Racconti e bozzetti - 15

Chi diveniva serio e lugubre come un epitaffio era il notaio Anastasi.
Io avevo seco una grande dimestichezza che trascendeva di leggieri
sino all'impertinenza, e mi ricordo d'avergli detto un giorno: —
Per carità, notaio, vi par egli d'esser così ameno, quando siete del
vostro umore naturale, per aggiungervi anche un granellino di patetico?
Sareste innamorato? — M'accorsi d'aver soverchiato la misura ed era
per chiedergliene perdono e stendergli la mano, quando incontrai un
suo sguardo, nel quale non v'era risentimento, ma compassione. La mia
alterezza ne fu punta, le parole mi morirono tra le labbra, e, come
avviene quasi sempre in chi ha torto, stetti imbronciata tutta la
sera. Però il dì appresso tornammo amici, e la frequenza delle visite
che l'Anastasi faceva a mio padre m'inspirava a poco a poco una reale
affezione per lui. E io arrossivo di non aver avuto bastanti riguardi
per quest'uomo, che non era stato estraneo ad alcun nostro evento
domestico, malinconico o lieto, e che per la lunga consuetudine poteva
oggimai dirsi di famiglia. Ve lo confesserò io? Vista sotto una nuova
luce, la sua onesta fisonomia mi pareva meno volgare; udite con una
prevenzione più benevola, le sue citazioni del Codice mi riuscivano
meno uggiose: chi sa che alla lunga, per una singolare contraddizione
del cuore umano, io non finissi col giudicarlo bello e romantico?
Così il giorno delle nozze s'avvicinava a gran passi, senza che alcun
incidente venisse a turbare la lieta aspettazione dell'animo mio.
Non ch'io avessi potuto estirpare ogni dubbio, non che io non mi
angustiassi talora pei mutamenti operatisi nel carattere di mio padre
altra volta così riservato, e tranquillo, ed eguale, ed ora facile a
passare dalla più scapigliata allegria alla tristezza più profonda,
dall'abbandono più espansivo alla irritabilità più nervosa; ma in fine
le mie ombre non prendevano corpo, e nulla mi dava ragione di credere
che fossero altra cosa che ombre.
Una settimana prima delle nozze Gustavo condusse in Milano i suoi
genitori, che presero alloggio da noi. Egli ritornò a Torino, dove
aveva in quei giorni una importante causa da discutere (obliai dirvi
che Gustavo era avvocato, e, tra' giovani, uno de' più promettenti
della capitale); e sarebbe tornato a Milano soltanto il mattino del 3
marzo, cioè poche ore prima del nostro sposalizio che doveva celebrarsi
alle 6 della sera.
Le accoglienze di mio padre a' miei suoceri furono, più che cortesi,
festevoli. Ma io m'accorsi ben presto che la sua ilarità non era tutta
spontanea e che, quand'egli restava solo, la nube di tristezza, che per
tanto tempo gli aveva oscurata la fronte, si addensava più fitta che
mai, e le mie inquietudini riacquistarono l'antico vigore. Mio suocero
invece era d'una serenità olimpica, e a vederlo in così buon essere si
sarebbe detto ch'egli stava per andare a nozze. Cantava, rideva, e si
abbandonava di tratto in tratto a lazzi di gusto molto equivoco che
lo divertivano assai, ma che indispettivano me. E in mezzo a queste
apparenze di bonarietà v'era negli atti suoi, nei gesti, negli sguardi
qualche cosa di freddamente imperioso, di calcolatore, di maligno che
mi metteva i brividi addosso. Sua moglie era un monumento parlante
del suo dispotismo. Quantunque di tre lustri almeno più giovane di
lui, ella pareva aver gli anni di Matusalemme; quantunque affermassero
ch'ella era stata avvenente, era divenuta così smilza e macilenta da
incuter paura. Si sarebbe detto che ella avesse perduto a brandelli
le proprie carni, conservando soltanto la pelle e l'ossa. È naturale
ch'io non avessi mai avuto agio di osservarla attentamente come in quei
giorni, nei quali ella era mia ospite, e v'assicuro che le impressioni
ch'io ne ricevevo erano un misto di pietà e di disistima. Io non sapevo
intendere quella docilità pecorina che non si risentiva, nè degli
scherni, nè dei modi acri e brutali, e che provava anzi una certa
voluttà nel far palese la sua condizione umiliante. Certo Gustavo aveva
della dignità della donna un'idea affatto diversa.... ma se non fosse
così, ma s'egli avesse a rivelarmisi sotto la stessa luce del padre
suo!... A questo solo pensiero tutti gl'istinti della ribellione si
destavano in me.
