Racconti storici e morali - 05

pregiudicare alla sanità con il soverchiamente affliggersi,
rivolgendo il pensiero e la speranza in Dio, il quale, come padre
amorevolissimo, non mai abbandona chi in lui confida e a lui
ricorre. Carissimo signor padre, ho voluto scrivergli adesso,
acciò ella sappia ch'io sono a parte de' suoi travagli, il che a
lei dovrebbe essere di qualche alleggerimento, ma non ne ho già
dato indizio ad alcun altro, volendo che queste cose di poco
gusto sieno tutte mie, e quelle di contento e soddisfazione sieno
comuni a tutti. Che però tutti stiamo aspettando il suo ritorno,
con desiderio di goder la sua conversazione con allegrezza. E chi
sa, che, mentre adesso sto scrivendo, V. S. non si ritrovi fuori
d'ogni frangente e di ogni pensiero? Così piaccia al Signore, il
quale sia quello che la consoli, e con il quale la lascio.
Quanta delicatezza! E che stacco fanno questi sentimenti dagli irosi di
coloro, che, contro ogni testimonianza e probabilità, si ostinano a
ripetere che Galileo dal Sant'Uffizio fu sottoposto alla tortura!
Codardie, degne di que' materialoni, che computano solo i gusti come i
tormenti del corpo, ed hanno bisogno d'aggiungere nuovi torti a questa
patria, ch'essi poi ostentano di amare sviscerati.
Suor Celeste si rallegrò quando intese vôlto in meglio l'affare, e al
padre scriveva a' 7 maggio:
L'allegrezza che mi apportò l'ultima sua amorevolissima lettera
fu tale, e tale alterazione mi causò, che con questo e con
l'essermi convenuto più volte leggere e rileggere la medesima
lettera a queste monache, che tutte giubilavano sentendo i proprj
successi di V. S., fui sorpresa da gran dolore di testa, che mi
durò dalle ore quattordici della mattina fino a notte, cosa
veramente fuori del mio solito. Ho voluto dirgli questo
particolare, non per rimproverargli questo poco mio patimento, ma
sibbene perchè ella maggiormente possane conoscere quanto mi
siano a cuore, e mi premano le cose sue, poichè causano in me
tali effetti; effetti che, sebbene generalmente parlando pare che
l'amor figliale possa e deva causare in tutti i figli, in me
ardirò di dire che abbiamo maggior forza, come quella che mi do
tanto di avanzare di gran lunga la maggior parte degli altri
dell'amare e riverire il mio carissimo padre; siccome
all'incontro chiaramente veggo ch'egli supera la maggior parte
de' padri in amare me sua figlia, e di ciò basti.
Rendo infinite grazie a Dio benedetto per tutti i favori che fino
a qui V. S. ha ricevuti, e per l'avvenire spero riceverà, poichè
tutti principalmente derivano da quella pietosa mano, siccome V.
S. giustamente riconosce. E sebbene ella attribuisce in gran
parte questi benefizj al merito delle mie orazioni, questo
veramente è poco o nulla; ma è bene assai l'affetto con il quale
io li domando a S. D. M., la quale avendo riguardo a quello,
tanto benignamente prosperando V. S. mi esaudisce, e noi tanto
maggiormente gli restiamo obbligati: siccome anco grandemente
siamo debitori a tutte quelle persone che a V. S. sono in favore
ed ajuto, e particolarmente a cotesti eccellentissimi signori
suoi ospiti[1]. Io volevo scrivere all'eccellentissima signora
ambasciatrice, ma sono restata per non la infastidire con
replicarle sempre le medesime cose, cioè rendimenti di grazie e
confessioni di obblighi infiniti. V. S. supplirà per me con farle
reverenza in mio nome: e veramente, carissimo signor padre, la
grazia, che V. S. ha avuta del favore della protezione di questi
signori e tale essa sola, che è bastante a mitigare, anzi
annullare tutti i travagli che ha sofferti.
Mi è capitata alle mani una ricetta eccellentissima contro la
peste, della quale ho fatto una copia, e gliela mando non perchè
io creda che costà vi sia sospizione alcuna di questo male, ma
perchè è buona ad ogni altra cattiva disposizione. Degli
ingredienti io ne sono tanto scarsa, anzi mendica per me, che non
gliene posso far parte di nessuno, ma bisogna che V. S. procuri
di ottener quelli, che per avventura gli mancheranno, dalla
fonderia della Misericordia del Signor Iddio, con il quale la
lascio.
