Racconti storici e morali - 09
giunge a recar qualche miglioramento alle sue preparazioni... Oggi
soffre; la sua famiglia langue nell'inedia; domani la sua cassa non sarà
forse tant'ampia da contenere tutto l'oro che la sua scoperta deve
procurargli. Ma il domani giunge, e Bernardo Palissy non coglie alcun
frutto migliore. Ogni giorno la sua abitazione risonava dei lamenti
della sua donna, e spesso fino i suoi figliuoli s'univano alla madre per
pregarlo in lagrime e a mani giunte a ripigliar il primo mestiere di
pittore sul vetro, che gli porgerà il mezzo di viver tranquillo. Palissy
ai rimproveri della moglie, alle preghiere de' figliuoli opponeva una
volontà irremovibile e la coscienza dell'opera sua. Trascorrono
vent'anni in questa condizione dolorosa, e Palissy persevera nel suo
proposito. Beffatto, avuto per pazzo, sospetto di sortilegio e di falsa
moneta, il suo corraggio non vacilla. Finalmente con una nuova
combinazione crede esser riuscito, quando un vasajo ch'egli aveva preso
con sè, l'abbandona all'improvviso, chiedendo il suo salario. Palissy,
privo di credito, spogliato di tutto, è obbligato dargli in pagamento
parte del proprj abiti. Abbandonato a sè, si rivolge al suo forno, che
avea fabbricato nella cantina della casa ma ohimè! gli manca la legna.
Che farci?.... Eppure nella cottura di questo nuovo saggio riposa
l'ultima sua speranza. Corre dunque al giardino, strappa le pergole,
brucia i pali, e tosto il forno è acceso.
Ma la fiamma langue e minaccia spegnersi, ed il calor del forno non è
ancora intenso abbastanza. Allora Palissy, fuori di sè, vi butta dentro
i mobili le porte, le finestre, perfino l'assito della sua camera; le
lagrime, le suppliche della famiglia non possono arrestarlo; gli bisogna
legna per alimentare il forno, e tutto quel che dà calore è
irrevocabilmente sagrificato... Palissy è in ruina... Ma l'esito coronò
i suoi sforzi! Un alto grido di gioja fa rintronar le vôlte della
cantina, e rimbomba per tutta la casa; e quando la moglie di Palissy,
scossa dallo strano grido, scende, trova il marito in piedi collo
sguardo attonito fisso sopra un vaso di brillanti colori che tiene nelle
mani.
Il genio dell'invenzione, per lungo tempo sordo alle ricerche di
Palissy, aveva posto finalmente sul capo dell'artista la corona del
premio; egli aveva in sè quella santa credenza che non s'inganna mai.
La fama della scoperta di Palissy non tardò a diffondersi, e la fortuna
ritornò tra le sue pareti. Enrico III, lo chiamò a Parigi e gli diede
abitazione nelle Tuillerie ed il brevetto _d'inventore delle rustiche
figurine del re_.
Ma l'editto contro i Protestanti, pubblicato il 1559 da Enrico III, non
risparmiò Palissy, che professando la religione riformata, fu trascinato
alla Bastiglia, dove il 1589 terminò i suoi giorni. Enrico III andò a
visitarlo nel carcere, dolendosi d'esser costretto a lasciarlo in mano
a' suoi nemici.
— Voi mi diceste più volte, sire (rispose Palissy), di aver pietà di me.
Ma io ho pietà di voi, che pronunciaste queste parole _son costretto_.
Non è parlar da re. Io v'insegnerò il linguaggio di re. I carnefici,
tutto il vostro popolo, voi stesso non potreste costringer me ad un atto
di adorazione cui non credessi; nulla potreste sopra di me, giacchè io
so morire.»
Palissy ergevasi allora due metri più alto di Enrico III; l'artigiano
eclissava la maestà del re.
Non è un fatto nuovo, anzi ne ribocca la storia delle umane infelicità;
il vedere il giusto in prigione o il genio trattato da pazzo, perchè fa
torto alle sublimi mediocrità col volere aver ragione prima del tempo.
Ma giovi qui ripeterne un esempio. È noto già; ma son noti anche Leonida
e Regolo ed Epaminonda, che tutti i dì ci si ricantano all'orecchio.
Riferiamolo dunque:
— Regnante Luigi XIII, un uomo aveva concepito il disegno di adoperar il
vapore come forza attiva sopra scala molto estesa; ma quell'uomo, il cui
nome si conservò coi più celebrati nella storia delle arti e dei
mestieri, doveva incontrare la più malevola contraddizione. La
famigerata Marion Delorme scriveva a Cinq-Mars, famoso per la congiura
contro il ministro Richelieu, questa lettera di graziosa leggerezza, che
mostra in qual poco conto si tenessero nel bel mondo le cose serie, e
quanto valesse allora la politica della Francia. Quando bene questa
lettera non avesse contenuto che una semplice narrazione, la inurbana
gajezza con cui è dettata reca, nostro malgrado, un vivo stringimento di
cuore: poichè niun disgusto può compararsi a quello che fa nascere in
noi un annunzio di morte uscito da bocca sorridente.
3 febbraio 1641.
_Mio caro_,
Mentre voi mi dimenticate a Narbona, abbandonandovi alle voluttà
della Corte ed al piacere di far opposizione al cardinale
Richelieu, io, seguendo il desiderio che mi dimostraste, fo gli
onori di Parigi al vostro lord inglese, il marchese di Worcester,
e lo conduco, o per dir meglio, mi fo condurre di curiosità in
curiosità, scegliendo sempre le più triste e le più serie,
parlando poco, ascoltando con estrema attenzione, e ficcando
addosso a coloro che interroga due occhioni azzurri, che pare
vogliano penetrare nel fondo del pensiero. Del resto, egli non
s'accontenta mai delle spiegazioni che gli vengono fatte, e non
prende mai le cose dal lato da cui gli vengono mostrate. Lo prova
la visita che andammo a fare insieme a Bicêtre (l'ospedale de'
pazzi) dove pretende d'avere scoperto in un pazzo un uomo di
genio. Se il pazzo non fosse stato furioso, credo in verità che
il vostro marchese n'avrebbe implorata la liberazione per
condurselo a Londra, ed ascoltare le sue pazzie dall'alba al
tramonto. Quando attraversammo il cortile dei pazzi, e più morta
che viva dalla paura, io mi stringeva al mio compagno, un brutto
ceffo si mostra dietro una grossa inferriata, gridando con voce
soffocata:
— Io non sono un pazzo, io: ho fatto una scoperta che deve
arricchire il paese che vorrà porla in pratica.
— Cos'è questa scoperta?» diss'io fissando colui che ci mostrava
la casa.
— Ah! egli rispose alzando le spalle: una cosa affatto semplice;
e che voi non indovinereste mai: l'uso del vapore dell'acqua
bollente.»
Mi posi a ridere.
— Quest'uomo (ripigliò il custode) chiamasi Salomone di Caus.
Venne di Normandia or fa quattro anni per presentare al re una
memoria intorno ai meravigliosi effetti che si potrebbero trarre
dalla sua invenzione. A sentirlo col vapore si farebbero girar
macchine, camminar vetture, che so io? Il cardinale cacciò questo
pazzo senza ascoltarlo. Salomone di Caus, invece di scoraggiarsi,
si pose a seguitar dappertutto il cardinale, che, stanco di
trovarselo sempre fra i piedi, ordinò di chiuderlo a Bicêtre,
dove si trova da tre anni e mezzo, e dove, come avete potuto udir
da voi stessa, grida ad ogni forestiere, che non è pazzo, e che
ha fatto una scoperta meravigliosa. Compose perfino un libro
intorno a ciò, e lo tengo qui.»
