Racconti e bozzetti - 13
Colà almeno dormono insieme quelli che un giorno lavoravano insieme,
e la zolla senza nome è distinta fra mille più che il marmo istoriato
dei sontuosi cimiteri. Colà almeno, se qualche fremito di vita corre
attraverso le fredde reliquie, i defunti sentono le care e note favelle
nella capanna vicina, e nelle lunghe sere d'inverno, quando la neve
imbianca le povere croci, odono il ronzìo del consueto _filò_ entro
la tepida stalla, e indovinano la primavera al tintinnìo delle capre
erranti pei monti, e la state all'allegra canzone dei mietitori. Colà
almeno la religione della famiglia, sopravvissuta al naufragio di
tutti gli Olimpi, ha più facili i suoi riti pietosi, e l'alpigiano che
sfronda gli abeti o mena la vaccherella su pegli scoscesi sentieri,
vedendosi a' piedi il tranquillo recinto del camposanto, pensa a' suoi
diletti che ivi dormono l'eterno sonno, e tempra con soave malinconìa
la fierezza dell'animo.
L'aspetto d'un cimitero dispone lo spirito a tetri pensieri; ma v'è
qualche cosa di molto più lugubre, ed è l'aspetto della devastazione
e della rovina. Esso ti si presenta a Lozzo, villa distrutta poco men
che da capo a fondo da un incendio il 15 settembre 1867. Lo spettacolo
che essa mostrava nel maggio successivo, in cui gli abitanti erano già
innanzi nell'opera di ricostruzione, poteva darti un'idea della orrenda
catastrofe, facile del resto a immaginarsi, quando si pensi che le case
erano pressochè tutte di legno e che l'incendio divampò nella notte.
Facevano ingombro alla via le travi carbonizzate e i monti di sassi
destinati a rifabbricare più solidamente il villaggio, e alcuna delle
abitazioni di pietra non soggiaciute a quella ruina portava i segni
del guizzo capriccioso della vampa intorno alle muraglie sgretolate.
Le case erano ancor senza tetto; la popolazione viveva di giorno
sulla strada, e la notte trovava ricovero in qualche capanna ospitale
nelle vicinanze. Così quelle genti, colte dalla sventura in autunno,
avevano dovuto lasciar trascorrere i lunghi mesi del verno, avevano
dovuto lasciar che le nevi coprissero le macerie del loro paese, prima
di poter ricomporre di propria mano il povero nido. E fu davvero per
un miracolo di carità dei luoghi vicini, che riuscirono a durare i
rigori della stagione e a serbar vigorose le braccia e non accasciato
lo spirito. In mezzo a quella scena che ti ricorda le irruzioni
barbariche, causa di tanti lutti all'Italia, vedi ancora volti sereni,
odi le voci festive delle fanciulle che attingono al fonte, e le risate
clamorose dei bambini che giuocano sopra i mucchi di sassi.
A poche miglia da Lozzo trovi una specie di chiusa detta dei Treponti.
La strada si biforca: il braccio destro entra nel Comelico, il sinistro
va verso Auronzo. Dalla destra viene impetuosissima la Piave e in
quel sito accoglie le acque d'un altro torrente, che scende dal lato
opposto, l'Ansei. Il nome dato a quel luogo è dovuto appunto a tre
ponti di pietra, o, a meglio dire, a un ponte che si tripartisce e
con due delle arcate traversa le fiumane ancora divise, con la terza
le valica dopo il loro connubio. Tutto intorno sorgono monti alti
e scoscesi, fitti d'abeti sulla sponda dell'Ansei, aridi e nudi su
quella della Piave, quantunque chi penetri nel cuore del Comelico veda
nuovamente imboscarsi il terreno. In questa gola si combattè nel 14
agosto 1866 l'ultima scaramuccia fra Italiani ed Austriaci. Venivano
questi da Auronzo sotto il comando del generale Mensdorff Pouilly, ed
erano in numero di 4000, impazienti di forzare il passaggio, ignari
ancora dell'armistizio concluso due giorni innanzi. Avevano a fronte
pochissimi volontari cadorini, male vestiti e male armati, che, sebbene
colti alla sprovveduta, opposero una pertinace resistenza, spargendosi
qua e là dietro gli abeti lungo il dorso del monte che bagna le falde
nell'Ansei, e mantenendo un fuoco micidiale da bersaglieri contro le
masse nemiche. Vi furono da ambo i lati morti e feriti, vittime inutili
d'una lotta che non aveva più scopo. Un oste del luogo, vecchio coi
capelli bianchi, certo più che sessantenne, che quel giorno aveva
anch'egli brandita la sua carabina e preso parte alla pugna, me ne
disse le vicende con ardor giovanile, e l'inatteso approssimarsi
degli Austriaci, e lo sgomento delle donne, e il piglio risoluto dei
_nostri_, e il primo sangue versato, e il giungere al campo austriaco
d'una staffetta portante la novella dell'armistizio. Come mi piaceva
sentire in bocca al valoroso vegliardo quella frase — _i nostri!_ —
Com'era bello quel suo infiammarsi nel racconto del breve conflitto!
