Racconti e bozzetti - 24

pistacchio, porta un _fisciù_ nero al collo, e le maniche a sbuffi di
velo bianco che lasciano scorgere due braccia poco meritevoli di essere
effigiate in marmo dallo scalpello di Fidia. Ha circa quarant'anni,
è magra, appuntita, nè grande, nè piccola, di carnagione olivastra,
di capelli scuri, piuttosto radi, che cominciano a inargentarsi qua e
là. La sua fisionomia è volgarissima, il suo sorriso insulso, porge la
mano tutta d'un pezzo, obliquamente, nel modo che i barcaiuoli sogliono
immergere il remo nell'acqua, e appena data la ritira, con una certa
furia e come se volesse dire: — Via, anche questa è fatta. — Parla....
ah! è graziosissima, vorrebbe parlare la lingua e non sa, parlerebbe il
dialetto e non può.... sua figlia glielo impedisce....
Sì, senza dubbio, la divinità della casa è Romilda.
La musa, che non è ancora ventenne, veste un abito bianco, succinto,
accollato, con le maniche abbottonate ai polsi: ha capelli neri che le
scendono a ricci sulle spalle e sul collo, il naso piuttosto grande,
e occhi che non sarebbero brutti se non cercassero troppo sovente
di parere ispirati. È magra come ben si addice ad una che si ciba di
poesia, ha statura giusta, e cammina con una singolare affettazione
tenendo sollevato con la mano il lembo anteriore del vestito, e
appoggiando appena la punta del piede quasi sdegnasse ogni contatto con
la terra. Parla con lentezza, calcando le doppie e facendo grande abuso
di diminuitivi. Allorchè apre la bocca lei, i suoi genitori tacciono
e rimangono estatici. Se la signora Agnese intromette qualche frase
nel discorso, la dotta Romilda è sulle spine, e quando la genitrice
si lascia sfuggire una sconcordanza (lo che avviene sovente), la
giovinetta è piena di fremiti grammaticali, che talora si rivelano con
una correzione detta a fior di labbro, ma stizzosamente.
— Ed è la prima volta che viene in questo _paesuccio_? — chiese Romilda
con una intonazione patetica.
— La prima, — io risposi, — e mi pare molto allegro.
— Oh mio Dio! polvere e fango, un soggiorno impossibile.
— Tu sei molto severa pel tuo paese, — osservò timidamente il signor
Meravigli.
— Non favellarmene, o babbo, — proruppe ella con uno scontorcimento
che voleva essere grazioso; — a voi altri che non sapete alzarvi un
_pocolino_ più in su delle vostre _faccenduole_ può anche parere, ma
chi chiude in seno anima d'artista qui deve morir d'asfissia.... Già
prevedo che questa sarà la mia fine. —
E così dicendo lasciò cadere la testa come un limone
Troppo grave al picciuol che lo sostiene,
e incrociò le braccia sulle ginocchia in atteggiamento di vittima.
I coniugi Meravigli parvero dolorosamente colpiti da questo lugubre
pronostico e mi guardarono quasi chiedessero conforto a me.
— Però — io osservai alla povera Saffo — la solitudine è propizia agli
studî, ed ella, che ama la poesia, può attendere al culto delle Muse
meglio qui che tra i clamori di una gran città.
— È quello che mi scriveva ier l'altro anche.... (e nominò un letterato
italiano di qualche grido) — ma questa non è la solitudine. Oh così pur
fosse! Qui mi sembra di essere a Recanati come il gran Leopardi che vi
logorò la sua anima. —
Povero Leopardi, io pensai, che similitudine lusinghiera per te!
— Veda, — interpose il signor Meravigli, — io potrei anche adattarmi
a mutar paese; ma oltre che difficilmente troverei un luogo ove fossi
così ben voluto da tutti, autorità e cittadini, come son qui, gli è che
non so dove andare. I miei poderi gli ho in questi dintorni, gli altri
due miei figliuoli che, pur troppo! non hanno il talento di Romilda, si
compiacciono in questa vita mezza di campagna e mezza di città....