La peste in fatto durava per la Toscana, e suor Maria Celeste ne
riferiva a suo padre in questo tenore:

18 giugno 1633, a Roma.
Quando io scrissi a V. S. dandogli conto del male che era stato
in questi contorni, già era cessato quasi del tutto ogni
sospetto, essendo scorsi molti giorni, anzi settimane, senza
sentirvisi niente; e come allora gli aggiunsi, me ne dava intera
sicurtà il vedere che tutti questi gentiluomini se ne stavano qua
in villa, come seguitano ancora di starci tutti: e quel che è
più, nella medesima città di Firenze si sentiva che il male
andava tanto diminuendo, che si sperava che presto dovesse restar
libera del tutto; onde con questa sicurtà, mi mossi ad esortarla
e sollecitarla per il suo ritorno, sebbene nell'ultima che gli
scrissi, sentendo che le cose erano peggiorate, mutai linguaggio,
come si suol dire. Perchè sebbene è verissimo che desidero
grandemente di rivederla, desidero nondimeno molto più la sua
conservazione e salute; e riconosco per grazia speciale del
Signore Iddio l'occasione che V. S. ha avuta di trattenersi costà
più lungamente di quello che lei e noi avremmo voluto. Perchè,
sebbene credo che gli dia travaglio il trattenersi così
irresoluta, maggiore gliene darebbe forse il ritrovarsi in questi
pericoli, i quali tuttavia vanno continuando, e forse aumentando,
e ne fo conseguenza da una ordinazione venuta al nostro
monastero, come ad altri ancora, da parte dei Signori della
sanità, ed è che, per lo spazio di quaranta giorni, dobbiamo, due
monache per volta, star continuamente giorno e notte in orazione,
e pregare S. D. M. per la liberazione di questo flagello. Avemmo
dai suddetti Signori scudi 25 in elemosina; e oggi è il quarto
giorno che demmo principio.
Ora per darle avviso di tutte le cose di casa, mi farò dalla
colombaja, ove fino da quaresima cominciarono a covare i colombi,
ma il primo pajo che nacque fu mangiato una notte da qualche
animale, e il colombo che li covava fu trovato dalla Piera sopra
una trave, mezzo mangiato e cavatone tutte l'interiora, che per
questo si giudicò che fosse stato qualche uccello di rapina; gli
altri colombi spauriti non vi tornavano, ma seguitando la Piera a
dargli da mangiare si sono ravviati, e adesso ne covano due.
Gli aranci hanno avuto pochi fiori, i quali la Piera ha stillati,
e mi dice averne cavato una metadella di acqua. I capperi quando
sarà tempo si accomoderanno. La lattuga, che si seminò secondo
che V. S. aveva ordinato, non è mai nata e in quel luogo la Piera
vi ha messo dei fagiuoli, che dice essere assai belli, e
similmente dei ceci, dei quali la lepre ne vorrà la maggior
parte, avendo già cominciato a levarli via.
Delle fave ve ne sono da seccare, e i gambi si danno per
colazione alla muletta, la quale è diventata così altiera, che
non vuol portar nessuno, e alcune volte ha fatto fare dei salti
mortali al povero Geppo, ma con gentilezza, poichè non si è fatto
male. Ascanio fratello della cognata, la domandò una volta per
andar di fuora, ma dopo poco gli convenne tornarsi indietro, non
avendo mai avuto forza di scaponire l'ostinata mula acciò andasse
innanzi, la quale forse sdegna di essere cavalcata da altri
trovandosi senza il suo vero padrone.
Ma ritornando all'orto, gli dico che le viti mostrano assai bene,
non so poi se proseguiranno così mediante il torto che ricevono
di esser custodite dalle mani della Piera in cambio di quelle di
V. S. Dei carciofi non ve ne sono stati molti, con tutto ciò se
ne seccherà qualcuno.
