosse
perle in numero di settantatrè, che si ammirava con altre gemme in una
vetrina particolare, colpivano il visitatore gli arazzi ond'erano
coperte le vaste pareti, con certe istorie del Testamento vecchio, tra
cui primeggiava per bontà di disegno e vivezza di colori, come per
terribilità di effetti, quella di Nabucodonosor, il gran colosso dal
piede d'argilla. In una sala attigua alla caminata il nostro capitano
Fiesco aveva già dovuto fermarsi a contemplare altri arazzi, che
recavano espressa la storia romanzesca di Biancafiore.
Al giungere del suo parente di Gioiosa Guardia si levò l'eccelso Gian
Aloise dal gran seggiolone di cuoio dorato su cui stava seduto, davanti
ad una tavola lunga, coperta di quel drappo turchino che fin d'allora si
chiamava "da consigli" poichè già si fabbricava a quell'uso, di coprir
tavole da adunanze. Nel mezzo del drappo erano ricamate le armi dei
Fieschi, ripetute da per tutto, perfino sul calamaio quadro di legno
d'ebano intarsiato, nel manico d'argento del temperatoio, e sul pernio
delle forbicette dorate che gli facevano compagnia. In tutti i
particolari, in tutte le minuzie, appariva il lusso sfoggiato e il
consapevole orgoglio d'un principe. Non ci maravigliamo se mirasse al
dominio di Pisa.
Dall'anno 1494 ardeva la guerra tra Firenze e Pisa, questa amando viver
libera, e quella volendo signoreggiarla. Nè a Genova nè al suo
potentissimo Gian Aloise Fiesco tornava che i Fiorentini dilatassero
maggiormente l'imperio, poichè non solo questi agognavano l'occupazione
di Pisa, ma insidiavano Pietrasanta e Sarzana. Per tali ragioni si
accoglieva l'ambasceria dei Pisani, che offrivano di congiungersi
perpetuamente con la Repubblica genovese, pronti ad accettarne le leggi.
Ma qui cominciavano ancora i dissensi. Erano nel Senato nobili e
popolani, cioè famiglie antiche feudali, e famiglie di popolo grasso,
salite ai primi gradi, ma non tenute pari a quell'altre, che pur da
talune popolari avevano lasciato occupare il dogato, designandole un
pochettino a scherno col soprannome di Cappellazzi. Erano queste le
famiglie dei Fregosi e degli Adorni, dei Montaldi e dei Guarchi, sempre
appoggiate a questa o a quella delle famiglie nobili, o feudali, dei
Fieschi e dei Grimaldi da un lato, dei Doria e degli Spinola dall'altro.
Ma l'appoggio era dato in guisa, che, le rivalità continuando tra i
Cappellazzi, non potesse mai prosperare e soverchiare una parte di loro,
e i nobili godessero tranquilli fuor di città i loro dominii feudali,
lavorando ancora ad estenderli come potessero, gli uni con la prevalenza
della parte guelfa, gli altri della parte ghibellina in Italia. Guelfi i
Fieschi e i Grimaldi, dovevano facilmente trionfare nei secoli XIV e XV,
in cui cadevano quasi da per tutto in Italia le fortune imperiali. Doria
e Spinola, dal canto loro, dovevano presto rifarsi, colla protezione di
Spagna. Intanto, nel periodo incerto della prevalenza francese in
Italia, e guelfi e ghibellini, essendo nobili tutti, parevano sentirla
ad un modo, per opporsi alle ambizioni dei popolari; onde si vide nel
primo trentennio del secolo XVI andar pienamente d'accordo i Fieschi coi
Doria.
Tornando alle offerte di Pisa, com'erano fatte solennemente al Senato
genovese, proponevano i popolari di accettarle, soccorrendo quella nobil
città, non senza concedere ai Pisani la cittadinanza di Genova, e
mandando famiglie genovesi quante più si potesse a stabilirsi in Pisa.
Consiglio generoso e prudente era quello; ma non poteva piacere a Gian
Aloise Fiesco, vicario e capitano generale della Riviera di Levante.