— Via, via, smettiamo; — disse Romilda con un sorriso smorto e con
l'aria di persona che è sempre avvezza a sacrificarsi per gli altri.
— E lei, signor Garleni, coltiva pure le lettere? E, se è lecito, si
occupa di poesia lirica, didascalica, o epica? —
Mi affrettai a rispondere ch'io non ero altrimenti un vate, ma solo
scribacchiavo di tratto in tratto qualche bagattella, e per lo più in
prosa.
— Ah! la prosa, lo confesso, mi pare non basti alle anime di fuoco. Le
mie _cosuccie_ io le ho sempre scritte in versi.
— E gli farai sentire qualcheduno de' tuoi lavori al signor cavaliere,
non è vero, Romilda? Son certo ch'egli ne avrà piacere. —
Messo così fra l'uscio e il muro, sfido io a risponder di no. I
paladini della sincerità ad ogni costo mi fanno una rabbia da non
dirsi. Se a questo mondo si dovesse spiattellare tutto quello che si
pensa, io credo che non vi sarebbe cittadino, il quale potesse passar
ventiquattr'ore senza essere picchiato. Non nacqui con la voluttà
del martirio e debbo umilmente riconoscermi reo di alcune piccole
transazioni. Non mai a fine inonesto, lo giuro; non mai una lusinga
mi fruttò onori o ricchezze. Detto ciò a scarico di coscienza, tiro
innanzi.
— Il signor Meravigli si è bene apposto, — io risposi, mettendo insieme
una frase cruschevole per essere all'altezza della situazione. — Se la
signora Romilda volesse aver la bontà.... —
La signora Agnese dopo i primi complimenti era rimasta muta come
un pesce. In quel momento però ella stimò opportuno di rompere il
ghiaccio. Avvicinò la sedia a quella della Romilda, e, passandole un
fazzoletto sulla fronte, uscì in queste parole:
— Mi sembra che tu _sei_....
— _Sia_, — disse Romilda.
— Che tu sia un po' sudata, — continuò la signora Agnese senza
scomporsi. — Sarebbe forse meglio che _ti_ leggessi più tardi....
— _Tu_, — proruppe la giovinetta con mal celata impazienza.
— Per esempio, dopo pranzo.
— Sì, sì, — esclamò il signor Meravigli, — è verissimo; adesso fa
troppo caldo. Dopo pranzo ci sarà anche qualchedun altro.
— Fate voi, — disse Romilda. — Del resto son _cosine_, sa. Fu troppo
buono il.... (e pronunziò il nome d'un altro letterato), il quale me
ne scrisse quasi entusiasticamente. Anzi credo d'aver la lettera nel
taschino del vestito. —
Com'era naturale, l'aveva e me la porse.
Era un panegirico.
— Vedo ch'ella ha il suffragio di critici distintissimi....
— Oh! non mi gonfio per questo. So di far male e desidero la censura.
Nessuno è più tollerante di me verso la critica. Non mancarono
i biasimi alle mie poesie. Chi le trovava oscure, chi esagerate,
chi una cosa e chi l'altra. _Poveracci!_ Come s'io non avessi uno
stile perspicuo, e non mi studiassi soprattutto di esser naturale.
Dicano pure quello che vogliono, ma ch'io non sia chiara, ch'io sia
esagerata!... —
Così la signora Romilda Meravigli dava prove luminose della sua
tolleranza.
Il dialogo andava languendo. O la dotta giovane si era disingannata sul
mio conto, o ella era occupata nella gestazione di qualche capolavoro.
La madre di lei colse l'opportunità per uscire del suo silenzio e dirmi
a bassa voce, in un linguaggio che avrebbe lasciato largo campo alle
osservazioni della figliuola, quanto ella fosse superba di Romilda, e
quanto dissimile da quel portento fosse l'altra sua prole.