Il giorno destinato al mio matrimonio era il sabato. Il giovedì mattina
io m'ero alzata di pessimo umore: però l'aspetto sorridente di mio
padre aveva contribuito molto a rasserenarmi; la sua giovialità mi
sembrava più schietta, meno forzata del consueto. Ricevetti una lunga
lettera da Gustavo che mi narrava i particolari del suo dibattimento,
e mi esponeva la tela della difesa ch'egli aveva preparata pel giorno
dopo, per _la vigilia cioè_, com'egli scriveva, _del più bel giorno
della mia vita_. Io ero altera de' suoi trionfi: mi pareva di vederlo
dominare col gesto l'assemblea, di sentirlo tuonare generosamente in
patrocinio della infelice ch'egli doveva difendere innanzi ai giurati.
Trattavasi d'una povera giovane che in un istante d'oblìo aveva tentato
d'uccidere l'uomo, da cui era stata sedotta, resa madre, e poi vilmente
tradita.
Stavamo desinando, quando il domestico consegnò un biglietto a mio
padre. Lo vidi aprirlo con mano convulsa, leggerlo rapidamente e
impallidire. Ma fu il pallore d'un attimo; in men che non si dice egli
aveva ripreso la compostezza di prima. Però la cosa non doveva essere
sfuggita nemmeno a mio suocero, poichè i suoi occhi manifestavano
un'inquieta curiosità. Io giurai a me stessa di trovar la chiave
di questo enigma. Dopo pranzo dovetti uscire con mia suocera, e per
giustificare la mia preoccupazione accusai un improvviso dolore di
capo. Avevo toccato un cattivo tasto, poichè la buona donna vi andava
soggetta, e me ne discorse con grande diffusione, suggerendomi tutti i
farmachi immaginabili, e dicendo almeno due volte al minuto: — Speriamo
che passerà. — E in fatto, per non sentirne altro parlare, feci sì che
passasse, e nel rientrare in casa mi dichiarai bella e guarita.
Il salotto era illuminato e v'era già qualcheduno. Altri molti
si aspettavano. Mio padre stava addossato alla stufa in festevole
colloquio con due persone. Era tranquillo; tutt'al più si sarebbe
potuto dire ch'egli fosse un po' sofferente di salute. Mio suocero
giocava al _domino_ con un suo compatriota ch'era venuto a visitarlo.
Amici del babbo ed amiche mie, figli degli amici del babbo, e madri
delle mie amiche capitarono in frotta a passar con noi la serata:
mancava però la cravatta bianca, il vestito nero ed il faccione
rotondo dell'Anastasi. A me toccò simulare allegria e disinvoltura;
pregata andai al cembalo; poi dispensai il tè, ricevendo complimenti,
congratulazioni, baci e strette di mano. Il meno ch'io poteva fare
in ricambio era di sorridere.... sorridere con l'angoscia che mi
dilaniava.
Quando piacque al cielo, gli ospiti se ne andarono e ciascuno si
ricondusse alla propria stanza. Io aveva maturato il mio progetto:
attendere pochi minuti, e volar poscia nella camera del babbo. La sua
sorpresa, le mie lagrime, le mie carezze lo avrebbero indotto senza
dubbio ad aprirmi l'animo suo.
