Racconti storici e morali - 01
RACCONTI
STORICI E MORALI
DI
CESARE CANTÙ
TERZA EDIZIONE
MILANO
LIBRERIA EDITRICE DI EDUCAZIONE E D'ISTRUZIONE
DI PAOLO CARRARA
Via S. Margherita, 1104
1878
Proprietà Letteraria dell'Editore.
_Nel 1868 pregai Cesare Cantù di lasciarmi ristampare i suoi_ =Racconti=
_già comparsi in molte edizioni. Egli non solo vi annuì, ma varj ne
aggiunse, tutti riordinò e ritoccò: non credendo indegni di tal cura
lavori che, quantunque i minimi fra' suoi, erano sopravissuti a trenta
anni e a tante ruine di cose e di uomini._
_Consumate due edizioni, una nuova ne intraprendo, cominciando da questo
volume, che sta anche da sè, e che è abbastanza qualificato dal titolo:
al quale vanno compagni uno di_ =Paesaggi e Macchiette=, _e uno di_
=Novelle Lombarde=.
_La materia loro e il nome dell'autore mi dispensano dal raccomandarli._
Milano, ottobre 1877.
P. Carrara.
AVVENTURE GUERRESCHE D'UN UOMO DI PACE
CAPO I.
I trentanove anni.
Alli 6 ottobre anno 1806 compivo i trentanove anni, e abitavo in una
cameretta da studente a Berlino.
Quando mi svegliai, le campane sonavano della bella, che era domenica: e
un sudor freddo mi corse tra pelle e pelle al riflettere che, fra un
anno, questo sarebbe il mio quarantesimo giorno natalizio. — Il
quarantesimo!
A diciannove anni un giovane sospira il ventesimo, perchè fino a quello
non gli pare di trovarsi a livello del mondo: a ventinove comincia a far
il viso dell'armi al trentesimo anniversario che si avvicina: le
illusioni della vita sono ite in dileguo.
Ma il quarantesimo!... Ah, quarant'anni, e ancora senza impiego, senza
uno stato!
Era il mio caso nè più nè meno, eppure non era colpa mia.
Risolsi dunque tra me e me, finchè durassi nell'ordine de' celibatarj,
di non aver mai più di trentanove, nè meno di trentott'anni. Presa
questa disperata deliberazione, mi alzai, e mi posi a dosso gli abiti da
festa: ma l'anima era colma d'amaritudine...
Roba di chiodi! Fra poco quarant'anni sulle spalle, e ancora solo, e
niente più che un povero _candidatus theologiæ_ senza posto, senza
avvenire! Neppure un impieghetto di professorello in città avevo potuto
buscare; a che dunque tutto il mio sapere, l'instancabile zelo mio, la
mia vita esemplare?
Non ho parenti, non protettori,
Non amiche, non ville,
Che far mi possan mai
Nell'urna del favor preporre a mille:
passavo la giornata a correre le vie per bastare a' miei bisogni dando
lezioni al terzo e al quarto: poi nelle ore libere facevo il letterato,
scrivevo su pe' giornali e per le strenne: ma che pane salato vi so dir
io! I libraj salariavano le mie vergini muse non con altre monete che di
rame.
Eppure tutti in generale i conoscenti mi faceano una cera da non dire, e
portavano in palmo di mano il mio talento: ma dite mo se ci sarebbe
stato un cane che mi desse un bruscolo? Il più distinto favore onde mi
potessero onorare gli era un invito a pranzo.
E la mia buona Giulietta? ah! invano si sarà conservata fedele a' miei
destini. Anch'essa dovette appassire come un fiorellino delle Alpi nella
solitudine, ignorata dal mondo.