Milord Worcester, tutto pensoso, chiese il libro, e lette alcune
pagine, disse: — Costui non è un pazzo, no; e nella mia patria
sarebbe stato colmato di ricchezze; conducetemi a lui voglio
interrogarlo.»
Fu condotto, e ritornò tristo e meditabondo.
— Ora (disse) egli è pazzo; la sventura e la prigionia gli hanno
fatto smarrir la ragione per sempre, ma siete voi altri che
l'avete reso pazzo; e quando l'avete gettato in questa prigione,
gettaste qui il più gran talento della nostra età.»
Quindi ce ne partimmo, e d'allora in poi egli non parla che di
Salomone di Caus. Addio, mio caro e fido Enrico; ritornate al più
presto; e non siate tanto felice, che non vi resti un po' d'amore
per me.
Il libro rimesso dal custode al marchese di Worcester era certamente
quello, che l'infelice Salomone di Caus aveva pubblicato nel 1613 col
titolo: _Le ragioni delle forze motrici con diverse macchine tanto utili
quanto dilettevoli._ Il pensiero di alzar l'acqua per mezzo della forza
elastica del vapore appartiene dunque a lui. Quarantott'anni dopo, il
marchese di Worcester credette poterselo appropriare, senza timore di
udirsene tolta la gloria. Gli Inglesi, sommi applicatori d'idee nuove,
mostrano spesso una ciarlataneria senza pari. L'amor nazionale non
richiede che si facciano prede nel dominio intellettuale dei vicini, nè
che il frutto della rapina e dell'audacia venga qualificato come prima
proprietà.
Franklin, Parmentier, Montgolfier, Jaquard, Riquet, trovano naturalmente
posto fra gli artigiani anteriori al 1789, quando l'elevazione dal terzo
stato e il furore rivoluzionario e gli artefizj de' diplomatici e il
fanatismo erudito e i tanti malanni furono guidati dalla Provvidenza ad
effettuare la rigenerazione della povera plebe.
Or chi volesse intendere la vita dell'artigiano di Parigi, dico
dell'artigiano galantuomo, eccone uno schizzo:
«L'operajo è senza forse una delle fisonomie più caratteristiche del
nostro mondo sociale: occupa un luogo distinto, e per necessità del suo
lavoro trovandosi spesso in contatto con tutte le classi della società,
non ritrae nulla della fisionomia d'alcuna di esse. Prima di tutto, egli
è _lui_. Di natura libero, tiene molto di quel lasciar correre, che non
trovasi che nelle nature vergini, e non l'udreste mai proferir cattive
parole e stizzose. Quando motteggia, il suo pensiero è fecondo di
arguzie, di rado v'entra il sarcasmo: quando è in collera; il suo petto
si dilata, i suoi occhi mandano lampi, la sua voce è tonante, e la
parola divien secca e fiera; ma, siccome dopo la procella vien sereno,
così la collera sua nasconde un cuore pieno di perdono.
«Lavorare, poi lavorare, sempre lavorare; ecco il compendio della vita
dell'operajo. S'alza dalle cinque alle sei per recarsi al telonio;
notate per parentesi che egli abita d'ordinario all'estremità della
città e la sua officina è all'estremità opposta; e al suono della
campana entra nel lavorerio, e vestitosi, si pone all'opera. Il vestito
di lavoro consiste nel levarsi la sopraveste, rimboccar le maniche della
camicia, affibbiar un grembiule al corpo con una coreggia di cuojo.
Dalle sette alle nove i martelli e gli strumenti lavorano a forza di
braccia; alle nove la campana dà il segno della colazione. Allora le
trattorie vicine, da due a tre soldi il piatto, aprono la loro
affumicata caverna ai molti abituati; l'operajo può mangiare a suo
bell'agio, ha tutto il tempo d'essere gastronomo, avendo per sè un'ora
onde assaporare e digerire: alle dieci la campana rintocca, e l'operajo
s'affretta al suo posto, e fin alle due lavora, raddoppiando d'ardore e
d'attività: e il lavoro gli par più leggero e agevole. Alle due, ecco di
nuovo la campana pel pranzo, che tosto incomincia. La trattoria è
puntuale; e non finirono ancora di scoccar le due all'orologio bisunto
che orna la sala dell'ostessa, che i piatti sono a loro luogo sulla
tavola, impregnando l'aria del loro equivoco profumo. — A tavola! a
tavola! Appena dopo la prima sciaquata, i bicchieri si toccano, e
l'operajo slancia la propria opinione con una sicurezza che non rispetta
nulla. Egli ha la sua politica particolare, e fa ogni giorno de' bei
sogni, e sù questi bei sogni si fabbrica un avvenire di gloria e di
prosperità, finchè, un soffio di vento non venga a rovesciare il
castello di carta ch'egli con tanta cura e compiacenza s'era edificato.
La campana manda ancora il suo avviso, e al nome del lavoro le chimere
sono sparite. L'operajo ripiglia la fatica, ma lo strumento non è più
maneggiato così destramente come prima; lavora però con coraggio, e il
direttore non ha nulla a ridire. Fra qualche ora il giorno sarà finito,
e gli lascerà un momento d'intera libertà, e allora potrà ronzare giù
giù per le vie della città a lento passo. Questo pensiero gli fa
dimenticare per un momento che lo strumento gli sta ozioso nelle mani,
ed allora incominciano fra i vicini mille ciarle a bassa voce, che si
perdono in un mormorio confuso. L'uno narra una piacevole avventura di
cui fu testimonio il mattino venendo all'officina; l'altro fa a modo suo
l'analisi del nuovo melodramma; questi, padre di famiglia, parla del
bimbo che ha a balia; quegli deplora lo scarso salario... Ma zitto! La
fedele campana alza la voce: l'ora beata dell'uscire è scoccata, e
questa volta la campana risonò più chiara e viva, quasi avesse serbato
per quest'ora il tintinno più lieto. Allora colle braccia fra le
braccia, colla fisonomia aperta, il portamento leggero, i figliuoli
dell'officina se ne vanno, ricambiandosi ad alta voce quelle grosse
facezie, così spiritose ed ingenue.
[Illustrazione: Appena dopo la prima sciaquata, i bicchieri si
toccano, e l'operaio slancia la propria opinione con una sicurezza
che non rispetta nulla. (_Pag. 171_).]
«Nulla v'ha di sì grave come l'interno d'un'officina: tutti questi
uomini attenti al lavoro, ch'adoperano lo strumento con un ingegno così
preciso, che non s'interrompono mai senza un perchè, col corpo chino sul
banco, nudi le braccia e il petto, il volto pensieroso, la bocca
serrata, e continuano per ore intiere, quanto è ammirabile! Nell'operajo
l'emulazione opera per tutti i versi. Scegliete un terreno vergine,
seminatevi del buon grano, e vedrete tosto le spighe rigogliose
ondeggiar il capo dorato ai raggi del sole; ma se, invece del buon
grano, la vostra mano inesperta vi getta del loglio, anche la pianta
parassita s'alzerà vigorosa. L'operajo è terreno vergine, giacchè,
uscito dalla turba popolare, educato fra le privazioni e i travagli di
una vita, spesso afflitta dalla miseria, il suo cuore, non corrotto dai
diletti del lusso, si abbandona a tutte le impressioni, presta fede al
bene, e capisce a stento il male.
«S'ammoglia per tempo, poichè, abbandonato a sè, ha bisogno d'affetti
che addolciscano la vita; affetti, di cui solo la donna possiede il
secreto. Non conosce e non frequenta che la figliuola dell'operajo, ed i
suoi voti non vanno più in su. La figliuola dell'operajo è pudica, è
gentile, ama il lavoro, e vale insieme un patrimonio e una felicità. —
Che cosa dunque chieder di più? Le parla, e qualche mese dopo ottiene la
licenza di farsi fare l'abito nero di cerimonia, e d'ordinare il pranzo
da nozze.