— Non a tutti è concesso essere uguali, — diss'io filosoficamente.
— È quello ch'io ripeto sempre a Romilda. —
Non potendo dimenticare lo scopo della mia gita a X***, mi permisi di
rinfrescarne la memoria al padrone di casa.
Egli si drizzò tutto d'un pezzo come quei fantocci, sotto cui si fa
scattare una molla, e mi disse:
— A sua disposizione, signor cavaliere. Basta prendere il cappello ed
andarsene. —
Com'io mi alzavo in piedi, Romilda si scosse, arrovesciò alquanto il
capo sulla spalliera della seggiola e mi porse languidamente la destra
con un fare sentimentale. — A rivederci, signor Garleni. —
La signora Meravigli venne ad aprirmi l'uscio, si lasciò stringer la
mano con la stessa annegazione di prima e mi disse elegantemente: — _Si
conservi._ —
Mutar noia è, fra le disgrazie, una delle minori, e quando io uscii di
quella stanza mi parve di respirare. Il cortile era deserto, e solo una
gallina passeggiava su e giù con grande prosopopea, sostando di tratto
in tratto come a far le sue riflessioni, poi scrollando vivamente il
capo e tirando innanzi. Forse ella pensava alle compagne che, poco
addietro, applicavano seco il metodo peripatetico, ed ora bollivano
nella pentola in mio onore.
Il pretore era un uomo molto loquace, il quale mi porse tutte le
informazioni che mi occorrevano; ma mi fece perdere in ciarle tre
quarti d'ora, abbenchè io ad ogni pausa tentassi d'andarmene. Perchè
il degno funzionario aveva tra gli altri meriti quello di tener le
mani sul vestito dei suoi interlocutori, sia levandone qualche filo
bianco che vi si trovasse per avventura, sia afferrandoli per la
falda acciocchè non partissero. Ogni volta ch'io accennavo a fare un
movimento sulla seggiola, egli prendeva un lembo del mio soprabito,
ond'io dovevo acconciarmi all'immobilità per non mettere a repentaglio
una parte così importante dei miei indumenti.
Mentre l'egregio funzionario parlava, il signor Meravigli ascoltava con
aria di soddisfazione, e non già per riverenza ch'egli avesse di quel
personaggio, ma sibbene perchè quel personaggio cantava le lodi di lui
su tutti i tuoni. Ed io appresi in questo modo che il signor Meravigli
era comandante della Guardia Nazionale, e ch'era stato sindaco e tale
avrebbe potuto essere ancora, solo che lo avesse voluto, ma era troppo
modesto.
— Gran virtù la modestia, — soggiunse il pretore; — ma in uomini come
il signor Meravigli la modestia è un peccato. —
Il signor Meravigli strinse con effusione la mano del suo panegirista.
— Del resto — disse il signor pretore, socchiudendo gli occhi con
maliziosa importanza — del resto le cose municipali qui non vanno bene.
Bisognerebbe che tutti fossero come il nostro signor Antonio. —
Il signor Antonio fece un mezzo inchino biascicando un lunghissimo _Oh!_
— Abbiamo già avuto in due anni cinque crisi municipali, provocate
tutte da un monumento.
— Un monumento! — esclamai.
— Sicuro; d'un nostro concittadino fucilato nel 1849 dagli Austriaci.
Non c'è stato mai verso di mettersi d'accordo sul luogo, in cui
collocarlo.
— Ma scusi, — obbiettai, — non si va a' voti?
— Sì signore; ma non essendovi nel nostro regolamento comunale alcun
articolo che vieti di riproporre in Consiglio le cose già votate,
il giorno dopo una decisione presa in un senso i fautori del partito
opposto si presentano compatti, rimettendo all'ordine del giorno la
loro proposta, e trionfano.
