Racconti storici e morali - 04
mando la mostra, me ne manca per due tovagliolini, che saranno
quattro braccia. Avrò caro che le mandi quanto prima, acciocchè
possa compirli avanti che si parta, che per questo ho preso
sollecitudine in finirli.
Per non aver io camera dove stare a dormire la notte, suor
Diamante, per sua cortesia mi tiene nella sua, privandosi della
propria sorella per tenervi me; ma a questi freddi è tanto
cattiva la stanza, che io, che ho la testa tanto infetta, non
credo poterci stare se V. S. non mi soccorre prestandomi uno de'
suoi padiglioni, di quelli bianchi che adesso non deve adoperare.
Avrò caro d'intender se può farmi questo servigio; e di più la
prego a farmi grazia di mandarmi il suo libro, che si è stampato
adesso, tanto che io lo legga, avendo io gran desiderio di
vederlo.
Queste poche paste che le mando, l'aveva fatte pochi giorni sono
per dargliele quando veniva a darci addio: veggo che non sarà
presto, come temevo, tanto che gliele mando acciò non
induriscano. Suor Arcangela seguita ancora a purgarsi, e se ne
sta non troppo bene con due cauterj che se le son fatti nelle
coscie. Io ancora non sto molto bene, ma per essere omai tanto
assuefatta alla poca sanità, ne faccio poca stima; vedendo di più
che al Signore piace di visitarmi sempre con qualche poco di
travaglio, lo ringrazio e lo prego che a V. S. conceda il colmo
d'ogni maggior felicità. E per fine, di tutto cuore la saluto in
nome mio e di suor Arcangela.
_PS._ Se V. S. ha collari da imbiancare, potrà mandarceli.
19 dicembre 1625.
Del cedro, che V. S. m'ordinò che dovessi confettare, non ne ho
accomodato se non questo poco, che al presente le mando, perchè
dubitavo, che per esser così appassito, non dovesse riuscir di
quella perfezione che avrei voluto, come veramente non è
riuscito. Insieme con esso le mando due pere cotte, per questi
giorni di vigilia; ma per maggiormente regalarla gli mando una
rosa, la quale, come cosa straordinaria in questa stagione, dovrà
da lei esser molto gradita, e tanto più che, insieme con la rosa,
potrà accettare le spine, che in essa rappresentano l'acerba
passione del nostro Signore, e anco le sue verdi fronde, che
significano la speranza, che (mediante questa Santa Passione)
possiamo avere di dover, dopo la brevità ed oscurità dell'inverno
della vita presente, pervenire alla chiarezza e felicità
dell'eterna primavera del cielo; il che ne conceda Dio benedetto
per sua misericordia.»
Quest'affetto non è passeggero; ma come di figlia, non si altera cogli
anni; e a' 4 marzo 1627 essa gli scriveva ancora a Bellosguardo un
amorevole lamento.
Credo veramente che l'amor paterno inverso dei figli possa in
parte diminuirsi, mediante i mali costumi e portamenti loro, e
questa mia credenza vien confermata da qualche indizio che me ne
dà V. S., parendomi che più presto vada in qualche parte scemando
quel cordiale affetto, che per l'addietro ha inverso di noi
dimostrato; poichè sta tre mesi per volta senza venire a
visitarne, che a noi pajon tre anni, ed anche da un pezzo in qua,
mentre si ritrova con sanità, non mi scrive mai, mai un verso. Ho
fatto buona esamina per conoscere se dalla banda mia ci fosse
caduto qualche errore, che meritasse questo castigo, ed uno ne
ritrovo (ancorchè involontario), e questo è una trascuraggine, o
spensierataggine ch'io dimostro verso di lei, mentre non ho
quella sollecitudine, che richiederebbe l'obbligo mio, di
visitarla e salutarla più spesso con qualche mia lettera. Onde
questo mio mancamento, accompagnato da molti demeriti che per
altra parte ci sono, è bastante a somministrarmi il timore sopra
accennatole; sebbene appresso di me non a difetto può
attribuirsi, ma piuttosto a debolezza di forze, mente che la mia
continua indisposizione mi impedisce di poter esercitarmi in cosa
alcuna; e già più d'un mese ho travagliato con dolori di testa
tanto eccessivi, che nè giorno nè notte trovavo riposo. Adesso
che (per grazia del Signore) sono mitigati, ho subito preso la
penna per scriverle questa lunga lamentazione, che, per essere di
carnevale, può piuttosto dirsi una burla. Basta insomma che V. S.
si ricordi che desideriamo di rivederla quando il tempo lo
permetterà, intanto le mando alcune poche confezioni, che mi sono
state donate; saranno alquanto indurite, avendole io serbate
parecchi giorni colla speranza di dargliele alla presenza. I
berlingozzi sono per l'Anna Maria e suoi fratellini (_figli di
Michelangelo fratello di Galileo_). Gli mando una lettera per
Vincenzo (_fratello_), acciò questo gli riduca in memoria che
siamo al mondo, poichè dubito ch'egli se lo sia scordato, poichè
non ci scrive mai un verso. Salutiamo per fine V. S. e la zia di
tutto cuore, e da N. S. le prego ogni contento.
Pretendono che il cervello non si sviluppi se non a scapito del cuore, e
che perciò le persone di testa non siano le più amorevoli. Rimettiamone
la decisione al dottor Faust; questo noi sappiamo, che Galileo non
rispondeva abbastanza alle sollecitudini di sua figlia, o almeno non
quanto essa desiderava. E però, sempre con religiosa rassegnazione, essa
gli rinnuova il lamento agli 11 novembre dell'anno seguente:
Essendo io stata tanto senza scriverle, V. S. potrebbe facilmente
giudicare ch'io l'avessi dimenticato; sì come potrei io
sospettare ch'ella avesse smarrita la strada per venir a
visitarmi, poichè è tanto tempo che non ha per essa camminato. Ma
siccome poi son certa che non tralascio di scriverle per la causa
suddetta, ma si bene per penuria e carestia di tempo, del quale
non ho mai un'ora che sia veramente mia, così mi giova di creder
ch'ella, non per dimenticanza, ma sibbene per altri impedimenti,
lasci di venir da noi; e tanto più adesso che Vincenzo nostro
viene in suo scambio, e con questo ci acquetiamo, avendo da esso
nuove sicure di V. S. le quali tutte mi sono di gusto, eccetto
quella per la quale intendo ch'ella va alla mattina nell'orto.
Questa veramente mi dispiace fuori di modo, parendomi che V. S.
si procacci qualche male stravagante e fastidioso, siccome
l'altra invernata gl'intervenne. Di grazia, privisi di questo
gusto, che torna in tanto suo danno, e se non vuol farlo per amor
suo, faccialo almeno per amor di noi suoi figliuoli, che
desideriamo di vederla giugnere alla decrepità, il che non
succederà s'ella così si disordina. Dico questo per pratica,
perchè ogni poco ch'io stia ferma all'aria scoperta, mi nuoce
alla testa grandemente: or quanto più farà danno a lei?
Quando Vincenzo fu ultimamente da noi, suor Chiara gli domandò
otto o dieci melarancie; adesso ella torna a dimandarle a V. S.,
se sono mediocremente mature, avendo a servirsene lunedì mattina.