Giulietta m'era da nove anni promessa sposa, senza che mai avessimo tra
noi una parola a ridire: buona come il pane, ingenua come l'acqua, al
par di me povera e dimenticata, non avea che me solo. Nasceva da un
consigliere, che in grazia d'un fallimento era morto impoverito. La
vecchia madre sua che stava a casa in una città là su' confini della
Polonia, era in sì basse acque da non potersi tener a lato la Giulietta;
onde questa serviva in una casa a Berlino come compagna d'una dama, o, a
dirla più prosasticamente, come cameriera: e col tenue ritratto del suo
lavoro sostentava la madre.
Quante volte non sarei io soccombuto all'umor negro se la buona
Giulietta, Dio la benedica, non avesse sostenuto il mio coraggio! Ma ora
non eramo più fiori e baccelli: io entrava nel quarantesimo anno,
Giulietta toccava già i venticinque, ed io non era che un aspirante,
ella una cameriera!
CAPO II.
Fu il ciel che delle lettere il conforto
Certo inventò.
Così pensando e ruminando, non avea che finito di vestirmi, quando sento
bussare alla mia porta; entra il postino, e mi rimette una lettera, ma
molto grossa, che costava niente meno che trenta soldi. Prezzo enorme
per la borsa avizzita d'un teologhetto!
Abbandonatomi sul seggiolone, stetti un buon quarto d'ora esaminando la
soprascritta e il suggello, strologando da chi mi venisse.
Io ci ho un gusto matto a far così per combattere la mia curiosità; e
poi ghiribizzare co' più bei castelli in aria sul contenuto della
lettera.
Oggi poi la questione era se aprirla subito o aspettare domani. Non
volevo mettermi a rischio di leggere forse notizie sinistre, proprio il
mio giorno natalizio: sarebbe stato un cattivo pronostico per tutto
l'anno. L'infelice è superstizioso.
Tirai le buschette, e la sorte decise pel no. Cattivo segno! ma la mia
curiosità, animata da eroico coraggio, scosse il giogo della sorte e
delle ubbie; il suggello fu rotto, — lessi, ed i miei occhi s'empirono
di lacrime.
Dovetti deporre la lettera per calmarmi alquanto poi la rilessi. O
provvidenza eterna! o mia Giulietta! — strinsi al cuore la lettera, mi
posi in ginocchio colla fronte sino a terra, e sparsi le prime lacrime
di gioja che avessi versate in vita mia, ringraziando l'Onnipotente
della sua bontà.
La lettera veniva dal mio unico protettore, un negoziante di Francoforte
sul Meno, nella cui famiglia ero vissuto un pezzo come precettore. Per
un caso... No: dove c'è Dio non c'è caso!... Basta: per interposto del
mio mecenate, io era chiamato come capellano nelle terre d'un conte
dell'impero, ricco sfondato, con settecento scudi di paga, abitazione,
giardino e legna, e per giunta la speranza, quando andassi a genio al
signor conte, d'esser nominato precettore di suo figliuolo, con assegni
particolari. Doveva ai 19 ottobre trovarmi a Magdeburgo, ove il conte
faceva una scappata quel giorno, e desiderava vedermi.
Rimasi come stordito: tutti i miei voti erano compiuti. Lesto lesto
finii d'affazzonarmi, e colla lettera di nomina in tasca, non corsi no,
volai dalla Giulietta galluzzando. La sua padrona era per fortuna in
chiesa, onde la trovai sola soletta. Restò spaventata al vedermi com'ero
sfiatato, rosso come una brace, scintillante negli occhi; con angoscia
mi trasse nella sua cameretta, dove io voleva bene spiattellarle il
fatto, ma sì! non poteva formolar parole: piangevo, la stringevo fra le
braccia, appoggiava il mio viso ardente sulle spalle di lei, che tremava
di spavento.
— Cosa v'è accaduto di sinistro? Cosa potè abbattere tanto il vostro
nobil cuore?»
— Oh Giulietta! (esclamai io) il mio cuore è avvezzo ai patimenti,
sicchè vedrei il più acerbo destino col sorriso sulle labbra. Ma la
gioja è ospite sconosciuta per me, nè ho armi contro di essa. Me ne
vergogno: oppure, malgrado la mia filosofia, essa mi opprime.