«Dal giorno in cui l'operajo andò in abito nero a dire il _sì_, la sua
indole muta improvvisamente, e perde l'amabile spensieratezza; conserva
sempre la forma primitiva, ma con alquanto minor naturalezza e
bonarietà. Jeri non aveva da pensar che a sè; oggi ha eseguito l'atto
più grave di sua vita; atto che gl'impone quindi innanzi d'essere non
solo onesto, ma regolato ed assiduo lavoratore. Non più ore di riposo,
rubate talvolta al tempo del lavoro, e trascorse a fantasticare un
avvenire felice. Non più quelle belle e buone infingardaggini
soddisfatte, col capo al sole e la pippa in bocca. La giovane moglie
minaccia d'essere feconda, e i mesi di balia non son che di trenta
giorni, e non fanno credenza. Fa egli allora di molte sottrazioni al suo
preventivo, perchè, senza di ciò la masserizia soffrirebbe un vuoto ben
difficile a riempirsi da operaj che non hanno che una mercede fissa,
senza eventualità. Prima del matrimonio, l'operajo andava a teatro tutti
i lunedì: ora ragion vuole ch'egli goda questo spasso sol una volta il
mese. Gli abiti d'un giovane non devono più esser quelli d'un
ammogliato. Questi non è più padrone di sè, come l'altro, e dalla sua
condotta dipende il bene della moglie e de' figliuoli. Egli cura adunque
di porsi in istato di soddisfare alle spese imprevviste, che non sono
sempre le più lievi d'una casa.
«La domenica, riposo e festa. Sei giorni d'un lavoro faticoso sono un
nulla quando la domenica promette di far bello, e la paga del sabato è
abbastanza rotonda. Quel giorno l'operajo si alza più tardi, computa con
compiacenza i piaceri che la domenica promette; s'adorna degli abiti più
belli; e della più bella cera, vestito di panno, col cappello sulle
ventitrè, si rivolge verso le alture dei sobborghi: colla sua donna al
braccio, e con orgoglio seguìto da due o tre bimbi, che vanno dritto
dritto per la loro strada, senza mai guardarsi indietro.
«Le passeggiate della domenica o del lunedì non impediscono all'onesto
artigiano di pensare al suo avvenire ed a quello della famigliuola. Ogni
mese va a deporre religiosamente alla Cassa di Risparmio la modica
somma, che potè economizzare sul salario del lavoro, o limitando i suoi
piaceri, o riducendo i bisogni alla stretta necessità. Fra quindici anni
comincerà a raccogliere i frutti della sua buona condotta; mariterà
decentemente le sue figliuole con una piccola dote; allogherà forse i
suoi figliuoli, dei quali avrà fatto dei buoni operaj come lui; e quando
le forze verranno a mancargli cogli anni, avendo avuto il senno di
riporsi un tozzo pel tempo delle infermità, avrà il conforto di vedersi
allo schermo della necessità, e di finir i suoi giorni onorati sotto al
modesto suo tetto, invece d'esser costretto a bussare alla porta d'un
ospizio, e chiedervi per Dio un asilo alla sua debole decrepitezza.»
_Così sia_, vorremmo dire: ma invece dobbiam dire, _Così fosse!_ Un
tempo fu di moda ritrar la vita sotto colori ridenti; l'idillio è
vecchio quanto la società. Poi venne il momento che si adulava _al
popolo_ cioè _al vulgo_, perchè si aspettava che diventasse re: e nulla
è più triviale che questo blandire ai futuri regnanti. Pur beato se con
ciò s'intendeva offrir un modello di quel che dovrebbe essere, e di
eccitarlo ad essere. Supponiamo quest'intenzione al nostro autore; ma la
statistica, coi numeri inesorabili, già allora rivelava un aspetto ben
differente. Bulwer, che pur dipinse la Francia con colori rosati, trova
fra gli operaj di Parigi ubbriaconi i cappellaj, i pittori e arti
analoghe, soprattutto i conciatori e gli operaj di porto; viziosi e
malviventi i sartori; i filatori di cotone tanto miserabili, da esser
fino incapaci di vizj; gli ebanisti, pazzi pel bere, ma tranquilli;
gl'imbianchini beoni e infingardi, gli scarpellini beoni e sventati. A
Lione, la gran città manifatturiera, 100,000 che lavorano alle sete sono
all'infimo dell'istruzione, della pulitezza, della moralità, e si
abbandonano per nulla a quel furore, con cui si rivela il mal contento
degli esseri degradati. Carlo Dupin valuta che venti milioni di Francesi
non prendono mai cibo animale, ma solo patate e grano turco; sette
milioni e mezzo mangiano poco o nulla di pane; ma orzo, riso, polenta
gialla, castagne, legumi, patate in acqua, e niun altro combustibile che
stoppie e scopa. Lorain, nel _Prospetto dell'istruzione primaria in
Francia_, asserisce esservi cantoni di quindici o venti Comuni, dove non
si rinverrebbe una scuola; e fin nel dipartimento di Senna e Loira v'è
un Comune dove il notajo conduce sempre seco i testimonj, perchè non
troverebbe chi sapesse firmare; e in molti Comuni del dipartimento di
Lot e Garonna e dell'Orne interi consigli municipali sono di inalfabeti.
In ricambio (lo sappiamo) v'è la sapienza universale dei Parigini, e i
tesori profusi nella Biblioteca, nell'Istituto, nelle altre fondazioni,
destinate a concentrare anche l'istruzione, mentre l'importanza
consisterebbe nel diffonderla. Ma il dio della Francia è la gloria; e
questi fatti possono chiarire sì le subitanee rivoluzioni, sì il valor
vero del suffragio universale.
Fortunatamente il nostro tema non ci conduce a snudare quella corruzione
e quelle miserie, ad esagerare le quali si affinò l'ingegno di
declamatori, che poi non avevano nè un suggerimento per alleviarle, nè
un conforto per lenirle. Basta l'aver accennato questo tema a una
democrazia non cianciera, non irritante, non rivoluzionaria: che
confessa la schiavitù agli arbitrj non esser più avvilente della
schiavitù all'ignoranza; che sa il miglior modo d'innalzare il popolo
essere l'educarlo, e indurgli l'abitudine di una regolare applicazione e
del contare sopra sè stesso fin dall'infanzia per combattere le
difficoltà della vita; che infine non si propone di impedir le lagrime,
inevitabile eredità originale; sibbene di farle meno acerbe, di non
lasciar che tolgano il coraggio di convertirle in miglioramento od in
espiazione.
1851.
FRANKLIN
Un giovinotto sui ventun anno s'avviava un giorno a Filadelfia,
senz'altro in tasca che qualche spicciolo, con cui comprò tre pagnotte;
e l'una si pose sotto un braccio, sotto l'altro l'altra, mentre
sbocconcellava la terza. Veniva egli da trecento miglia lontano, per
cercar fortuna; — cercar fortuna, senza amici, senza conoscienze, senza
titoli, in popolosa città, dove ciascuno bada a sè e a spinger innanzi
il proprio carro!
Ma che capitali reca egli in un mondo che calcola ed invidia, che
considera scapito proprio l'altrui vantaggio? Reca industria, economia,
applicazione, perseveranza, osservazione. E basteranno a fargli passo,
ve lo assicuro; e quel garzonetto riuscirà un insigne fisico, un
fondatore della libertà del suo paese, e sopratutto un grand'uomo.