Certo nell'animo di lui non era sceso ancora lo scoramento, onde quasi
menano vanto tanti Italiani. La luna di miele della libertà dovrebbe
durare secoli: a noi sembrò più dicevole di chiuderla nella cerchia
coniugale d'un mese e di atteggiarci poscia a mariti noiati.
In Cadore il patriottismo è sano e vigoroso, convinto che dopo aver
toccato una mèta
Ch'era follia sperar
sarebbe delitto il mettere a repentaglio gli acquistati beni con le
discordie intestine e con le violenti diatribe, convinto che non v'è
gloria passata che basti a far perdonare la colpa di porre a cimento
le sorti della propria contrada. Perciò in quella terra veramente
eroica, in mezzo a quegli uomini veramente d'azione, non mi accadde di
sentir vituperato il Governo come solevasi dell'austriaco, nè di veder
fatti segno al pubblico sprezzo tutti coloro che sorsero a qualche
rinomanza in Italia. I difetti delle nostre amministrazioni e de'
nostri uomini si conoscono in Cadore non meno che altrove; ma i lamenti
che se ne muovono non prendono quel tuono d'acrimonia che distingue
in molte parti della Penisola le opposizioni, nè indossano quel manto
d'intolleranza che nega il patriottismo a chiunque si faccia lecito
di non osteggiare l'Autorità. E ciò che più conforta chi giunge dalle
città atrabiliari e dalle campagne indifferenti della pianura, si è
la pienezza della fede nei patrî destini, si è il sentirsi affollati
d'interrogazioni sulle vicende politiche e sull'avvenire economico del
paese; non già da ricchi possidenti del luogo, ma da poveri coloni, che
una cinquantina di miglia più in giù non saprebbero se non assordarci
di piagnistei sulla malattia delle uve e la gravezza delle imposte.
Oserò io dirlo? A quest'ultimo lembo della Penisola che, in ogni
moto di popolo, fu o un covo d'insorti, o un rifugio di profughi, a
questa regione alpina, ove dai 1848 al 1866 si congiurò in ogni casa,
giovò forse non esser gonfiata dagli articoli del giornalismo e dalle
arringhe dei _meetings_. Che pur troppo sinora in Italia pubblicisti
e tribuni fecero più male che bene alla patria. Come que' membri dei
consigli di disciplina della Guardia Nazionale che vestirono la divisa
di giudici, perchè non volevano aver le noie di militi, così una gran
parte di essi assunsero l'ufficio di dispensatori di luce per ismettere
l'uniforme di cittadini, per sottrarsene ai doveri, per giustificare
coi fremiti furibondi i tepidi e patologici affetti.
E adesso, chiudendo la parentesi, rimettiamoci in via, e dai Treponti
dirigiamoci al punto estremo del nostro pellegrinaggio, ad Auronzo.
Dopo Treponti si perde la compagnia della Piave, che, come abbiam
visto, vien giù dal Comelico, e la strada solitaria costeggia sempre
l'Ansei, passando in mezzo a un bosco di abeti. Uscendo dal fitto degli
alberi, ti si apre al guardo un altipiano di ricca e bella verdura,
cinto, ma non oppresso da monti, in mezzo al quale spiccano le candide
muraglie della chiesetta d'Auronzo e i tetti bassi ed affumicati delle
capanne di legno. Pieve arieggia uno de' soliti borghi della pianura,
Tai è composta di poche case, Calalzo non è che un gruppo di meschini
tugurî; ma Auronzo, paesotto piuttosto grosso e diviso in due parti
(_villa piccola_ e _villa grande_), ha un suo aspetto particolare con
quelle abitazioni quasi tutte di legno, con que' vicoli che salgono
con leggiero declivio sul pendio d'un monte, con quei mulini che vi
romoreggiano mossi dalla corrente, con quell'abbondanza di acqua che
vi zampilla in fontane, vi scorre in ruscelli, vi mugge in torrenti.