— Così la non si finisce più, — diss'io.
— È precisamente quello che ho sempre detto.
— E nemmeno i giornali vanno mai d'accordo, — osservò il signor
Meravigli.
— Ah! si stampano anche qui giornali?
— Sicuramente; due: il _Riscatto_ e la _Rinnovazione intellettuale_.
Il primo esce la domenica ed è governativo; il secondo si pubblica
il giovedì, e quantunque non si occupi di politica, si vede che tende
all'opposizione. Non si possono soffrire, ma vanno a gara per inserire
nelle loro colonne i versi della signora Romilda. —
Il signor Meravigli s'inchinò.
Felicissimi abitanti di X***! dissi fra me, che possono leggere nelle
loro due effemeridi i parti poetici di sì illustre scrittrice.
Quando a Dio piacque, ci fu dato muoverci. Compresi che il pretore era
anch'esso uno dei commensali, e che tali sarebbero pure altre persone
ch'io non avevo vedute e che rappresentavano l'eletta del paese. Non
ti dispiaccia, o lettore, se cominciando da quel momento io ruminai
un brindisi, che però prometto e giuro di non trascrivere su queste
pagine.
Le bellezze di X*** non mi trattennero gran fatto. Il signor Meravigli,
mentore assiduo ed infaticabile, mi condusse nella cattedrale, nel
teatro, nel casino di società, nell'accademia dei _Ben Pasciuti_,
nel viale di platani ove tre volte per settimana suonava la banda
cittadina, e ove almeno c'era un po' di moto e d'allegria.
Fatta questa gita, nella quale io manifestai il mio alto aggradimento
delle cose vedute, ci avviammo nuovamente verso casa Meravigli.
Erano fermi sulla soglia due degl'invitati, il farmacista Storni e
un personaggio nuovo, il dottore Trigli. Se i cappelli avessero una
fisonomia, io direi che il lucidissimo cilindro del farmacista pareva
altrettanto sorpreso di trovarsi su quella testa, quanto pareva la
testa di portar quel cappello. Il povero Storni aveva sempre le mani in
moto per rassettarselo, e le due ciocche rossiccie, che spuntavano con
tanta grazia di sotto all'usato berretto, si trovavano invece a disagio
con quell'insolita acconciatura. Era evidente che al signor Storni,
come a Napoleone III, non conferiva il _coronamento dell'edificio_.
Nulla dirò adesso del dottore: mi parve tosto parlatore facondo ed era
di fatto, nè aveva la maldicenza meno pronta della parola.
Nel salotto ove, a mo' di presentazione, mi fu sciorinata una
filastrocca di nomi, i raccolti si dividevano in due gruppi. Da una
parte, intorno a Romilda, gli uomini dotti; dall'altra, intorno alla
signora Agnese, i personaggi di minor rilievo. Fra questi mi colpì
primo un fanciullo dai dieci agli undici anni, ch'era quello appunto
ch'io aveva visto il mattino far le boccaccie dietro una porta.
Gli stava presso una ragazzina forse tredicenne che si lasciava
sermoneggiare da una donna di mezza età, la nobile signora Prassede
Altamura, discendente dagli antichi feudatari d'un borgo vicino, e
risoluta di non maritarsi fintanto che un patrizio d'alto lignaggio
non volesse offrirle la sua mano e un nome che valesse quello degli
Altamura. Non essendosi presentato nessuno, ella conservava il bene
prezioso della sua verginità, tanto più secura da ogni insidia, in
quanto che ella era brutta e senza quattrini. All'altro lato della
signora Agnese sedeva un signore attempatello con pochi capelli grigi
aderenti alle tempie, senza un pelo di barba, con certi occhi scimuniti
che parevano scattare fuori dell'orbita e con ciglia rade e quasi
invisibili. Quella fisonomia così squisitamente imbecille mi restò
impressa per lungo tempo. La mi ricordava qualche cosa ch'io non sapevo
definire, finchè, giorni fa, al pranzo di nozze d'un amico, visto
imbandire un grandissimo pesce lesso, balzai sulla seggiola con un moto
invincibile di riconoscimento. Era ben desso, era il signor Baldassare
Alieni, possidente di X***; o se non era lui, era per lo meno il suo
fratello di latte.