Gli rimando il suo piatto; dentrovi una pera cotta, che credo non
le spiacerà, e questa poca pasta reale. Saluto V. S. e Vincenzo
molto affettuosamente, e il simile fanno l'Arcangela e le altre
di camera. Il Signore gli conceda la sua grazia.
Sono uno dei temi favoriti agli scherzi della _buona società_ i
regalucci delle monache; ma qui prendono un carattere solenne, e noi
godiamo pensando n'avrà goduto quel grand'uomo di Galileo. Il Vincenzo,
di cui qui si parla, era un altro figlio di lui, il quale nel 1629 menò
moglie, e la fece conoscere alle sorelle. In quest'occasione suor Maria
Celeste scriveva al padre con affetto ancor più espansivo, quasi
(oseremmo cercar un bruscolo mondano in quella candida anima?) temesse
che le cure della nuora lo distraessero alquanto dall'amor delle
figliuole.
Restammo veramente tutte sotisfatte della sposa, per esser molto
affabile e graziosa; ma sopra ogni altra cosa ne dà contento il
conoscere ch'ella porti amore a V. S., poichè supponghiamo che
sia per fargli quegli ossequi, che noi le faremmo se ci fosse
permesso. Non lascieremo già di fare ancor noi la parte nostra
inverso di lei, cioè di tenerla continuamente raccomandata al
Signor Iddio, che troppo siamo obbligate, non solo come
figliuole, ma come orfane abbandonate che saremmo se V. S. ci
mancasse. Oh se almeno io fossi abile ad esprimerlo il mio
concetto, sarei sicura che ella non dubiterebbe ch'io non
l'amassi tanto teneramente, quanto mai altra figliuola abbia
amato il padre; ma non so significarglielo con altre parole, se
non con dire che io lo amo più di me stessa, poichè, dopo Dio,
l'essere lo riconosco da lei, accompagnato da tanti altri
beneficj che sono innumerabili, sì che mi conosco anche obbligata
e prontissima ad espor la mia vita a qualsivoglia travaglio per
lei, eccettuatone l'offesa di Sua Divina Maestà. Di grazia V. S.
mi perdoni se la tengo a tedio troppo lungamente, poichè talvolta
l'affetto mi trasporta.
Non mi ero già messa a scrivere con questo pensiero, ma sibbene
per dirle che, se potesse rimandare l'oriuolo sabato sera, la
sagristana che ci chiama a mattutino l'avrebbe caro; ma se non si
può mediante la brevità del tempo che V. S. l'ha tenuto, sia per
non detto che, meglio sarà l'indugiare qualche poco, e riaverlo
aggiustato, caso che n'abbia bisogno.
Vorrei anco sapere se ella si contentasse di far un baratto con
noi, cioè ripigliarsi un chitarrone, ch'ella ci donò parecchi
anni sono, e donarci invece un brevario a tutte due, giacchè
quelli che avemmo quando ci facemmo monache, sono tutti
stracciati, essendo questi gl'istromenti che adopriamo ogni
giorno; talchè quello se ne sta sempre alla polvere, e va a
rischio d'andar a male, essendo costrette, per non fare
scortesia, a mandarlo in presto fuor di casa qualche volta. Se V.
S. si contenta, me ne darà avviso, acciò possa mandarlo: e quanto
ai breviarj non ci curiamo che siano dorati, ma basterebbe che vi
fossino tutti i santi di nuovo aggiunti, e avessino buona stampa,
perchè ci serviranno nella vecchiaja, se ci arriveremo.
Volevo fargli della conserva di fiori di ramerino, ma aspetto che
V. S. mi rimandi qualcuno de' miei vasi di vetro, perchè non ho
dove metterla; e così se avesse per casa qualche barattolo o
ampolla vuota, che gli dia impaccio, a me sarebbe grata per la
bottega.
Sopraggiunse intanto il 1630, l'anno della peste; e in tali pericoli la
lontananza cresce gli sgomenti, quand'anche siasi certi che la presenza
non diminuirebbe i pericoli. È in questi casi che la voce della
religione vien di conforto più presentaneo, e viepiù se esca da labbra
amorevoli.
18 ottobre 1630, a Bellosguardo.
Sto con l'animo assai travagliato e sospeso, immaginandomi che V.
S. si ritrovi molto disturbata mediante la repentina morte del
suo povero lavoratore. Suppongo eziandio ch'ella procurerà con
ogni diligenza possibile di guardarsi dal pericolo, del che la
prego caldamente; e anco credo che non gli manchino i rimedj
difensivi, proporzionati alla presente necessità, onde non
predicherò altro intorno a questo. Bensì con ogni debita
riverenza e confidenza figliale l'esorterò a procurar l'ottimo
rimedio, quale è la grazia di Dio benedetto, col mezzo di una
vera contrizione e penitenza. Questa senza dubbio è la più
efficace medicina, non solo per l'anima, ma pel corpo ancora;
poichè, se è tanto necessario, per ovviare al male contagioso, lo
stare allegramente, qual maggiore allegrezza può provarsi in
questa vita, di quello che ci apporta una buona e serena
coscienza? Certo che, quando possederemo questo tesoro, non
temeremo nè pericoli nè morte; e poichè il Signore giustamente ne
castiga con questi flagelli, cerchiamo noi con l'ajuto suo di
star preparati per ricevere il colpo da quella potente mano la
quale avendoci cortesemente donato la presente vita, è padrona di
privarcene come e quando gli piace.
Accetti V. S. queste poche parole proferite con uno
svisceratissimo affetto, e anco resti consapevole della
disposizione nella quale, per grazia del Signore, io mi ritrovo,
cioè desiderosa di passarmene all'altra vita, poichè ogni giorno
veggo più chiaro la vanità e miseria della presente; oltrechè
finirei di offendere Dio benedetto, e spererei di poter con più
efficacia pregare per V. S. Non so se questo mio desiderio sia
troppo interessato; il Signore, che vede il tutto, supplisca per
sua misericordia ove io manco per mia ignoranza, e a V. S. doni
vera consolazione. Noi qua siamo tutte sane del corpo, ma ben
siamo travagliate dalla penuria e povertà; non in maniera però
che ne patiamo detrimento nel corpo, con l'ajuto del Signore.
Scrivo a ore sette; imperò V. S. mi scuserà se farò degli errori,
perchè il giorno non ho un'ora di tempo che sia mia, poichè
all'altre mie occupazioni s'aggiunse l'insegnare il canto fermo a
quattro giovinette, e per ordine di Madonna ordinare l'uffizio
del coro giorno per giorno: il che non mi è di poca fatica, per
non aver cognizione alcuna di lingua latina. È ben vero che
questi esercizj mi sono di molto gusto, s'io non avessi anco
necessità di lavorare; ma da questo ne cavo un bene non piccolo,
cioè il non stare in ozio un quarto d'ora mai mai; eccetto che mi
è necessario il dormire assai per causa della testa. Se V. S.
m'insegnasse il secreto che usa per sè, che dorme così poco, lo
avrei molto caro, perchè finalmente sette ore di sonno, ch'io
mando a male, mi pajon pur troppo. Non dico altro per non
tediarla, se non che la saluto affettuosamente insieme con le
solite amiche.
E conforti la Maria Celeste inviava al padre in altri dispiaceri di
esso.