Avvezza a percorrere la mia casa con passo sicuro, con fronte alta e
serena, non so dirvi quel ch'io provassi nel traversarne gli anditi
in punta di piedi a guisa del delinquente che ha violato l'altrui
dimora. Uno strano senso di terrore mi dominava tutta, le fantasie
più lugubri mi si affacciavano allo spirito, la mia immagine riflessa
in uno specchio, la mia ombra fuggente sulla parete mi mettevano un
tremito addosso, il fruscìo delle mie vesti mi suonava sinistramente
all'orecchio: io ero diventata superstiziosa come la contadina che,
transitando la sera pel suo campicello, pensa ai racconti dell'ava
e vede intorno a sè spettri e fantasmi. Nell'aprire una porta mi si
spense il lume; ciocchè accrebbe in sulle prime il mio sgomento, ma
produsse tosto una salutare reazione. Vergognai della mia pusillanimità
e proseguii a tentoni. L'uscio della camera di mio padre era sbarrato:
vi regnava un perfetto silenzio. Entrai trattenendo il respiro.... mi
provai a chiamare: la voce mi morì soffocata nella strozza.... pure mi
feci forza e gridai replicatamente: — Babbo, babbo. — Nessuna risposta.
Io mi sentivo venir meno, ma guidata da quel po' di virtù visiva che
resta all'occhio anche nell'oscurità appena vi si sia avvezzato, mi
approssimai al letto, palpandone le coltri. Non v'era nessuno e la
intatta rimboccatura delle lenzuola rendeva evidente che non v'era
neppure stato nessuno. La mia ragione smarrivasi: nondimeno ebbi
ancora bastante lucidezza di spirito da pensare che mio padre poteva
essere nel suo studio, e, raccolte le poche forze che mi restavano,
ripresi al buio il mio affannoso pellegrinaggio. Per arrivare allo
studio conveniva scendere una scaletta interna: la scesi, sempre
nell'oscurità, e giunta sul pianerottolo mi persuasi ch'io non avevo
errato nel mio giudizio. Udii un bisbiglio, e mi parve distinguer le
voci di mio padre e del notaio Anastasi. Tranquillata dalle più lugubri
apprensioni, io mi sentivo però il cuore batter sì forte, che per
reggermi mi convenne appoggiarmi alla parete. Temetti che fosse chiuso
a chiave anche l'uscio dell'antistudio, ma non era; e potei entrare,
ed accovacciarmi dietro un paravento e porger l'orecchio a ciò che si
diceva nella stanza attigua. Introdurmivi io pure, ammesso che la porta
non ne fosse assicurata di dentro, sarebbe stata cosa inopportunissima:
avrei prodotto uno scompiglio e perduto il destro di sapere il mistero
che mi stava sì a cuore; il mistero, pel quale io non rifuggivo
dall'indelicatezza di origliare ad un uscio.
Ebbi subito agio di convincermi che due soli erano gl'interlocutori,
Anastasi e mio padre. In sulle prime il dialogo mi sfuggiva; ma poi,
sia che dentro si alzasse la voce, sia che uno sforzo della volontà
aguzzasse in me il senso dell'udito, riuscii ad afferrare una buona
parte del colloquio, e, quantunque si trattasse d'affari, l'ho qui
scolpita in mente come se uno stile l'avesse incisa nel marmo.
— Dunque, — diceva mio padre, — voi credete che col Miragli non sia
sperabile di venir a un componimento.
— Pur troppo ne son sicuro, — rispose l'Anastasi; — egli mi dichiarò
stasera che non accetterà altro che l'integrale rimborso in contanti.
— Trovar danari è impossibile.
— Impossibile, — riprese il notaio. — Inoltre, signor Giorgio, a un
vecchio amico voi permetterete il dirvelo francamente, ciò che voi
fareste pel Miragli andrebbe a danno degli altri vostri creditori.