Vorrei trattenermi in questo crocchio abbastanza comico, dove la
signora Agnese trovandosi lontana dalla sua Romilda parla il dialetto;
vorrei esaminare lo sgarbatissimo Toniotto, disperazione de' suoi
genitori; vorrei soprattutto studiar davvicino la Eloisa, sorella
minore della sapiente Romilda, tenuta in poco conto dalla famiglia,
eppure dall'aspetto simpatico, e pieno d'una malinconia soave.... ma
l'astro della casa mi chiama: eccomi a' tuoi piedi, o Romilda!
— Il direttore della _Rinnovazione intellettuale_ desidera una speciale
presentazione, — disse la dea, additando con aria di regina un uomo
di mezzana statura, vestito di panni neri, alquanto sgualciti. — Il
dottor Augusto Romoli si occupa specialmente di questioni didattiche,
— ella soggiunse; poi inchinò alquanto il capo, appoggiando la
fronte su due dita della mano sinistra, e sospirò: — Oh le venture
generazioni! —
Posto in tal modo il problema educativo, si tacque.
Se io avessi veduto nella città di X***, nonchè un fiume, un corso
d'acqua qualunque, avrei creduto fermamente che il signor Romoli ne
fosse uscito in quel punto. La chioma nera, lunga e distesa, la barba
pur nera che gli adombrava buona parte del viso e i cui peli scendevano
in linea convergente fino ad unirsi in un pizzo a quattro dita sotto il
mento, i vestiti lucidi per tarda età ed attillati alla persona, tutto
insomma gli dava l'aspetto di un annegato.
Non istetti molto ad accorgermi che il signor Romoli era di opinione
repubblicano.
— Miserrima Italia! — egli sclamò — che credi di esser libera ed
una. —
Osservai rimessamente che, dacchè avevamo anche Roma, quanto all'unità
non c'era obiezione possibile.
— Che unità! che unità! — gridò egli accendendosi in volto. — Unità
di schiavitù! unità di vergogna! Dov'è il rispetto agl'ingegni onde
vanno segnalati i popoli degni d'avere una patria? Eh, signore! Io
lessi quattro anni fa un discorso sulla _Rinnovazione intellettuale in
Italia_, lo mandai ai quattro Ministri dell'istruzione pubblica che si
sono succeduti.... crede ella che se ne siano nemmeno accorti? Eppure
insigni uomini, a cui trasmisi quel mio lavoro, gli fecero lusinghiere
accoglienze, come può vedersi anche nell'ultimo numero del mio
periodico, che mi pregio di offrirle insieme con un esemplare del mio
discorso. —
Così dicendo, mi porse entrambi i preziosi oggetti. Sfogliai il
giornale che si pubblica in fascicoli di otto pagine, e mi fu argomento
di non lieve maraviglia il vedere che gli articoli s'intitolavano quasi
tutti allo stesso modo: _Della rinnovazione intellettuale, discorso
letto dal professore Augusto Romoli all'Accademia dei Ben Pasciuti
il 4 maggio 1867. — Giudizî d'illustri Italiani_; oppure: _Sulle idee
pedagogiche del professore Romoli — lettera al Direttore_; o infine:
_Sulla necessità di riformare l'istruzione in Italia secondo le idee
esposte dal professore Romoli nel suo discorso del 4 maggio 1867_. Onde
mi persuasi sempre più dell'esistenza dei _ruminanti intellettuali_.