2 novembre 1630, a Bellosguardo.
So che V. S. sa meglio di me che le tribulazioni sono la pietra
del paragone, ove si fa pruova della finezza dell'amor di Dio,
sicchè tanto quanto le piglieremo pazientemente dalla sua mano,
tanto potremo prometterci di posseder questo tesoro, ove consiste
ogni nostro bene. La prego dunque di non pigliare il coltello di
questi disturbi e contrarietà per il taglio, acciò da quello non
resti offesa, ma piuttosto prendendolo a diritto, se ne serva per
tagliare con quello tutte le imperfezioni, che per avventura
conoscerà in sè stesso, acciò levati gl'impedimenti, siccome con
vista di lince ha penetrato i cieli, così penetrando anche le
cose più basse, arrivi a conoscere la vanità e fallaccia di tutte
queste cose terrene; vedendo e toccando con mano che nè amor di
figli, nè piaceri, onori o ricchezza ci possono dar vera
contentezza, essendo cose per sè troppo instabili, e che solo in
Dio benedetto, come in ultimo nostro fine, possiamo trovar vera
quiete. Oh che gaudio sarà il nostro quando, squarciato questo
fragil velo che ne impedisce, a faccia a faccia godremo questo
gran Dio? Affatichiamoci pure questi pochi giorni di vita, che ci
restano, per guadagnare un bene così grande e perpetuo; ove
parmi, carissimo signor padre, che V. S. s'incammini per dritta
strada, mentre si vale delle occasioni che si gli porgono, e
particolarmente nel far di continuo benefizj a persone che la
ricompensano d'ingratitudine; azione veramente, che, quanto ha
più del difficile, tanto è più perfetta e virtuosa. Anzi questa,
più che altra virtù, mi pare che ci renda simili all'istesso Dio,
poichè in noi stessi esperimentiamo, che, mentre tutto il giorno
offendiamo S. D. M., egli all'incontro va pur facendone infiniti
benefizj; e se pur talvolta ci castiga, fa questo per maggior
nostro bene, a guisa di buon padre che, per correggere il figlio
prende la sferza: siccome par che segua di presente nella nostra
povera città, acciocchè, almeno mediante il timore del
soprastante pericolo, ci emendiamo.
V. S. mi perdoni se troppo l'infastidisco con tanto cicalare,
perchè, oltre che ella m'inanimisce col darmi indizio che gli
sieno grate le mie lettere, io fo conto ch'ella sia il mio devoto
(per parlare alla nostra usanza), con il quale io comunico tutti
i miei pensieri, e partecipo i miei gusti e disgusti; e
trovandolo sempre prontissimo a sovvenirmi, gli domando non tutti
i miei bisogni, perchè sarieno troppi, ma sibbene il più
necessario di presente, perchè venendo il freddo mi converrà
intirizzirmi se egli non mi soccorre mandandomi un coltrone per
tenere addosso, poichè quello che io tengo non è mio, e la
persona se ne vuol servire, come è dovere. Quello che avemmo da
V. S. insieme con il panno, lo lascio a suor Arcangela, la quale
vuole star sola a dormire, e io l'ho caro: ma così resto con una
semplice sargia, e se aspetto di guadagnar da comprarlo, non
l'avrò nè manco quest'altro inverno. Sicchè io lo dimando in
carità a questo mio devoto tanto affezionato, il quale so ben io
che non potrà comportare ch'io patisca. E piaccia al Signore (se
è per il meglio) di conservarmelo ancora lungo tempo; perchè,
dopo di lei, non mi resta bene alcuno nel mondo. Ma è pur gran
cosa ch'io non sia buona per rendergli il contraccambio in cosa
alcuna! Procurerò almeno, anzi al più, d'importunar tanto Dio
benedetto e la Madonna santissima, ch'egli ci conduca al
paradiso, e questa sarà la maggior ricompensa ch'io possa dare
per tutti i beni che mi ha fatti e fa continuamente.
Gli mando due vasetti di lattovaro, preservativo dalla peste.
Quello che non vi è scritto sopra è composto di fichi secchi,
noci, ruta e sale, unito il tutto con tanto mele che basti. Se ne
piglia la mattina a digiuno quanto una noce con bervi dietro un
poco di greco o vino buono, e dicono che è esperimentato per
difensivo mirabile; è ben vero che ci è riuscito troppo cotto,
perchè non avvertimmo alla condizione dei fichi secchi, che è di
assodare. Anco di quell'altro se ne piglia un boccone
nell'istessa maniera, ma è un poco più ostico. Se vorrà usare
dell'uno o dell'altro, procureremo di farli con più perfezione.
18 febbraio 1631.
Il disgusto che ha sentito V. S. della mia indisposizione dovrà
restare annullato, mentre di presente gli dico che io sto
ragionevolmente bene circa al male sopraggiuntomi in questi
giorni passati, che, quanto alla mia antica oppilazione credo che
farà bisogno di una efficace cura a migliore stagione; intanto mi
andrò trattenendo con buon governo, siccome ella mi esorta. È ben
vero ch'io desidererei, che del consiglio che porge a me, si
valesse anche per sè stesso, non immergendosi tanto ne' suoi
studj che pregiudicano troppo notabilmente alla sua sanità. Che
se il povero corpo serve come strumento proporzionato allo
spirito nell'intender e investigare le novità con sua gran
fatica, è ben dovere che se gli conceda la necessaria quiete;
altrimenti egli si sconcerterà di maniera, che renderà anco
l'intelletto inabile il gustar quel cibo che prese con troppa
avidità.
Non ringrazierò V. S. dei due scudi e altre amorevolezze
mandatemi, ma sibbene della prontezza e liberalità con la quale
ella si dimostra tanto e più desiderosa di sovvenirmi, quanto io
bisognosa di esser sovvenuta.
Resto confusa sentendo ch'ella conservi le mie lettere, e dubito
che il grande affetto che mi porta gliele dimostri più compite di
quello che sono; ma sia pure come si voglia, a me basta ch'ella
se ne soddisfaccia: con che gli dico a Dio, il quale sta sempre
con lei, e gli fo le solite raccomandazioni.
E questa vada in contraddizione al dottor Faust, poichè vediamo che
quest'austero Galileo, occupato de' pianeti e in lotta con tanti
avversarj e invidiosi, siccome è la sorte degli uomini grandi, non è
vero che abbia sagrificato alla testa il cuore; e siane prova il
conservar che fa le lettere della sua monacella.
Frugando nelle quali, procediamo, e vediam come ella si condolga della
morte dello zio Michelangelo.
11 marzo 1631.
La lettera di V. S. mi ha apportato molto disgusto per più
ragioni. E prima perchè sento la morte dello zio Michelangelo del
quale mi duole assai, non solo per la perdita di lui ma anco per
l'aggravio che perciò ne viene a lei, che, veramente questa non
credo che sarà la più leggiera fra le altre sue poche
soddisfazioni, o per dir meglio tribulazioni. Ma poi che Dio
benedetto si mostra prodigo con V. S. di lunghezza di vita e di
facoltà più che con suo fratello e sorelle, è conveniente ch'ella
spenda l'una e l'altre consolare benemplacito di S. D. M. che ne
è padrone.
