Racconti storici e morali - 03
n'ebbi un bel no; ma quando volli uscire nessuno mi fermò, nessuno mi
chiese, _Dove va?_ nessuno per le strade mi volse la parola; onde
vedendomi libero a metà, volli esser libero affatto sgusciando fuori
della città, e la sentinella mi tolse per un uffiziale francese.
CAPITOLO XVI.
Questi furo gli estremi onor renduti
Al domatore di cavalli.
Senza guardarmi ai piedi, corsi per forse un'ora a rotta di collo, poi
sfiatato m'accôrsi d'aver lasciate le strette e miserabili callaje de'
sobborghi: una sabbietta copriva la strada sotto gli stanchi miei piedi:
intorno a me nell'oscurità si stendeva un bosco di pini, e sovra il mio
capo la luna inargentata scintillava attraverso le nubi.
Trovai la situazione mia poeticissima: eppure, che volete? una prosaica
cena presso una cuccetta di paglia non mi sarebbe dispiaciuta.
Ed ora che fare? ove drizzarsi? Io non sapeva cosa rispondere a queste
mie domande. La fame non si fa mai sentire così viva come quando non si
sa come calmarla: nè la vita è mai sì cara come nel momento che è in
pericolo. Questi tristi pensieri ingombravano il mio spirito; onde
rimisi in moto i miei piedi a benefizio di fortuna, curioso di sapere
cosa diverrei, e dove infine mi condurrebbe la mia sorte avversa.
Sentii cani abbajare; qualche lume mi apparve da lontano, alla cui
scorta arrivai spedato ad un villaggio. Innanzi all'osteria stava un
carozzino di posta a tiro a due, voltato proprio verso la direzione
ch'io intendeva seguire. Guardai attorno: il sottopiede dietro al
cocchio non aveva nulla che mi impedisse di accomodarvimi d'incanto, e
di attaccar un sonnellino intanto che la vettura mi trascinerebbe
lontano assai. Il padrone era ancora nell'osteria: io, cercandomi nelle
tasche, non mi trovai allato nemmeno la croce d'un quattrino: eppure
avrei comprato sì volentieri una pagnottina, perchè la vedevo in aria.
In qualità d'uffiziale non potevo batter l'accattolica; potevo bensì
goder a isonne mettendo a contribuzione: onde risolsi di tentare la
fortuna, ed entrai nella casa.
Sopra un truogolo di avena erano posati un cappello rotondo, un
palandrane ed un frustino. Risoluto di cavarne le mani dal mestiero
dell'armi, senza esitare gettai in là il mio cappello gallonato, deposi
la giubba turchina sull'avena, e presi il palandrano: se avessi avuto la
sciabola, di tutto cuore l'avrei barattata col frustino, che non ostante
presi in mano per sicurezza, se non altro, contro i bottoli del
villaggio. Non occorre dire che in tale arnese non potevo più pensare a
cenar in quella casa onde attaccai la voglia ad un arpione: ma andava in
solluchero pensando che ormai potrei viaggiare incognito tra mezzo ai
Francesi.
Stavo ancor ritto e fermo come un termine a piè dell'uscio, cercando
cogli occhi un cantuccio, dove ripormi ad agguatar la vettura, che non
la se ne andasse senza me, quando a un tratto una voce francese mi sonò
dietro, che fece su me l'effetto di un fulmine. — Andiamo, ghiotto;
lesto, andiamo,» gridò il Francese, che mi aveva tolto pel suo
cocchiere, lo rimaneva lì intra due di cascar morto, o di darla alle
gambe come un ladro: ma il Francese non voleva nè l'uno nè l'altro: e
ghermitomi pel colletto con una forza prodigiosa, mi trasse presso il
cocchio, e mi intronò nell'orecchio: _Sitzen dich auf_: poi balzando
egli stesso nella carrozza, aggiunse: — Presto, frusta; avanti.»
Alla buon'ora: pensai io nel sedermi sulla cassetta: e sferzando i
cavalli uscimmo dal villaggio, tirando via di pratica.
CAPITOLO XVII.
Altre pugne, altre stragi.
Più io toccavo su, e più il degno mio padrone ripeteva; — Buono! bravo!»
Pareami arcifrettolosissimo, e a giudicar dalle parole che d'ora in ora
gli scappavano di bocca, la sua coscienza non era più netta della mia.
Al chiaro di luna credetti scorgere ch'ei fosse uno di quegli importanti
personaggi che in francese si chiamano _impiegati_; avendo abiti troppo
borghesi per un militare, e troppo militari per un borghese.
La nostra conversazione riducevasi a monosillabi, perchè egli non
parlava quasi punto il tedesco; io per restare in carattere, doveva
ignorare totalmente il francese. Mi domandò; — Quanto star da qui a
Posen?» ed io: — Molto ancora.» Egli aggiunse: — Essere molti Prussiani
là? — Oh molto,» rispos'io: al che egli come forsennato gridò: — Andare,
camminnare, sempre:» ed io faceva galloppar i cavalli colla pancia a
terra.
M'indussi poi a fargli intendere che avevo bisogno di mangiare col
domandargli se aveva de' viveri seco; intese che gli domandassi di viver
seco. Gli parlai di avermi compassione; credette che parlassi di
commissione. Dissi che avevo _hunger_, cioè fame, e pensò che parlassi
degli Ungheresi. Infine ripetei _brod_, e questa parola e il gesto onde
l'accompagnai fece l'effetto, sì che mi diede un bel quarto di pagnotta,
che fu meglio d'una sassata.
Contento come un giubileo, sbocconcellai pane e pane in sulla cassetta,
lodandomi del posto mio che mi forniva di tutto quanto potevo
desiderare. Capellano o palafarniere, ajutante generale o maestro,
dottore o vetturale, cos'importa? l'uomo sta sempre bene sotto qualunque
abito: peggio per lui se l'abito è il solo bene che possiede.
Io prendevo la strada di Polonia, dicendomi: Chi sa ch'io non vada in
riva alla Vistola a trovar il comando d'un corpo d'armata? E non ci
mettevo nè pepe nè sale, e per quanto oscura fosse la mia sorte, io la
vedevo chiara come un'ambra.
Mi sentiva nella migliore disposizione di spirito per comporre un
sermone, quando a chiaro di luna distinsi alcune sentinelle sulla
strada. Il mio commissario le vide al punto stesso, sfoderò la sciabola,
impugnò una pistola che inarcò. Lo scatto d'uno scodellino mi coprì d'un
sudor freddo da capo ai piedi.
— Corpo e sangue, lesto, presto, avvia, tocca su,» gridava lui.
— Fermo là. Chi viva! Alto là: chi viva?» gridarono alcuni soldati,
presentandomi al petto la punta delle bajonette.
A qual dei due obbedire? Io speravo che una bugia officiosa mi trarrebbe
d'imbarazzo: onde credendo che i soldati fossero Francesi, avviati a
raggiungere il loro reggimento, dissi loro: — Signori, il mio padrone è
un generale francese.»
— Alto là; rendetevi,» gridarono più voci ad un tratto.
— Un canchero che ti roda,» urlò il mio preteso generale, e balzando di
netto dal calesso, stramazzò due di costoro: sparò; gli risposero; di
qua, di là, _da destra da manca sentivo le palle fischiando volar_. I
miei cavalli furono spaventati anche più di me; onde, senza dire addio
nè a diavolo morsero, il freno, e presero un galoppo disperato. Ed io
certo non li teneva. Sentii ancora l'urtarsi delle sciabole e qualche
scoppio; poi non intesi più nulla. Io mi trovavo salvato, grazie alla
prudenza e alla velocità de' miei cavalli.