— La gioja, signor dottore!» disse Giulietta stupefatta.
Nota bene, lettor cortese, che io aveva ottenuto all'Università soltanto
il grado di licenziato, ma, per adattarmi alla moda, mi sorbivo a tutto
pasto il titolo di dottore in filosofia.
— Vi ricorda (le risposi) quando nel giardino di Sans-Souci ci trovammo
insieme la prima volta? quanto eramo contenti! Nove anni scorsero
d'allora, o Giulietta, e noi serbammo il giuramento di amore e di
fedeltà che prestammo quel dì sotto la volta brillante de' cieli,
innanzi al Dio che è dappertutto: benchè senza speranza, lo serbammo
religiosamente. — Vuoi venir con me, Giulietta? (io seguitai in tono men
tragico, ed era la prima volta che le dava del tu.) Una bella casa, un
fior di giardino t'aspettano: vuoi tu dividere la mia felicità? Guarda
questa è la nomina: io sono capellano.»
Lesse la lettera, e mano mano che la scorreva, s'infocavano gli occhi
suoi, che mai non la m'era parsa così bella. Poi finito, lasciando
cascar le braccia, mi fissò un momento silenziosa, e le si gonfiavano
negli occhi care lagrimette,
Pari alle stille tremule brillanti,
Che alla nuova stagion gemendo vanno
Dai palmiti di Bacco entro agitati
Al tepido spirar delle prim'aure
Fecondatrici.
— Verrò teco dove tu vorrai, Giammaria», essa mormorò, e singhiozzando
gettommisi al collo.
Era il primo _tu_ che le usciva dalle labbra: era il primo _tu_ ch'io
udissi darmi dopo morta la mia mamma, pover'anima. Noi eramo felici come
angeli in paradiso. Pochi istanti dopo, si spiccò da me per gettarsi
ginocchioni, e pregare; poi sorse, mi volse uno sguardo ove scintillava
una tenera gioja, e la prima domanda fu: — Ma questo è proprio verità?
non è un sogno? Mostratemi la lettera: non mi ricordo più del suo
contenuto.»
CAPO III.
Lasciar nelle sale del tetto natio
Le donne accorate tornanti all'addio.
— È naturale (diss'io a Giulietta) ch'io non entri alla mia parocchia
prima d'esser ammogliato. Come potrei ne' primi giorni occuparmi d'una
folla di minuzie e d'intersesi mondani? Dov'è lo studio? ove la stanza
da letto, e che so io? Tu, Giulietta, tu me le additerai: tu mi
tramuterai la casa straniera in patria deliziosa: noi staremo da papi.
Solo non ti scordare che il mio studiolo abbia una finestra che dia sul
tuo giardino, affinchè la primavera, mentre io lavorerò a tavolino,
possa vederti per le redole annaffiare e zappettar le ajuole. Oh che
goder di Dio che noi abbiamo a fare!
Ella arrossì, e disse cambiassimo discorso: pure fu lei la prima a
rattaccare del modo con cui volea disporre il suo orticello, e a
discutere se o no tornasse conto comprare a Francoforte ogni nostro
occorrente. Nè avemmo nulla a far di meglio che lavorare sul serio a
conchiudere la nostra unione, domandare il congedo di Giulietta alla sua
padrona, disdire la mia cameruccia, le mie lezioni, far fare le
pubblicazioni di nostre nozze, avere il sì, e tutto.
Ogni cosa andò al solito: mi rallegro e regalucci da tutte le bande;
onde mi trovai più ricco che non fossi stato da parecchi anni in qua. Un
altro amico di Berlino, di cui avevo allevato i figliuoli, mi offerse,
per far il viaggio di Magdeburgo, il suo calessino, ed io non dissi di
no, e mi fornii del passaporto necessario.