Quando voi abbiate liquidato tutta la vostra sostanza, vi resterà
sempre un _deficit_ di 200 mila lire. Se per avventura voi trovaste
oggi a prestito questa somma per rimborsare il Miragli, non avreste
evitato ciò che disgraziatamente è inevitabile, ma sareste colpevole
di una ingiusta preferenza, di cui non so se i tribunali potrebbero
chiedervi conto, ma di cui vi chiederebbe conto per certo l'opinione
pubblica e la vostra coscienza. —
Io credevo di sognare: però lo stupore e l'angoscia non facevano che
accrescere l'intensità della mia attenzione.
Udii di nuovo la voce di mio padre che diceva: — Avete ragione. — Poi
successe un silenzio o piuttosto un bisbiglio confuso, nel quale io
non potevo distinguere parola. Indi mi giunsero di nuovo all'orecchio
queste frasi proferite in tuono concitato, confuso: — Che orrore! Che
orrore!... Il fallimento! Alla mia età.... Dopo tanti anni di oneste
fatiche, dopo tanti anni di riputazione intemerata!... — Una sedia si
mosse: credei che il colloquio fosse finito, e mi rannicchiai paurosa,
ansante nel mio nascondiglio. Ma l'uscio non ancora si aperse, e intesi
soltanto il passo di mio padre che andava su e giù per la stanza.
— Sentite, Anastasi, — egli soggiunse con qualche solennità, — le
cambiali scadono domani. Avete almeno ottenuto _da quell'uomo_ ch'egli
non le protesti sino a lunedì dopo che mia figlia sarà partita col suo
sposo? La legge glielo consente.
— Egli mi diede la sua parola d'onore, — rispose l'Anastasi.
— Adelaide esce di minorità sabato, o per meglio dire alla mezzanotte
di venerdì, ch'ella nacque appunto in quell'ora. Sarà vostra cura di
farla entrare in possesso della sostanza che le ha lasciato sua madre
e che formerà la sua dote.... Oh! io avrei dovuto accrescere il suo
patrimonio, e invece è un gran che se le rendo intatto ciò che mi
lasciò per lei la mia povera Maria. —
Il nome della madre mia proferito in quel momento, il pensiero che in
tanta rovina mi mancavano le supreme consolazioni del bacio materno,
ruppero il freno alle lagrime ch'io aveva rattenute fino a quel punto.
Io mi sentii le guance inondate di pianto: nondimeno una forza maggiore
di me mi teneva incatenata al mio posto.
— Signor Giorgio, — rispose l'Anastasi dopo brevissima pausa, e con
la voce perplessa ed incerta di chi si perita ad esprimere un proprio
concetto, — signor Giorgio, non vi venne mai il pensiero di confidarvi
a vostra figlia ed a vostro genero?..; Le dugento mila lire della
signora Adelaide.... —
Mio padre diè fortemente col pugno sul tavolo, e proruppe con accento
pieno d'ira e di fuoco, — Voi delirate, Anastasi. Turbare a mia
figlia i giorni più cari della sua vita? Mettere a repentaglio la sua
felicità? Espormi al caso ch'ella, offrendomi ogni suo avere, dovesse
perdere il matrimonio che forma lo scopo de' suoi pensieri....
— Perdere il matrimonio! Voi credete il signor Gustavo tante venale....
Oh no! egli è giovane....
— Se tal non fosse lui, sarebbero i suoi. O che vi pare che suo padre
sia un modello di abnegazione e di disinteresse? Via, Anastasi, non
mi fate il poeta, voi lo sapete meglio di me che conto bisogni fare
degli uomini, quando si tratti di siffatte questioni. Basti, e per
sempre, di ciò... Almeno, quando Adelaide saprà l'accaduto, ella sarà
lungi di qui, fra le braccia dell'uomo che adora, e le cure del nuovo
stato e le impressioni di luoghi non mai veduti le renderanno meno
penoso l'annuncio. Del resto io saprò attenuarle il vero per modo
ch'ella supponga soltanto un momentaneo sconcerto. E prima ch'ella
ritorni dal suo viaggio, lo spero, le mie faccende saranno sulla via
di accomodarsi.... Per ora io non chiedo altro, se non che il cielo mi
dia tanta forza da non tradirmi al cospetto della mia figliuola. Ella
già presente qualche guaio: conviene che il mio contegno ed anche il
vostro, Anastasi, siano tali da dissipare ogni dubbio. Non vi fu mai
simulazione più santa di questa. —
Le voci ricaddero nuovamente in un indistinto ronzìo; poi intesi mio
padre dire: — Andiamo.