Nella mia qualità di cittadino delle lagune, al veder tanta ricchezza
di fonti, intorno alle quali le fanciulle d'Auronzo, ignude le
braccia, piegata la persona, s'affaccendano a fare il bucato, pensai
all'interminabile questione dell'acquedotto veneziano, lunga come
quella d'Oriente, complicata come quella dello Schleswig-Holstein, e
invocai sulla mia patria una vena della linfa cadorina per far tacere
una volta il cicaleccio e spegnere gl'incendi del nostro giornalismo.
Chi lo direbbe? Anche Auronzo «la divisa dal mondo ultima _Auronzo_»
ha una questione municipale. Qua e là vidi scritto col gesso —
_Abaso il segetario_, — e deplorai vivamente che nessun giornale del
luogo potesse con sagge e temperate polemiche, come si costuma fra
noi, illuminare l'opinione pubblica, e che gli abitanti d'Auronzo
non avessero alcun _organo indipendente_, su cui far valere le loro
ragioni. È davvero una cosa umiliante, tanti secoli dopo Panfilo
Castaldi e il Guttemberg, di non possedere un torchio e una scatola di
caratteri di stampa, coi quali annunziare a tutti i popoli della terra
che i propri concittadini son ladri e balordi, egoisti quando rifiutano
i pubblici uffici, impudenti quando gli accettano.
Frattanto alcuni degli abitanti d'Auronzo cercano consolarsi della
grave mancanza, formando un nucleo di società, che per sì piccola villa
è veramente prezioso. Si radunano in dieci o dodici in una specie di
gabinetto di lettura, ove ricevono i giornali di Venezia e di Firenze,
e così, giuocando e ciarlando, ingannano le lunghissime sere d'inverno,
e non si coricano che a mezzanotte, cosa da fare stupire chi consideri
che in alcuni mesi dell'anno il sole non rischiara quella valle per più
di tre ore al giorno, e una lastra di ghiaccio copre costantemente le
vie.
Una questione ben più grave della municipale tiene sospesi gli animi in
Auronzo, ed è quella della divisione dei boschi. In tutto il Cadore la
maggior parte della proprietà boschiva è in mano ai Comuni, ma tra i
Comuni più ricchi v'è quello d'Auronzo, ove, per singolare contrasto,
la popolazione è poverissima, e s'è avvezzata ormai a vivere di
sussidî. Ivi noi vediamo una miniatura del _pauper_ inglese, dell'uomo
cioè che, nella piena vigorìa dell'età, rinunzia alle compiacenze
del lavoro per chiedere burbanzoso i sussidî del suo Comune, come si
chiede una imposta. Perciò alcuni opinano che sarebbe saggio consiglio
di venire a un riparto dei boschi, i quali, dicendosi comunali,
sono, a rigore, proprietà dei singoli abitanti. Ma un provvedimento
sì radicale incontra gagliardi oppositori, mentre sembra a molti che
questa specie di legge agraria rovinerebbe il paese, affidando la
conservazione dei boschi a gente cupida di farne danaro, e improvvida
quindi dell'avvenire, e dimentica, o per accidia, o per ignoranza, di
quelle cure che un tal genere di proprietà richiede. I boschi sarebbero
distrutti, e con essi la principale, l'unica fonte di ricchezza del
luogo, e i coloni tornerebbero al vecchio mestiere di poveri, senza
poter affidarsi all'antica liberalità del Comune, ormai esausto di
mezzi. Vorrebbesi quindi da molti che la proprietà rimanesse indivisa
qual'è nelle mani del Municipio; ma che questo, anzichè volgerne i
profitti a mantenere un accattonaggio legale, sapesse convergerli a
far sorgere fonti di lavoro agli abitanti, a promuovere, per esempio,
l'industria mineraria, ristretta ora alle vicine cave di zinco. Di
tale questione, che si dibatte in Cadore con una vivacità che sente
dell'acrimonia, io mi son fatto semplice espositore: confesso però che
mi sembrerebbe incauto non poco un riparto di beni fra una popolazione
che non diede caparra alcuna di alacrità, ma fu avvezza sinora ad
aspettare la manna dal cielo.