In cantina le cose passano bene, andandosi il vino conservando
buono. In cucina non manco somministrare quel poco che fa bisogno
per la servitù, eccetto che nel tempo che ci viene il signor
Rondinelli, che allora ci vuol pensare lui; anzi che in questa
settimana volle che una mattina noi stessimo in parlatorio a
desinar da lui. Questi sono tutti gli avvisi che mi pare di
potergli dare...
Chi deriderà queste minuzie d'intimità, tal sia di lui; nol farà certo
l'uomo che conobbe mai la vita del cuore, ma solo chi ha testa ancor
meno che cuore dirà che queste frivolezze potessero combinarsi cogli
spasimi della prigionia e della tortura, a cui cianciano sottoposto il
Galilei. Però nel placido convento d'Arcetri dovette far gran colpo la
nuova sparsasi che il Galileo, quel sapiente insigne, quel vecchio
venerato, il padre di due consorelle era stato condannato, non già
d'eresia, ma per aver trasgredito il precetto datogli nel 1616 di non
trattare della mobilità della terra se non come ipotesi, nè appoggiarla
a testi sacri. E questa fu novella prova all'affetto di suor Maria
Celeste, che se ne traeva felicemente mediante l'irremovibile fidanza in
Dio.

2 luglio 1633, Roma.
Quanto mi è arrivato improvviso e inaspettato il nuovo travaglio
di V. S. tanto maggiormente mi ha trafitto l'animo di estremo
dolore il sentir la risoluzione, che finalmente si è presa tanto
sopra il libro quanto nella persona di V. S.; il che dal signor
Gerri mi è significato per la mia importunità, perchè, non
tenendo sue lettere in questa settimana, non potevo quietarmi,
quasi presaga di quanto era accaduto. Carissimo signor padre,
adesso è il tempo di prevalersi più che mai di quella prudenza
che gli ha concessa il Signore Iddio, sostenendo questi colpi con
quella fortezza d'animo, che la religione, professione ed età sua
ricercano. E giacchè ella per molta esperienza può aver piena
cognizione della fallacia ed instabilità di tutte le cose di
questo mondaccio, non dovrà far molto caso di queste burrasche,
anzi sperar che presto sieno per quietarsi e cangiarsi in
altrettanta sua soddisfazione. Dico quel tanto che mi somministra
il desiderio, e che mi pare ne prometta la clemenza che Sua
Santità ha dimostrato inverso di V. S. in aver destinato per la
sua carcere luogo così delizioso, onde mi par ch'io possa sperar
anco commutazione più conforme al suo e nostro desiderio; il che
piaccia a Dio che sortisca, se è per il meglio. Intanto la prego
a non lasciar di consolarmi con sue lettere, dandomi ragguaglio
dell'esser suo quanto al corpo, e molto più quanto all'animo; e
io finisco di scrivere, ma non giammai d'accompagnarla con il
pensiero e con le orazioni, pregando S. D. M. che le conceda vera
quiete e consolazione.
Cotesto luogo delizioso era la villa Medici sul monte Pincio: dove pure
rimase pochissimo, e giacchè non potevasi restituirlo a Firenze ove
durava la peste, fu lasciato andar a Siena presso l'arcivescovo
Piccolomini suo amico. Colà gli scriveva la figlia; e per intender
quanto segue, è a saper che la penitenza inflitta a Galileo dalla feroce
Inquisizione fu di recitare una volta per settimana i salmi
penitenziali. La buona Maria Celeste si consola di poter alleviare il
grand'uomo di questo peso col recitarli ella stessa in sua vece.

3 ottobre 1633.