Ma grand'uomo, intendiamoci, non come quelli dell'antichità e di
Plutarco, che sterminano ventimila nemici in una giornata; che per zelo
di libertà uccidono il proprio fratello, e assistono al supplizio del
proprio figliuolo; che per magnanimo sprezzo del sentimento trafficano
di schiavi e prestano le mogli; che per avidità di gloria sommovono,
congiurano, conquistano, fanno stordire il mondo; insomma eroi, ma non
uomini. Eh! ben altro è l'eroismo moderno, placido, paziente delle
contraddizioni, aspetta la lenta ma sicura opera del tempo, calcola gli
eventi, e sovratutto risparmia le lacrime e il sangue. Quelli erano
fulmini che spaventano e colpiscono; questi sono fabbricatori di
macchine a vapore, che con lunga opera le congegnano, finchè producano
quegli effetti che s'ammirano e benedicono.
Beniamino Franklin, il giovinetto che v'additai, era nato a Boston il
1706, tredicesimo d'una famiglia d'artigiani; e appena imparò a leggere
e scrivere lo posero, di dieci anni, a far candele come suo padre. Il
ragazzo vi s'applicava, ma ogni momento che potesse aver libero, correva
al mare, e divenne spertissimo nuotatore e remigante; i pochi quattrini
poi che sparagnava di bocca, li convertiva in libri di viaggi e di
storia. Suo padre, crollando il capo sopra il _letterato di casa_, lo
pose stampatore sotto un altro fratello, ove stette fin a ventun anno
maneggiando caratteri e casse, regoli e torchi. E perchè vi lavorava di
passione, tosto divenne abilissimo, e, che più gl'importava, potè dai
fattori dei libraj con cui trattava, ottener libri, che leggeva a furia.
Il _Saggio sui progetti_ di Foe, autore del _Robinson Crosuè_ e un
volume scompagnato dallo _Spettatore_ di Addison, lo inclinano ad
un'istruzione svariata ad una delicata morale, al veder in ogni cosa
quali miglioramenti vi si può recare. E volle scrivere anche, e compose
alcune canzoncine da cantare gli orbi per le strade, e gli furono
lodate: ma fortuna sua, qualche amico sincero gliene disse la verità, e
così lo salvò dal pericolo di restare un poeta cattivo, o, quel ch'è
peggio, un poeta mediocre.
Dalle costoro censure comprese la necessità di limar lo stile, e non
farne, all'usanza di troppi, un affare del caso e come vien viene; e
ripetè intorno a' suoi periodi quelle pazienti prove che i savj
conoscono e i presuntuosi deridono: oscure e diuturne prove, che di poi
sono compensate dalla precisione e facilità con cui si compone e s'è
intesi. A sedici anni legge Locke _Sull'intelletto_, la _Logica_ di
Portoreale, i _Memorabili_ di Senofonte, e ne impara a rendersi conto
delle proprie idee e chiarirle. Quest'analisi volgeva egli sulla propria
vita. S'impose un regime stretto di dieta: il maggior risparmio nel
cuocere le patate e il riso; lasciare il vino per fare il serbo di
qualche soldo e di sanità e robustezza più che i beoni e pacchioni suoi
compagni, e procacciarsi stima fra questi come avviene di chi non si
lascia mai trovare sprovvisto nè di danaro nè di senno, due cose che,
mancando, rendono tanto spregevole, da che Sparta fu distrutta.
Poi la virtù stessa analizzava, e la decomponeva ne' varj suoi elementi,
come Neuton colla luce, Lavoisier coll'aria; e al fine della giornata,
della quale con altrettanta esattezza avea distribuito i denari e le
ore, esaminava sè stesso; quanti quattrini avesse speso fuor del
necessario, di quale difetto si fosse corretto, a qual buona qualità
avviato. E perchè la presunzione è uno dei più forti ostacoli al
miglioramento, s'avvezzava a non dir mai — Ne son certo, Sta proprio
così, Ci scommetterei;» ma — Parmi, Sarei d'avviso;» ad abolire sè
medesimo per giungere al suo scopo; a lasciare altrui il fumo per
ottenere il sodo; ad _abbassarsi a tempo_, come un vecchio gli aveva
insegnato una volta che battè del capo in una trave; a confidarsi nella
propria attività, sobrietà, e perseveranza.
Suo fratello, lo stampatore, si pose in mente di pubblicare una
gazzetta, la seconda che in America fosse; e Franklin vi traforò qualche
articolo suo proprio, ma in istretto incognito, onde non farsi burlare.
E perchè se ne ignorava l'Autore, il lodavano, e piacque; e potè darsi a
conoscere. Che spine incontri l'onest'uomo sui primi passi della
letteratura e del giornalismo chiedetelo a chi ne sanguina ancora; e non
vi farà meraviglia se presto Franklin fu in lizza col fratello, col
governo, cogli emuli; onde indispettito, come molti fanno, coll'_ingrata
patria_, se n'andò, nell'arnese che dicemmo, a Nuova-York e a
Filadelfia. Quivi, a forza di lavorare, fece incontro, ma qualche
progettista, di quelli che trovano strada troppo lunga del far fortuna
il lavorare, l'aver pazienza, e lo spendere sempre un soldo meno del
guadagno, il consigliò a viaggiare a Londra: Londra il paese dei tesori
e degli impieghi.
V'andò: ma a Londra chi bada al forastiero che capita senza titoli e
senza ghinee? Svaniti i castelli in aria, consumati i pochi avanzi,
Franklin si trovò solo in quel caos immensurabile; solo, senza mezzi nè
appoggi; e in amicizia e in amore e in protezioni provò quei disinganni
che tanto costano, e che il debole avviliscono, al robusto finiscono a
persuadere di non confidare che in sè. In fatto egli pose fiducia, non
in poderosi amici e promettenti padroni, ma nelle proprie braccia, colle
quali or tirava robustamente i torchi d'una tipografia, or i remi d'un
navicello sul Tamigi, or insegnava a nuotare; e così guadagnava dì per
dì il suo pane.
Tornato a Filadelfia, pensò da senno ad acquistar denaro e riputazione;
e l'un e l'altra conseguì col lavorare dì e notte, e viver sobrio, e
dare buon esempio, e rispondere coi fatti alle detrazioni dell'invidia.
Così potè rizzare stamperia (1729), menò moglie, e cominciò a mandar
fuori l'_Almanacco di Riccardo Buonomo_, raccolta di consigli e verità
tutte pratiche, espresse proverbialmente, e che più non escono di
memoria, e s'applicano cento volte ai casi propri ed agli altrui:
«La chiave che spesso si adopera conservasi lucida come un argento: non
adoprata irruginisce. Così è del nostro spirito.
«L'assiduità fa le più grandi cose col minimo tempo. Uomo che si alza di
buon mattino e si corica per tempo, si mantien savio e ricco.
«Chi sa lavorare, non muor di fame. La fame guarda alla porta dell'uomo
laborioso, ma non ardisce bussare.
«Non ti mettere i guanti allorchè hai da maneggiare la tua pentola.
Gatta colle scarpe non ghermisce sorci.
«L'imposta che ci mette addosso l'accidia è due volte quella del
Governo; oltrechè la superbia la rende tripla e quadrupla la follia; e
gli esattori non diffalcano manco un ette.
«Ti lamenti che la vita è breve: ma il tempo è il filo di cui si tesse
la vita; perchè dunque lo getti?
«Volpe che dorme, non mangia galline.
«Chi vive di speranza muore di stento.
«Chi ha un mestiere, ha un campo: ha una carica chi ha una professione
utile ed onorevole.
«Non ho mai veduto un albero spesso trapiantato far gran rami, nè
arricchirsi una famiglia che spesso muta focolare. Tre San Martini
equivalgono ad un incendio.