— Maledetto accidente,» pensava io tastandomi dal capo alle piante,
perchè dapprima mi credeva tutto crivellato dalle palle, e di perdere il
sangue a catinelle, ma in fatto non avea tocca neppure una scalfitura.
Tanto meglio. Ma del mio padrone che n'era? Doveva io tornar indietro a
cercarlo? Sì! a rischio di farmi sciabolare. Ah, la fedeltà e la
generosità mia non arrivavano a tanto. Quel che avvenne del commissario
di guerra, Dio vel dica; per me non n'ebbi nè nuova nè ambasciata.
Continuai pacificamente la mia strada, ma i cavalli erano spossati. Un
villaggio mi si scoperse dinanzi; cosa dovevo fare? passarvi la notte, o
tirar di lungo? Una voce mi diceva sommesso: — Va innanzi, va innanzi:
perchè, sai tu di chi erano la carrozza ed i cavalli?» È ben vero che
non gli avevo nè rubati, nè requisiti io, ma per questo dovevo tenermi
l'altrui?
In tale perplessità arrivai all'osteria, che già era un pezzo di là di
notte. Lo stalliere affacciossi; io smontai, chiesi avena pei cavalli,
birra per me, e mi accomodai nel salotto.
Non avevo neppure un bezzo: ma ad un bisogno io pensava dar in pagamento
il cappello e il palandrano: l'uno m'era troppo piccolo, l'altro troppo
grande.
CAPITOLO XVIII.
Compagnia compromettente.
L'ostessa, donna guarnita di ciccia in abbondanza, venne a sedermisi a
lato, appoggiò i gomiti sulla tavola, e domandò se intendevo passar la
notte sotto il suo tetto. Come risposi di no, mi chiese se voleva
continuare il viaggio, sta sera fino alla piccola città di ***.
Risposi di sì, stracontento che la curiosità di questa buona cristiana
contentasse la mia, insegnandomi in qual parte del mondo mi trovassi. Mi
domandò pure se non mi rincrescerebbe toglier meco una giovine che era
giunta a piedi, e che gustava un po' di riposo, resole necessario da
questa camminata.
Io accettai a bocca baciata, sì per la mancia che mi darebbe, e sì pel
piacere di sua compagnia.
L'ostessa aggiunse che farei bene ad aspettar la punta del giorno per
partire, giacchè la notte non era gran fatto sicura in questi tempi di
guerra: molti Francesi ronzavano là intorno e i Prussiani che cercavano
scappare, non erano un incontro meglio augurabile. Nessun giorno passava
che non si sentisse parlar d'assassinio o di furto. Queste notizie mi
fecero scrollar la testa con aria di malcontento e fu stabilito che
sveglierebbe me e la signorina un pajo d'ore avanti giorno: per me era
abbastanza presto, il mio padrone non c'era pericolo che mi rabbufasse;
e quel riposo tornerebbe utile a' miei cavalli, ed anche alla signorina.
Risolsi però di partire di buon mattino, atteso che, da bravo fisiologo,
calcolavo che le strade doveano in quell'ora essere meno pericolose,
perchè quelli che le rendono mal sicure durante la notte si ritirano o
stanchi o paurosi dell'avvicinarsi del chiarore; e quelli che vogliono
batterle di giorno, non si sono ancora messi in campagna.
Il letto, cioè una materassuccia fatta colle fedi di miserabilità, non
mi lusingò molto, e all'orologio scoccavono le quattro, ch'io stava
aggiogando i cavalli. Feci trambusto per la casa finchè lo stalliere si
svegliasse; esaminai colla lanterna il carrozzino, mia nuova proprietà.
Dentro v'era un fodero di sciabola, vuoto; una delle tasche conteneva
una bella pipa di schiuma, guarnita d'argento, una borsa da tabacco in
seta ricamata, con queste tenere parole, _souvenir d'amitié_. Era
senz'altro una galanteria di qualche giovinottina tedesca, conquista
dell'impiegato, mio riveritissimo padrone. Il baule della vettura era
chiuso, e l'impiegato avea tenuto seco la chiave.
L'ostessa venne a portarmi il conterello sì pei cavalli, sì pel mio. —
Madamigella pagherà per me,» le diss'io, e mi ribadii al posto, ove jeri
sedeva il mio padrone. Vi so dire che ci stavo più caldo e più agiato
che non a cassetta; oltre che speravo d'aver una amabile conversazione
colla mia compagna di viaggio.
Essa comparve al fine: salì nella carrozza al mio fianco; e detto addio
all'ostessa, partimmo.
Ma la nostra conversazione non fu sì piacevole quanto me l'ero
immaginata. La giovane si abbiosciò nell'angolo della vettura, il più
possibile discosto da me; e a tutte le mie riflessioni sulla frescura
del mattino, sull'oscurità del crepuscolo, e sulla noja del viaggiare,
ella non rispondeva che con un _sì_ o un _no_ secco secco. Rimasi
adunque immerso nelle mie riflessioni, che diventavano di più in più
curiose, mano mano che l'addormentata mia compagna veniva ravvicinata
dal trabalzare della vettura. Il bujo rendeva ancora più potenti
sull'immaginazione mia le sue invisibili attrattive. Poco a poco la
testa della mia compagna si trovò sulla mia spalla: io passai pian
pianino il mio braccio sinistro attorno allo svelto suo corpicciuolo, e
me la strinsi contro il seno. Ma i battiti accelerati del cuor mio non
la turbavano ne punto nè poco, mentre io tremava come un delinquente.
Per la prima volta un'addormentata giovinetta stavasi appoggiata al mio
seno; per la prima volta io teneva tra le braccia una creatura di quel
sesso incantevole... Ah! perdona, Giulietta, se in quell'istante... Ma
no, il cuor mio non fu infedele; anzi era con te. E mi immaginavo d'aver
te per compagna: a te era dedicato il delizioso bacio che deposi sulla
fronte della bella sconosciuta. Deh qual uomo resisterebbe ad una donna,
il cui cuore batte sul suo cuore, il cui respiro si mesce col suo?
Bisognerebbe esser di ghiaccio, non un celibatario di trentanove anni.
CAPITOLO XIX.
Sei pur bella cogli astri sul crine,
Porporina foriera del dì.
La vettura ruzzolava pianamente sulla sabbia, ed io lasciava andar i
cavalli al loro passo, stringendo l'innocente mia compagna fra le
braccia; e chiudendo gli occhi, m'abbandonai alle dolci visioni, che un
benefico sonno mi offeriva. Giulietta, la mia parocchia, la più intera
felicità, erano le fantasie tra cui il mio spirito andava rapito.
La fanciulla ed io ci svegliammo nel momento stesso, nel momento che la
vettura, lasciando la subbia, entrava sopra una strada ciottolata.
Già schiariva il giorno, e la più bella aurora spiegava all'orizzonte
dinanzi a me i suoi fuochi, _scintillanti tra i vivi zaffiri_. Gettai lo
sguardo prima su' miei bravi cavalli, poi sulla mia compagna. — Ci
guardammo per un po' l'un l'altro come stupefatti: ella fregò gli occhi,
io altrettanto, pensando che il sole levante m'avesse abbagliato. Ma no!
tornai a guardarla, e allora rimasi convinto ch'io sognava ancora della
Giulietta, perchè mi pareva che fosse lei, seduta al mio fianco in petto
e in persona.
— O buon Dio! signor dottore, siete proprio voi?» domandò essa colla sua
gentil voce argentina, esaminando ora il mio volto e i baffi, avanzo
della divisa d'ajutante generale, ora il mio vecchio pastrano tutto a
strambelli.
— Giulietta! (gridai io.) Come! voi qui? possibile che voi siate al mio
lato, voi?»