Sento anco grandissimo disgusto di non poterle dare quella
soddisfazione che vorrei circa il tener qua in serbo la Virginia,
alla quale sono affezionata per essere ella stata di sollevamento
e passatempo a V. S., già che i nostri superiori si sono
dichiarati non voler in modo alcuno che pigliamo fanciulle nè per
monache nè per inserto, perchè essendo tale la povertà del
convento quale V. S. sa, si rendono difficili a provveder da
viver per noi che già siamo qua, non che vogliano aggiungercene
dell'altre. Essendo adunque questa ragione molto plausibile, e il
comandamento universale per parenti ed altri, io non ardirei di
ricercar da Madonna o da altri una tal cosa. Assicurisi bene che
provo una pena intensa mentre mi trovo priva di poter in questo
poco soddisfarla, ma finalmente non ci vedo verso.
Dispiacemi anche grandemente in sentire ch'ella si trovi con poca
sanità, e, se mi fosse lecito, di molto buona voglia piglierei
sopra di me i suoi dolori; ma poi che non è possibile, non manco
almeno dell'orazione, nella quale la preferisco a me stessa; così
piaccia al Signore di esaudirla!
Io sto tanto bene di sanità, che vo facendo quaresima, con
speranza di condurla sino al fine, sicchè V. S. non si pigli
pensiero di mandarmi cose da carnevale; la ringrazio di quelle
già mandatemi, e, per fine di tutto cuore me le raccomando
insieme con suor Arcangela e le amiche.
Questa suor Arcangela era di salute ancor più disfatta; e di lei
scriveva il 12 agosto:
Suor Arcangela, che tanto m'ha dato da pensare, per grazia di Dio
sta alquanto meglio, e sebbene assai debole e fiacca si ritrovi,
comincia a sollevarsi; e perchè avrebbe gusto di mangiare qualche
pesciuolo marinato, prega V. S. che gliene faccia provvisione di
qualcuno per questi prossimi giorni magri.
Di lei stessa si occupava in una del 30 agosto, sempre diretta a
Bellosguardo.
Se la misura o indizio dell'amore, che si porta ad una persona, è
la confidenza che in lei si dimostra, V. S. non dovrà stare in
dubbio se io l'amo di tutto cuore, come è in verità, poichè tanta
confidenza e sicurtà piglio con lei, che qualche volta temo che
non ecceda il termine della modestia e riverenza figliale, e
tanto più sapendo ch'ella da molti fastidj e spese si trova
aggravata. Nondimeno la certezza che ho, che V. S. sovviene tanto
volentieri alle mie necessità quanto a quelle di qualsivoglia
altra persona, anzi alle sue proprie, mi somministra ardire di
pregarla che si compiaccia di alleggerirmi di un pensiero, che
molto m'inquieta mediante un debito che tengo di cinque scudi,
per la malattia di suor Arcangela; essendomi convenuto in questi
quattro mesi spendere alla larga, in comparazione di quello che
comportava la povertà del nostro stato. E ora che mi trovo
all'estremo, e in necessità di soddisfare a chi devo, mi
raccomando a chi so che può e vuole ajutarmi. E anco desidero un
fiasco del suo vino bianco, per farlo acciajato per suor
Arcangela, alla quale credo che più gioverà la fede che ha in
questo rimedio, che il rimedio istesso. Scrivo con tanta
scarsezza di tempo, che non posso dirle altro, senonchè vorrei
che questi sei calicioni fossino di suo gusto, e me le
raccomando.
Fra ciò arrivarono i tempi grossi pel Galilei. Figuriamoci l'animo di
una monacella, tutta innamorata di suo padre e superba della gloria di
lui, e che tutt'inaspettatamente lo vede accusato d'eretico, e chiamato
a Roma a scagionarsi o a ricredersi, da quel papa appunto, dalla cui
protezione ella si era ripromesso tanti vantaggi per suo padre. Per
quanto ella il sapesse trattato coi riguardi dovuti a grand'uomo e alle
raccomandazioni del granduca, ella non poteva non restarne in sospeso:
ma la sobrietà del dolore di essa, i lamenti che mai non accusano,
l'interesse che non trascende mai ci fanno stimare infinitamente suor
Celeste.
Mentre dunque Galileo stava a Roma, essa gli scriveva, ai 12 marzo 1633:
L'ultima sua lettera mi ha apportato gran consolazione, sì per
sentire ch'ella si va mantenendo in buon grado di sanità, come
anco perchè per quella vengo maggiormente certificata del felice
esito del suo negozio, che tale me l'hanno fatto prevedere il
desiderio e l'amore. E sebbene veggo che passando le cose in
questa maniera, si andrà prolungando il tempo del suo ritorno,
reputo nondimeno a gran ventura il restare priva delle mie
proprie soddisfazioni per un'occasione, la quale abbia da
ridondare in benefizio e reputazione della sua persona, amata da
me più che me stessa. E tanto più m'acqueto, quanto che son certa
ch'ella riceve ogni onore e comodità desiderabile da cotesti
eccellentissimi signori, e in particolare dalla eccellentissima
ambasciatrice, mia signora e padrona, la visita della quale se
avessimo grazia suor Arcangela e io di ricevere, certo che
sarebbe favore segnalato, e a noi tanto gradito quanto V. S. può
immaginarsi. Quanto al procurare ch'ella vedesse una commedia, io
non posso dir niente, poichè bisognerebbe governarsi secondo il
tempo nel quale ella venisse; sebbene io veramente crederei che
stessimo più in salvo lasciandola in quella buona credenza, in
ch'ella deve ritrovarsi mediante le parole di V. S.
Suor Arcangela sta alquanto meglio, ma non bene affatto. Io sto
bene perchè ho l'animo quieto e tranquillo, e sto in continuo
moto, eccetto però le sette ore della notte, le quali io mando a
male in un sonno solo: perchè questo mio capaccio così umido non
ne vuole manco un tantino. Non lascio per questo di soddisfare il
più che io posso al debito che ho con lei dell'orazione, pregando
Dio benedetto che principalmente le conceda la salute dell'anima,
poi le altre grazie ch'ella maggiormente desidera.
Non dirò altro per ora, senonchè abbia pazienza se troppo la
tengo a tedio, pensando che io restringo in questa carta tutto
quello che io le cicalerei in una settimana. La saluto con tutto
l'affetto insieme con le solite.
Come poi udì ch'egli era stato per alcuni giorni nel Sant'Uffizio, lo
consolava:
20 aprile 1633.
Dal signor Gerri mi viene avvisato in qual termine ella si
ritrovi per causa del suo negozio, cioè ritirato nelle stanze del
Sant'Uffizio; il che per una parte mi dà molto disgusto,
persuadendomi ch'ella si ritrovi con poca quiete dell'animo, e
fors'anco non con tutte le comodità del corpo; dall'altra banda,
considerando io la necessità del venire a questi particolari per
la sua spedizione, e la benignità colla quale fino a qui si è
costà proceduto verso la persona sua, e sopratutto la giustizia
della causa e la sua innocenza in questo particolare, mi consolo
e piglio speranza di felice e prospero successo, con l'ajuto di
Dio benedetto, al quale il mio cuore non cessa mai di esclamare e
raccomandarla con ogni affetto e confidenza possibile.