Per verità il tempo era disastroso; bolliva carne in pentola: la guerra
e i suoi guasti coprivano le campagne: il re s'era già avanzato
coll'esercito fino a Turingen incontro a Napoleone, sin allora invitto.
Noi però ci tenevamo sicuri, nella persuasione che fra un quindici
giorni i Francesi sarebbero cacciati di là dal Reno. Via gli stranieri:
O stranieri, strappate le tende
Da una terra che patria non v'è.
Per qualche guadagno io aveva composto cinque odi pindariche sulle
vittorie de' Prussiani, ove descrivevo tutte le future battaglie,
lasciando in bianco solamente il luogo delle azioni. Erano il non plus
ultra della poesia classica, e potevo far conto di ricavarne cinque
bravi talleri d'argento dai libraj di Berlino. Per tutti i buoni conti
posi il manoscritto de' miei canti trionfali in saccoccia, per essere
pronto, all'occasione, a fare stampare le prime a Magdeburgo. Ahi, come
la speranza era diversa dall'effetto!
Il 14 ottobre, giorno che l'antica potenza prussiana restò annichilata a
Jena e ad Auerstedt, presi congedo da Giulietta: tornato appena da
Magdeburgo, si farebbe il matrimonio, poi si andrebbe alla parocchia.
Per quanto vago di lusinghe ci sorridesse innanzi l'avvenire, non
sapevamo consolarci di questo distacco: pareva non avessimo a rivederci
più. Per verità, come dottore in filosofia, io non dava retta ai
presentimenti; ma come sposo ci avevo una fede scrupolosa.
— Giammaria, Giammaria! Il Signore sia con te!... Vivi, vivi felice; ma
noi non ci rivedremo più — più», esclamò Giulietta singhiozzando. Povera
zitella!
CAPO IV.
Viaggio a Magdeburgo.
Il 15 ottobre uscii contento come una pasqua dalla porta di Brandeburgo,
portando in tasca la mia nomina e i miei cantici decasillabi di
vittoria.
Dovetti, per qualche faccenduola, pernottare a Potsdam; la sera
traversai Sans-Souci, e nel giardino e sulla classica piazza, ove la
Giulietta, fanciulla allora sui sedici anni, mi aveva promesso eterno
amore, rinnovai, dopo nove anni, il mio fedele giuramento.
La notte scrissi fin tardi all'amica mia un'idilio di mie speranze e di
mie immaginazioni, dipingendole la felicità del nostro viver futuro
nella parocchia, lungi dal trambusto del gran mondo. In mezzo ai quali
disegni attaccai della grossa: e deh che sogni dorati vennero a cullare
il mio sonno!
Al domani buon'ora ripresi via, conducendo meco la vettura mia ed un
cavallo de' buoni. Lungo il cammino, ripassava un ad uno i discorsi che
improvviserei al conte di Magdeburgo per mostrarmi a lui dal mio lato
più brillante, e quelli che volgerei a Giulietta nel menarla alla nostra
parocchia.
A Brandeburgo, nell'osteria, tutto era vita! Parlavasi di battaglie da
casa del diavolo che doveano essere successe tra Napoleone e il caro re
nostro, che Dio conservi: l'eroica morte del principe Luigi Ferdinando a
Saalfeld era stata, diceano, vendicata nella più splendida guisa: nelle
vallate della Turingia i cadaveri dei vinti ingorgavano il corso de'
fiumi, niente meno.
— E dell'imperatore Napoleone che n'è?» chiesi io.
— Mah!
— E il maresciallo Lannes?
— Morto.
— E Davoust?
— Morto.
— E Ney?
— Morto: tutti morti.
— Ma è proprio vero?
— È un vangelo».
Chi dubiterebbe di trionfi che si desiderano? Io non capivo più nella
pelle, e tutto fuoco porsi la mano alla saccoccia per cavarne i miei
inni trionfali: quando un vecchio sedutomi a spalla, trasse di bocca la
pipa e mi soffiò nell'orecchio, ma con bassissima voce: — Magaridio la
fosse così! ma io so che le sono sparampanate, e che ce n'è toccata una
grossa.»