Ed ora, giunto al termine della mia rapida corsa, dedicherò brevi
pagine, se il lettore me lo assente, ad alcune considerazioni generali,
le quali suppliranno alle immense lacune descrittive della mia
monografia. Nella medesima guisa, quando al teatro, per una ragione
o per l'altra, il capocomico non può far rappresentare l'ultimo atto
d'una commedia, manda uno dei suoi subalterni ad annunziare al colto
pubblico e all'inclita guarnigione che vi supplirà con una farsa non
compresa nel programma. Per solito il pubblico fischia; io ti prego, o
lettore, di non fare altrettanto, se in luogo di condurti in Comelico,
o al bosco di Somadida, o al pensile lago di Mesurina, dove si mangiano
di ottime trote, ti ammannisco una piccola dissertazione economica.
Tu non ignori che ormai l'economia politica è diventata uno di quei
pascoli comunali, ove una volta ciascuno menava gli armenti senza
pagar nulla a chicchessia. Come cent'anni fa si scriveva un sonettino
od un madrigale, così adesso si scrive una Memoria sul pauperismo, sul
risparmio e sul sistema cooperativo. Lasciami pagar questo tributo al
mio secolo.
IV.
Un'erudizione a buon mercato. — La proprietà e l'amore dei litigî
in Cadore. — I boschi. — L'oligarchia dei negozianti di legname.
— Loro spirito stazionario. — La _tariffa_ dei legnami. — I
_punti neri_ del commercio cadorino. — Progetti per arrestarne
la decadenza. — La pastorizia. — Necessità di diffonderla. —
Una dissertazione economica a proposito di un _beefsteak_. — Le
attitudini dei Cadorini. — Perorazione finale.
Comincio con facilissima erudizione. Il Cadore, come tutti sanno, è
situato nel Settentrione delle provincie venete, e forma parte del
Bellunese. Posto sulla pendice delle Alpi Rezie, è una delle cittadelle
naturali d'Italia. Dopo varie vicende, fece nel 1420 atto spontaneo
di dedizione alla Repubblica di San Marco, dalla quale ebbe in cambio
ampli privilegî ed una larghissima autonomia, che avvezzando il
popolo al governo della cosa pubblica ne acuì maggiormente la pronta
e sottile intelligenza. Può dirsi anzi che Venezia non esercitasse
sopra il Cadore che un semplice protettorato. Il paese si reggeva
con leggi proprie: la sua _Magnifica Comunità_, eletta per centurie a
suffragio di popolo, radunavasi in Parlamento ogni mese e costituiva
il potere legislativo, mentre il potere esecutivo era affidato a
quattro _Consoli_ e ad un _Vicario_, nominati dallo stesso _Consiglio_.
Rappresentava la Repubblica un _Capitano_ residente nel Castello di
Pieve, il quale assisteva bensì alle adunanze del _Consiglio_, ma
senza diritto di voto. Quest'ordine di cose durò fino al 1797. Indi
i Cadorini seguirono le alterne fortune di Venezia, alla quale li
stringe inalterabile affetto e dal cui risorgimento economico molto
s'aspettano. Il numero degli abitanti è ora di circa 40,000, ripartiti
in cinquanta villaggi, gente robusta di membra e di spirito, calda
di nobili sensi, immaginosa, faconda, ospitale; vero fenomeno per chi
conosce il gretto contado della pianura veneta. È raro il Cadorino che
non sappia leggere, e, cosa mirabile, il Comune di Pieve manteneva
scuole pubbliche fino dal 1300! Ed è pur difficile trovar quivi chi
non possieda un campicello e una casa, tanto vi è divisa la proprietà.
Ne derivano vantaggi e danni: citerò fra questi lo scarso progresso
dell'agricoltura e la smania de' litigî, che pare congenita nel
piccolo possesso e che qui s'alimenta dalla sottigliezza dialettica
della popolazione, la quale cita il Codice a memoria e ne discute
gli articoli; tantochè se il Racine fosse stato in Cadore, si direbbe
ch'egli vi avesse trovato i tipi dei suoi _Plaideurs_. A tante cause
non bastano i pochi avvocati, e un discreto numero di legulei va
ronzando intorno ai bisticciantisi, e soffia nel fuoco, e prolunga le
questioni fuor di misura.
La produzione agraria del Cadore supplisce appena al consumo di due o
tre mesi, onde non è concesso agli abitanti di vivere dei frutti del
possesso, e devono impiegarsi nei boschi o negli edificî di seghe.