Resta solo ch'ella stia di buon animo, procurando di non
quattro braccia. Avrò caro che le mandi quanto prima, acciocchè
possa compirli avanti che si parta, che per questo ho preso
sollecitudine in finirli.
Per non aver io camera dove stare a dormire la notte, suor
Diamante, per sua cortesia mi tiene nella sua, privandosi della
propria sorella per tenervi me; ma a questi freddi è tanto
cattiva la stanza, che io, che ho la testa tanto infetta, non
credo poterci stare se V. S. non mi soccorre prestandomi uno de'
suoi padiglioni, di quelli bianchi che adesso non deve adoperare.
Avrò caro d'intender se può farmi questo servigio; e di più la
prego a farmi grazia di mandarmi il suo libro, che si è stampato
adesso, tanto che io lo legga, avendo io gran desiderio di
vederlo.
Queste poche paste che le mando, l'aveva fatte pochi giorni sono
per dargliele quando veniva a darci addio: veggo che non sarà
presto, come temevo, tanto che gliele mando acciò non
induriscano. Suor Arcangela seguita ancora a purgarsi, e se ne
sta non troppo bene con due cauterj che se le son fatti nelle
coscie. Io ancora non sto molto bene, ma per essere omai tanto
assuefatta alla poca sanità, ne faccio poca stima; vedendo di più
che al Signore piace di visitarmi sempre con qualche poco di
travaglio, lo ringrazio e lo prego che a V. S. conceda il colmo
d'ogni maggior felicità. E per fine, di tutto cuore la saluto in
nome mio e di suor Arcangela.
_PS._ Se V. S. ha collari da imbiancare, potrà mandarceli.
19 dicembre 1625.
Del cedro, che V. S. m'ordinò che dovessi confettare, non ne ho
accomodato se non questo poco, che al presente le mando, perchè
dubitavo, che per esser così appassito, non dovesse riuscir di
quella perfezione che avrei voluto, come veramente non è
riuscito. Insieme con esso le mando due pere cotte, per questi
giorni di vigilia; ma per maggiormente regalarla gli mando una
rosa, la quale, come cosa straordinaria in questa stagione, dovrà
da lei esser molto gradita, e tanto più che, insieme con la rosa,
potrà accettare le spine, che in essa rappresentano l'acerba
passione del nostro Signore, e anco le sue verdi fronde, che
significano la speranza, che (mediante questa Santa Passione)
possiamo avere di dover, dopo la brevità ed oscurità dell'inverno
della vita presente, pervenire alla chiarezza e felicità
dell'eterna primavera del cielo; il che ne conceda Dio benedetto
per sua misericordia.»
Quest'affetto non è passeggero; ma come di figlia, non si altera cogli
anni; e a' 4 marzo 1627 essa gli scriveva ancora a Bellosguardo un
amorevole lamento.
Credo veramente che l'amor paterno inverso dei figli possa in
parte diminuirsi, mediante i mali costumi e portamenti loro, e
questa mia credenza vien confermata da qualche indizio che me ne
dà V. S., parendomi che più presto vada in qualche parte scemando
quel cordiale affetto, che per l'addietro ha inverso di noi
dimostrato; poichè sta tre mesi per volta senza venire a
visitarne, che a noi pajon tre anni, ed anche da un pezzo in qua,
mentre si ritrova con sanità, non mi scrive mai, mai un verso. Ho
fatto buona esamina per conoscere se dalla banda mia ci fosse
caduto qualche errore, che meritasse questo castigo, ed uno ne
ritrovo (ancorchè involontario), e questo è una trascuraggine, o
spensierataggine ch'io dimostro verso di lei, mentre non ho
quella sollecitudine, che richiederebbe l'obbligo mio, di
visitarla e salutarla più spesso con qualche mia lettera. Onde
questo mio mancamento, accompagnato da molti demeriti che per
altra parte ci sono, è bastante a somministrarmi il timore sopra
accennatole; sebbene appresso di me non a difetto può
attribuirsi, ma piuttosto a debolezza di forze, mente che la mia
continua indisposizione mi impedisce di poter esercitarmi in cosa
alcuna; e già più d'un mese ho travagliato con dolori di testa
tanto eccessivi, che nè giorno nè notte trovavo riposo. Adesso
che (per grazia del Signore) sono mitigati, ho subito preso la
penna per scriverle questa lunga lamentazione, che, per essere di
carnevale, può piuttosto dirsi una burla. Basta insomma che V. S.
si ricordi che desideriamo di rivederla quando il tempo lo
permetterà, intanto le mando alcune poche confezioni, che mi sono
state donate; saranno alquanto indurite, avendole io serbate
parecchi giorni colla speranza di dargliele alla presenza. I
berlingozzi sono per l'Anna Maria e suoi fratellini (_figli di
Michelangelo fratello di Galileo_). Gli mando una lettera per
Vincenzo (_fratello_), acciò questo gli riduca in memoria che
siamo al mondo, poichè dubito ch'egli se lo sia scordato, poichè
non ci scrive mai un verso. Salutiamo per fine V. S. e la zia di
tutto cuore, e da N. S. le prego ogni contento.
Pretendono che il cervello non si sviluppi se non a scapito del cuore, e
che perciò le persone di testa non siano le più amorevoli. Rimettiamone
la decisione al dottor Faust; questo noi sappiamo, che Galileo non
rispondeva abbastanza alle sollecitudini di sua figlia, o almeno non
quanto essa desiderava. E però, sempre con religiosa rassegnazione, essa
gli rinnuova il lamento agli 11 novembre dell'anno seguente:
Essendo io stata tanto senza scriverle, V. S. potrebbe facilmente
giudicare ch'io l'avessi dimenticato; sì come potrei io
sospettare ch'ella avesse smarrita la strada per venir a
visitarmi, poichè è tanto tempo che non ha per essa camminato. Ma
siccome poi son certa che non tralascio di scriverle per la causa
suddetta, ma si bene per penuria e carestia di tempo, del quale
non ho mai un'ora che sia veramente mia, così mi giova di creder
ch'ella, non per dimenticanza, ma sibbene per altri impedimenti,
lasci di venir da noi; e tanto più adesso che Vincenzo nostro
viene in suo scambio, e con questo ci acquetiamo, avendo da esso
nuove sicure di V. S. le quali tutte mi sono di gusto, eccetto
quella per la quale intendo ch'ella va alla mattina nell'orto.
Questa veramente mi dispiace fuori di modo, parendomi che V. S.
si procacci qualche male stravagante e fastidioso, siccome
l'altra invernata gl'intervenne. Di grazia, privisi di questo
gusto, che torna in tanto suo danno, e se non vuol farlo per amor
suo, faccialo almeno per amor di noi suoi figliuoli, che
desideriamo di vederla giugnere alla decrepità, il che non
succederà s'ella così si disordina. Dico questo per pratica,
perchè ogni poco ch'io stia ferma all'aria scoperta, mi nuoce
alla testa grandemente: or quanto più farà danno a lei?
Quando Vincenzo fu ultimamente da noi, suor Chiara gli domandò
otto o dieci melarancie; adesso ella torna a dimandarle a V. S.,
se sono mediocremente mature, avendo a servirsene lunedì mattina.