Queste parole, potete immaginarlo, m'inchiodarono la mano nella tasca, e
lasciai i lirici canti in luogo e posto.
Una grossa! ed io vo a Magdeburgo. Non potrebbe succedere che Napoleone
e la grande armata venissero a situarsi fra Giulietta e me? Un brivido
febbrile mi cercò dal capo alle piante.
Ma, eccetto il vecchio, tutti faceano gavazza nella sala dell'albergo,
con un patassio, con un abbandono tale; ciascuno descriveva la pugna, la
vittoria, la fuga con tante particolarità che avresti detto, e' l'han
vista proprio cogli occhi loro. Ond'io, senza cercare se fosse verità o
buccia di porro, mi adagiai nel parere de' più, e andai a dormire con
tanto di cuore.
CAPO V.
Terribili presentimenti.
Il giorno appresso scontrai di molti corrieri, che pareano venire da
Magdeburgo o dall'esercito, difilandosi a Berlino a spron battuto. Il
diplomatico silenzio di questi messaggieri non mi pronosticava niente di
consolante, perchè la consolazione è naturalmente espansiva.
In non mi ricordo qual villaggio fra Ziesar e Burg un subisso di gente
stava raccolto; e quando io m'avvicinai, non s'insognavano di farsi da
banda. Allora solo distinsi, innanzi ad un gran casamento, de' cavalli
sellati, e alle finestre della casa molti ussari prussiani.
— Ohe, cosa c'è di nuovo?» chiesi a quelli che m'erano intorno, fermando
il calessino.
— Ah, cara lei! ah, Signor benedetto!» esclamò una vecchia paesana. —
Come, non sa? se non si discorre d'altro. Il re ha perduto tutto: e non
son ancora boccie ferme: i Francesi arrivano a gambe: fra un'ora forse
saranno qui.»
Naturalmente io non le aggiustava piena fede; pure volli informarmi
meglio, e fattomi verso il casamento, saltai di calesso, e v'entrai. Le
camere formicolavano di gente; ussari, paesani, impiegati alla rinfusa,
pipando, bevendo, narrando, ciaramellando: ma tutti col viso lungo,
buzzo buzzo. Ora parlavasi della disfatta de' Prussiani e
dell'avvicinare de' Francesi; ora d'un Maggiore che in grazia d'una
ferita non potea continuare la strada a cavallo, ed avea bisogno d'una
vettura: ne volevano una, e s'erano spediti messaggieri da tutte le
bande a cercarne.
Non sapendo quanto n'avessi in tasca dalla paura, più di là che di qua,
io mi sedetti ad un cantuccio della tavola, e feci portar una fiaschetta
di birra per aver comodo di sentire più giusto l'occorso, e a norma di
quello regolarmi.
Un dieci minuti dopo, gli ussari sgombrarono e salirono a cavallo: ed io
mi feci alla finestra a vederli partire. E li vidi in fatto sfumare, ma
che? nel bel mezzo di loro vidi andarsene il calessino mio, cioè
prestato a me dall'amico di Berlino. Ebbi un bel gridare dalla finestra
— Ohe! Alto là! Fermatevi! cotesta carrozza è mia di me;» fra un minuto
ogni cosa era ita in dileguo. A furia di spintoni m'apersi un varco tra
il pigio della folla, e uscii di là entro: ma il posto era vuoto; il mio
biroccino andato a Dio lo rivedi.
— Non la si sperpetui: la stia pure di buon animo,» mi disse uno
smingherlino; che davasi tutta l'importanza di un impiegato. — Il signor
Maggiore non ci andrà gran pezzo che rimanderà il calesso. E' non lo
prese che per condursi fino alla città più vicina. Quel povero signore
sdolorava delle sue ferite, e ha pigliato il miglior partito per
calmarle.