«Un vizio costa quanto due figliuoli.
soffre; la sua famiglia langue nell'inedia; domani la sua cassa non sarà
forse tant'ampia da contenere tutto l'oro che la sua scoperta deve
procurargli. Ma il domani giunge, e Bernardo Palissy non coglie alcun
frutto migliore. Ogni giorno la sua abitazione risonava dei lamenti
della sua donna, e spesso fino i suoi figliuoli s'univano alla madre per
pregarlo in lagrime e a mani giunte a ripigliar il primo mestiere di
pittore sul vetro, che gli porgerà il mezzo di viver tranquillo. Palissy
ai rimproveri della moglie, alle preghiere de' figliuoli opponeva una
volontà irremovibile e la coscienza dell'opera sua. Trascorrono
vent'anni in questa condizione dolorosa, e Palissy persevera nel suo
proposito. Beffatto, avuto per pazzo, sospetto di sortilegio e di falsa
moneta, il suo corraggio non vacilla. Finalmente con una nuova
combinazione crede esser riuscito, quando un vasajo ch'egli aveva preso
con sè, l'abbandona all'improvviso, chiedendo il suo salario. Palissy,
privo di credito, spogliato di tutto, è obbligato dargli in pagamento
parte del proprj abiti. Abbandonato a sè, si rivolge al suo forno, che
avea fabbricato nella cantina della casa ma ohimè! gli manca la legna.
Che farci?.... Eppure nella cottura di questo nuovo saggio riposa
l'ultima sua speranza. Corre dunque al giardino, strappa le pergole,
brucia i pali, e tosto il forno è acceso.
Ma la fiamma langue e minaccia spegnersi, ed il calor del forno non è
ancora intenso abbastanza. Allora Palissy, fuori di sè, vi butta dentro
i mobili le porte, le finestre, perfino l'assito della sua camera; le
lagrime, le suppliche della famiglia non possono arrestarlo; gli bisogna
legna per alimentare il forno, e tutto quel che dà calore è
irrevocabilmente sagrificato... Palissy è in ruina... Ma l'esito coronò
i suoi sforzi! Un alto grido di gioja fa rintronar le vôlte della
cantina, e rimbomba per tutta la casa; e quando la moglie di Palissy,
scossa dallo strano grido, scende, trova il marito in piedi collo
sguardo attonito fisso sopra un vaso di brillanti colori che tiene nelle
mani.
Il genio dell'invenzione, per lungo tempo sordo alle ricerche di
Palissy, aveva posto finalmente sul capo dell'artista la corona del
premio; egli aveva in sè quella santa credenza che non s'inganna mai.
La fama della scoperta di Palissy non tardò a diffondersi, e la fortuna
ritornò tra le sue pareti. Enrico III, lo chiamò a Parigi e gli diede
abitazione nelle Tuillerie ed il brevetto _d'inventore delle rustiche
figurine del re_.
Ma l'editto contro i Protestanti, pubblicato il 1559 da Enrico III, non
risparmiò Palissy, che professando la religione riformata, fu trascinato
alla Bastiglia, dove il 1589 terminò i suoi giorni. Enrico III andò a
visitarlo nel carcere, dolendosi d'esser costretto a lasciarlo in mano
a' suoi nemici.
— Voi mi diceste più volte, sire (rispose Palissy), di aver pietà di me.
Ma io ho pietà di voi, che pronunciaste queste parole _son costretto_.
Non è parlar da re. Io v'insegnerò il linguaggio di re. I carnefici,
tutto il vostro popolo, voi stesso non potreste costringer me ad un atto
di adorazione cui non credessi; nulla potreste sopra di me, giacchè io
so morire.»
Palissy ergevasi allora due metri più alto di Enrico III; l'artigiano
eclissava la maestà del re.
Non è un fatto nuovo, anzi ne ribocca la storia delle umane infelicità;
il vedere il giusto in prigione o il genio trattato da pazzo, perchè fa
torto alle sublimi mediocrità col volere aver ragione prima del tempo.
Ma giovi qui ripeterne un esempio. È noto già; ma son noti anche Leonida
e Regolo ed Epaminonda, che tutti i dì ci si ricantano all'orecchio.
Riferiamolo dunque:
— Regnante Luigi XIII, un uomo aveva concepito il disegno di adoperar il
vapore come forza attiva sopra scala molto estesa; ma quell'uomo, il cui
nome si conservò coi più celebrati nella storia delle arti e dei
mestieri, doveva incontrare la più malevola contraddizione. La
famigerata Marion Delorme scriveva a Cinq-Mars, famoso per la congiura
contro il ministro Richelieu, questa lettera di graziosa leggerezza, che
mostra in qual poco conto si tenessero nel bel mondo le cose serie, e
quanto valesse allora la politica della Francia. Quando bene questa
lettera non avesse contenuto che una semplice narrazione, la inurbana
gajezza con cui è dettata reca, nostro malgrado, un vivo stringimento di
cuore: poichè niun disgusto può compararsi a quello che fa nascere in
noi un annunzio di morte uscito da bocca sorridente.
3 febbraio 1641.
_Mio caro_,
Mentre voi mi dimenticate a Narbona, abbandonandovi alle voluttà
della Corte ed al piacere di far opposizione al cardinale
Richelieu, io, seguendo il desiderio che mi dimostraste, fo gli
onori di Parigi al vostro lord inglese, il marchese di Worcester,
e lo conduco, o per dir meglio, mi fo condurre di curiosità in
curiosità, scegliendo sempre le più triste e le più serie,
parlando poco, ascoltando con estrema attenzione, e ficcando
addosso a coloro che interroga due occhioni azzurri, che pare
vogliano penetrare nel fondo del pensiero. Del resto, egli non
s'accontenta mai delle spiegazioni che gli vengono fatte, e non
prende mai le cose dal lato da cui gli vengono mostrate. Lo prova
la visita che andammo a fare insieme a Bicêtre (l'ospedale de'
pazzi) dove pretende d'avere scoperto in un pazzo un uomo di
genio. Se il pazzo non fosse stato furioso, credo in verità che
il vostro marchese n'avrebbe implorata la liberazione per
condurselo a Londra, ed ascoltare le sue pazzie dall'alba al
tramonto. Quando attraversammo il cortile dei pazzi, e più morta
che viva dalla paura, io mi stringeva al mio compagno, un brutto
ceffo si mostra dietro una grossa inferriata, gridando con voce
soffocata:
— Io non sono un pazzo, io: ho fatto una scoperta che deve
arricchire il paese che vorrà porla in pratica.
— Cos'è questa scoperta?» diss'io fissando colui che ci mostrava
la casa.
— Ah! egli rispose alzando le spalle: una cosa affatto semplice;
e che voi non indovinereste mai: l'uso del vapore dell'acqua
bollente.»
Mi posi a ridere.
— Quest'uomo (ripigliò il custode) chiamasi Salomone di Caus.
Venne di Normandia or fa quattro anni per presentare al re una
memoria intorno ai meravigliosi effetti che si potrebbero trarre
dalla sua invenzione. A sentirlo col vapore si farebbero girar
macchine, camminar vetture, che so io? Il cardinale cacciò questo
pazzo senza ascoltarlo. Salomone di Caus, invece di scoraggiarsi,
si pose a seguitar dappertutto il cardinale, che, stanco di
trovarselo sempre fra i piedi, ordinò di chiuderlo a Bicêtre,
dove si trova da tre anni e mezzo, e dove, come avete potuto udir
da voi stessa, grida ad ogni forestiere, che non è pazzo, e che
ha fatto una scoperta meravigliosa. Compose perfino un libro
intorno a ciò, e lo tengo qui.»
Milord Worcester, tutto pensoso, chiese il libro, e lette alcune
pagine, disse: — Costui non è un pazzo, no; e nella mia patria
sarebbe stato colmato di ricchezze; conducetemi a lui voglio
interrogarlo.»