Ma le domande cessarono: lacrime di felicità ne oscurarono gli occhi, e
lasciai cascarmi le redini. Nell'eccesso della nostra gioja dimenticammo
il mondo, dimenticammo tutto quel che ne circondava, e chi sa fin quando
restavamo in quell'estasi deliziosa, vera beatitudine celeste, se una
violenta sciacca non fosse venuta a richiamarci sulla terra.
Ripresi le redini in mano, e allora fu una furia di bôtte e risposte.
Giulietta era più bella che mai, ed i primi raggi del sole la facevano
sfolgorare in tutta la sua gloria: sicchè lasciai cascare le briglie di
nuovo.
La informai delle mie avventure guerresche, già ben conosciute a voi, o
lettori; e che ella ascoltò con attenzione più grande di quella di voi,
o lettori. Molto più semplice era l'istoria dell'amica mia. La sua
padrona, sgomenta dall'avvicinarsi dei Francesi, le aveva dato il
congedo, lasciando Berlino per fuggire a Stettino, e per di là Dio sa
dove Giulietta rimase sulla croce nell'incertezza de' fatti miei, sinchè
ricevette da sua madre l'ordine di venirla a raggiungere. Da fanciulla
obbediente partì detto fatto, lasciando le opportune spiegazioni per me,
ove mai tornassi; e prese una vettura sino Francoforte. Di là, non
avendo potuto trovar una carrozza, o perchè i Francesi le avessero
requisite tutte, o perchè nessuno avesse voglia di muoversi in que'
tempi, erasi eroicamente avventurata a piedi L'jeri sera, morta di
fatica, era giunta nel villaggio, dov'ebbi la fortuna di scontrarla.
CAPITOLO XX.
E qui finì la dolorosa storia.
Ci fermammo a fare un boccon di colazione in un albergo, poco lontano
dal luogo ove la madre di Giulietta abitava. Là un bravo rasojo cancellò
le ultime vestigia del mio grado d'ajutante generale.
Giulietta mi comprò una bella giubba e un cappello, sicchè potei
risalire il cocchio rinfronzito, e in un arnese più degno d'una bella
giovinetta elegantemente vestita, e seguitammo la strada. Il sole ci
saettava co' suoi raggi, e il cuor nostro non era men giulivo che tutta
la natura. Da un pezzo erano state fatte le nostre pubblicazioni, sicchè
nulla più impediva di sposarci; e ben tosto ci accordammo sul giorno.
Nel frattempo io doveva scrivere a Francoforte per informarmi del conte
dell'impero e della capellania cui dovevo essere nominato, benchè avessi
bruciato la mia vocazione nel campo, insieme co' miei pindarici canti di
trionfo. Giulietta aveva messo da banda cento talleri fumanti, che, a
buoni conti, erano un bel principio. E poi, se la sventura ci
bersagliava, io poteva rizzar una scoletta; pane e acqua, noi lo
sentivamo, poteano bastare e anche troppo alla nostra felicità, purchè
non fossimo l'un dall'altro separati.
Mentre così abbellivamo la nostra povertà, Giulietta coll'immaginare de'
pasti economici, io parlando sul mio zelo come maestro di scuola, un
tintinno si fece sentire al fondo della vettura, come se qualche cosa ne
cascasse ai piedi. Cercammo, ed era un marengo d'oro lampante.
— T'è cascato a te?» chiesi alla Giulietta.
— A me no: io non ne ho dell'oro», mi rispose ella.
Prendemmo questo amabile dono come un avanzo del signor impiegato. Ma un
momento dopo non rotola un altro marengo a' nostri piedi?
— Da senno (diss'io) noi abbiamo qualche buon genio, o qualche fata
benigna, che intese la nostra conversazione.»
Allungai le mestole a levar anche questo; cercai minutamente se non
avesse altri compagni, ma non trovai nulla, il che m'increbbe al cuore.
Ma a poco andare, il fenomeno si rinnovò per la terza volta.
— Cattadedina, questo non viene dalla vettura!» gridai io, e rattenni i
cavalli.
Allora un quarto ruspo d'oro brillò a' miei occhi, traverso una
sfenditura del cofano, su cui stavamo seduti. La fonte aurea era dunque
scoperta. Forzai il cofano, e trovai che, quel che dapprima avevo
creduto il tintinno d'una catena, era un rotolo di marenghi che si era
sgruppato, e presso a quello un sacchetto d'argento meglio chiuso.
In che modo il mio impiegato fosse divenuto possessore di questo tesoro,
io nol so; e, appartenesse a lui o ad altri, poco m'importava. Ma sì io,
sì Giulietta conoscemmo che questa somma era troppo considerevole pei
nostri modesti desiderj; nè potevamo tenercela in coscienza. Riponemmo
dunque i tre marenghi presso gli altri, rinserrammo il cassetto, e
toccammo innanzi come se nulla fosse accaduto.
La vecchia madre di Giulietta, contentona di abbracciarci, ne ricevette
con mille benedizioni. Il nostro tesoro fu dato a lei in deposito; ma,
per quanti avvisi io facessi affigere sui cantoni e sulle gazzette, mesi
e mesi passarono senza che alcuno comparisse a reclamare sia il cavallo
e il calesso, sia il denaro.
Al termine dunque delle avventure mie, rimasi più ricco che mai non
l'avessi sperato, e con Giulietta per moglie.
Mandai al mio amico di Berlino un lauto compenso per quella tal vettura
che il signor Maggiore, m'avea menata via, senza tanti complimenti:
rinunziai alla cura d'anime; una bella campagna, in situazione
deliziosa, e all'ombra di tigli e di castani, una casetta grande
abbastanza per Giulietta, sua madre e me, ecco il mio paradiso.
1845.
UNA FIGLIA DI GALILEO GALILEI
Se vi è titolo a scusare i romanzi storici, gli è l'introdursi che fanno
nella vita privata, vorremmo dire nel cuore di coloro, di cui la storia
non ci mostra che il braccio o la testa. Ma se la storia cesserà di
essere un mostro convenzionale, se si convincerà che, di tutte le arti
belle, ma di essa principalmente, la materia vera è l'uomo; l'uomo coi
sentimenti, coi pensieri, colle speranze sue proprie; essa potrà
raggiungere appieno l'intento suo d'essere l'immagine della vita, e non
farà più bisogno di ricorrere a quelle ibridi composizioni, dove si è
incerti anche del poco vero che serve d'intelajatura al molto finto.
E che la storia possa riccamente soddisfare a questo bisogno, lo
mostrarono que' pochi che seppero, ai dì nostri, farla discendere
dall'epico suo sussiego, perchè versasse nella vita; scapitando forse in
dignità di procedimento, ma guadagnando in verità. E noi oggi vogliamo
sfogliare alcune di queste pagine prosastiche della vita d'un
grand'uomo. Non sono i contrasti che fan il bello (dico il bello
formale) de' quadri? Non è per questo che si accostano sempre Marte e
Venere, Otello e Desdémona, satiri e ninfe, santi e demonj; e in un'arte
più plateale quegli spazzacamini, quei servitori mori, quelle scimmie?
Or noi, a canto all'austera figura di Galileo Galilei, che rammenta
tanto senno, tanta perseveranza, tante contrarietà, ne abbiamo
riscontrata un'altra, pura, ingenua, religiosa, che protegge quasi di
candido velo gli occhi sfolgoranti che scopersero macchie nel sole, e
circondano di carezze la risoluta volontà che, a fronte dei sofisti
potenti, esclamava, _Eppur si muove_.