Pisa soccorsa con un esercito pari al bisogno, altro non significava che
la Riviera di Levante aperta a quell'esercito; onde per allora scemata
l'autorità del capitan generale, e in processo di tempo perduto l'util
dominio di quel vicariato. Pisa soccorsa con poca gente, significava
vittoria dei Fiorentini, col loro voltarsi minaccioso non pure contro
Pietrasanta e Sarzana, ma ancora e più contro i dominii feudali dei
Fieschi.
Di qui la opposizione che alle offerte dei Pisani aveva fatta Gian
Aloise in Senato, mettendo innanzi che non si potesse far nulla senza
il beneplacito del re Cristianissimo, a cui Genova si era data in balìa.
E perchè il re Luigi si trovava allora di qua dalle Alpi, si sentisse
lui, se n'esplorasse l'animo, prima di deliberare il soccorso di Pisa.
Così nascevano le due ambasciate d'ufficio; una ai Pisani, per dar buone
parole, l'altra al re Luigi, per averne il parere.
Ma il re Luigi doveva rispondere in quel modo che al Fiesco tornasse più
utile. E perchè la risposta volgesse favorevole alle ambizioni del
potente signore, andavano lettere di costui; portate da un suo
fidatissimo uomo, a quel re. In pari tempo occorreva guadagnar l'animo
dei Pisani, mandando loro un altr'uomo per chiedere se il valido e
sicuro aiuto d'un gran signore genovese non potesse convenir loro assai
più dell'incerto e scarso che dar poteva il Senato. Certo, ponendo in
questa forma il dilemma, i Pisani non avrebbero esitato un istante. E
perchè il re Cristianissimo si sarebbe acconciato ai fatti compiuti,
occorreva che l'uomo mandato ai Pisani fosse destro negoziatore e
capitano risoluto ad un tempo, cioè pronto a tirar dentro un grosso di
soldatesche, già preparato a due terzi di strada, per unirlo a difesa
della città con le forze di Pisa, comandate allora da Tarlatino di Città
di Castello, un condottiero che si poteva sperare di trar bellamente
agli interessi del futuro padrone.
Bartolomeo Fiesco era stato a sentire, tanto più attento, quanto più a
lui era rivolto il discorso; come spesso occorre nelle assemblee grandi
e piccole, che gli argomenti tutti dell'oratore e tutti i lenocinii
dell'arte sua mirano sempre ad uno tra gli ascoltatori, e gli altri
sono come zeri, destinati a far numero con quella unità. Certo, se il
capitano Fiesco accettava di esser egli l'uomo per Pisa, il partito di
soccorrer questa con le forze dei Fieschi era vinto; il re
Cristianissimo avrebbe approvato il fatto; Gian Giacopo Trivulzio
sarebbe rimasto colla voglia; i popolari genovesi non avrebbero più
potuto alzare la testa; mentre dal canto suo Gian Aloise avrebbe
posseduta di schianto una tal potenza principesca, da pesar poi, bene o
male, ma sempre moltissimo, sulla bilancia mal certa delle fortune
d'Italia.
Ma il capitano Fiesco non voleva esser quell'uomo. Più sentiva ragioni
che lo dovessero smuovere, più ne trovava da opporre. Lo aveva giudicato
male, il suo eccelso parente, argomentando di lui da sè stesso.
--Ahimè!--diss'egli, quando vide venire quell'altro a mezza
spada.--Riconosco la bellezza audace del vostro disegno; ma tanta
bellezza e tanta audacia non sono il fatto mio. Senza contare che io non
son destro ai maneggi politici, e mi ci troverei davvero come un pesce
fuor d'acqua, penso che nella parte militare dell'impresa fallirei per
precipitazione, che è il guaio dell'indole mia, e di cui non son mai
riescito a guarirmi. Troppo grande è il carico che vorrebbe darmi la
vostra fiducia, ed io sono troppo piccolo uomo.
--Ma pensate,--replicò Gian Aloise, non vedendo altro nella risposta del
capitano Fiesco che un effetto di modestia soverchia,--pensate che
sareste spalleggiato da tutti. Duemila uomini son pronti a Sarzana, e
mille a Pontremoli; tutta gente che al vostro cenno correrebbero sotto
Pisa. Non vi parlo della gente che ho tra Rapallo e Lavagna, che ben
sapete quant'è. L'avreste tutta, come si suol dire, sotto la mano.