Sabato scrissi a V. S.; e domenica, per parte del signor
Gherardini, mi fu resa la sua, per la quale sentendo la speranza
che ha del suo ritorno, tutta mi consolo, parendomi un'ora
mill'anni che arrivi quel giorno tanto desiderato di rivederla; e
in sentire ch'ella si ritrovi in buona salute accresce e non
diminuisce questo desiderio di avere duplicato contento e
soddisfazione di vederla tornare in casa sua, e di più con
sanità. Non vorrei già che dubitasse di me, che per tempo nessuno
io sia per lasciare di raccomandarla con tutto il mio spirito a
Dio benedetto, perchè questo mi è troppo a cuore, e troppo mi
preme la sua salute spirituale e corporale. E per dargliene
qualche contrassegno, gli dico, che ho procurato e ottenuto
grazia di veder la sua sentenza, la lettura della quale, sebbene
da una parte mi dette qualche travaglio, per l'altra ebbi caro di
averla veduta, per aver trovato in essa materia di poter giovare
a V. S. un qualche pocolino. Il che è con l'addossarmi l'obbligo
che ella ha di recitare una volta per settimana li sette salmi,
ed è già un pezzo che comincia a soddisfarlo, e lo fo con mio
gusto, prima perchè mi persuado che l'orazione, accompagnata da
quel titolo di obbedire a Santa Chiesa, sia assai efficace; e poi
per levare a V. S. questo pensiero. Così avessi io potuto
supplire nel resto, che molto volontieri mi sarei eletta una
carcere più stretta di questa in che mi trovo per liberarne lei.
Adesso siamo qui e le tante grazie già ricevute ci danno speranza
di riceverne delle altre, purchè la nostra fede sia accompagnata
dalle buone opere, che, come V. S. sa meglio di me, _fides sine
operibus mortua est_.[2]

22 ottobre 1633.
Non saprei come darle dimostrazione del contento che provo nel
sentire ch'ella si va tuttavia conservando con sanità, se non con
dirle che più godo del suo bene che del mio proprio, non
solamente perchè l'amo quanto me medesima, ma perchè vo
considerando che, se io mi trovassi oppressa da infermità, oppure
fossi levata dal mondo, poco o nulla importerebbe, perchè a poco
o nulla son buona, dove che nella persona di V. S. sarebbe tutto
l'opposto per moltissime ragioni, ma in particolare (oltre che
giova e può giovare a molti) perchè con il grande intelletto e
sapere che gli ha concesso il Signore Iddio, può servirlo ed
onorarlo infinitamente più di quello che non posso io: sì che con
questa considerazione io vengo ad allegrarmi e goder del suo bene
più che pel mio proprio.

9 dicembre, a Siena.
Intendo che in Firenze è voce comune che V. S. sarà qua presto;
ma fino che io non l'intendo da lei medesimo, non credo altro, se
non che gli amici suoi cari dican quel tanto che l'affetto e il
desiderio lor detta. Io intanto godo grandemente sentendo che V.
S. abbia così buona ciera, quanto mi disse maestro Agostino, che
mi affermò non averla mai più veduta colla migliore. Tutto si può
riconoscere, dopo l'ajuto di Dio benedetto, da quella dolcissima
conversazione ch'ella continuamente gode di quell'illustrissimo
monsignor arcivescovo, e dal non si strapazzare nè disordinare,
com'ella fa qualche volta quando è in casa sua. Il Signore Iddio
sia sempre ringraziato, il quale sia quello che la conservi in
sua grazia.

10 dicembre 1633, a Siena.
Appunto quando mi comparve la nuova della spedizione di V. S.,
avevo preso in mano la penna per scrivere alla signora
ambasciatrice per raccomandarle questo negozio, il quale vedendo
io andare in lungo, temeva che non fosse spedito anco quest'anno,
sì che l'allegrezza è stata tanto maggiore quanto più
inaspettata; nè siamo soli a rallegrarci, ma tutte queste
monache, per loro grazia, danno segni di vera allegrezza siccome
molto hanno compatito ai miei travagli. La stia aspettando con
grande desiderio, e ci rallegriamo di vedere il tempo tanto
tranquillo. Il signor Gerri partiva stamane con la Corte per
Pisa, ed io a buon'ora l'ho fatto avvisare del quando V. S. torna
qua; che quanto alla spedizione, egli la sapeva e me n'aveva dato
parte jersera. Gli ho anco detto la causa per la quale V. S. non
gli ha scritto, e sonomi lamentata perchè egli non potrà
ritrovarsi qua all'arrivo di V. S. per compimento delle nostre
allegrezze, essendo veramente persona molto compita e di garbo.
Altro non posso dire per carestia di tempo, se non che a lei ci
raccomandiamo affettuosamente.