— Ma chi è questo Maggiore!» chies'io.
Nessuno lo conosceva.
— E dove diavolo va col mio biroccino?»
Nessuno lo sapeva.
Corsi al villaggio sulla direzione del calessino e della sua scorta;
prima d'arrivarvi, la strada si spartiva in tre o quattro altre, ma per
nessuna riuscii a trovare vestigia sicure de' fuggitivi: in nessuna
parte rinvenni chi me ne sapesse dire gallo nè gallina. Tornato, tutti
stavamo ancora dinanzi a quel casone, dove entrai anch'io scalmanato e
aggirandomi che parevo un terremoto: ma nessuno badava a me più che alla
terza gamba, tutti pensando all'avvicinarsi de' proprj malanni, al
sovrastare de' Francesi.
— La scriva; la rediga il processo verbale dell'ingiustizia fattami.»
diss'io all'impiegato. — Tutto il paese e lei stesso furone testimonj di
questo atto arbitrario. La scriva che, in conseguenza del sopruso del
signor Maggiore tal dei tali, io Giammaria mi vedo costretto a fermarmi
qua finchè torni il mio calessino, e che pretendo esser risarcito del
danno emergente e del lucro cessante.»
Lo scrivano fece il suo dovere a meraviglia; io ritirai copia del
processino, e la riposi coi canti trionfali. La notte passò; passò il
domani; l'impazienza mia era al colmo, ma il calesse non sapeva tornare.
Il 19 ottobre spuntò. Giusti Dei! e l'illustrissimo signor conte
dell'impero che mi aspettava a Magdeburgo? Chiesi a nome del Maggiore
una carrozza, o, almen che fosse, un cavallo per andarmene ai fatti
miei: ma il Maggiore innominato godea sì scarso credito, che nessuno
volle anticiparmi nulla a nome suo.
Che fare? Qui non c'è rimedio, e bisogna avere una buona pazienza.
Ringraziato Dio che io portava con me tutti i miei beni, e potevo
camparmela: ma la mia guardaroba se n'era andata col signor Maggiore. Ed
all'amico di Berlino cosa dare per la vettura ed il cavallo? come
comprare altri abiti, altra biancheria? dove prendere da far con
Giulietta il viaggio sino alla parocchia?
Certo la era una prova ben dura per la fede d'un capellano cristiano.
Tagliai dalla siepe un bravo bastone di spino, e, così col cavallo di
san Francesco, mi posi tra le gambe la strada per Magdeburgo. Il signor
conte verrà in soccorso mio, pensavo tra me e me; e canterellavo
traversando una landa non coperta che di macchie e di cespugli.
CAPO VI.
Gran ritirata.
Mi abbattei in spizzichi di soldati prussiani di tutti i reggimenti, chi
con armi, chi senza; vivandiere, carri da bagagli, che zitti e chiotti
mi passavano allato: nè a me bastò il coraggio di volgere la parola a
questi prodi sfortunati.
— Ehi, sor dottore, dov'è ben avviato?» gridò una voce, in quella che,
nel giardino di Burg, io mi trovavo in mezzo ad una truppa di soldati.
Sebbene fossero anni domini che nol vedevo, pure lo ravvisai per un
tenente, che a Berlino stava nella stessa casa dove io, e che solevo
chiamarlo Carlomagno, perchè questo capameno faceva discendere la sua
famiglia in linea retta col gran conquistatore.
— A Magdeburgo, per servirla, signor tenente.
— A Magdeburgo? Eh! voglio dirle bravo se ci arriva, sor dottore; i
Francesi vi sono già accampati con una bagatella di cencinquantamila
uomini, sputi la voglia, e torni con noi, se mi vuol dar ascolto. Tutto
è perduto: Brunswich è morto; Mollendorf è prigioniero: del re non si sa
che diavolo ne sia: il corpo di riscossa del principe di Würtenberg fu
battuto jeri ad Alla.