I boschi fanno la vera ricchezza del Cadore e occupano una superficie
di pertiche censuarie 718,089:44.[4] Sono per la massima parte
proprietà dei Comuni o delle Chiese: alcuni sono di privati: uno
solo, quello di Somadida, appartiene all'Erario, per dono fattone
dalla Comunità cadorina alla Repubblica veneta nel 1463. I Comuni,
di triennio in triennio, aprono le aste per vendere i loro prodotti
boschivi, e negli anni addietro i negozianti che vi concorsero, vi
fecero immensi profitti, onde in mezzo al possesso frastagliato, alle
consuetudini democratiche del Cadore, si costituì un'oligarchia di
famiglie opulenti. Sennonchè le dovizie assai rapidamente accumulate
hanno seco gravi inconvenienti, quello fra gli altri grandissimo
di assopire le ardite iniziative, di non tener desto lo spirito ai
bisogni e alle mutazioni dei tempi. Questo è un rimprovero che, salvo
alcune eccezioni, può farsi ai ricchi negozianti del Cadore. Essi
non hanno inteso la legge di progresso che governa tutte le cose, e
videro in ogni innovazione un'insidia alla loro supremazìa. Citerò un
fatto. Per insinuazione di alcuni di loro venne, durante il dominio
austriaco, sospesa per qualche tempo la linea telegrafica di Tai,
la quale, rendendo di pubblica ragione giorno per giorno il listino
della Borsa di Vienna, li disturbava in certi loro affari di cambio.
Le così dette _tariffe_ dei legnami sono uno specchio fedele della
stazionarietà cinese di questa gente. Quali erano cinquant'anni fa,
tali sono adesso. La loro unità di valore è la lira austriaca, la loro
unità di misura è il _bollo_ e l'_oncia_, la loro lingua è il dialetto
veneziano, tantochè vi vedi scritto _Refudi_ invece di _Rifiuti_,
_Roversi_ in luogo di _Rovesci_. Le cifre sono immutabili; ma siccome
anche i legnami vanno soggetti alla legge dell'offerta e della domanda,
così le variazioni di prezzi si convertono in aumenti o ribassi dalla
tariffa. I legnami scelti che vanno per la Puglia subiscono un aumento,
che oltrepassò qualche anno fa il 22 per cento, ed oggi è dal 15 al 20:
la massa però va soggetta a un ribasso, che talvolta supera il 26 ed
il 30. Comunque sia, un forestiero che consulti la tariffa, principia
col non intendere l'idioma, in cui essa è scritta, e, quando se l'è
fatta spiegare, termina col saperne quanto prima, perchè gli manca
il dato regolatore dell'aumento e del ribasso. Così una _tariffa_ di
legnami, assurda nel suo titolo, perchè tariffa significa immobilità,
assurda nella sua lingua, nelle sue misure e nella sua moneta, che non
sono nè la lingua, nè le misure, nè la moneta italiana, esige almeno
altrettanti commenti, quanti ne voglia uno de' canti più astrusi della
_Divina Commedia_.
È naturale che con tanta grettezza e con tanti intralci un commercio
non possa a lungo prosperare, ed infatti il commercio cadorino è
seriamente minacciato. Su molti degli antichi mercati il legname del
Cadore trova la concorrenza formidabile di quello della Stiria, della
Carintia, del Tirolo, della Norvegia, e persino dell'America, e non
è che la robustezza della sua fibra, e un po' anche la tradizione,
che gli consentano di mantener con decoro la lotta. Qui pure la
strada ferrata ha prodotto una rivoluzione. I legnami della Carintia
e del Tirolo, appena recisi, vengono messi nella strada ferrata,
e non subiscono quindi nè la perforazione ai due capi, che produce
una perdita per ogni pezzo, nè i ritardi d'un viaggio fluviale, nè
i danni della troppo lunga immersione; a quelli della Norvegia e
dell'America giova il modico prezzo, a tutti il sistema più semplice di
contrattazione.