In fatto Galileo fu presto restituito alla patria e alla sua cara villa
d'Arcetri. Oltre la consolazione di trovarsi libero di sè e fra' suoi
cari amici e discepoli, avrà goduto di poter conversare frequente colla
figlia, nel vicino convento. Ma nell'aprile seguente l'angelica creatura
tornava al cielo. Così Dio dispose. Ostinandoci a cercare l'uomo di casa
sotto lo scienziato, non sappiamo tenerci dal riferire due suoi
biglietti casalinghi. Da Arcetri, il 16 agosto 1636 scriveva al ben noto
frà Fulgenzio Micanzio:
Ho ricevuto una lettera da Monaco da Alberto Cesare mio nipote,
la quale mi ha fatto lacrimare nel leggere il caso memorabile
successogli nel fuoco di quella città; mentre, oltre al perder la
madre con tre sorelle fanciulle, e un fratello, il poco che
avevano andò tutto in fiamme e fuoco; ond'egli con un suo minor
fratello restarono ignudi... È mirabile nel suono del liuto.
Venendo lo tratterrò più che potrò appresso di me, sperando che
debba essermi di sollevamento alla malinconia che, da alcuni
giorni in qua, più del solito mi aggrava in questa mia
solitudine, dove le sole lettere della S. V. R. mi sono di
notabile refrigerio; come anco altre che da remote regioni mi
pervengono in testimonio della mia in quelle bande conosciuta
innocenza, e del manifesto torto che mi vien fatto.
In altra lettera allo stesso, 12 novembre 1636:
Quando succeda di riscuotere il semestre della mia magra pensione
in Brescia, mi sarebbe caro che il denaro fosse investito là in
tanto refe da cucire, dove lo fanno candidissimo e bello al
possibile, e lo desiderei di diverse grossezze; e con esso mi
sarebbe caro che fossero mescolate alcune cordelline e
cordoncini, che alcune monache li intrecciano e annodano in
alcune figure di gigli e altre bizzarrie bellissime, che poi qua
per me saranno regali graziosi per presentare a mie parenti
monache e fanciulle secolari.
Noi fummo sempre fedeli a quelle che Carlyle intitola _The
hero-worship_, il culto de' grand'uomini: e piuttosto che il
divertimento de' piccoli di rovistare le debolezze di questi, ci parve
che l'umanità guadagni ogni qualvolta una grande si mostra meritevole
della stima, disputatagli da falsi testimonj.
Come ci piacque, tra la magnifica fierezza di Roma imperiale, cercar la
solitudine della Tebaide, e là requiara l'animo _facendo la carità_
insieme coi pii e forti romiti: come dalle fragorose grandigie di Luigi
XIV ci riposarono i dotti e fermi solitarj di Porto Reale, così dal
turgido stile, e dalla pomposa vanità del Seicento ci consolò il candido
scrivere di questa fanciulla, pari alla quale non so se saprebbe idearne
una il genio fecondo del miglior romanziere. Ed è pura storia.
1856.


TECLA

— Tecla! Tecla!» Ode il grido, dal letto
Balza Tecla, al verone s'affaccia.
È l'oggetto d'adultero affetto
Cui promise fra l'armi seguir.
— Vieni, o bella, d'amor fra le braccia;
Vieni, e godi del lungo desir».
Sciagurata! al marito le ciglia
Volge; ei dorme nel talamo in calma.
Un bambino, una tenera figlia
Nella cuna baciò, ribaciò.
Move, ondeggia, ristà; nella palma
Cela il viso che il pianto inondò.
— Tecla! Tecla!» Si spicca: la porta
Zitta schiude: un saluto, un amplesso
Di novello vigor la conforta;
Addio tutti! a cavallo salì.
Egli sprona, ella il segue d'appresso;
Mezzanotte in quel punto s'udì.
Via per campi, per ville galoppa,
Ma ai lasciati suoi cari sospira.
Sta su lieta: d'amore la coppa
Lene obblio ti diffonda nel sen.
Dell'amor nell'ebbrezza delira,
Ti prometti un perpetuo seren.
S'apre l'alba. — In quest'ora la mano
Il marito a cercarmi protende,
Nè mi trova: i miei pargoli invano
Mi chiamâr». Sgombra l'ansia dal cor:
Non se' in grembo al guerrier che t'accende?
Sta su lieta, e t'inebbria d'amor.