— Ma tant'è, io devo essere dentro oggi a Magdeburgo.
— Sì? La corra dunque a gettarsi sulle bajonette de' Francesi. Buon
viaggio, sor dottore, e buona tornata.»
Mentre Carlomagno finiva con questo dire, due dragoni accorsero a spron
battuto gridando: — Il nemico è già a Wittenberg, sull'Elba.» Tosto la
fanteria raddoppiò il passo; ed io, non sentendomi di sostenere solo
soletto l'affrontata dei cencinquantamila accampati a Magdeburgo,
accettai la compagnia del tenente, e voltai tanto di spalle
all'illustrissimo signor conte dell'impero.
Addio, parocchia mia; addio, mie nozze; addio, paradiso di mie felicità!
Benchè fossi già innanzi cogli anni, la fortuna di simili non me n'avea
mai giocato. La battaglia di Jena scompaginava tutte le mie speranze
quand'erano più brillanti che mai, e mi faceva tornar dottore, celibe e
povero in canna.
Io non risolveva a quale tra me ed il re avessero recato danni maggiori
le vittorie di Napoleone. Ma la fortuna tiranna trovò in me la costanza
usata; finchè mi restava qualcosa a perdere, io era tutto inquietudine,
tutto paure. Ora che, spiantato di ramo e di radice, neppure a vender
l'abito che portavo indosso avrei potuto pagare all'amico il cavallo e
la carrozza, mi tornò il buon umore, e me n'impippavo dell'Olanda. S'è
fatto primiera con peggiori carte.
CAPITOLO VII.
Il Cappellano.
— Presto, avanti: io seguo la bandiera di Carlomagno,» dissi ridendo al
tenente; — e vada come la sa andare, sotto la generosa sua protezione
fuggo sino a Berlino.
— Potenzainterra! non la è poi così disperata. Ho meco ancor mezza
compagnia... tutti fior di Prussiani che fumano, e che non avrebbero
paura davanti a una legione dell'inferno. Uh, avessi solo un cannone!
non darei un passo indietro al cospetto di due reggimenti francesi. Se
fossi stato io al posto del duca di Brunswich a Jena, o che sì o che no
la battaglia sarebbe andata come è andata. Venite, dottore: io vi nomino
gran cappellano della mia mezza compagnia.»
Ogni volta che si traversasse un villaggio, il tenente faceva sfilare i
soldati, reliquie di tutti i reggimenti li disponeva per colonna, ed
orgoglioso del suo grado, stava diritto impalato come un i, finchè a
suon di trombe il suo esercito sfilava innanzi ai paesani. Quei che non
avevano armi seguitavano umilmente dietro a' bagagli; e me, come
cappellano quest'era il mio posto naturale.
Ben tosto legai un'amicizia da spartir colle pertiche con la vivandiera,
padrona d'un baroccio. Questa brava creatura camminava a piedi, traendo
per la cavezza una rôzza sfinita; e perchè non le moriva la lingua in
bocca, essa mi contò per filo e per segno la storia dei fatti di
Saalfeld e d'Auerstedt, censurando le posizioni e i movimenti dei
Prussiani su questi due campi: alle quali critiche di strategia io non
aveva a ridir nulla, io che mi sentivo capacissimo di perdere una
battaglia, fossi ben a capo di dugentomila soldati.
Questa commilitona si chiamava Elisabetta, e quel ch'è curioso,
acconciava il capo al modo che si vuol dipingere la regina d'Inghilterra
di questo nome: avea il viso e tutto contro tutte le tentazioni, ma umor
allegro, spiritosa, pizzicava di letteratura, e cantava canzoni
berlinesi con una voce da passare le orecchie. Il suo spirito e la sua
acquavite le davano non poca influenza sulla truppa nostra, e le
schiudevano l'accesso al consiglio di guerra, dove mettea fuori il suo
partito ogni qual volta si trattasse di determinar la marcia del nostro
convoglio.