Credo sarebbe vana speranza quella di rimettere nell'antico suo fiore
il commercio dei legnami cadorini. Nel Levante, nelle Isole Jonie ed
altrove, esso godeva di una specie di monopolio, perchè le tradizioni
onnipotenti della Repubblica di San Marco ne incatenavano il commercio
alle antiche vie, e perchè i mezzi imperfetti di comunicazione
rendevano o difficile, o impossibile la concorrenza straniera. Ma è
opera gettata l'affannarsi sulle tracce dei monopolî perduti. Ormai
non si può impedire che Trieste, la quale, favorita per tanti anni dal
Governo austriaco, e, diciamolo pure, anche dalla maggiore operosità
de' suoi abitanti, sorse vigorosa a fronte della nostra Venezia,
continui ad approfittare della strada (_Südbahn_ e sue diramazioni)
che la congiunge alla Carintia e alla Stiria, ed a spargere co' suoi
vapori i legnami lungo le coste adriatiche e mediterranee; nè si può
arrestare la concorrenza dell'America, che, sbarazzandosi con la scure
il cammino verso l'Oceano Pacifico, slancia in Europa le reliquie delle
foreste che le facevano impaccio, e vince col basso prezzo gli ostacoli
delle distanze e dei noli. Il commercio dei legnami in Cadore ha tre
_punti neri_; il prezzo superiore a quello delle altre provenienze,
la lentezza del trasporto, la perforazione delle tavole. La prima
difficoltà è forse la meno ardua a superarsi, perchè i Comuni possono
ribassare il prezzo dei loro prodotti boschivi, e i negozianti devono
contentarsi di men lauti profitti in un tempo, nel quale ogni traffico
vede assottigliati i proprî utili, ed è legge inesorabile lavorar molto
per guadagnar poco. Più malagevole sarà l'accelerare il trasporto e il
lasciare intatte le tavole, perchè ad ottener ciò converrebbe poter
valersi della strada ferrata. Ora un tronco di strada ferrata che da
Conegliano per Vittorio si spingesse direttamente attraverso il Cadore
e andasse ad unirsi col ramo della Pusteria, divisato dall'Austria per
arrivar poscia alla linea del Brennero, sarebbe certo cosa immensamente
proficua, ma non conviene dimenticare gli ostacoli e il dispendio
d'una tale impresa, che dovrebbe far superare ai convogli pendenze
assai forti. Nondimeno varrebbe certamente la pena che gli uomini
dell'arte studiassero il problema, e vedessero se i vantaggi di questa
linea ferroviaria non ne compenserebbero in larga misura la spesa.
Un altro disegno, assai degno di menzione, è quello di fondare in
Venezia un grandioso edificio di seghe a vapore. Con un deposito sempre
compiutamente assortito, con un lavoro non interrotto, esso ovvierebbe
al gravissimo inconveniente del ritardo che soffrono ora le commissioni
date in Cadore pegl'intralci naturali della fluitazione, aumentati
talora o dai ghiacci, o dall'improvviso ingrossamento delle acque;
tantochè, mentre chi si provvede in Stiria, in Carintia, in Tirolo, sa,
per così dire, il giorno preciso, nel quale riceverà la sua merce, chi
l'aspetta da Perarolo o da Longarone deve acconciarsi a imprevedibili
indugî. Non fa mestieri di spender molte parole per dimostrare che un
opificio di questo genere produrrebbe una rivoluzione nel commercio del
Cadore. L'esattezza e la celerità del lavoro, il risparmio della mano
d'opera dovuto all'azione dei grandi motori meccanici, basterebbero
di per sè soli a dar la prevalenza al nuovo opificio in confronto di
quelli ch'esistono lungo la Piave: vi si aggiungerebbero però altri
vantaggi di non minore importanza. Sparirebbe la perforazione, perchè
il legname, anche arrivando ugualmente per via fluviale, sarebbe
affidato alla corrente in tronchi anzichè in tavole, e i singoli
pezzi potrebbero quindi venir commessi insieme in modo diverso:
si conserverebbe la bianchezza apprezzata su molti mercati, e, per
ultimo, sarebbe evitato il deperimento che la tavola subisce per la
fluitazione sino a Venezia. Ma, d'altro canto, non v'ha dubbio che
interessi particolari verrebbero offesi, e il capitale fisso investito
negli edificî di seghe soffrirebbe un subitaneo deprezzamento. Quanto
ai lavoranti, essi potrebbero o trasferirsi in Venezia, ove il nuovo
opificio offrirebbe loro più larghe mercedi, o attendere ai depositi
di legname, che rimarrebbero in Cadore. Comunque sia, ammettendo pure
la possibilità d'una crisi passeggiera, non sarebbe da combattersi a
questo titolo un'utile iniziativa; solo converrebbe provvedere a quei
modi che rendessero meno penosa la transizione.