Gli rimando il suo piatto; dentrovi una pera cotta, che credo non
le spiacerà, e questa poca pasta reale. Saluto V. S. e Vincenzo
molto affettuosamente, e il simile fanno l'Arcangela e le altre
di camera. Il Signore gli conceda la sua grazia.
Sono uno dei temi favoriti agli scherzi della _buona società_ i
regalucci delle monache; ma qui prendono un carattere solenne, e noi
godiamo pensando n'avrà goduto quel grand'uomo di Galileo. Il Vincenzo,
di cui qui si parla, era un altro figlio di lui, il quale nel 1629 menò
moglie, e la fece conoscere alle sorelle. In quest'occasione suor Maria
Celeste scriveva al padre con affetto ancor più espansivo, quasi
(oseremmo cercar un bruscolo mondano in quella candida anima?) temesse
che le cure della nuora lo distraessero alquanto dall'amor delle
figliuole.
Restammo veramente tutte sotisfatte della sposa, per esser molto
affabile e graziosa; ma sopra ogni altra cosa ne dà contento il
conoscere ch'ella porti amore a V. S., poichè supponghiamo che
sia per fargli quegli ossequi, che noi le faremmo se ci fosse
permesso. Non lascieremo già di fare ancor noi la parte nostra
inverso di lei, cioè di tenerla continuamente raccomandata al
Signor Iddio, che troppo siamo obbligate, non solo come
figliuole, ma come orfane abbandonate che saremmo se V. S. ci
mancasse. Oh se almeno io fossi abile ad esprimerlo il mio
concetto, sarei sicura che ella non dubiterebbe ch'io non
l'amassi tanto teneramente, quanto mai altra figliuola abbia
amato il padre; ma non so significarglielo con altre parole, se
non con dire che io lo amo più di me stessa, poichè, dopo Dio,
l'essere lo riconosco da lei, accompagnato da tanti altri
beneficj che sono innumerabili, sì che mi conosco anche obbligata
e prontissima ad espor la mia vita a qualsivoglia travaglio per
lei, eccettuatone l'offesa di Sua Divina Maestà. Di grazia V. S.
mi perdoni se la tengo a tedio troppo lungamente, poichè talvolta
l'affetto mi trasporta.
Non mi ero già messa a scrivere con questo pensiero, ma sibbene
per dirle che, se potesse rimandare l'oriuolo sabato sera, la
sagristana che ci chiama a mattutino l'avrebbe caro; ma se non si
può mediante la brevità del tempo che V. S. l'ha tenuto, sia per
non detto che, meglio sarà l'indugiare qualche poco, e riaverlo
aggiustato, caso che n'abbia bisogno.
Vorrei anco sapere se ella si contentasse di far un baratto con
noi, cioè ripigliarsi un chitarrone, ch'ella ci donò parecchi
anni sono, e donarci invece un brevario a tutte due, giacchè
quelli che avemmo quando ci facemmo monache, sono tutti
stracciati, essendo questi gl'istromenti che adopriamo ogni
giorno; talchè quello se ne sta sempre alla polvere, e va a
rischio d'andar a male, essendo costrette, per non fare
scortesia, a mandarlo in presto fuor di casa qualche volta. Se V.
S. si contenta, me ne darà avviso, acciò possa mandarlo: e quanto
ai breviarj non ci curiamo che siano dorati, ma basterebbe che vi
fossino tutti i santi di nuovo aggiunti, e avessino buona stampa,
perchè ci serviranno nella vecchiaja, se ci arriveremo.
Volevo fargli della conserva di fiori di ramerino, ma aspetto che
V. S. mi rimandi qualcuno de' miei vasi di vetro, perchè non ho
dove metterla; e così se avesse per casa qualche barattolo o
ampolla vuota, che gli dia impaccio, a me sarebbe grata per la
bottega.
Sopraggiunse intanto il 1630, l'anno della peste; e in tali pericoli la
lontananza cresce gli sgomenti, quand'anche siasi certi che la presenza
non diminuirebbe i pericoli. È in questi casi che la voce della
religione vien di conforto più presentaneo, e viepiù se esca da labbra
amorevoli.
18 ottobre 1630, a Bellosguardo.
Sto con l'animo assai travagliato e sospeso, immaginandomi che V.
S. si ritrovi molto disturbata mediante la repentina morte del
suo povero lavoratore. Suppongo eziandio ch'ella procurerà con
ogni diligenza possibile di guardarsi dal pericolo, del che la
prego caldamente; e anco credo che non gli manchino i rimedj
difensivi, proporzionati alla presente necessità, onde non
predicherò altro intorno a questo. Bensì con ogni debita
riverenza e confidenza figliale l'esorterò a procurar l'ottimo
rimedio, quale è la grazia di Dio benedetto, col mezzo di una
vera contrizione e penitenza. Questa senza dubbio è la più
efficace medicina, non solo per l'anima, ma pel corpo ancora;
poichè, se è tanto necessario, per ovviare al male contagioso, lo
stare allegramente, qual maggiore allegrezza può provarsi in
questa vita, di quello che ci apporta una buona e serena
coscienza? Certo che, quando possederemo questo tesoro, non
temeremo nè pericoli nè morte; e poichè il Signore giustamente ne
castiga con questi flagelli, cerchiamo noi con l'ajuto suo di
star preparati per ricevere il colpo da quella potente mano la
quale avendoci cortesemente donato la presente vita, è padrona di
privarcene come e quando gli piace.
Accetti V. S. queste poche parole proferite con uno
svisceratissimo affetto, e anco resti consapevole della
disposizione nella quale, per grazia del Signore, io mi ritrovo,
cioè desiderosa di passarmene all'altra vita, poichè ogni giorno
veggo più chiaro la vanità e miseria della presente; oltrechè
finirei di offendere Dio benedetto, e spererei di poter con più
efficacia pregare per V. S. Non so se questo mio desiderio sia
troppo interessato; il Signore, che vede il tutto, supplisca per
sua misericordia ove io manco per mia ignoranza, e a V. S. doni
vera consolazione. Noi qua siamo tutte sane del corpo, ma ben
siamo travagliate dalla penuria e povertà; non in maniera però
che ne patiamo detrimento nel corpo, con l'ajuto del Signore.
Scrivo a ore sette; imperò V. S. mi scuserà se farò degli errori,
perchè il giorno non ho un'ora di tempo che sia mia, poichè
all'altre mie occupazioni s'aggiunse l'insegnare il canto fermo a
quattro giovinette, e per ordine di Madonna ordinare l'uffizio
del coro giorno per giorno: il che non mi è di poca fatica, per
non aver cognizione alcuna di lingua latina. È ben vero che
questi esercizj mi sono di molto gusto, s'io non avessi anco
necessità di lavorare; ma da questo ne cavo un bene non piccolo,
cioè il non stare in ozio un quarto d'ora mai mai; eccetto che mi
è necessario il dormire assai per causa della testa. Se V. S.
m'insegnasse il secreto che usa per sè, che dorme così poco, lo
avrei molto caro, perchè finalmente sette ore di sonno, ch'io
mando a male, mi pajon pur troppo. Non dico altro per non
tediarla, se non che la saluto affettuosamente insieme con le
solite amiche.
E conforti la Maria Celeste inviava al padre in altri dispiaceri di
esso.