È noto che Galileo ebbe la disgrazia d'aver più d'una creatura fuor di
matrimonio, e il conforto di poter confessarle. Due figliuole si resero
monache in San Matteo d'Arcetri col nome di suor Arcangela e suor Maria
Celeste. Di quest'ultima, a lui prediletta, rimangono da 120 lettere
nella biblioteca Palatina di Firenze, donde alcune furono messe
nell'edizione delle opere di quel grande, che, a cura di Eugenio Alberi
e a spese del granduca, fu fatta in Firenze.
Abbiamo creduto non dovesse che piacere il trovarne qui alcune, di cui
la religiosa mestizia e la candida affezione speriamo toccheran il cuore
ai lettori come toccarono il nostro: vedendo questa pia soccorrere a
tutti i dolori del padre con quei conforti, con quell'affetto, con
quella dirittura di sentire, che la solitudine claustrale è così atta a
ispirare in coloro che non vi si struggono di tristi repetìi, o di
sollecitudini mondane.
Dal convento di San Matteo in Arcetri,
10 maggio, 1623; a Bellosguardo.
Sentiamo grandissimo disgusto per la morte della sua amatissima
sorella e nostra cara zia (_Virginia Landucci_). Ne abbiamo dico,
grave dolore per la perdita di essa, e ancora sapendo quanto
travaglio ne avrà avuto V. S., non avendo lei, si può dir, altri
in questo mondo, nè potendo quasi perder ogni cosa più cara, sì
che possiamo pensar quanto gli sia stata grave questa percossa
tanto inaspettata. E come gli dico partecipiamo ancor noi buona
parte del suo dolore, sebbene dovrebbe esser bastato a farci
pigliar conforto la considerazione delle miserie umane, e che
tutti siamo qua come forestieri e viandanti, che presto siamo per
andare alla nostra vera patria nel cielo, dove è perfetta
felicità, e dove sperar dobbiamo che sia andata quell'anima
benedetta. Sicchè, per l'amor di Dio preghiamo V. S. a
consolarsi, e rimettersi nella volontà del Signore, al quale sa
benissimo che dispiacerebbe facendo altrimenti, e anco farebbe
danno a sè e a noi, perchè non possiamo non dolerci infinitamente
quando sentiamo che è travagliata e indisposta, non avendo noi
altro bene in questo mondo che lei. Non gli dirò altro se non che
di tutto cuore preghiamo il Signore che la consoli e sia sempre
seco.
Salì in quel tempo al trono papale Urbano VIII, ch'era grand'estimatore
e amico di Galileo; sicchè questi ne esultò, e mandò a leggere a sua
figlia le lettere che, in diversi tempi, n'avea ricevute. Suor Maria
Celeste gli rispose a' 10 agosto 1623:
Il contento che mi ha apportato il regalo delle lettere che m'a
mandate V. S., scrittegli da quell'illustrissimo cardinale, oggi
Sommo Pontefice, è stato inesplicabile, conoscendo benissimo in
quelle qual siasi l'affezione che le porta, e quanta stima faccia
della sua virtù. Le ho lette e rilette con gusto particolare, e
gliele rimando come m'impone, non l'avendo mostrate ad altri che
a suor Arcangela (_la sorella_), la quale insieme meco ha sentito
estrema allegrezza nel vedere quanto lei sia favorita da persona
tale. Piaccia al Signore di concederle tanta sanità quanta gli è
di bisogno per adempire il suo desiderio di visitare Sua Santità,
acciocche maggiormente possa V. S. esser favorita da quella; e
anco vedendo nelle sue lettere quante promesse gli faccia,
possiamo sperare che facilmente avrebbe qualche ajuto per nostro
fratello. Intanto noi non mancheremo di pregar il Signore, dal
quale ogni grazia deriva, che gli dia d'ottener quanto desidera,
purchè sia per il meglio.
Mi vo immaginando che V. S. in questa occasione avrà scritto a
Sua Santità una bellissima lettera per rallegrarsi con essa della
dignità ottenuta; e perchè sono un poco curiosa, avrei caro se
gli piacesse di farmene vedere la copia. La ringrazio
infinitamente di queste che ha mandate e ancora dei poponi, a noi
gratissimi. Le ho scritto con molta fretta, imperò la prego a
scusarmi se ho scritto sì male. La saluto di cuore insieme con le
altre solite.
Pare che Galileo le facesse alcun rimprovero di quest'ultima parte della
lettera; ond'essa gli replicava a' 13 agosto 1623, sempre a
Bellosguardo.
La sua amorevolissima lettera è stata cagione che io a pieno ho
conosciuto la mia poca accortezza, stimando io che così subito
dovesse V. S. scrivere a una tal persona, o per dir meglio al più
sublime signore di tutto il mondo. Ringraziola adunque
dell'avvertimento, e mi rendo certa che (mediante l'affezione che
mi porta) compatirà alla mia grandissima ignoranza, ed a tanti
altri difetti che in me si ritrovano. Così mi foss'egli concesso
il poter di tutti esser da lei ripresa ed avvertita, come lo
desidero, che io avrei così qualche poco di sapere, e qualche
virtù che non ho; ma poichè, mediante la sua continua
indisposizione, ci è vietato di poterla qualche volta rivedere, è
necessario che pazientemente ci rimettiamo nella volontà di Dio,
la quale permette ogni cosa pel nostro bene. Io metto da parte e
serbo tutte le lettere, che giornalmente mi scrive V. S.; e
quando non mi ritrovo occupata, con mio grandissimo gusto le
rileggo più volte, sì che lascio pensare a lei se amo volontieri
leggere quelle che gli sono scritte da persone tanto affettuose
ed a lei affezionate. Per non la infastidire di troppo farò fine,
salutandola affettuosamente insieme con suor Arcangela e l'altre
di camera.
Quanto affetto, e quanta venerazione per l'illustre genitore! Sette
giorni dopo, le giunge nuova ch'e' si trovi indisposto, ond'essa gli
scrive:
Stamattina ho inteso dal nostro fattore che V. S. si ritrova a
Firenze indisposta, e perchè mi par cosa fuora del suo ordinario
il partirsi di casa sua (_a Bellosguardo_) quando è travagliata
dalle sue doglie, sto con timore e mi vo immaginando che abbia
più male del solito. Pertanto la prego a dar ragguaglio al latore
acciocchè, se fosse manco di quello che temiamo, possiamo quietar
l'animo. Ed in vero ch'io non m'avveggo mai d'esser monaca se non
quando sento che V. S. è ammalata, poichè allora vorrei poterla
venire a visitare e governare con tutta quella diligenza, che mi
fosse possibile. Orsù, ringraziato sia il Signore Iddio di ogni
cosa, poichè senza il suo volere non si volta una foglia. Io
penso che in ogni modo non gli manchi niente, pur veda se in
qualche cosa ha bisogno di noi, e ce l'avvisi, che non mancheremo
di servirla al meglio che possiamo; intanto seguiteremo, conforme
al nostro solito a pregare Nostro Signore per la sua desiderata
sanità, e anco che conceda la sua santa grazia.
Or viene la volta di confidare al padre i proprj malucci e invocarne
l'assistenza; pur mandandogli nuove cortesie di regalucci, e quella
cortesia che agli scrittori è giocondissima, il parlargli de' suoi
libri.
21 novembre 1623.
L'infinito amore ch'io porto a V. S., ed anche il timore che ho,
che questo subito freddo, ordinariamente a lei tanto contrario,
gli causi il risentimento dei suoi soliti dolori e d'altre sue
indisposizioni, non comportano ch'io possa star più senza aver
nuove da lei; mando adunque costì per intender qualcosa, sì
dell'esser suo, come anche quando V. S. pensi partire. Ho
sollecitato assai in lavorar i tovagliolini, e son quasi al fine;
ma nell'appiccare le frange trovo che, di questa sorte che gli
chiese, _Dove va?_ nessuno per le strade mi volse la parola; onde
vedendomi libero a metà, volli esser libero affatto sgusciando fuori
della città, e la sentinella mi tolse per un uffiziale francese.