A tal uopo nulla sarebbe più opportuno che il vivificare le altre
fonti di ricchezza del Cadore. Chi percorre questa regione alpina,
ammira, negl'intervalli lasciati dai boschi, la bella e ricca verdura
stendentesi talvolta sino alle estreme giogaie dei monti elevati, e
non sa intendere come non abbia ad esservi in fiore la pastorizia, e
come il paese non sia la cascina del Veneto. La Scozia e la Svizzera
s'affacciano spontanee al pensiero del viaggiatore; la Scozia e la
Svizzera, che hanno col Cadore tanta analogia di paese e sono entrambe
sì rinomate pei loro pascoli e per la bontà delle carni, del latte,
dei burri e dei formaggi che producono. Il Cadore non può, certo,
aspirare a gareggiar con esse da questo lato, perchè sarebbe follìa
che esso atterrasse i boschi per coltivare a prato i terreni; ma forse
gli converrebbe sfruttar meglio i pascoli esistenti, importando nuovo
bestiame, e soprattutto fornendosi delle razze migliori che gli mancano
affatto. La pastorizia, la quale rappresenta uno dei primi passi della
giovane umanità, è tornata in singolare onore presso i popoli più
innanzi nell'incivilimento, dappoichè gli scienziati hanno scoperto
che le nazioni sono tanto più potenti, quanto maggiore è la quantità
di _beefsteaks_ che consumano. E siccome è impossibile esigere che il
cittadino mangi _beefsteak_ solo per patriottismo, conviene che gli
si ammanniscano carni abbastanza saporite da mettere d'accordo il suo
palato con la sua coscienza. Queste ed altre considerazioni io faceva
meco medesimo al cospetto del _beefsteak_ che vidi portarmi alla
locanda di Tai e che, fisiologicamente, sarà stato un buon riparatore
di forze, ma, gastronomicamente, non era un buon cibo; ciò che prova
che l'allevamento del bestiame è ancora indietro in Cadore.
Un progresso razionale, continuato, in questa industria non può
certo operarsi dal più della popolazione cadorina che ha un possesso
omeopatico, e gran parte dell'anno sta nei boschi, o per le _taglie_
o pei _segni_. oppure è occupata nelle seghe; ma bisogna che vi si
accinga di proposito alcuno di que' ricchi che sono in istato di
portarvi un sussidio di tempo, di capitali e di studi. Io sono di
parere che chi si ponesse all'opera, oltre a recare un beneficio al
paese, otterrebbe un largo compenso alle proprie fatiche, e mi figuro
talvolta ciò che, col solo pungolo dell'interesse individuale, farebbe
un gruppo d'Inglesi che dovesse soggiornare in questa contrada, e come
presto esso vi diverrebbe maestro di fortunate iniziative, di diuturna
solerzia e di virilità persino nelle manifestazioni dell'opulenza.
Indi le cacce ardimentose, indi le stalle riccamente fornite, indi
l'allegro movimento della cascina, i cui prodotti diverrebbero materia
d'esportazione.
Certo un alto ufficio è assegnato agli uomini, che con dovizia di
mezzi e d'affetto imprenderanno a risanare il Cadore dal malessere
che lo affligge. Sia che essi tentino d'arrestar sulla sua china
il periclitante commercio dei legnami, sia che vogliano introdurre
in quella regione montuosa le abitudini della pastorizia, sia che
s'occupino a ravvivare altre industrie, come la mineraria[5] e
quella degl'intagli di legno, per la quale i Cadorini hanno rare
disposizioni,[6] da per tutto incontreranno difficoltà, ma da per
tutto anche elementi di buon successo e di compiacenza. Da un lato le
opposizioni inevitabili degl'interessi offesi, la resistenza passiva
d'un popolo schivo, forse, in sulle prime di essere disciplinato, e
non sempre operoso del pari che intelligente; ma dall'altra parte, nel
popolo medesimo quella svegliatezza d'ingegno che, a lungo andare, non
può a meno di renderlo accessibile ai savî consigli, e quell'indole
franca e leale che, quando accoglie un'idea, raccoglie senza reticenze
e senza sottintesi. E le solide virtù e i semplici costumi di queste
genti le renderebbero immensamente adatte a svolgere nel proprio grembo
tutte quelle istituzioni onde s'onora la civiltà moderna, e che appunto
non mettono salda radice ove non trovino il fondamento dell'onestà. Un
Cadore seminato di piccole Banche alla foggia scozzese o tedesca, di
Unioni di mutuo soccorso, di Casse di risparmio, di Società di consumo,
è oggi un sogno e non più, ma potrebbe essere una realtà fra pochi
anni, purchè alcuno accendesse la scintilla animatrice. Oh, fra tanti
e la zolla senza nome è distinta fra mille più che il marmo istoriato
dei sontuosi cimiteri. Colà almeno, se qualche fremito di vita corre
attraverso le fredde reliquie, i defunti sentono le care e note favelle
nella capanna vicina, e nelle lunghe sere d'inverno, quando la neve
imbianca le povere croci, odono il ronzìo del consueto _filò_ entro
la tepida stalla, e indovinano la primavera al tintinnìo delle capre
erranti pei monti, e la state all'allegra canzone dei mietitori. Colà
almeno la religione della famiglia, sopravvissuta al naufragio di
tutti gli Olimpi, ha più facili i suoi riti pietosi, e l'alpigiano che
sfronda gli abeti o mena la vaccherella su pegli scoscesi sentieri,
vedendosi a' piedi il tranquillo recinto del camposanto, pensa a' suoi
diletti che ivi dormono l'eterno sonno, e tempra con soave malinconìa
la fierezza dell'animo.