--Ripeto, non è il fatto mio;--ribattè Bartolomeo Fiesco.--Voi mi fate
più esperto capitano che io non mi sia mai sognato di essere. Chi ha
comandato i cento, e magari i cinquecent'uomini, può ritrovarsi con
diecimila impacciato come un pulcino nella stoppa.
--Eh via! s'ha da credere? Chi è stato a tanti sbaragli, meritando la
lode e l'affetto del vicerè delle Indie occidentali, non vorrà mica
perder la testa in una faccenda che deve andare da sè.
--Se deve andare da sè come Voi dite, perchè metterci a capo un uomo che
mostrate di stimare più ch'egli non sia stato mai? Ogni altro, che abbia
risolutezza, dovrebbe bastare.
--Risolutezza e perspicacia;--ripigliò Gian Aloise.--E perspicacia ed
ambizione di far bene. Non avete Voi ambizione?
--No;--rispose Bartolomeo Fiesco.
--Per un Fiesco, è nuova;--ribattè Gian Aloise.--Per Bartolomeo delle
Indie, è strana.--
Lo toccavano sul vivo; e naturalmente gli saltò la mosca al naso; che la
pazienza non era mai stata il suo forte.
--Ecco;--diss'egli, assumendo a suo modo una cert'aria di gravità e
promettendo colla solennità dell'accento un lungo discorso;--facciamo ad
intenderci. Ne ho avute, delle ambizioni; e potrei averne ancora, ma in
un campo diverso. Bartolomeo delle Indie, avete detto, e sta bene.
Rimandatelo dunque alle Indie. Qui si fanno gran cose, che potranno
riuscir piccine alla prova; laggiù si fan cose piccine, che potranno
esser grandi. E questo, badate, non per diverso vedere, ma perchè laggiù
si taglia dalla pezza, potendo fare una cappa da gentiluomini, mentre
qui si raccozzano scampoli e stracci, volendo cucirsene un manto reale.
Perchè questo? Perchè qui siamo gli eredi di un gramo passato, e in
molti e in troppi ci contendiamo un osso già spolpato da Goti e Greci,
da Longobardi e Franchi, da Ungheri ed Alemanni; un osso, mi capite? che
oggi han preso a smidollare Francesi e Spagnuoli. Laggiù, vivaddio, non
si è eredi di nessuno; laggiù si può esser magari gli autori della
stirpe e gli arbitri del futuro, preparandolo con libertà, bene o male,
meritandone la gratitudine o le maledizioni dei posteri.
--Spaziate come un'aquila, cugino!--esclamò Gian Aloise.
--E sarò un nibbio, poi;--rispose il capitano Fiesco.--Ma vedo, se
permettete, un orizzonte più largo di questo; forse perchè ho viaggiato
di più in compagnia d'un uomo grande, l'unico grande che mi offrano le
storie, non escluso quel Carlomagno a cui si riferiscono le nostre
vanità, quando vanno più alte. Il mio grand'uomo, col suo ingegno e
colla sua costanza, ha trovato un mondo nuovo; quell'altro, con la sua
forza, con la sua onnipotenza, non è riuscito se non a rimpiastricciare
il vecchio, che gli è rimasto poi sempre un lavoraccio.
--Povero a voi, se foste vissuto a' suoi tempi! neanche un paladino
avreste voluto diventarci?
--Chi sa? Ed avrei forse ottenuto il gran titolo, facendo imprese da
cantarsi in piazza per rallegrare la gente. Questa che noi faremmo,
avendo la Riviera di Levante per via, e la foce d'Arno per meta, sia
pure importante come a Voi pare; ne posso ammettere l'utilità, non ne
vedo la grandezza, non ne sento il desiderio. Perdonate, illustre
cugino; e possa cascarmi la lingua, se ho qui la più lontana intenzione
di spiacervi; verrà giorno che anco dei Fieschi si perda il nobilissimo
seme. Già, con tanti vescovi, cardinali e papi nella nostra famiglia,
niente è più probabile di questo. Ed altre ne periranno egualmente, meno
nemiche nel corso dei secoli al precetto divino del _crescite et
multiplicamini_. Ma delle une e delle altre sarà molto che duri fra
mill'anni il confuso ricordo; laddove fra diecimila, se tanti ne camperà
questo povero globo, resterà viva la memoria della maravigliosa scoperta
di Cristoforo Colombo, lanaiolo e marinaio. Di me chi ricorderà che
giovane ho combattuto in patria, per utile degli Adorni e per danno dei
Fregosi? Un cenno fortuito di cronaca, forse, che anco potrà esser roso
dai tarli e travolto nella cesta delle cartacce. Ma le storie diranno,
ne ho fede, ai più lontani nepoti, che ero ancor io alla maravigliosa
scoperta, e che ai pericoli del mare ignoto fu recato per opera mia un
po' del buon sangue marinaro di certi conti venuti su da Lavagna.