Chiamerei con questo nome coloro, e non sono pochi, i quali avendo
un giorno della loro vita esternato un'idea, o messo in carta quattro
righe, o pronunziato in un'adunanza poche parole, fanno di quell'idea,
di quello scritto, di quelle parole il perno della loro esistenza e vi
tornano su le migliaia di volte, tanto per riuscire a persuadere anche
gli altri che hanno realmente o detto o fatto qualche cosa di grande.
Costoro abusano della facile condiscendenza degli uomini illustri, che,
quando si sentono lodati, lodano, e si cacciano attorno ai potenti
ed ai celebri mendicandone lettere e dichiarazioni lusinghevoli, di
cui si fanno sgabello per mettere in mostra la loro stolida vanità.
E i potenti ed i celebri, pur di levarsi la seccatura, profondono a
cotali pigmei incoraggiamenti, onde il campo degli studî si popola di
miserabili ortiche. Che il professore Augusto Romoli non abbia trovato
ascolto presso il Governo, è per me oggetto di gradevole meraviglia, e
proporrei una lapide commemorativa con la seguente epigrafe:
AI QUATTRO MINISTRI DELL'ISTRUZIONE PUBBLICA
CHE NON DIEDERO RETTA AL PROFESSORE AUGUSTO ROMOLI
IL POPOLO ITALIANO
RICONOSCENTE.
Mentre il signor Romoli mi spiegava il suo concetto di riforme, mi era
seduto dall'altro lato il signor Guglielmo Osteolo, cavaliere de' Santi
Maurizio e Lazzaro, uomo ricco, negoziante accorto, che si spacciava
come protettore delle lettere e delle scienze. Egli approfittò
della prima pausa del dottor Romoli per chiamare sopra di sè la mia
attenzione.
— Veda, signor cavaliere, — egli mi disse, — io non so intendere
coloro che, per essere negli affari, fanno divorzio dagli studî. Nei
limiti delle mie forze ho sempre cercato, lo confesso, di coltivarmi lo
spirito, specialmente per quanto riguarda le discipline economiche. E
poi, per chi sappia guardar le cose un po' a fondo, il commercio non si
associa egli benissimo con gli studî?
— Senza dubbio, — risposi.
— Certo che bisogna saperlo esercitare, bisogna metterci dentro qualche
cosa che non sia il vile interesse. —
Guardai attentamente il signor Osteolo. Egli non mi aveva aspetto di
filantropo.
— Posso dire senza ostentazione — continuò questo negoziante modello
— che negli affari ho sempre cercato piuttosto il decoro che l'utile.
Avrei potuto ritirarmi da molto tempo, chè, grazie al cielo, una
discreta fortuna l'ho messa da parte; ma (che vuole?) l'idea di
giovare al paese, di dare un buon esempio, mi ha consigliato a restare.
Sono così pochi quelli che lavorano in Italia! E glielo assicuro in
coscienza mia, quando vedo altre case che sorgono e mi contrastano
il terreno, non ne ho dispiacere: tutt'altro. Purchè lo facciano con
delicatezza, con onestà, sarei io il primo a stringer loro la mano,
dicendo: — Bravissimi! Ben fatto, per Dio!... Sono così; non c'è merito
alcuno, ma sono così. —
E nel pronunziare queste parole apparve tanto commosso della propria
bontà ch'io sono sicuro che, se un uomo potesse baciar sè medesimo,
il signor Osteolo in quel momento si sarebbe baciato con la massima
effusione.
— Del resto il signor Romoli sa s'io faccio quanto posso per favorire i
veri ingegni. —
Il signor Romoli s'inchinò in atto di approvazione, dicendo: — Così
fossero tutti!