CAPITOLO XVI.
Questi furo gli estremi onor renduti
Al domatore di cavalli.
Senza guardarmi ai piedi, corsi per forse un'ora a rotta di collo, poi
sfiatato m'accôrsi d'aver lasciate le strette e miserabili callaje de'
sobborghi: una sabbietta copriva la strada sotto gli stanchi miei piedi:
intorno a me nell'oscurità si stendeva un bosco di pini, e sovra il mio
capo la luna inargentata scintillava attraverso le nubi.
Trovai la situazione mia poeticissima: eppure, che volete? una prosaica
cena presso una cuccetta di paglia non mi sarebbe dispiaciuta.
Ed ora che fare? ove drizzarsi? Io non sapeva cosa rispondere a queste
mie domande. La fame non si fa mai sentire così viva come quando non si
sa come calmarla: nè la vita è mai sì cara come nel momento che è in
pericolo. Questi tristi pensieri ingombravano il mio spirito; onde
rimisi in moto i miei piedi a benefizio di fortuna, curioso di sapere
cosa diverrei, e dove infine mi condurrebbe la mia sorte avversa.
Sentii cani abbajare; qualche lume mi apparve da lontano, alla cui
scorta arrivai spedato ad un villaggio. Innanzi all'osteria stava un
carozzino di posta a tiro a due, voltato proprio verso la direzione
ch'io intendeva seguire. Guardai attorno: il sottopiede dietro al
cocchio non aveva nulla che mi impedisse di accomodarvimi d'incanto, e
di attaccar un sonnellino intanto che la vettura mi trascinerebbe
lontano assai. Il padrone era ancora nell'osteria: io, cercandomi nelle
tasche, non mi trovai allato nemmeno la croce d'un quattrino: eppure
avrei comprato sì volentieri una pagnottina, perchè la vedevo in aria.
In qualità d'uffiziale non potevo batter l'accattolica; potevo bensì
goder a isonne mettendo a contribuzione: onde risolsi di tentare la
fortuna, ed entrai nella casa.
Sopra un truogolo di avena erano posati un cappello rotondo, un
palandrane ed un frustino. Risoluto di cavarne le mani dal mestiero
dell'armi, senza esitare gettai in là il mio cappello gallonato, deposi
la giubba turchina sull'avena, e presi il palandrano: se avessi avuto la
sciabola, di tutto cuore l'avrei barattata col frustino, che non ostante
presi in mano per sicurezza, se non altro, contro i bottoli del
villaggio. Non occorre dire che in tale arnese non potevo più pensare a
cenar in quella casa onde attaccai la voglia ad un arpione: ma andava in
solluchero pensando che ormai potrei viaggiare incognito tra mezzo ai
Francesi.
Stavo ancor ritto e fermo come un termine a piè dell'uscio, cercando
cogli occhi un cantuccio, dove ripormi ad agguatar la vettura, che non
la se ne andasse senza me, quando a un tratto una voce francese mi sonò
dietro, che fece su me l'effetto di un fulmine. — Andiamo, ghiotto;
lesto, andiamo,» gridò il Francese, che mi aveva tolto pel suo
cocchiere, lo rimaneva lì intra due di cascar morto, o di darla alle
gambe come un ladro: ma il Francese non voleva nè l'uno nè l'altro: e
ghermitomi pel colletto con una forza prodigiosa, mi trasse presso il
cocchio, e mi intronò nell'orecchio: _Sitzen dich auf_: poi balzando
egli stesso nella carrozza, aggiunse: — Presto, frusta; avanti.»
Alla buon'ora: pensai io nel sedermi sulla cassetta: e sferzando i
cavalli uscimmo dal villaggio, tirando via di pratica.
CAPITOLO XVII.
Altre pugne, altre stragi.
Più io toccavo su, e più il degno mio padrone ripeteva; — Buono! bravo!»
Pareami arcifrettolosissimo, e a giudicar dalle parole che d'ora in ora
gli scappavano di bocca, la sua coscienza non era più netta della mia.
Al chiaro di luna credetti scorgere ch'ei fosse uno di quegli importanti
personaggi che in francese si chiamano _impiegati_; avendo abiti troppo
borghesi per un militare, e troppo militari per un borghese.
La nostra conversazione riducevasi a monosillabi, perchè egli non
parlava quasi punto il tedesco; io per restare in carattere, doveva
ignorare totalmente il francese. Mi domandò; — Quanto star da qui a
Posen?» ed io: — Molto ancora.» Egli aggiunse: — Essere molti Prussiani
là? — Oh molto,» rispos'io: al che egli come forsennato gridò: — Andare,
camminnare, sempre:» ed io faceva galloppar i cavalli colla pancia a
terra.
M'indussi poi a fargli intendere che avevo bisogno di mangiare col
domandargli se aveva de' viveri seco; intese che gli domandassi di viver
seco. Gli parlai di avermi compassione; credette che parlassi di
commissione. Dissi che avevo _hunger_, cioè fame, e pensò che parlassi
degli Ungheresi. Infine ripetei _brod_, e questa parola e il gesto onde
l'accompagnai fece l'effetto, sì che mi diede un bel quarto di pagnotta,
che fu meglio d'una sassata.
Contento come un giubileo, sbocconcellai pane e pane in sulla cassetta,
lodandomi del posto mio che mi forniva di tutto quanto potevo
desiderare. Capellano o palafarniere, ajutante generale o maestro,
dottore o vetturale, cos'importa? l'uomo sta sempre bene sotto qualunque
abito: peggio per lui se l'abito è il solo bene che possiede.
Io prendevo la strada di Polonia, dicendomi: Chi sa ch'io non vada in
riva alla Vistola a trovar il comando d'un corpo d'armata? E non ci
mettevo nè pepe nè sale, e per quanto oscura fosse la mia sorte, io la
vedevo chiara come un'ambra.
Mi sentiva nella migliore disposizione di spirito per comporre un
sermone, quando a chiaro di luna distinsi alcune sentinelle sulla
strada. Il mio commissario le vide al punto stesso, sfoderò la sciabola,
impugnò una pistola che inarcò. Lo scatto d'uno scodellino mi coprì d'un
sudor freddo da capo ai piedi.
— Corpo e sangue, lesto, presto, avvia, tocca su,» gridava lui.
— Fermo là. Chi viva! Alto là: chi viva?» gridarono alcuni soldati,
presentandomi al petto la punta delle bajonette.
A qual dei due obbedire? Io speravo che una bugia officiosa mi trarrebbe
d'imbarazzo: onde credendo che i soldati fossero Francesi, avviati a
raggiungere il loro reggimento, dissi loro: — Signori, il mio padrone è
un generale francese.»
— Alto là; rendetevi,» gridarono più voci ad un tratto.
— Un canchero che ti roda,» urlò il mio preteso generale, e balzando di
netto dal calesso, stramazzò due di costoro: sparò; gli risposero; di
qua, di là, _da destra da manca sentivo le palle fischiando volar_. I
miei cavalli furono spaventati anche più di me; onde, senza dire addio
nè a diavolo morsero, il freno, e presero un galoppo disperato. Ed io
certo non li teneva. Sentii ancora l'urtarsi delle sciabole e qualche
scoppio; poi non intesi più nulla. Io mi trovavo salvato, grazie alla
prudenza e alla velocità de' miei cavalli.