— Sì, — rispose il notaio. — Domattina passerò da voi dalle sette
alle nove. Più tardi ho qualche occupazione e non potrò muovermi dallo
scrittoio. —
L'uscio dello studio si aperse. Precedeva mio padre tenendo il lume
in mano. La sua faccia illuminata dai raggi della candela sembrava
ancora più pallida: nondimeno egli mi parve meno turbato che non fosse
nella mattina; il suo passo era lento, ma sicuro, il suo sguardo aveva
qualche cosa di risoluto e virile che metteva riverenza ed ammirazione.
O egli si era rassegnato da stoico, o egli lottava da eroe. Il notaio
Anastasi lo seguiva a capo chino, e divorando in silenzio una lagrima
che gli scendeva giù per la guancia. Quest'uomo, al quale io non avevo
portato altra affezione che quella inspirata dalla lunga consuetudine,
quest'uomo ch'io avevo creduto onesto sì, ma volgare e incapace
d'intendere nulla al di là de' suoi codici, mi si mostrava sotto una
luce affatto nuova. Oserei dirlo? Vi fu un punto, nel quale il mio
animo si sentì attratto verso di lui più che verso mio padre. Mio padre
aveva dubitato di Gustavo; egli lo aveva difeso.
Accovacciata nel mio cantuccio li vidi passare per l'antistudio ed
uscire. Dovevo io scoprirmi? Dovevo gettarmi ai piedi di mio padre per
dirgli ch'io non avrei mai permesso il suo disonore, finchè restava un
centesimo nella mia borsa, una stilla di sangue nelle mie vene? Fui in
forse un istante, ma mi ricredetti subitamente: io non potevo salvare
mio padre che contro sua voglia; perchè, adunque, metterlo in guardia?
Mi ricondussi faticosamente alla mia stanza; con quali impressioni, con
quali pensieri lascio a voi immaginarlo. Ho io bisogno di notomizzare
innanzi a voi il mio cuore? Innanzi a voi, così intelligente, così
buona? Vi dirò: figuratevi d'essere ne' miei panni: ecco tutto.
Figuratevi, vicina alle nozze come voi siete, d'essere, com'io fui,
colpita da una di quelle notizie che mutano a un tratto le condizioni
dell'animo, e possono mutare del pari il corso agli eventi. Avete
un pensiero in cima a tutti gli altri; l'uomo che sta per essere
vostro marito: ebbene, questo pensiero deve andare in seconda linea;
a vostro padre dovete pensare: a vostro padre che voi credevate
opulento, rispettato da tutti, serbato a una vecchiezza tranquilla, e
che invece è povero e dovrà sostenere le contumelie degli avversari
e degl'indifferenti, e la inerte commiserazione dei tepidi amici, e
perdere il frutto d'una vita intemeratamente operosa. Non è un sogno.