Fu condotto, e ritornò tristo e meditabondo.
— Ora (disse) egli è pazzo; la sventura e la prigionia gli hanno
fatto smarrir la ragione per sempre, ma siete voi altri che
l'avete reso pazzo; e quando l'avete gettato in questa prigione,
gettaste qui il più gran talento della nostra età.»
Quindi ce ne partimmo, e d'allora in poi egli non parla che di
Salomone di Caus. Addio, mio caro e fido Enrico; ritornate al più
presto; e non siate tanto felice, che non vi resti un po' d'amore
per me.
Il libro rimesso dal custode al marchese di Worcester era certamente
quello, che l'infelice Salomone di Caus aveva pubblicato nel 1613 col
titolo: _Le ragioni delle forze motrici con diverse macchine tanto utili
quanto dilettevoli._ Il pensiero di alzar l'acqua per mezzo della forza
elastica del vapore appartiene dunque a lui. Quarantott'anni dopo, il
marchese di Worcester credette poterselo appropriare, senza timore di
udirsene tolta la gloria. Gli Inglesi, sommi applicatori d'idee nuove,
mostrano spesso una ciarlataneria senza pari. L'amor nazionale non
richiede che si facciano prede nel dominio intellettuale dei vicini, nè
che il frutto della rapina e dell'audacia venga qualificato come prima
proprietà.
Franklin, Parmentier, Montgolfier, Jaquard, Riquet, trovano naturalmente
posto fra gli artigiani anteriori al 1789, quando l'elevazione dal terzo
stato e il furore rivoluzionario e gli artefizj de' diplomatici e il
fanatismo erudito e i tanti malanni furono guidati dalla Provvidenza ad
effettuare la rigenerazione della povera plebe.
Or chi volesse intendere la vita dell'artigiano di Parigi, dico
dell'artigiano galantuomo, eccone uno schizzo:
«L'operajo è senza forse una delle fisonomie più caratteristiche del
nostro mondo sociale: occupa un luogo distinto, e per necessità del suo
lavoro trovandosi spesso in contatto con tutte le classi della società,
non ritrae nulla della fisionomia d'alcuna di esse. Prima di tutto, egli
è _lui_. Di natura libero, tiene molto di quel lasciar correre, che non
trovasi che nelle nature vergini, e non l'udreste mai proferir cattive
parole e stizzose. Quando motteggia, il suo pensiero è fecondo di
arguzie, di rado v'entra il sarcasmo: quando è in collera; il suo petto
si dilata, i suoi occhi mandano lampi, la sua voce è tonante, e la
parola divien secca e fiera; ma, siccome dopo la procella vien sereno,
così la collera sua nasconde un cuore pieno di perdono.
«Lavorare, poi lavorare, sempre lavorare; ecco il compendio della vita
dell'operajo. S'alza dalle cinque alle sei per recarsi al telonio;
notate per parentesi che egli abita d'ordinario all'estremità della
città e la sua officina è all'estremità opposta; e al suono della
campana entra nel lavorerio, e vestitosi, si pone all'opera. Il vestito
di lavoro consiste nel levarsi la sopraveste, rimboccar le maniche della
camicia, affibbiar un grembiule al corpo con una coreggia di cuojo.
Dalle sette alle nove i martelli e gli strumenti lavorano a forza di
braccia; alle nove la campana dà il segno della colazione. Allora le
trattorie vicine, da due a tre soldi il piatto, aprono la loro
affumicata caverna ai molti abituati; l'operajo può mangiare a suo
bell'agio, ha tutto il tempo d'essere gastronomo, avendo per sè un'ora
onde assaporare e digerire: alle dieci la campana rintocca, e l'operajo
s'affretta al suo posto, e fin alle due lavora, raddoppiando d'ardore e
d'attività: e il lavoro gli par più leggero e agevole. Alle due, ecco di
nuovo la campana pel pranzo, che tosto incomincia. La trattoria è
puntuale; e non finirono ancora di scoccar le due all'orologio bisunto
che orna la sala dell'ostessa, che i piatti sono a loro luogo sulla
tavola, impregnando l'aria del loro equivoco profumo. — A tavola! a
tavola! Appena dopo la prima sciaquata, i bicchieri si toccano, e
l'operajo slancia la propria opinione con una sicurezza che non rispetta
nulla. Egli ha la sua politica particolare, e fa ogni giorno de' bei
sogni, e sù questi bei sogni si fabbrica un avvenire di gloria e di
prosperità, finchè, un soffio di vento non venga a rovesciare il
castello di carta ch'egli con tanta cura e compiacenza s'era edificato.
La campana manda ancora il suo avviso, e al nome del lavoro le chimere
sono sparite. L'operajo ripiglia la fatica, ma lo strumento non è più
maneggiato così destramente come prima; lavora però con coraggio, e il
direttore non ha nulla a ridire. Fra qualche ora il giorno sarà finito,
e gli lascerà un momento d'intera libertà, e allora potrà ronzare giù
giù per le vie della città a lento passo. Questo pensiero gli fa
dimenticare per un momento che lo strumento gli sta ozioso nelle mani,
ed allora incominciano fra i vicini mille ciarle a bassa voce, che si
perdono in un mormorio confuso. L'uno narra una piacevole avventura di
cui fu testimonio il mattino venendo all'officina; l'altro fa a modo suo
l'analisi del nuovo melodramma; questi, padre di famiglia, parla del
bimbo che ha a balia; quegli deplora lo scarso salario... Ma zitto! La
fedele campana alza la voce: l'ora beata dell'uscire è scoccata, e
questa volta la campana risonò più chiara e viva, quasi avesse serbato
per quest'ora il tintinno più lieto. Allora colle braccia fra le
braccia, colla fisonomia aperta, il portamento leggero, i figliuoli
dell'officina se ne vanno, ricambiandosi ad alta voce quelle grosse
facezie, così spiritose ed ingenue.
[Illustrazione: Appena dopo la prima sciaquata, i bicchieri si
toccano, e l'operaio slancia la propria opinione con una sicurezza
che non rispetta nulla. (_Pag. 171_).]
«Nulla v'ha di sì grave come l'interno d'un'officina: tutti questi
uomini attenti al lavoro, ch'adoperano lo strumento con un ingegno così
preciso, che non s'interrompono mai senza un perchè, col corpo chino sul
banco, nudi le braccia e il petto, il volto pensieroso, la bocca
serrata, e continuano per ore intiere, quanto è ammirabile! Nell'operajo
l'emulazione opera per tutti i versi. Scegliete un terreno vergine,
seminatevi del buon grano, e vedrete tosto le spighe rigogliose
ondeggiar il capo dorato ai raggi del sole; ma se, invece del buon
grano, la vostra mano inesperta vi getta del loglio, anche la pianta
parassita s'alzerà vigorosa. L'operajo è terreno vergine, giacchè,
uscito dalla turba popolare, educato fra le privazioni e i travagli di
una vita, spesso afflitta dalla miseria, il suo cuore, non corrotto dai
diletti del lusso, si abbandona a tutte le impressioni, presta fede al
bene, e capisce a stento il male.
«S'ammoglia per tempo, poichè, abbandonato a sè, ha bisogno d'affetti
che addolciscano la vita; affetti, di cui solo la donna possiede il
secreto. Non conosce e non frequenta che la figliuola dell'operajo, ed i
suoi voti non vanno più in su. La figliuola dell'operajo è pudica, è
gentile, ama il lavoro, e vale insieme un patrimonio e una felicità. —
Che cosa dunque chieder di più? Le parla, e qualche mese dopo ottiene la
licenza di farsi fare l'abito nero di cerimonia, e d'ordinare il pranzo
da nozze.