--Questi poveri conti ve ne ringrazieranno dai loro sepolcri;--notò Gian
Aloise imbizzito.
--E faran bene, vedete?--ripigliò senza scomporsi Bartolomeo Fiesco.--I
vecchi, infatti, che oggi si gloriano di tante cose destinate a perire,
avranno ottenuto nella persona mia la loro parte di gloria vera,
nell'opera stupenda, indimenticabile, eterna, d'un uomo nuovo, d'un
marinaio, d'un lanaiuolo. Ecco la mia ambizione, Gian Aloise; la quiete,
oramai, non avendo più nulla a fare di ciò che m'era più a grado, e il
cuore avendo pur esso i suoi diritti; la quiete della mia bicocca, e la
certezza d'una pagina non brutta nella storia del mondo. Soldato ero, e
al bisogno potrei ritornare, se fossero in giuoco l'onore e la sicurezza
dei Fieschi. Avessero anche il torto, non istarei a guardare, e dal
posto mio non mancherei all'appello. Ma questo per difesa, e sentendo la
voce del sangue. Ci sono obblighi sacri, come ci sono necessità
ineluttabili. Anche il primo dei filosofi, uso alle più ardue
speculazioni della mente, mangia beve e dorme e veste panni come
l'ultimo degl'imbecilli. Facciamo l'obbligo nostro, cediamo alle
necessità della vita; ma il pensiero sia libero, e resti il cuore nei
vincoli cari ch'egli stesso s'è imposti. Non mi date ragione?
--Siete un bel matto;--disse Gian Aloise, ridendo.
La masticava male, per altro, e non rideva di cuore. Come avrebb'egli
potuto, dopo quella intemerata del suo caro parente, la cui poca
ambizione gli guastava in un punto i superbi disegni? Il potente signore
di cinquanta castella, da Montobbio a Pontremoli, vicario e capitano
generale della Riviera di Levante da Rapallo a Sarzana, principe del
Senato e quasi protettore della Repubblica di Genova, non aveva tra
tanti consanguinei, nè tra gli aderenti più saldi, l'uomo che potesse
andare a Pisa per lui. O piuttosto ne avrebbe avuti cento, ma non
adatti, non arnesi, come suol dirsi, da bosco e da riviera, diplomatici
ad un tempo e soldati, accorti per tastare il terreno, dare indietro
senza parere, o andare fino al fondo senza esitare un istante. Avveduto
com'era, l'eccelso Gian Aloise non voleva dare un passo se non era certo
del fatto suo, bene sapendo che in un fallo commesso, e non riparabile,
egli avrebbe perduta, non che l'impresa, la fama.
Rise, adunque, ma per dissimulare la stizza; e rimase freddo, ostentando
di parlar d'altro. Freddi al pari di lui rimasero gli altri della nobil
casata; tra i quali Emanuele ed Ettore Fieschi erano certamente i più
ragguardevoli dopo di lui. Freddissimi poi i tre giovani figli di Gian
Aloise, che erano per ordine di nascita Geronimo, Scipione e Sinibaldo;
i primi due destinati a morir presto, e il terzo a raccogliere l'eredità
di tutti, avendo poi da Maria della Rovere l'ultimo dei Gian Luigi, e il
più famoso per la sua tragica fine. Tutti costoro si sentivano un po'
offesi, più ancora che dal rifiutato viaggio di Pisa, dalla poca stima
che il capitano Fiesco faceva dei nobili di antica stirpe, a paragone
d'un uomo nuovo, d'un lanaiuolo, che aveva scoperto il nuovo Mondo.