Eravate alla soglia della vostra casa per uscirne lasciandovi un tesoro
d'affetti, e portandone con voi un desiderio pacato, una reminiscenza
soave, ed ecco a un punto un imperioso dovere vi ci trattiene e vi
dice: — Il vostro posto è qui, e sarà forse qui anche domani, e fosse
pure per tutta la vita, voi non potreste lasciarlo senza commettere una
viltà pari a quella del soldato che viola la sua consegna. —
Occorre ch'io vi dica che quella notte non chiusi occhio?... Occorre
ch'io vi dica che non mi spogliai? Che non mi gettai nemmeno sul letto,
ma che, sebbene il clima fosse rigidissimo, mi parve a più riprese di
soffocare e spalancai la finestra? Quante volte chiamai mia madre!...
ella era morta da undici anni!... Quante volte invocai la presenza
di Gustavo, e poi contraddicendomi da me stessa augurai ch'egli non
venisse, sinchè _tutto non fosse finito_. Allorchè l'alba, una gelida
e triste alba di marzo, cominciò ad imbiancar l'orizzonte, io avevo già
fisso in mente il mio disegno. Concedetemi di raccogliere le mie idee,
e proseguirò il racconto. —
Lina accostò la sua sedia a quella della signora Adelaide, pose la sua
nella mano di lei, e susurrò con voce commossa:
— Povera amica; quanto avete dovuto soffrire! —

II.
Era già levato il sole — continuò la signora Adelaide — allorchè,
per non insospettire la cameriera che sarebbe entrata di lì a poco,
mi misi a letto. Quand'ella venne, le ordinai di far approntare la
mia carrozza. Io esercitavo in casa una così assoluta padronanza, che
quella gita ad ora strana non poteva dar ombra a nessuno. Non era la
prima volta ch'io uscivo di buon mattino per qualche spesuccia.
Abbigliatami in fretta, salii nella carrozza, dicendo al cocchiere che
mi conducesse sul Corso. Mentre io comperavo non so qual bagattella
in un negozio, una mia antica conoscente, ch'erasi da alcuni anni
stabilita in provincia, mi si gettò al collo baciandomi con effusione,
e dicendo: — Ho inteso che sei prossima a nozze. Accetta di volo le
mie congratulazioni. — Poi con un fare tra il serio e il gioviale
soggiunse: — Sono diventata _madama_ anch'io, sai? Eccoti mio marito.
— E mi presentò un bel giovane, alto della persona, che s'era tenuto
modestamente in disparte. Ribaciai la mia amica, rivolsi un complimento
dozzinale al suo compagno, e risalita in carrozza gridai: — Dal
banchiere Miragli, — nominando la via da me conosciutissima ove questi
abitava. La mia amica e il suo sposo parevano ammirar la bellezza
del mio equipaggio, e nel saluto ch'essi mi fecero, allorchè i miei
cavalli si misero al trotto, credetti scorgere quella deferenza quasi
involontaria, con cui la gente di mediocre fortuna guarda coloro
che sono, o ch'ella stima opulenti. Temei d'essere stata un po'
aristocratica, un po' fredda, e spinsi la testa fuori della portiera
per far un nuovo cenno del capo alla giovane coppia, ma essi non mi
abbadavano più. — Camminavano a braccio l'uno dell'altro, discorrendo e
sorridendosi amorosamente. I loro occhi non s'incontrarono coi miei, il
mio movimento passò inosservato. Essi erano felici! Ed io?...
Quando la carrozza si arrestò dinanzi alla dimora del Miragli, io
sentii un gran tremito per tutta la persona. Io non avevo nè ponderato,
nè discusso meco medesima la condotta da tenere; una sola cosa mi stava
chiara e distinta nel cervello, ed era la mèta, a cui dovevo arrivare.
Mi feci precedere dal mio biglietto di visita, su cui avevo scritto
che si trattava di cosa urgentissima. Un servo gallonato venne a farmi
discendere assai cerimoniosamente dalla carrozza, mi accompagnò lungo
un andito senza finestre che riceveva luce da una parete a cristalli
appannati e m'introdusse in un gabinetto elegantissimo, ove mi disse
che il signor _Cavaliere_ non mi avrebbe fatto attendere che pochi
secondi. Oggi il banchiere Miragli è cavaliere de' Ss. Maurizio e
Lazzaro, allora era cavaliere di Francesco Giuseppe, e se ne teneva.