«Dal giorno in cui l'operajo andò in abito nero a dire il _sì_, la sua
indole muta improvvisamente, e perde l'amabile spensieratezza; conserva
sempre la forma primitiva, ma con alquanto minor naturalezza e
bonarietà. Jeri non aveva da pensar che a sè; oggi ha eseguito l'atto
più grave di sua vita; atto che gl'impone quindi innanzi d'essere non
solo onesto, ma regolato ed assiduo lavoratore. Non più ore di riposo,
rubate talvolta al tempo del lavoro, e trascorse a fantasticare un
avvenire felice. Non più quelle belle e buone infingardaggini
soddisfatte, col capo al sole e la pippa in bocca. La giovane moglie
minaccia d'essere feconda, e i mesi di balia non son che di trenta
giorni, e non fanno credenza. Fa egli allora di molte sottrazioni al suo
preventivo, perchè, senza di ciò la masserizia soffrirebbe un vuoto ben
difficile a riempirsi da operaj che non hanno che una mercede fissa,
senza eventualità. Prima del matrimonio, l'operajo andava a teatro tutti
i lunedì: ora ragion vuole ch'egli goda questo spasso sol una volta il
mese. Gli abiti d'un giovane non devono più esser quelli d'un
ammogliato. Questi non è più padrone di sè, come l'altro, e dalla sua
condotta dipende il bene della moglie e de' figliuoli. Egli cura adunque
di porsi in istato di soddisfare alle spese imprevviste, che non sono
sempre le più lievi d'una casa.
«La domenica, riposo e festa. Sei giorni d'un lavoro faticoso sono un
nulla quando la domenica promette di far bello, e la paga del sabato è
abbastanza rotonda. Quel giorno l'operajo si alza più tardi, computa con
compiacenza i piaceri che la domenica promette; s'adorna degli abiti più
belli; e della più bella cera, vestito di panno, col cappello sulle
ventitrè, si rivolge verso le alture dei sobborghi: colla sua donna al
braccio, e con orgoglio seguìto da due o tre bimbi, che vanno dritto
dritto per la loro strada, senza mai guardarsi indietro.
«Le passeggiate della domenica o del lunedì non impediscono all'onesto
artigiano di pensare al suo avvenire ed a quello della famigliuola. Ogni
mese va a deporre religiosamente alla Cassa di Risparmio la modica
somma, che potè economizzare sul salario del lavoro, o limitando i suoi
piaceri, o riducendo i bisogni alla stretta necessità. Fra quindici anni
comincerà a raccogliere i frutti della sua buona condotta; mariterà
decentemente le sue figliuole con una piccola dote; allogherà forse i
suoi figliuoli, dei quali avrà fatto dei buoni operaj come lui; e quando
le forze verranno a mancargli cogli anni, avendo avuto il senno di
riporsi un tozzo pel tempo delle infermità, avrà il conforto di vedersi
allo schermo della necessità, e di finir i suoi giorni onorati sotto al
modesto suo tetto, invece d'esser costretto a bussare alla porta d'un
ospizio, e chiedervi per Dio un asilo alla sua debole decrepitezza.»
_Così sia_, vorremmo dire: ma invece dobbiam dire, _Così fosse!_ Un
tempo fu di moda ritrar la vita sotto colori ridenti; l'idillio è
vecchio quanto la società. Poi venne il momento che si adulava _al
popolo_ cioè _al vulgo_, perchè si aspettava che diventasse re: e nulla
è più triviale che questo blandire ai futuri regnanti. Pur beato se con
ciò s'intendeva offrir un modello di quel che dovrebbe essere, e di
eccitarlo ad essere. Supponiamo quest'intenzione al nostro autore; ma la
statistica, coi numeri inesorabili, già allora rivelava un aspetto ben
differente. Bulwer, che pur dipinse la Francia con colori rosati, trova
fra gli operaj di Parigi ubbriaconi i cappellaj, i pittori e arti
analoghe, soprattutto i conciatori e gli operaj di porto; viziosi e
malviventi i sartori; i filatori di cotone tanto miserabili, da esser
fino incapaci di vizj; gli ebanisti, pazzi pel bere, ma tranquilli;
gl'imbianchini beoni e infingardi, gli scarpellini beoni e sventati. A
Lione, la gran città manifatturiera, 100,000 che lavorano alle sete sono
all'infimo dell'istruzione, della pulitezza, della moralità, e si
abbandonano per nulla a quel furore, con cui si rivela il mal contento
degli esseri degradati. Carlo Dupin valuta che venti milioni di Francesi
non prendono mai cibo animale, ma solo patate e grano turco; sette
milioni e mezzo mangiano poco o nulla di pane; ma orzo, riso, polenta
gialla, castagne, legumi, patate in acqua, e niun altro combustibile che
stoppie e scopa. Lorain, nel _Prospetto dell'istruzione primaria in
Francia_, asserisce esservi cantoni di quindici o venti Comuni, dove non
si rinverrebbe una scuola; e fin nel dipartimento di Senna e Loira v'è
un Comune dove il notajo conduce sempre seco i testimonj, perchè non
troverebbe chi sapesse firmare; e in molti Comuni del dipartimento di
Lot e Garonna e dell'Orne interi consigli municipali sono di inalfabeti.
In ricambio (lo sappiamo) v'è la sapienza universale dei Parigini, e i
tesori profusi nella Biblioteca, nell'Istituto, nelle altre fondazioni,
destinate a concentrare anche l'istruzione, mentre l'importanza
consisterebbe nel diffonderla. Ma il dio della Francia è la gloria; e
questi fatti possono chiarire sì le subitanee rivoluzioni, sì il valor
vero del suffragio universale.
Fortunatamente il nostro tema non ci conduce a snudare quella corruzione
e quelle miserie, ad esagerare le quali si affinò l'ingegno di
declamatori, che poi non avevano nè un suggerimento per alleviarle, nè
un conforto per lenirle. Basta l'aver accennato questo tema a una
democrazia non cianciera, non irritante, non rivoluzionaria: che
confessa la schiavitù agli arbitrj non esser più avvilente della
schiavitù all'ignoranza; che sa il miglior modo d'innalzare il popolo
essere l'educarlo, e indurgli l'abitudine di una regolare applicazione e
del contare sopra sè stesso fin dall'infanzia per combattere le
difficoltà della vita; che infine non si propone di impedir le lagrime,
inevitabile eredità originale; sibbene di farle meno acerbe, di non
lasciar che tolgano il coraggio di convertirle in miglioramento od in
espiazione.
1851.
FRANKLIN
Un giovinotto sui ventun anno s'avviava un giorno a Filadelfia,
senz'altro in tasca che qualche spicciolo, con cui comprò tre pagnotte;
e l'una si pose sotto un braccio, sotto l'altro l'altra, mentre
sbocconcellava la terza. Veniva egli da trecento miglia lontano, per
cercar fortuna; — cercar fortuna, senza amici, senza conoscienze, senza
titoli, in popolosa città, dove ciascuno bada a sè e a spinger innanzi
il proprio carro!
Ma che capitali reca egli in un mondo che calcola ed invidia, che
considera scapito proprio l'altrui vantaggio? Reca industria, economia,
applicazione, perseveranza, osservazione. E basteranno a fargli passo,
ve lo assicuro; e quel garzonetto riuscirà un insigne fisico, un
fondatore della libertà del suo paese, e sopratutto un grand'uomo.