— Maledetto accidente,» pensava io tastandomi dal capo alle piante,
perchè dapprima mi credeva tutto crivellato dalle palle, e di perdere il
sangue a catinelle, ma in fatto non avea tocca neppure una scalfitura.
Tanto meglio. Ma del mio padrone che n'era? Doveva io tornar indietro a
cercarlo? Sì! a rischio di farmi sciabolare. Ah, la fedeltà e la
generosità mia non arrivavano a tanto. Quel che avvenne del commissario
di guerra, Dio vel dica; per me non n'ebbi nè nuova nè ambasciata.
Continuai pacificamente la mia strada, ma i cavalli erano spossati. Un
villaggio mi si scoperse dinanzi; cosa dovevo fare? passarvi la notte, o
tirar di lungo? Una voce mi diceva sommesso: — Va innanzi, va innanzi:
perchè, sai tu di chi erano la carrozza ed i cavalli?» È ben vero che
non gli avevo nè rubati, nè requisiti io, ma per questo dovevo tenermi
l'altrui?
In tale perplessità arrivai all'osteria, che già era un pezzo di là di
notte. Lo stalliere affacciossi; io smontai, chiesi avena pei cavalli,
birra per me, e mi accomodai nel salotto.
Non avevo neppure un bezzo: ma ad un bisogno io pensava dar in pagamento
il cappello e il palandrano: l'uno m'era troppo piccolo, l'altro troppo
grande.
CAPITOLO XVIII.
Compagnia compromettente.
L'ostessa, donna guarnita di ciccia in abbondanza, venne a sedermisi a
lato, appoggiò i gomiti sulla tavola, e domandò se intendevo passar la
notte sotto il suo tetto. Come risposi di no, mi chiese se voleva
continuare il viaggio, sta sera fino alla piccola città di ***.
Risposi di sì, stracontento che la curiosità di questa buona cristiana
contentasse la mia, insegnandomi in qual parte del mondo mi trovassi. Mi
domandò pure se non mi rincrescerebbe toglier meco una giovine che era
giunta a piedi, e che gustava un po' di riposo, resole necessario da
questa camminata.
Io accettai a bocca baciata, sì per la mancia che mi darebbe, e sì pel
piacere di sua compagnia.
L'ostessa aggiunse che farei bene ad aspettar la punta del giorno per
partire, giacchè la notte non era gran fatto sicura in questi tempi di
guerra: molti Francesi ronzavano là intorno e i Prussiani che cercavano
scappare, non erano un incontro meglio augurabile. Nessun giorno passava
che non si sentisse parlar d'assassinio o di furto. Queste notizie mi
fecero scrollar la testa con aria di malcontento e fu stabilito che
sveglierebbe me e la signorina un pajo d'ore avanti giorno: per me era
abbastanza presto, il mio padrone non c'era pericolo che mi rabbufasse;
e quel riposo tornerebbe utile a' miei cavalli, ed anche alla signorina.
Risolsi però di partire di buon mattino, atteso che, da bravo fisiologo,
calcolavo che le strade doveano in quell'ora essere meno pericolose,
perchè quelli che le rendono mal sicure durante la notte si ritirano o
stanchi o paurosi dell'avvicinarsi del chiarore; e quelli che vogliono
batterle di giorno, non si sono ancora messi in campagna.
Il letto, cioè una materassuccia fatta colle fedi di miserabilità, non
mi lusingò molto, e all'orologio scoccavono le quattro, ch'io stava
aggiogando i cavalli. Feci trambusto per la casa finchè lo stalliere si
svegliasse; esaminai colla lanterna il carrozzino, mia nuova proprietà.
Dentro v'era un fodero di sciabola, vuoto; una delle tasche conteneva
una bella pipa di schiuma, guarnita d'argento, una borsa da tabacco in
seta ricamata, con queste tenere parole, _souvenir d'amitié_. Era
senz'altro una galanteria di qualche giovinottina tedesca, conquista
dell'impiegato, mio riveritissimo padrone. Il baule della vettura era
chiuso, e l'impiegato avea tenuto seco la chiave.
L'ostessa venne a portarmi il conterello sì pei cavalli, sì pel mio. —
Madamigella pagherà per me,» le diss'io, e mi ribadii al posto, ove jeri
sedeva il mio padrone. Vi so dire che ci stavo più caldo e più agiato
che non a cassetta; oltre che speravo d'aver una amabile conversazione
colla mia compagna di viaggio.
Essa comparve al fine: salì nella carrozza al mio fianco; e detto addio
all'ostessa, partimmo.
Ma la nostra conversazione non fu sì piacevole quanto me l'ero
immaginata. La giovane si abbiosciò nell'angolo della vettura, il più
possibile discosto da me; e a tutte le mie riflessioni sulla frescura
del mattino, sull'oscurità del crepuscolo, e sulla noja del viaggiare,
ella non rispondeva che con un _sì_ o un _no_ secco secco. Rimasi
adunque immerso nelle mie riflessioni, che diventavano di più in più
curiose, mano mano che l'addormentata mia compagna veniva ravvicinata
dal trabalzare della vettura. Il bujo rendeva ancora più potenti
sull'immaginazione mia le sue invisibili attrattive. Poco a poco la
testa della mia compagna si trovò sulla mia spalla: io passai pian
pianino il mio braccio sinistro attorno allo svelto suo corpicciuolo, e
me la strinsi contro il seno. Ma i battiti accelerati del cuor mio non
la turbavano ne punto nè poco, mentre io tremava come un delinquente.
Per la prima volta un'addormentata giovinetta stavasi appoggiata al mio
seno; per la prima volta io teneva tra le braccia una creatura di quel
sesso incantevole... Ah! perdona, Giulietta, se in quell'istante... Ma
no, il cuor mio non fu infedele; anzi era con te. E mi immaginavo d'aver
te per compagna: a te era dedicato il delizioso bacio che deposi sulla
fronte della bella sconosciuta. Deh qual uomo resisterebbe ad una donna,
il cui cuore batte sul suo cuore, il cui respiro si mesce col suo?
Bisognerebbe esser di ghiaccio, non un celibatario di trentanove anni.
CAPITOLO XIX.
Sei pur bella cogli astri sul crine,
Porporina foriera del dì.
La vettura ruzzolava pianamente sulla sabbia, ed io lasciava andar i
cavalli al loro passo, stringendo l'innocente mia compagna fra le
braccia; e chiudendo gli occhi, m'abbandonai alle dolci visioni, che un
benefico sonno mi offeriva. Giulietta, la mia parocchia, la più intera
felicità, erano le fantasie tra cui il mio spirito andava rapito.
La fanciulla ed io ci svegliammo nel momento stesso, nel momento che la
vettura, lasciando la subbia, entrava sopra una strada ciottolata.
Già schiariva il giorno, e la più bella aurora spiegava all'orizzonte
dinanzi a me i suoi fuochi, _scintillanti tra i vivi zaffiri_. Gettai lo
sguardo prima su' miei bravi cavalli, poi sulla mia compagna. — Ci
guardammo per un po' l'un l'altro come stupefatti: ella fregò gli occhi,
io altrettanto, pensando che il sole levante m'avesse abbagliato. Ma no!
tornai a guardarla, e allora rimasi convinto ch'io sognava ancora della
Giulietta, perchè mi pareva che fosse lei, seduta al mio fianco in petto
e in persona.
— O buon Dio! signor dottore, siete proprio voi?» domandò essa colla sua
gentil voce argentina, esaminando ora il mio volto e i baffi, avanzo
della divisa d'ajutante generale, ora il mio vecchio pastrano tutto a
strambelli.
— Giulietta! (gridai io.) Come! voi qui? possibile che voi siate al mio
lato, voi?»