Non era la prima volta ch'io vedevo questo signore. Egli veniva qualche
sera a trovar mio padre nel suo palchetto alla Scala, e le nostre
carrozze s'incrociavano ogni giorno sul Corso. Sua moglie e le sue
figliuole mi erano antipatiche al sommo, e la nostra conoscenza non
era arrivata più in là di un compassato cenno del capo. Figuratevi
poi che cosa io pensassi in quel momento del signor Miragli. Egli
era per me un mostro d'infamia, un rifiuto dell'umanità, un essere
così sozzo e perverso che il peggiore non avrebbe potuto immaginarsi.
Indi, procedendo cogli anni e con la triste esperienza della vita,
si attutirono in me gli entusiasmi e gli sdegni, ed anche del signor
Miragli feci più equo giudizio. Egli era soltanto un uomo inteso a
tutelare gelosamente il proprio interesse. E, invero, perchè avrebbe
dovuto sacrificarsi alla felicità mia, alla felicità di mio padre?
Quali obblighi aveva egli verso di noi?
Egli non tardò a comparire. Teneva in mano il mio biglietto di visita,
guardandolo sotto gli occhiali con un certo atto sospettoso, come
volesse dire: — Che diavolo viene a fare costei? —
Io ero troppo sollecita della dignità mia, della dignità di mio padre
per ismarrire un solo istante il mio contegno tranquillo e severo.
Il banchiere che, quantunque toccasse la cinquantina, pretendeva ancora
di far l'elegante, mi sciorinò alcuni complimenti; ma io, che non era
in vena di cerimonie, entrai diritta nel cuore dell'argomento.
— Io sono venuta qui — dissi — per sottoporle francamente una domanda e
farle francamente una mia proposta. Posso sperare nel signor cavaliere
Miragli un'uguale franchezza? —
Egli, spintosi innanzi sulla sedia con mezza la persona a guisa di chi
si accinge ad ascoltare attentamente, fece col capo e con la mano un
cenno affermativo, ed io continuai.
— È vero ch'Ella è creditore di mio padre per la somma di 200 mila lire?
— Scusi, — rispose il banchiere, — non intendo come ciò che si
riferisce alle relazioni di due uomini d'affari tra loro, possa formare
oggetto del nostro colloquio.
— Non saprei — interruppi — di che cos'altro dovrebbe occuparsi il
nostro colloquio, se non di ciò che riguarda gli affari di lei con mio
padre. Del resto poco vale lo schermirsi. Io so che la faccenda è così.
— In tal caso, è vero, — riprese il Miragli, giuocherellando coi
gingilli dell'orologio.
— È vero che questo credito è rappresentato da alcune cambiali, le
quali scadono oggi?
— Ma.... Signorina!...
— È inutile il voler nasconderlo, perchè lo so.
— Allora non mi resta che dire: è vero.
— È vero — continuai senza scompormi — ch'Ella rifiuta ogni proroga ed
esige di esser pagato immediatamente e interamente?
— Le confesso, o Signora, ch'io persisto nel credere inutili queste
spiegazioni. È penoso ad un uomo di onore, come io credo di essere,
il dover mettere in discussione proponimenti che ormai non possono più
esser mutati.
— Nè io intendo ch'Ella li muti, — risposi, sollevando il capo
con alterezza. — Io non vengo qui a implorar grazia, ma a trattare
d'affari. —
Il banchiere prese un occhialetto che gli pendeva al collo, e poichè
n'ebbe sovrapposte le lenti a quelle degli occhiali si mise a guardarmi
più attentamente che mai. V'era nella sua fisonomia qualche cosa che
esprimeva o una immensa commiserazione o una immensa maraviglia. Se
taluno fosse in quel momento disceso nel cuore del signor cavaliere
Miragli, scommetto che vi avrebbe trovata la convinzione ch'io presto
o tardi diverrei pazza. Siccome però poteva accadere ch'io parlassi
del miglior senno, non gli conveniva render troppo patente la sua
incredulità. E soltanto, come esponendo un suo dubbio, egli riprese:
— Io temo, Signorina, che la sua ben naturale inesperienza d'affari non
Le permetta di considerare l'importanza della somma che quelle cambiali
rappresentano, nè la difficoltà di trovarla così su due piedi.