Mezzo un anno varcò. Dall'amante
Repudiata, confusa, avvilita,
Tecla, fuor d'una tenda festante,
Lagrimando, ululando si sta;
Dal guerrier, traditrice tradita,
Invan chiede mercede, pietà.
Senti, senti un urtar di bicchieri,
Gavazzare un tripudio d'evviva.
Senti; un brindisi ai fausti piaceri
D'un'amica novella si fè.
Dall'ambascia cascò semiviva;
Mezzanotte in quel punto battè.
Scarna, atrita, cenciosa, al soggiorno
De' suoi primi innocenti contenti
Sconosciuta fa Tecla ritorno,
Là seduta rimpetto a soffrir
Di mendica in aspetto i tormenti
D'un atroce ma tardo pentir.
Chi rimira la squallida, avvolta
D'irto vel, la sovviene d'un tozzo,
Ma addoppiare i suoi gemiti ascolta.
Non è pane che all'egra fallì:
Non di fame è il profondo singhiozzo;
D'altro cibo sostenta i suoi dì.
Ferve un denso tumulto di genti,
È un volar di cavalli, di cocchi;
Tutt'intorno festive o gementi
Squille e trombe le alternano il suon:
Nulla ascolta la misera, gli occhi
Sempre intesi all'offesa magion.
Note voci là dentro ella ha udito,
Ma nessuna più suona per lei.
Mesto uscir dalla casa il marito,
Mesto il vede rivolgervi il piè.
Del suo core l'ambascia tu sei,
Alla gioja egli è morto per te.
Fra i cancelli una bimba, un fanciullo
Folleggiar nel giardino ha veduti,
Che, sospeso l'ingenuo trastullo,
Vispi incontro del padre si fan:
A lui baci e carezze e saluti;
Per te vezzi e lusinghe non han.
Come trista del verno la sera
Piove il gel dalle stelle serene!
Insistente un'algenta bufera
Fischia a Tecla fra l'ispido crin,
Che disfoga le acerbe sue pene
Gemebonda sul trito cammin.
Al suo sguardo fra i vetri scintilla
Una vampa di fuoco vivace
Dalla sala, ove cara, tranquilla
Collo sposo, tra i figli sedè.
— O bei giorni! o miei gaudj! o mia pace!
Più per me quel contento non è.»
Ecco un lume alla stanza procede,
Stanza un tempo a sereno riposo.
È il marito: gli sguardi lo vede
Verso il ciel, sopra i figli girar,
Poi sul vedovo letto pensoso
Affisarli, e dal cor sospirar.
Tutti dormon. Soave bambina
Rompe il sonno, esclamando fra i pianti
— Mamma! mamma!» L'udì la tapina,
— O mia figlia, o mia figlia!» gridò.
Sorse, cadde alla soglia davanti;
Mezzanotte in quel punto sonò.
Al mattin, di traverso alla soglia,
Mercenaria pietade ritolse
D'un'ignota l'esanime spoglia
Che la fame, che il freddo sfinir;
Indistinta una fossa l'accolse
Senza un pianto, un suffragio, un sospir.
1834.
[Illustrazione: Al mattin, di traverso alla soglia... (_Pag. 97_).]


UNA BUONA FAMIGLIA

Hai tu ancora a mente quel Baldassare, nostro compagno di scuola,
insieme col quale, nei giorni sì belli e sì mal conosciuti
dell'adolescenza, noi si discorreva spesso, spesso si passeggiava? Era
pur buono! ma ci conveniva dissimulare il bene che gli si voleva, perchè
l'amicizia riusciva sospetta ai superiori; — sospetta quell'affezione
ch'è il ristoro migliore fra i travagli della vita, ed alla quale io
devo tutto quel poco di dolce che si mescolò fra l'assenzio onde fu
satollo. Particolarmente con questo mal gradivano essi di vederci uniti,
perchè lo giudicavano un perditempo, stante che era debole nel latino,
non sapea figgersi a mente la prosodia, non traccheggiava sonori i
periodi, e non accozzava bene negli esametri i dattili cogli spondei.