Ma le domande cessarono: lacrime di felicità ne oscurarono gli occhi, e
lasciai cascarmi le redini. Nell'eccesso della nostra gioja dimenticammo
il mondo, dimenticammo tutto quel che ne circondava, e chi sa fin quando
restavamo in quell'estasi deliziosa, vera beatitudine celeste, se una
violenta sciacca non fosse venuta a richiamarci sulla terra.
Ripresi le redini in mano, e allora fu una furia di bôtte e risposte.
Giulietta era più bella che mai, ed i primi raggi del sole la facevano
sfolgorare in tutta la sua gloria: sicchè lasciai cascare le briglie di
nuovo.
La informai delle mie avventure guerresche, già ben conosciute a voi, o
lettori; e che ella ascoltò con attenzione più grande di quella di voi,
o lettori. Molto più semplice era l'istoria dell'amica mia. La sua
padrona, sgomenta dall'avvicinarsi dei Francesi, le aveva dato il
congedo, lasciando Berlino per fuggire a Stettino, e per di là Dio sa
dove Giulietta rimase sulla croce nell'incertezza de' fatti miei, sinchè
ricevette da sua madre l'ordine di venirla a raggiungere. Da fanciulla
obbediente partì detto fatto, lasciando le opportune spiegazioni per me,
ove mai tornassi; e prese una vettura sino Francoforte. Di là, non
avendo potuto trovar una carrozza, o perchè i Francesi le avessero
requisite tutte, o perchè nessuno avesse voglia di muoversi in que'
tempi, erasi eroicamente avventurata a piedi L'jeri sera, morta di
fatica, era giunta nel villaggio, dov'ebbi la fortuna di scontrarla.
CAPITOLO XX.
E qui finì la dolorosa storia.
Ci fermammo a fare un boccon di colazione in un albergo, poco lontano
dal luogo ove la madre di Giulietta abitava. Là un bravo rasojo cancellò
le ultime vestigia del mio grado d'ajutante generale.
Giulietta mi comprò una bella giubba e un cappello, sicchè potei
risalire il cocchio rinfronzito, e in un arnese più degno d'una bella
giovinetta elegantemente vestita, e seguitammo la strada. Il sole ci
saettava co' suoi raggi, e il cuor nostro non era men giulivo che tutta
la natura. Da un pezzo erano state fatte le nostre pubblicazioni, sicchè
nulla più impediva di sposarci; e ben tosto ci accordammo sul giorno.
Nel frattempo io doveva scrivere a Francoforte per informarmi del conte
dell'impero e della capellania cui dovevo essere nominato, benchè avessi
bruciato la mia vocazione nel campo, insieme co' miei pindarici canti di
trionfo. Giulietta aveva messo da banda cento talleri fumanti, che, a
buoni conti, erano un bel principio. E poi, se la sventura ci
bersagliava, io poteva rizzar una scoletta; pane e acqua, noi lo
sentivamo, poteano bastare e anche troppo alla nostra felicità, purchè
non fossimo l'un dall'altro separati.
Mentre così abbellivamo la nostra povertà, Giulietta coll'immaginare de'
pasti economici, io parlando sul mio zelo come maestro di scuola, un
tintinno si fece sentire al fondo della vettura, come se qualche cosa ne
cascasse ai piedi. Cercammo, ed era un marengo d'oro lampante.
— T'è cascato a te?» chiesi alla Giulietta.
— A me no: io non ne ho dell'oro», mi rispose ella.
Prendemmo questo amabile dono come un avanzo del signor impiegato. Ma un
momento dopo non rotola un altro marengo a' nostri piedi?
— Da senno (diss'io) noi abbiamo qualche buon genio, o qualche fata
benigna, che intese la nostra conversazione.»
Allungai le mestole a levar anche questo; cercai minutamente se non
avesse altri compagni, ma non trovai nulla, il che m'increbbe al cuore.
Ma a poco andare, il fenomeno si rinnovò per la terza volta.
— Cattadedina, questo non viene dalla vettura!» gridai io, e rattenni i
cavalli.
Allora un quarto ruspo d'oro brillò a' miei occhi, traverso una
sfenditura del cofano, su cui stavamo seduti. La fonte aurea era dunque
scoperta. Forzai il cofano, e trovai che, quel che dapprima avevo
creduto il tintinno d'una catena, era un rotolo di marenghi che si era
sgruppato, e presso a quello un sacchetto d'argento meglio chiuso.
In che modo il mio impiegato fosse divenuto possessore di questo tesoro,
io nol so; e, appartenesse a lui o ad altri, poco m'importava. Ma sì io,
sì Giulietta conoscemmo che questa somma era troppo considerevole pei
nostri modesti desiderj; nè potevamo tenercela in coscienza. Riponemmo
dunque i tre marenghi presso gli altri, rinserrammo il cassetto, e
toccammo innanzi come se nulla fosse accaduto.
La vecchia madre di Giulietta, contentona di abbracciarci, ne ricevette
con mille benedizioni. Il nostro tesoro fu dato a lei in deposito; ma,
per quanti avvisi io facessi affigere sui cantoni e sulle gazzette, mesi
e mesi passarono senza che alcuno comparisse a reclamare sia il cavallo
e il calesso, sia il denaro.
Al termine dunque delle avventure mie, rimasi più ricco che mai non
l'avessi sperato, e con Giulietta per moglie.
Mandai al mio amico di Berlino un lauto compenso per quella tal vettura
che il signor Maggiore, m'avea menata via, senza tanti complimenti:
rinunziai alla cura d'anime; una bella campagna, in situazione
deliziosa, e all'ombra di tigli e di castani, una casetta grande
abbastanza per Giulietta, sua madre e me, ecco il mio paradiso.
1845.
UNA FIGLIA DI GALILEO GALILEI
Se vi è titolo a scusare i romanzi storici, gli è l'introdursi che fanno
nella vita privata, vorremmo dire nel cuore di coloro, di cui la storia
non ci mostra che il braccio o la testa. Ma se la storia cesserà di
essere un mostro convenzionale, se si convincerà che, di tutte le arti
belle, ma di essa principalmente, la materia vera è l'uomo; l'uomo coi
sentimenti, coi pensieri, colle speranze sue proprie; essa potrà
raggiungere appieno l'intento suo d'essere l'immagine della vita, e non
farà più bisogno di ricorrere a quelle ibridi composizioni, dove si è
incerti anche del poco vero che serve d'intelajatura al molto finto.
E che la storia possa riccamente soddisfare a questo bisogno, lo
mostrarono que' pochi che seppero, ai dì nostri, farla discendere
dall'epico suo sussiego, perchè versasse nella vita; scapitando forse in
dignità di procedimento, ma guadagnando in verità. E noi oggi vogliamo
sfogliare alcune di queste pagine prosastiche della vita d'un
grand'uomo. Non sono i contrasti che fan il bello (dico il bello
formale) de' quadri? Non è per questo che si accostano sempre Marte e
Venere, Otello e Desdémona, satiri e ninfe, santi e demonj; e in un'arte
più plateale quegli spazzacamini, quei servitori mori, quelle scimmie?
Or noi, a canto all'austera figura di Galileo Galilei, che rammenta
tanto senno, tanta perseveranza, tante contrarietà, ne abbiamo
riscontrata un'altra, pura, ingenua, religiosa, che protegge quasi di
candido velo gli occhi sfolgoranti che scopersero macchie nel sole, e
circondano di carezze la risoluta volontà che, a fronte dei sofisti
potenti, esclamava, _Eppur si muove_.