Il lento passo della sua rôzza, le lusinghe dell'acquavite e il suo
ascendente sovra i soldati, la rendevano il vero capo nostro, tuttochè
marciasse alla coda: e per non isfaticar il suo ronzino, non facevamo
più di dieci o dodici miglia al giorno. La notte ci fermavamo nei
villaggi, dove i soldati godevano tutta la libertà: ogni due giorni si
teneva consiglio.
Per dire il vero, di questo passo non s'andava innanzi gran che: ma di
giorno in giorno l'esercito aumentava di alcuni soldati che
s'intruppavano con noi, in modo che arrivammo a contare dugento uomini,
fra i quali due dragoni e quattro trombetti.
CAPITOLO VIII.
L'Ajutante generale.
La sera del quarto giorno Carlomagno mi trasse in disparte: aveva capito
da un pezzo che in quel suo capaccio maturava qualche magnanimo disegno.
— Sor dottore (mi disse), alla guerra si fa passata. Io sono tenente già
da otto anni: oggi sarò generale, o mai più. Comando dugento uomini a un
bel circa: innanzi di arrivare all'Oder, ne avrò probabilmente uniti
duemila, che conduco al nostro re. Ma prima qualche eroica impresa.
Piombo colla mia truppa sulla Sassonia, e detto fatto prendo il nemico
alle spalle.
— Come, come, non volete andare a Berlino?» l'interruppi io, pensando
alla mia povera Giulietta.
— No: io volto a diritta, verso Mittenwalde. Dottore, il posto di
cappellano non vi sta bene: ho pensato che sareste un bravo soldato. Vi
do un cappello militare, un mantello turchino, una brava spada e un buon
puledro; e sarete mio ajutante generale. So che conoscete le matematiche
e disegnate a meraviglia: vi adopererò nelle ricognizioni ed a levare i
piani.»
Avrei io osato contraddirgli? Accettai il posto di ajutante generale,
perchè mi procurava il bene di sedere sul dosso di un cavallo, col cui
mezzo speravo veder più tosto la Giulietta: lodai la confidenza di
Carlomagno, e mutai il mio abito nero collo spadone di san Paolo. La
sera stessa il generale passò in rassegna il suo esercito, nominò nuovi
capitani, caporali, tenenti e tutto; mi presentò come suo ajutante
generale, e sviluppò il suo disegno ai Prussiani meravigliati.
— Sì, camerati miei, (gridò alzando ambe le braccia) il dado è gettato.
Noi colle imprese nostre faremo il nome prussiano terribile per sempre.
Lo spirito del gran Federico ci anima: la patria insanguinata e deserta
ci guarda... Camerati, e noi soffriremo d'essere ridotti ad un indegna
servitù? Quale sceglieremo? vittoria e fama nell'universo, od una
miserabile esistenza sottomessi a stranieri? Quelli che vogliono essermi
fedeli, che vogliono seguirmi per vendicar il loro Dio, il loro re, la
patria loro, ripetano con me: Vittoria o morte.»
Infiammati a questo discorso, sbolgettato con nobile ardore, i più
gridarono — Vittoria o morte.» Solo alcuni, ustolando gli alberghi di
Berlino, gridarono con un comico entusiasmo — Vittoria o pane.»
La regina Elisabetta era fra i malcontenti: tutta versata per questa
risoluzione presa senza consultarla, trasse fuori la tabacchiera, la
rotolò fra le dita, l'aperse, poi la guardò con aria cupa e minacciosa.
Il domattina eramo poco lontani da Brandeburgo: Carlomagno camminava
innanzi con una maestà proprio imperatoria; io dietrogli giù giù sopra
una rôzza che l'ultimo villaggio dove pernotammo era stato costretto a
fornirci. A mancina stendevasi la strada grossa di Berlino; a destra il
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