2 novembre 1630, a Bellosguardo.
So che V. S. sa meglio di me che le tribulazioni sono la pietra
del paragone, ove si fa pruova della finezza dell'amor di Dio,
sicchè tanto quanto le piglieremo pazientemente dalla sua mano,
tanto potremo prometterci di posseder questo tesoro, ove consiste
ogni nostro bene. La prego dunque di non pigliare il coltello di
questi disturbi e contrarietà per il taglio, acciò da quello non
resti offesa, ma piuttosto prendendolo a diritto, se ne serva per
tagliare con quello tutte le imperfezioni, che per avventura
conoscerà in sè stesso, acciò levati gl'impedimenti, siccome con
vista di lince ha penetrato i cieli, così penetrando anche le
cose più basse, arrivi a conoscere la vanità e fallaccia di tutte
queste cose terrene; vedendo e toccando con mano che nè amor di
figli, nè piaceri, onori o ricchezza ci possono dar vera
contentezza, essendo cose per sè troppo instabili, e che solo in
Dio benedetto, come in ultimo nostro fine, possiamo trovar vera
quiete. Oh che gaudio sarà il nostro quando, squarciato questo
fragil velo che ne impedisce, a faccia a faccia godremo questo
gran Dio? Affatichiamoci pure questi pochi giorni di vita, che ci
restano, per guadagnare un bene così grande e perpetuo; ove
parmi, carissimo signor padre, che V. S. s'incammini per dritta
strada, mentre si vale delle occasioni che si gli porgono, e
particolarmente nel far di continuo benefizj a persone che la
ricompensano d'ingratitudine; azione veramente, che, quanto ha
più del difficile, tanto è più perfetta e virtuosa. Anzi questa,
più che altra virtù, mi pare che ci renda simili all'istesso Dio,
poichè in noi stessi esperimentiamo, che, mentre tutto il giorno
offendiamo S. D. M., egli all'incontro va pur facendone infiniti
benefizj; e se pur talvolta ci castiga, fa questo per maggior
nostro bene, a guisa di buon padre che, per correggere il figlio
prende la sferza: siccome par che segua di presente nella nostra
povera città, acciocchè, almeno mediante il timore del
soprastante pericolo, ci emendiamo.
V. S. mi perdoni se troppo l'infastidisco con tanto cicalare,
perchè, oltre che ella m'inanimisce col darmi indizio che gli
sieno grate le mie lettere, io fo conto ch'ella sia il mio devoto
(per parlare alla nostra usanza), con il quale io comunico tutti
i miei pensieri, e partecipo i miei gusti e disgusti; e
trovandolo sempre prontissimo a sovvenirmi, gli domando non tutti
i miei bisogni, perchè sarieno troppi, ma sibbene il più
necessario di presente, perchè venendo il freddo mi converrà
intirizzirmi se egli non mi soccorre mandandomi un coltrone per
tenere addosso, poichè quello che io tengo non è mio, e la
persona se ne vuol servire, come è dovere. Quello che avemmo da
V. S. insieme con il panno, lo lascio a suor Arcangela, la quale
vuole star sola a dormire, e io l'ho caro: ma così resto con una
semplice sargia, e se aspetto di guadagnar da comprarlo, non
l'avrò nè manco quest'altro inverno. Sicchè io lo dimando in
carità a questo mio devoto tanto affezionato, il quale so ben io
che non potrà comportare ch'io patisca. E piaccia al Signore (se
è per il meglio) di conservarmelo ancora lungo tempo; perchè,
dopo di lei, non mi resta bene alcuno nel mondo. Ma è pur gran
cosa ch'io non sia buona per rendergli il contraccambio in cosa
alcuna! Procurerò almeno, anzi al più, d'importunar tanto Dio
benedetto e la Madonna santissima, ch'egli ci conduca al
paradiso, e questa sarà la maggior ricompensa ch'io possa dare
per tutti i beni che mi ha fatti e fa continuamente.
Gli mando due vasetti di lattovaro, preservativo dalla peste.
Quello che non vi è scritto sopra è composto di fichi secchi,
noci, ruta e sale, unito il tutto con tanto mele che basti. Se ne
piglia la mattina a digiuno quanto una noce con bervi dietro un
poco di greco o vino buono, e dicono che è esperimentato per
difensivo mirabile; è ben vero che ci è riuscito troppo cotto,
perchè non avvertimmo alla condizione dei fichi secchi, che è di
assodare. Anco di quell'altro se ne piglia un boccone
nell'istessa maniera, ma è un poco più ostico. Se vorrà usare
dell'uno o dell'altro, procureremo di farli con più perfezione.
18 febbraio 1631.
Il disgusto che ha sentito V. S. della mia indisposizione dovrà
restare annullato, mentre di presente gli dico che io sto
ragionevolmente bene circa al male sopraggiuntomi in questi
giorni passati, che, quanto alla mia antica oppilazione credo che
farà bisogno di una efficace cura a migliore stagione; intanto mi
andrò trattenendo con buon governo, siccome ella mi esorta. È ben
vero ch'io desidererei, che del consiglio che porge a me, si
valesse anche per sè stesso, non immergendosi tanto ne' suoi
studj che pregiudicano troppo notabilmente alla sua sanità. Che
se il povero corpo serve come strumento proporzionato allo
spirito nell'intender e investigare le novità con sua gran
fatica, è ben dovere che se gli conceda la necessaria quiete;
altrimenti egli si sconcerterà di maniera, che renderà anco
l'intelletto inabile il gustar quel cibo che prese con troppa
avidità.
Non ringrazierò V. S. dei due scudi e altre amorevolezze
mandatemi, ma sibbene della prontezza e liberalità con la quale
ella si dimostra tanto e più desiderosa di sovvenirmi, quanto io
bisognosa di esser sovvenuta.
Resto confusa sentendo ch'ella conservi le mie lettere, e dubito
che il grande affetto che mi porta gliele dimostri più compite di
quello che sono; ma sia pure come si voglia, a me basta ch'ella
se ne soddisfaccia: con che gli dico a Dio, il quale sta sempre
con lei, e gli fo le solite raccomandazioni.
E questa vada in contraddizione al dottor Faust, poichè vediamo che
quest'austero Galileo, occupato de' pianeti e in lotta con tanti
avversarj e invidiosi, siccome è la sorte degli uomini grandi, non è
vero che abbia sagrificato alla testa il cuore; e siane prova il
conservar che fa le lettere della sua monacella.
Frugando nelle quali, procediamo, e vediam come ella si condolga della
morte dello zio Michelangelo.
11 marzo 1631.
La lettera di V. S. mi ha apportato molto disgusto per più
ragioni. E prima perchè sento la morte dello zio Michelangelo del
quale mi duole assai, non solo per la perdita di lui ma anco per
l'aggravio che perciò ne viene a lei, che, veramente questa non
credo che sarà la più leggiera fra le altre sue poche
soddisfazioni, o per dir meglio tribulazioni. Ma poi che Dio
benedetto si mostra prodigo con V. S. di lunghezza di vita e di
facoltà più che con suo fratello e sorelle, è conveniente ch'ella
spenda l'una e l'altre consolare benemplacito di S. D. M. che ne
è padrone.