È noto che Galileo ebbe la disgrazia d'aver più d'una creatura fuor di
matrimonio, e il conforto di poter confessarle. Due figliuole si resero
monache in San Matteo d'Arcetri col nome di suor Arcangela e suor Maria
Celeste. Di quest'ultima, a lui prediletta, rimangono da 120 lettere
nella biblioteca Palatina di Firenze, donde alcune furono messe
nell'edizione delle opere di quel grande, che, a cura di Eugenio Alberi
e a spese del granduca, fu fatta in Firenze.
Abbiamo creduto non dovesse che piacere il trovarne qui alcune, di cui
la religiosa mestizia e la candida affezione speriamo toccheran il cuore
ai lettori come toccarono il nostro: vedendo questa pia soccorrere a
tutti i dolori del padre con quei conforti, con quell'affetto, con
quella dirittura di sentire, che la solitudine claustrale è così atta a
ispirare in coloro che non vi si struggono di tristi repetìi, o di
sollecitudini mondane.
Dal convento di San Matteo in Arcetri,
10 maggio, 1623; a Bellosguardo.
Sentiamo grandissimo disgusto per la morte della sua amatissima
sorella e nostra cara zia (_Virginia Landucci_). Ne abbiamo dico,
grave dolore per la perdita di essa, e ancora sapendo quanto
travaglio ne avrà avuto V. S., non avendo lei, si può dir, altri
in questo mondo, nè potendo quasi perder ogni cosa più cara, sì
che possiamo pensar quanto gli sia stata grave questa percossa
tanto inaspettata. E come gli dico partecipiamo ancor noi buona
parte del suo dolore, sebbene dovrebbe esser bastato a farci
pigliar conforto la considerazione delle miserie umane, e che
tutti siamo qua come forestieri e viandanti, che presto siamo per
andare alla nostra vera patria nel cielo, dove è perfetta
felicità, e dove sperar dobbiamo che sia andata quell'anima
benedetta. Sicchè, per l'amor di Dio preghiamo V. S. a
consolarsi, e rimettersi nella volontà del Signore, al quale sa
benissimo che dispiacerebbe facendo altrimenti, e anco farebbe
danno a sè e a noi, perchè non possiamo non dolerci infinitamente
quando sentiamo che è travagliata e indisposta, non avendo noi
altro bene in questo mondo che lei. Non gli dirò altro se non che
di tutto cuore preghiamo il Signore che la consoli e sia sempre
seco.
Salì in quel tempo al trono papale Urbano VIII, ch'era grand'estimatore
e amico di Galileo; sicchè questi ne esultò, e mandò a leggere a sua
figlia le lettere che, in diversi tempi, n'avea ricevute. Suor Maria
Celeste gli rispose a' 10 agosto 1623:
Il contento che mi ha apportato il regalo delle lettere che m'a
mandate V. S., scrittegli da quell'illustrissimo cardinale, oggi
Sommo Pontefice, è stato inesplicabile, conoscendo benissimo in
quelle qual siasi l'affezione che le porta, e quanta stima faccia
della sua virtù. Le ho lette e rilette con gusto particolare, e
gliele rimando come m'impone, non l'avendo mostrate ad altri che
a suor Arcangela (_la sorella_), la quale insieme meco ha sentito
estrema allegrezza nel vedere quanto lei sia favorita da persona
tale. Piaccia al Signore di concederle tanta sanità quanta gli è
di bisogno per adempire il suo desiderio di visitare Sua Santità,
acciocche maggiormente possa V. S. esser favorita da quella; e
anco vedendo nelle sue lettere quante promesse gli faccia,
possiamo sperare che facilmente avrebbe qualche ajuto per nostro
fratello. Intanto noi non mancheremo di pregar il Signore, dal
quale ogni grazia deriva, che gli dia d'ottener quanto desidera,
purchè sia per il meglio.
Mi vo immaginando che V. S. in questa occasione avrà scritto a
Sua Santità una bellissima lettera per rallegrarsi con essa della
dignità ottenuta; e perchè sono un poco curiosa, avrei caro se
gli piacesse di farmene vedere la copia. La ringrazio
infinitamente di queste che ha mandate e ancora dei poponi, a noi
gratissimi. Le ho scritto con molta fretta, imperò la prego a
scusarmi se ho scritto sì male. La saluto di cuore insieme con le
altre solite.
Pare che Galileo le facesse alcun rimprovero di quest'ultima parte della
lettera; ond'essa gli replicava a' 13 agosto 1623, sempre a
Bellosguardo.
La sua amorevolissima lettera è stata cagione che io a pieno ho
conosciuto la mia poca accortezza, stimando io che così subito
dovesse V. S. scrivere a una tal persona, o per dir meglio al più
sublime signore di tutto il mondo. Ringraziola adunque
dell'avvertimento, e mi rendo certa che (mediante l'affezione che
mi porta) compatirà alla mia grandissima ignoranza, ed a tanti
altri difetti che in me si ritrovano. Così mi foss'egli concesso
il poter di tutti esser da lei ripresa ed avvertita, come lo
desidero, che io avrei così qualche poco di sapere, e qualche
virtù che non ho; ma poichè, mediante la sua continua
indisposizione, ci è vietato di poterla qualche volta rivedere, è
necessario che pazientemente ci rimettiamo nella volontà di Dio,
la quale permette ogni cosa pel nostro bene. Io metto da parte e
serbo tutte le lettere, che giornalmente mi scrive V. S.; e
quando non mi ritrovo occupata, con mio grandissimo gusto le
rileggo più volte, sì che lascio pensare a lei se amo volontieri
leggere quelle che gli sono scritte da persone tanto affettuose
ed a lei affezionate. Per non la infastidire di troppo farò fine,
salutandola affettuosamente insieme con suor Arcangela e l'altre
di camera.
Quanto affetto, e quanta venerazione per l'illustre genitore! Sette
giorni dopo, le giunge nuova ch'e' si trovi indisposto, ond'essa gli
scrive:
Stamattina ho inteso dal nostro fattore che V. S. si ritrova a
Firenze indisposta, e perchè mi par cosa fuora del suo ordinario
il partirsi di casa sua (_a Bellosguardo_) quando è travagliata
dalle sue doglie, sto con timore e mi vo immaginando che abbia
più male del solito. Pertanto la prego a dar ragguaglio al latore
acciocchè, se fosse manco di quello che temiamo, possiamo quietar
l'animo. Ed in vero ch'io non m'avveggo mai d'esser monaca se non
quando sento che V. S. è ammalata, poichè allora vorrei poterla
venire a visitare e governare con tutta quella diligenza, che mi
fosse possibile. Orsù, ringraziato sia il Signore Iddio di ogni
cosa, poichè senza il suo volere non si volta una foglia. Io
penso che in ogni modo non gli manchi niente, pur veda se in
qualche cosa ha bisogno di noi, e ce l'avvisi, che non mancheremo
di servirla al meglio che possiamo; intanto seguiteremo, conforme
al nostro solito a pregare Nostro Signore per la sua desiderata
sanità, e anco che conceda la sua santa grazia.
Or viene la volta di confidare al padre i proprj malucci e invocarne
l'assistenza; pur mandandogli nuove cortesie di regalucci, e quella
cortesia che agli scrittori è giocondissima, il parlargli de' suoi
libri.
21 novembre 1623.
L'infinito amore ch'io porto a V. S., ed anche il timore che ho,
che questo subito freddo, ordinariamente a lei tanto contrario,
gli causi il risentimento dei suoi soliti dolori e d'altre sue
indisposizioni, non comportano ch'io possa star più senza aver
nuove da lei; mando adunque costì per intender qualcosa, sì
dell'esser suo, come anche quando V. S. pensi partire. Ho
sollecitato assai in lavorar i tovagliolini, e son quasi al fine;
ma nell'appiccare le frange trovo che, di questa sorte che gli
- Parts
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