— Ebbene, signor Cavaliere, — ripresi, — io non sono certo in grado
di pagare oggi per intero la somma, di cui Ella è creditore; ma sono
venuta a chiederle se Ella accetterebbe la mia firma in sostituzione a
quella di mio padre. —
Il cavaliere Miragli tornò a fissarmi nell'atto di chi sta dinanzi ad
un visionario. E riprendendo a poco a poco il tuono dell'uomo d'affari:
— Scusi, — mi disse, — Ella oggi è minorenne e non può assumere
impegni: domani, s'io non erro, va sposa al signor avvocato, — e
proferì il nome del mio fidanzato, — onde non saprei davvero....
— Ah! — interruppi con fredda ironia, quantunque l'allusione al mio
matrimonio mi avesse fatta impallidire. — Ella mi tratta come una
fanciulla, e suppone ch'io non fossi preparata alle sue obbiezioni. Le
dirò ch'io nacqui, e veda un po' se sono precisa, appena scoccata la
mezzanotte del 2 marzo 1826. Adunque poche ore mi mancano a compire
i ventiquattr'anni e ad esser padrona di me. Le mie nozze sono
stabilite pel dopopranzo di domani, per cui v'è un breve periodo di
tempo, nel quale io ho la potestà piena delle mie sostanze, e la piena
responsabilità dei miei atti. —
Nel mentre che io parlavo, il banchiere aveva avvicinato la sua sedia,
e il suo volto non esprimeva più la curiosità ironica di chi ascolta
le chiacchiere d'uno sconclusionato, ma l'attenzione vigile e intensa
dell'uomo che sente proporsi un affare serio.
Io continuai: — Approfittando di questo intervallo, nel quale non
dipendo che da me medesima, io Le offro (perchè non m'è dato svincolare
da un momento all'altro ogni mio avere) di sottoscrivere quelle
obbligazioni ch'Ella stimerà necessarie a coprire il suo credito. Il
nome di mio padre deve restare senza macchia.
— Ma, e questa sua sostanza? — bisbigliò perplesso il banchiere.
— Signore, — diss'io alzandomi in piedi, — io non soglio offrire che
quello che possiedo, nè ora scenderò a inutili particolari. Ha Ella
piena fiducia nel notaio Anastasi?
— Pienissima, — egli rispose inchinando il capo.
— Ebbene, egli potrà chiarirle i fatti miei più ch'io non voglia o
non debba. A mezzanotte io sarò nel suo studio. Vi si rechi e porti
con sè le cambiali. Se le parole dell'Anastasi non la convinceranno,
s'Ella non avrà la certezza che un impegno assunto da me sia una piena
guarentigia per Lei, Ella conserverà i suoi diritti, e sarà come se il
nostro colloquio non fosse succeduto. —
Il Miragli promise che non mancherebbe al convegno, e si confuse in
proteste di ammirazione.
Nell'accompagnarmi all'uscio soggiunse a mezza voce, quasi
vergognandosi di sè stesso: — Spero che i documenti.... compresa la sua
fede di nascita.... —
Non lo lasciai finire, ma lo fulminai con uno sguardo così pieno di
disprezzo e di orgoglio, che le parole gli morirono sulle labbra.
Egli mi porse la mano: io ritirai la mia e feci atto d'uscire. Però
mi rivolsi un momento indietro, e dissi con voce ferma: — Silenzio con
tutti, s'intende.
— Si figuri! — rispose; poi mi precesse nell'andito e richiamò il servo
in livrea che m'aveva fatto discendere dalla carrozza. Ci accomiatammo
con un semplice cenno del capo.
Dopo il banchiere, il notaio. In pochi minuti il cocchio mi mise alla