Dopo quel tempo, balestrato lontano di qua, io non l'avevo più veduto, e
neppur mai intesone notizie, benchè assai me lo ricordassi, come ricordo
quelli tutti che una volta ebbero poco o assai del mio affetto. Or fa
pochi giorni, mentre andavo, come soglio, scorrendo pedestre nuovi
paesi, una mattina capitai a ***, e fermatomi un tratto sul piazzuolo a
guardare certi devoti dipinti antichi della chiesa e cert'altri moderni
strillanti e vani, ecco venirmi incontro uno, ed — Oh, sonate campane»;
abbracciarmi, baciarmi: era Baldassare.
Io paragonava le sue cortesie alle gelate accoglienze che mi usarono
tant'altri condiscepoli dopo che si trovarono più elevati di me: tanto
più gelate quanto la sventura mi gettò più sotto. Mi domandò de' casi
miei; glieli esposi in poche parole; — sono così semplici quelli che
posso narrare, come sono lunghi e complicati quelli che si ascondono,
che devono ascondersi, e rodermi dentro, e accelerarmi la tomba, ove
saranno sepolti con me. E quando seppe che io andava così girellone per
cercare divagamento ed oblio, — Dunque oggi almeno devi restare con me:
sì, se mi ami»: ed aggiunse parole di tale spontanea cortesia, che non
seppi ricusare l'invito. E deh se me ne trovai soddisfatto! Quando Dio
volle premiare il buon figliuolo d'un buon padre, che cosa gli mandò? un
fedele amico pel viaggio, che lo condusse a ospitare presso una buona
famiglia.
Ed una buona famiglia veramente era quella del nostro Baldassare. —
Appena mio padre (dicevami egli) s'accorse ch'io non era fatto per gli
studj, persuaso che, anche senza di questi, uno possa riuscire
galantuomo, mi tenne in casa, e m'avviò negli affari, dove, trovandomi
nel mio elemento, non gli cagionava più que' disgusti che provava egli
qualora, addomandandone i nostri precettori, s'udiva rispondersi che non
profittavo, che scaldavo le panche e nulla più. Eppure a me parea di
valere quanto altri, se non nel loro latino, almeno in altre cose. Menai
moglie, accudii alle campagne, ed il Signore mi prosperò.»
Fra questo parlare, entravamo in casa: una casa di quella semplice
pulitezza che usa in campagna; e il primo aspetto che noi si offerse fu
la moglie di lui, con un bambino al seno.
Cittadine, i vostri adorni gabinetti, ove su comodi lettucci, tutte
linde, svolgete libri d'eleganti vanità o di profumata corruzione,
ovvero intendete ad opere oziose, mentre date ascolto agli studiati
nonnulla di chi strascina la sua noja di visita in visita, porgono essi
veruna immagine tanto bella quanto la vista d'una madre che allatta il
proprio bambino? Tanto bella che, quando la religione vuol esporre alla
devozione l'effigie di Colei che è più vicina a Dio, ed ispirarcene
amore e confidenza, non sa meglio rappresentarla che in questo atto.
Come l'amico a lei mi nominò, ella sorse al mio incontro tutta festosa,
e — L'ho inteso ricordare delle volte assai dal mio Baldassare, siccome
un giovane studioso....»
— E non un giovane buono?» la interruppi io.
— Sì, anche questo,» ella soggiungeva.
Ed io: — Or bene: questa è la lode che più mi lusinga.»
Una bimba in sui cinque anni, che trescava giuliva per casa, mi fece la
festa più ingenua, facilmente allettata da qualche zuccherino onde la
regalai. Ma come, avviandomi a veder la casa, passai nello stanzone
vicino, ecco la fanciulletta che era corsa a far parte del dono a suo
fratello, garzonetto su gli otto anni, il quale aveva interrotto lo
scrivere per dare ascolto alla sorella.
Visitammo un orto non così piccolo, che l'amico mio coltiva di propria
mano, e vi fa i suoi esperimenti prima di proporli ai contadini, a
ragione cautissimi in ciò che non hanno provato, e che riguarda la
propria sussistenza. Le camere erano da campagna, ma pulitamente
addobbate, le più con mobili vecchi, una o due con nuovi, che al loro
tempo cederanno il luogo ad altri più nuovi d'un'altra coppia di sposi.
Uno scaffale custodiva pochi libri, ch'esso mi mostrò con compiacenza,
dicendo, — Che tu non creda ch'io abbia fatto voto d'ignoranza.» Erano