— Le mie occupazioni mi conducono in giro per la provincia, e posso
assicurare che non v'è caffè dei villaggi vicini ch'io non abbia
associato alla _Rinnovazione intellettuale_. Il giornale è buono,
tende a rialzare la moralità e l'intelligenza pubblica; dunque va
diffuso: questo è il mio ragionamento. E se ciò mi costa qualche
sacrificio pecuniario, sia pure. Non dobbiamo tutti sacrificarci pei
nostri simili? E poi, sono fatto così; non c'è merito, ma son fatto
così. —
E il signor Osteolo e il signor Romoli si diedero una stretta di mano
tanto vigorosa, che al negoziante scivolò di tasca un piccolo involto
di carte.
— Scommetterei che sono fogli di pensione comperati al cinquanta per
cento, — mi bisbigliò all'orecchio il dottor Trigli che stava ritto
dietro la spalliera della mia seggiola.
La malignità umana è pur grande. Ecco un uomo che io mi sarei dipinto
come un martire del lavoro e della benevolenza, se il ghigno amaro di
Mefistofele non fosse venuto a cacciarsi tra me e la mia visione e non
le avesse dato di botto le linee poco seducenti di uno strozzino.
Discorrere di tutti i personaggi che si trovavano nel salotto mi
parrebbe superfluo. Oltre a quelli già menzionati v'era il capo
stazione, a cui il signor Meravigli dimostrava la necessità di avere un
sindaco, schermendosi delle offerte che gli venivano fatte, acciocchè
accettasse egli medesimo la carica. Due signori che m'erano stati
presentati, ma il cui nome m'era sfuggito, subivano le dissertazioni
del signor Romoli e intesi che l'uno di essi diceva:
— È chiaro; così non si può andare innanzi. —
La signora Agnese e la sua vicina, avendo probabilmente esaurito ogni
soggetto di dialogo, guardavano insieme il soffitto, la Eloisa si era
dileguata, il signor Baldassare Alieni teneva l'occhio rivolto con una
impazienza mal celata dalla timidezza verso l'uscio, da cui doveva
venir l'annunzio del pranzo, e Toniotto era accovacciato dietro la
seggiola di questo signore con una tranquillità che pareva pochissimo
conforme alla sua età e alla sua indole.
Finalmente s'intese la parola aspettata: _È in tavola_.
Sorgo, offro il mio braccio a Romilda, e sto per aprire la marcia.
Un mugolìo lamentevole si leva dall'angolo, ov'è seduto il signor
Alieni. Cielo! quel simpatico cittadino sarebbe colto da improvvisa
indisposizione? Fatto si è ch'egli non può alzarsi. Si accorre in suo
aiuto. Il signor Alieni è accuratamente legato alla seggiola.
— Ecco, — dice il mansueto uomo con voce tremula, — forse mi sarò
legato io stesso giocherellando sbadatamente col vestito.
— Che vestito! Se c'è un gomitolo di spago.... —
Il signor Meravigli padre si spicca dal braccio della nobil donna
Prassede Altamura, e ghermisce per un orecchio il signor Meravigli
figlio, il quale era seduto placidamente sopra uno sgabello come se il
fatto non fosse suo.
Romilda, che è tuttora a braccetto a me, congiunge le mani ed esclama:
— Dire ch'è mio fratello! —
Il signor Meravigli figliuolo subisce la strappata d'orecchi con
rassegnazione spartana, e guardando fiso il signor Alieni gli fa con la
mano quel segno che vuol dire: — Aspetta che me la pagherai. —
Se il lettore è un poco filosofo non istupirà che il signor Toniotto
Meravigli, dopo aver legato alla seggiola il signor Alieni, voglia
anche fargliene pagare le conseguenze, perchè queste son cose che si
vedono tutti i giorni.
Quanto al signor Alieni, egli, crescendo in mansuetudine con le
circostanze, dice:
— Lo lasci stare, caro Antonio, lo lasci stare, non è stato lui, credo
d'essere stato io medesimo; sono tanto sbadato!... —
Ma il signor Antonio non abbandona la preda, e, anzi, chiedendo
licenza, passa avanti di tutti, e porta il delinquente fuori di stanza,
rincarando la dose con alcuni scappellotti, che però strappano appena
un sordo muggito alla vittima.