Ma grand'uomo, intendiamoci, non come quelli dell'antichità e di
Plutarco, che sterminano ventimila nemici in una giornata; che per zelo
di libertà uccidono il proprio fratello, e assistono al supplizio del
proprio figliuolo; che per magnanimo sprezzo del sentimento trafficano
di schiavi e prestano le mogli; che per avidità di gloria sommovono,
congiurano, conquistano, fanno stordire il mondo; insomma eroi, ma non
uomini. Eh! ben altro è l'eroismo moderno, placido, paziente delle
contraddizioni, aspetta la lenta ma sicura opera del tempo, calcola gli
eventi, e sovratutto risparmia le lacrime e il sangue. Quelli erano
fulmini che spaventano e colpiscono; questi sono fabbricatori di
macchine a vapore, che con lunga opera le congegnano, finchè producano
quegli effetti che s'ammirano e benedicono.
Beniamino Franklin, il giovinetto che v'additai, era nato a Boston il
1706, tredicesimo d'una famiglia d'artigiani; e appena imparò a leggere
e scrivere lo posero, di dieci anni, a far candele come suo padre. Il
ragazzo vi s'applicava, ma ogni momento che potesse aver libero, correva
al mare, e divenne spertissimo nuotatore e remigante; i pochi quattrini
poi che sparagnava di bocca, li convertiva in libri di viaggi e di
storia. Suo padre, crollando il capo sopra il _letterato di casa_, lo
pose stampatore sotto un altro fratello, ove stette fin a ventun anno
maneggiando caratteri e casse, regoli e torchi. E perchè vi lavorava di
passione, tosto divenne abilissimo, e, che più gl'importava, potè dai
fattori dei libraj con cui trattava, ottener libri, che leggeva a furia.
Il _Saggio sui progetti_ di Foe, autore del _Robinson Crosuè_ e un
volume scompagnato dallo _Spettatore_ di Addison, lo inclinano ad
un'istruzione svariata ad una delicata morale, al veder in ogni cosa
quali miglioramenti vi si può recare. E volle scrivere anche, e compose
alcune canzoncine da cantare gli orbi per le strade, e gli furono
lodate: ma fortuna sua, qualche amico sincero gliene disse la verità, e
così lo salvò dal pericolo di restare un poeta cattivo, o, quel ch'è
peggio, un poeta mediocre.
Dalle costoro censure comprese la necessità di limar lo stile, e non
farne, all'usanza di troppi, un affare del caso e come vien viene; e
ripetè intorno a' suoi periodi quelle pazienti prove che i savj
conoscono e i presuntuosi deridono: oscure e diuturne prove, che di poi
sono compensate dalla precisione e facilità con cui si compone e s'è
intesi. A sedici anni legge Locke _Sull'intelletto_, la _Logica_ di
Portoreale, i _Memorabili_ di Senofonte, e ne impara a rendersi conto
delle proprie idee e chiarirle. Quest'analisi volgeva egli sulla propria
vita. S'impose un regime stretto di dieta: il maggior risparmio nel
cuocere le patate e il riso; lasciare il vino per fare il serbo di
qualche soldo e di sanità e robustezza più che i beoni e pacchioni suoi
compagni, e procacciarsi stima fra questi come avviene di chi non si
lascia mai trovare sprovvisto nè di danaro nè di senno, due cose che,
mancando, rendono tanto spregevole, da che Sparta fu distrutta.
Poi la virtù stessa analizzava, e la decomponeva ne' varj suoi elementi,
come Neuton colla luce, Lavoisier coll'aria; e al fine della giornata,
della quale con altrettanta esattezza avea distribuito i denari e le
ore, esaminava sè stesso; quanti quattrini avesse speso fuor del
necessario, di quale difetto si fosse corretto, a qual buona qualità
avviato. E perchè la presunzione è uno dei più forti ostacoli al
miglioramento, s'avvezzava a non dir mai — Ne son certo, Sta proprio
così, Ci scommetterei;» ma — Parmi, Sarei d'avviso;» ad abolire sè
medesimo per giungere al suo scopo; a lasciare altrui il fumo per
ottenere il sodo; ad _abbassarsi a tempo_, come un vecchio gli aveva
insegnato una volta che battè del capo in una trave; a confidarsi nella
propria attività, sobrietà, e perseveranza.
Suo fratello, lo stampatore, si pose in mente di pubblicare una
gazzetta, la seconda che in America fosse; e Franklin vi traforò qualche
articolo suo proprio, ma in istretto incognito, onde non farsi burlare.
E perchè se ne ignorava l'Autore, il lodavano, e piacque; e potè darsi a
conoscere. Che spine incontri l'onest'uomo sui primi passi della
letteratura e del giornalismo chiedetelo a chi ne sanguina ancora; e non
vi farà meraviglia se presto Franklin fu in lizza col fratello, col
governo, cogli emuli; onde indispettito, come molti fanno, coll'_ingrata
patria_, se n'andò, nell'arnese che dicemmo, a Nuova-York e a
Filadelfia. Quivi, a forza di lavorare, fece incontro, ma qualche
progettista, di quelli che trovano strada troppo lunga del far fortuna
il lavorare, l'aver pazienza, e lo spendere sempre un soldo meno del
guadagno, il consigliò a viaggiare a Londra: Londra il paese dei tesori
e degli impieghi.
V'andò: ma a Londra chi bada al forastiero che capita senza titoli e
senza ghinee? Svaniti i castelli in aria, consumati i pochi avanzi,
Franklin si trovò solo in quel caos immensurabile; solo, senza mezzi nè
appoggi; e in amicizia e in amore e in protezioni provò quei disinganni
che tanto costano, e che il debole avviliscono, al robusto finiscono a
persuadere di non confidare che in sè. In fatto egli pose fiducia, non
in poderosi amici e promettenti padroni, ma nelle proprie braccia, colle
quali or tirava robustamente i torchi d'una tipografia, or i remi d'un
navicello sul Tamigi, or insegnava a nuotare; e così guadagnava dì per
dì il suo pane.
Tornato a Filadelfia, pensò da senno ad acquistar denaro e riputazione;
e l'un e l'altra conseguì col lavorare dì e notte, e viver sobrio, e
dare buon esempio, e rispondere coi fatti alle detrazioni dell'invidia.
Così potè rizzare stamperia (1729), menò moglie, e cominciò a mandar
fuori l'_Almanacco di Riccardo Buonomo_, raccolta di consigli e verità
tutte pratiche, espresse proverbialmente, e che più non escono di
memoria, e s'applicano cento volte ai casi propri ed agli altrui:
«La chiave che spesso si adopera conservasi lucida come un argento: non
adoprata irruginisce. Così è del nostro spirito.
«L'assiduità fa le più grandi cose col minimo tempo. Uomo che si alza di
buon mattino e si corica per tempo, si mantien savio e ricco.
«Chi sa lavorare, non muor di fame. La fame guarda alla porta dell'uomo
laborioso, ma non ardisce bussare.
«Non ti mettere i guanti allorchè hai da maneggiare la tua pentola.
Gatta colle scarpe non ghermisce sorci.
«L'imposta che ci mette addosso l'accidia è due volte quella del
Governo; oltrechè la superbia la rende tripla e quadrupla la follia; e
gli esattori non diffalcano manco un ette.
«Ti lamenti che la vita è breve: ma il tempo è il filo di cui si tesse
la vita; perchè dunque lo getti?
«Volpe che dorme, non mangia galline.
«Chi vive di speranza muore di stento.
«Chi ha un mestiere, ha un campo: ha una carica chi ha una professione
utile ed onorevole.
«Non ho mai veduto un albero spesso trapiantato far gran rami, nè
arricchirsi una famiglia che spesso muta focolare. Tre San Martini
equivalgono ad un incendio.
«Un vizio costa quanto due figliuoli.
- Parts
- Racconti storici e morali - 01
- Racconti storici e morali - 02
- Racconti storici e morali - 03
- Racconti storici e morali - 04
- Racconti storici e morali - 05
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