Scoprire un nuovo Mondo, gran che! Ciò poteva toccare in sorte ad ogni
marinaio, sbalestrato dalle tempeste lontano dai lidi conosciuti. Vincer
battaglie, occupar terre murate, sbalzar rivali di seggio, ottener
signorie, era quello il gran fatto, da cui si riconosceva la bontà dei
cavalieri antichi. Mettere un oscuro lanaiuolo più su della loro
prosapia! una prosapia discendente per più o meno sicuri rami del real
sangue di Borgogna! Ma tanto valeva allora dichiararsi partigiano dei
Popolari, che finalmente, se non erano nobili feudali, in gran parte
avevano contratto parentado con essi, e da trecent'anni si erano
illustrati nelle più alte magistrature della repubblica.
Filippino, da ultimo, non sapeva che pesci pigliare. Se in quel momento
non gli fosse passata davanti agli occhi la immagine di Fior d'oro,
lasciandogli intravvedere anche il pericolo di non accostarsi più a lei,
certamente egli avrebbe rizzato muso più di tutti al suo pazzo
congiunto. E dire che era stato lui, Filippino, a metter gli occhi sul
capitano delle Indie, per la commissione di Pisa; lui a muoversi per
Chiavari e andarlo a cercare in Gioiosa Guardia, per condurlo davanti
all'eccelso Gian Aloise! E dire che di quella impresa si era tanto
lodato in cuor suo! Che figura doveva essere in quella vece la sua, nel
cospetto del signor di Vialata, che tanto si riprometteva da
quell'alzata d'ingegno del giovane innamorato!
Il capitano Fiesco aveva preveduto l'effetto del suo rifiuto sull'animo
di Gian Aloise; a quella freddezza si era ben preparato. Perciò, vedendo
languire la conversazione, e per cagion sua, non volle restare a farla
morire del tutto, nè altrimenti mostrarsi impacciato.
--Ad un povero cavaliere,--incominciò egli allora,--ad un povero
cavaliere che non vi può servire a nulla (e potete credere che gliene
dolga nel profondo dell'anima) Voi concederete licenza di ritornare alla
sua bicocca, non è vero?--
Gian Aloise fece da principio un gran cenno del capo, che pareva un
segno di condiscendenza dell'olimpio Giove. Quindi con gravità
d'accento, onde trapelava un pochettino d'ironia, lasciò cadere dal
labbro queste misurate parole.
--Non piaccia a Dio che vogliam dare alla nostra cara figlioccia
maggior dispiacere di quello che ha avuto, restando un giorno lontana
dal suo dolce marito. Ad un pronto commiato, che voi mostrate di
desiderare senza neppur trattenervi alla nostra tavola per quest'oggi,
mettiamo per altro una condizione, che troverete onesta ed assai
temperata. Alla regina di Xaragua, che fu donna d'alto cuore e di forti
propositi, riferirete tutto ciò che vi abbiamo detto, e la prova di
fiducia che eravamo disposti a darvi. Così, buon cugino, avremo conforto
a pensare che per la prima volta forse, ma non senza giusto motivo, la
contessa Juana sentirà un po' diverso da Voi; in fatto di ambizione, per
esempio, ed anche in fatto di amicizia. Lasciatemelo dire,--soggiunse il
vecchio gentiluomo, vedendo che il capitano Fiesco faceva l'atto di
provarsi a rispondere,--perchè davvero vi siete mostrato più tenero
della quiete vostra che della mia amicizia. Non la perdete, però; Gian
Aloise Fiesco ha il cuore più alto che la gente non creda.--
Il capitano Fiesco pensò che fosse meglio star zitto, lasciando
all'eccelso parente la soddisfazione d'aver parlato per l'ultimo.
Altrimenti, di parola in parola, Dio sa quel che sarebbe avvenuto;
questo, ad esempio, ch'egli si sarebbe ripigliati tutti i suoi buoni
argomenti, li avrebbe appesi all'arcione, e sarebbe corso a spron
battuto su Pisa.
S'inchinò, dunque, con aria di molta confusione, e non disse parola in
risposta a quel discorso agrodolce di Gian Aloise.
--Mi permetterete,--balbettò in quella vece,--di offrire i miei omaggi a
madonna Caterina?
--Potete andare; è laggiù nelle sue stanze.--
Il capitano Fiesco non se lo fece dire due volte, e si allontanò,
salutando con molta disinvoltura tutta la sua illustre casata.