Romilda si copre gli occhi con la mano per non vedere questa vergogna
domestica, e il signor Romoli osserva che, se i ragazzi fossero educati
col metodo suggerito dal suo discorso, non accadrebbero siffatte cose.
Siamo a tavola. Ho alla mia destra Romilda e dall'altra parte il signor
Osteolo. Il professore Romoli è alla destra della poetessa ed ha per
vicino il farmacista Storni. La nobile signora Prassede Altamura è
fra lo Storni e il pretore. Dirimpetto a noi sta la signora Agnese,
avente per suoi cavalieri da un lato il capo stazione, dall'altro il
dott. Trigli. Segue il personaggio, il quale nel colloquio col signor
Romoli aveva dichiarato che così non si può andare innanzi e che seppi
chiamarsi il signor Falco. La ragazza Meravigli, la cui fisonomia mi
riesce sempre più simpatica, è fra questo signore e suo padre. Il
signor Alieni è invece alla sinistra del capostazione, e l'idea di
essere a tavola lo ha trasfigurato. Egli si frega lo mani in silenzio
dopo di aver passato un lembo del tovagliuolo sotto il colletto. Il
signor Antonio, che, come si addice al padrone di casa, è a capo di
tavola, si trova cinto e quasi nascosto da monti di piatti e zuppiere
d'ogni dimensione.... Vedo un posto vuoto a breve distanza da me e
quasi in faccia al signor Alieni. La spiegazione non si fa attendere.
Entra in salotto da pranzo la Caterina (che è la fantesca di nostra
conoscenza) e chiama la signora Agnese. Quella si alza e viene a
confabulare con l'autorità culinaria della casa. Sono a pochi passi da
me e colgo questo dialogo:
— Signora, Toniotto ha già rovesciato due casseruole, pensi adunque che
cosa si deve farne, perchè in cucina non lo voglio sicuramente. —
Il signor Meravigli è chiamato a consulta. Egli tira fuori il capo
dalla selva dei piatti che lo nasconde agli sguardi umani, e, pur
dispensando la minestra alla Maria, vispa contadinotta che serve a
tavola, rivolge la sua attenzione al grave problema. La signora Agnese
parla il dialetto, e usa frasi poco parlamentari verso il turbolento
figliuolo, piaga della sua vita.
— Che c'è da fare? — dice il signor Meravigli, alzando un po' troppo il
cucchiaione della minestra, mentre la Maria avvicinava la zuppiera per
evitare disgrazie. — Che c'è da fare? Mettiamolo pure a tavola, ma che
sia buono. —
Detto ciò, il signor Meravigli padre uscì della stanza per rientrarvi
col signor Meravigli figlio tirato per un orecchio. A quanto pare,
quest'è precisamente il manico dell'ultimo rampollo della famiglia.
— Domanda scusa a tutti questi signori, — intuona solennemente il
signor Antonio.
— Domando scusa, — ripete Toniotto con voce nasale e con una singolar
cantilena.
— Domanda scusa in particolare al signor Bartolommeo, — soggiunse il
padre.
Il signor Alieni diè un balzo sulla seggiola e parve assai conturbato
di sentirsi tirare in campo, mentre egli non anelava che a poter
pranzare in silenzio.
— Domando scusa in particolare al signor Bartolommeo, — tornò a dire
con aria di canzonatura il ragazzo. E vi aggiunse di proprio un _Cu!
Cu!_ che non entrava menomamente nella giaculatoria paterna.
— Non importa, non importa, caro Toniotto.... ottimi amici come prima;
— si affrettò a sclamare il signor Alieni, facendo cenni con la mano
che volevano significare — Tenetelo più lontano che sia possibile. —
Nello stesso tempo si sforzò di sorridere, ma non gli riuscì, e fece