Sento anco grandissimo disgusto di non poterle dare quella
soddisfazione che vorrei circa il tener qua in serbo la Virginia,
alla quale sono affezionata per essere ella stata di sollevamento
e passatempo a V. S., già che i nostri superiori si sono
dichiarati non voler in modo alcuno che pigliamo fanciulle nè per
monache nè per inserto, perchè essendo tale la povertà del
convento quale V. S. sa, si rendono difficili a provveder da
viver per noi che già siamo qua, non che vogliano aggiungercene
dell'altre. Essendo adunque questa ragione molto plausibile, e il
comandamento universale per parenti ed altri, io non ardirei di
ricercar da Madonna o da altri una tal cosa. Assicurisi bene che
provo una pena intensa mentre mi trovo priva di poter in questo
poco soddisfarla, ma finalmente non ci vedo verso.
Dispiacemi anche grandemente in sentire ch'ella si trovi con poca
sanità, e, se mi fosse lecito, di molto buona voglia piglierei
sopra di me i suoi dolori; ma poi che non è possibile, non manco
almeno dell'orazione, nella quale la preferisco a me stessa; così
piaccia al Signore di esaudirla!
Io sto tanto bene di sanità, che vo facendo quaresima, con
speranza di condurla sino al fine, sicchè V. S. non si pigli
pensiero di mandarmi cose da carnevale; la ringrazio di quelle
già mandatemi, e, per fine di tutto cuore me le raccomando
insieme con suor Arcangela e le amiche.
Questa suor Arcangela era di salute ancor più disfatta; e di lei
scriveva il 12 agosto:
Suor Arcangela, che tanto m'ha dato da pensare, per grazia di Dio
sta alquanto meglio, e sebbene assai debole e fiacca si ritrovi,
comincia a sollevarsi; e perchè avrebbe gusto di mangiare qualche
pesciuolo marinato, prega V. S. che gliene faccia provvisione di
qualcuno per questi prossimi giorni magri.
Di lei stessa si occupava in una del 30 agosto, sempre diretta a
Bellosguardo.
Se la misura o indizio dell'amore, che si porta ad una persona, è
la confidenza che in lei si dimostra, V. S. non dovrà stare in
dubbio se io l'amo di tutto cuore, come è in verità, poichè tanta
confidenza e sicurtà piglio con lei, che qualche volta temo che
non ecceda il termine della modestia e riverenza figliale, e
tanto più sapendo ch'ella da molti fastidj e spese si trova
aggravata. Nondimeno la certezza che ho, che V. S. sovviene tanto
volentieri alle mie necessità quanto a quelle di qualsivoglia
altra persona, anzi alle sue proprie, mi somministra ardire di
pregarla che si compiaccia di alleggerirmi di un pensiero, che
molto m'inquieta mediante un debito che tengo di cinque scudi,
per la malattia di suor Arcangela; essendomi convenuto in questi
quattro mesi spendere alla larga, in comparazione di quello che
comportava la povertà del nostro stato. E ora che mi trovo
all'estremo, e in necessità di soddisfare a chi devo, mi
raccomando a chi so che può e vuole ajutarmi. E anco desidero un
fiasco del suo vino bianco, per farlo acciajato per suor
Arcangela, alla quale credo che più gioverà la fede che ha in
questo rimedio, che il rimedio istesso. Scrivo con tanta
scarsezza di tempo, che non posso dirle altro, senonchè vorrei
che questi sei calicioni fossino di suo gusto, e me le
raccomando.
Fra ciò arrivarono i tempi grossi pel Galilei. Figuriamoci l'animo di
una monacella, tutta innamorata di suo padre e superba della gloria di
lui, e che tutt'inaspettatamente lo vede accusato d'eretico, e chiamato
a Roma a scagionarsi o a ricredersi, da quel papa appunto, dalla cui
protezione ella si era ripromesso tanti vantaggi per suo padre. Per
quanto ella il sapesse trattato coi riguardi dovuti a grand'uomo e alle
raccomandazioni del granduca, ella non poteva non restarne in sospeso:
ma la sobrietà del dolore di essa, i lamenti che mai non accusano,
l'interesse che non trascende mai ci fanno stimare infinitamente suor
Celeste.
Mentre dunque Galileo stava a Roma, essa gli scriveva, ai 12 marzo 1633:
L'ultima sua lettera mi ha apportato gran consolazione, sì per
sentire ch'ella si va mantenendo in buon grado di sanità, come
anco perchè per quella vengo maggiormente certificata del felice
esito del suo negozio, che tale me l'hanno fatto prevedere il
desiderio e l'amore. E sebbene veggo che passando le cose in
questa maniera, si andrà prolungando il tempo del suo ritorno,
reputo nondimeno a gran ventura il restare priva delle mie
proprie soddisfazioni per un'occasione, la quale abbia da
ridondare in benefizio e reputazione della sua persona, amata da
me più che me stessa. E tanto più m'acqueto, quanto che son certa
ch'ella riceve ogni onore e comodità desiderabile da cotesti
eccellentissimi signori, e in particolare dalla eccellentissima
ambasciatrice, mia signora e padrona, la visita della quale se
avessimo grazia suor Arcangela e io di ricevere, certo che
sarebbe favore segnalato, e a noi tanto gradito quanto V. S. può
immaginarsi. Quanto al procurare ch'ella vedesse una commedia, io
non posso dir niente, poichè bisognerebbe governarsi secondo il
tempo nel quale ella venisse; sebbene io veramente crederei che
stessimo più in salvo lasciandola in quella buona credenza, in
ch'ella deve ritrovarsi mediante le parole di V. S.
Suor Arcangela sta alquanto meglio, ma non bene affatto. Io sto
bene perchè ho l'animo quieto e tranquillo, e sto in continuo
moto, eccetto però le sette ore della notte, le quali io mando a
male in un sonno solo: perchè questo mio capaccio così umido non
ne vuole manco un tantino. Non lascio per questo di soddisfare il
più che io posso al debito che ho con lei dell'orazione, pregando
Dio benedetto che principalmente le conceda la salute dell'anima,
poi le altre grazie ch'ella maggiormente desidera.
Non dirò altro per ora, senonchè abbia pazienza se troppo la
tengo a tedio, pensando che io restringo in questa carta tutto
quello che io le cicalerei in una settimana. La saluto con tutto
l'affetto insieme con le solite.
Come poi udì ch'egli era stato per alcuni giorni nel Sant'Uffizio, lo
consolava:
20 aprile 1633.
Dal signor Gerri mi viene avvisato in qual termine ella si
ritrovi per causa del suo negozio, cioè ritirato nelle stanze del
Sant'Uffizio; il che per una parte mi dà molto disgusto,
persuadendomi ch'ella si ritrovi con poca quiete dell'animo, e
fors'anco non con tutte le comodità del corpo; dall'altra banda,
considerando io la necessità del venire a questi particolari per
la sua spedizione, e la benignità colla quale fino a qui si è
costà proceduto verso la persona sua, e sopratutto la giustizia
della causa e la sua innocenza in questo particolare, mi consolo
e piglio speranza di felice e prospero successo, con l'ajuto di
Dio benedetto, al quale il mio cuore non cessa mai di esclamare e
raccomandarla con ogni affetto e confidenza possibile.
Resta solo ch'ella stia di buon animo, procurando di non
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