La nobile Fiesca era là, a pochi passi dalla caminata, nell'anticamera,
o, per usar la lingua del tempo, nella "guardacamera" della sua sala di
ricevimento. Non ci voleva molta perspicacia ad intendere che la signora
contessa era stata in ascolto alla toppa dell'uscio. Ella stessa, del
resto, lo confessò candidamente al suo visitatore.
--Vi ho udito;--diss'ella.--Vi eravate molto animato, e non ho perduto
neppur una delle vostre parole.
--Immaginate, madonna Caterina;--rispose egli umilmente,--come io sia
addolorato di non aver potuto rispondere meglio alla fiducia del vostro
eccelso consorte.
--Non vi addolorate, cugino;--replicò la nobil signora.--Il mio cuore di
donna vi ha dato ragione. Ma son cose da proporsi? ad un giovanotto che
da un anno appena ha impalmata la più bella e la più cara creatura del
mondo? E che idee di grandezza nuova son queste, che possono mettere a
repentaglio l'antica? Che follìa, poi, di rendere, con sempre più vaste
ambizioni, scontenti i figliuoli del loro stato presente, che è già così
alto, e tanto invidiato?
--Intendo la madre:--notò Bartolomeo Fiesco;--ma la discendente di
Aleramo potrà forse giudicare più benignamente le vaste ambizioni di
Gian Aloise.
--V'ingannate, cugino. La discendente di Aleramo sa che il grand'uomo si
attenne alla marca che gli era stata data in custodia, nè volle alzar
gli occhi, o metter la mira più in alto. E Guglielmo Lungaspada, e
Gerberga sua moglie, amarono far lignaggio di cavalieri contenti al più
modesto ma ancora assai nobile ufficio di governare pacificamente un
popolo di quieti ed onesti lavoratori. Lungi dal pensiero di accrescere
il dominio, o di tenerlo raccolto in un ramo della famiglia, lo
spartirono equamente tra i loro figliuoli; e dove le città della
spiaggia, fatte ricche dal mare, vollero esser padrone di sè, non furono
i signori del Carretto quelli che si ostinarono a tenerle sotto tutela.
Quando poi la cupidigia e l'ingiustizia tolsero ad uno di loro la parte
sua, e che voleva esser sua per vincolo di amore, sapete bene che Dio
non tardò a reintegrarne la famiglia nel suo giusto possesso. Ed io
vengo di là, buon cugino; vengo da quel dolce Finaro che sempre tenne
fede ai miei padri, meritando ch'essi non levassero gli occhi a cose più
alte, ma più vane, e più pericolose per giunta.--
Così parlava il cuore d'una madre. Sentiva egli già, cuore presago, le
matte ambizioni condurre a ruina la casa? Quarantadue anni ancora, e
nell'ambizioso figliuolo del suo Sinibaldo non pure la grandezza della
casa doveva perire, ma la istessa progenie dei Fieschi.
CAPITOLO VI.
Filemone e Bauci.
Era partito per Genova con una scorta di sei balestrieri a cavallo, non
volendo scomparire con la gente di messer Filippino, e piacendogli di
onorare per una volta tanto il suo antico luogotenente Giovanni Passano,
diventato in certo qual modo suo genero, ma sopra tutto suo "alter ego"
in Genova per ragion di negozi. Quanto a sè, viaggiava volentieri da
solo, come quando al suo ritorno dal forte di San Tommaso, davanti alle
cascatelle del rio Verde, era caduto nella imboscata dei selvaggi di
Maguana; ricordo piacevole, com'è sempre quello d'un pericolo corso e
scampato; ricordo piacevolissimo, perchè dal pericolo di morte gli era
venuto il suo raggio di vita, alla presenza di Anacoana, la bellissima
tra le belle, la perla di Haiti, il fior di Xaragua.
Povera madonna Catarina Bescapè della piazza del Regisole in Pavia, come
impallidivate al paragone! Già non eravate più che un'ombra, una larva,
come tutte quelle giovani bellezze di Cuba e di Haiti, Samana Taorib,
Caritaba non meno Taorib, Abarima più Taorib di tutte, e non meno
dimenticata anche lei. Il gran sole di Maguana aveva facilmente
- Parts
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- Raggio di Dio: Romanzo - 02
- Raggio di Dio: Romanzo - 03
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