L'aspetto d'un cimitero dispone lo spirito a tetri pensieri; ma v'è
qualche cosa di molto più lugubre, ed è l'aspetto della devastazione
e della rovina. Esso ti si presenta a Lozzo, villa distrutta poco men
che da capo a fondo da un incendio il 15 settembre 1867. Lo spettacolo
che essa mostrava nel maggio successivo, in cui gli abitanti erano già
innanzi nell'opera di ricostruzione, poteva darti un'idea della orrenda
catastrofe, facile del resto a immaginarsi, quando si pensi che le case
erano pressochè tutte di legno e che l'incendio divampò nella notte.
Facevano ingombro alla via le travi carbonizzate e i monti di sassi
destinati a rifabbricare più solidamente il villaggio, e alcuna delle
abitazioni di pietra non soggiaciute a quella ruina portava i segni
del guizzo capriccioso della vampa intorno alle muraglie sgretolate.
Le case erano ancor senza tetto; la popolazione viveva di giorno
sulla strada, e la notte trovava ricovero in qualche capanna ospitale
nelle vicinanze. Così quelle genti, colte dalla sventura in autunno,
avevano dovuto lasciar trascorrere i lunghi mesi del verno, avevano
dovuto lasciar che le nevi coprissero le macerie del loro paese, prima
di poter ricomporre di propria mano il povero nido. E fu davvero per
un miracolo di carità dei luoghi vicini, che riuscirono a durare i
rigori della stagione e a serbar vigorose le braccia e non accasciato
lo spirito. In mezzo a quella scena che ti ricorda le irruzioni
barbariche, causa di tanti lutti all'Italia, vedi ancora volti sereni,
odi le voci festive delle fanciulle che attingono al fonte, e le risate
clamorose dei bambini che giuocano sopra i mucchi di sassi.
A poche miglia da Lozzo trovi una specie di chiusa detta dei Treponti.
La strada si biforca: il braccio destro entra nel Comelico, il sinistro
va verso Auronzo. Dalla destra viene impetuosissima la Piave e in
quel sito accoglie le acque d'un altro torrente, che scende dal lato
opposto, l'Ansei. Il nome dato a quel luogo è dovuto appunto a tre
ponti di pietra, o, a meglio dire, a un ponte che si tripartisce e
con due delle arcate traversa le fiumane ancora divise, con la terza
le valica dopo il loro connubio. Tutto intorno sorgono monti alti
e scoscesi, fitti d'abeti sulla sponda dell'Ansei, aridi e nudi su
quella della Piave, quantunque chi penetri nel cuore del Comelico veda
nuovamente imboscarsi il terreno. In questa gola si combattè nel 14
agosto 1866 l'ultima scaramuccia fra Italiani ed Austriaci. Venivano
questi da Auronzo sotto il comando del generale Mensdorff Pouilly, ed
erano in numero di 4000, impazienti di forzare il passaggio, ignari
ancora dell'armistizio concluso due giorni innanzi. Avevano a fronte
pochissimi volontari cadorini, male vestiti e male armati, che, sebbene
colti alla sprovveduta, opposero una pertinace resistenza, spargendosi
qua e là dietro gli abeti lungo il dorso del monte che bagna le falde
nell'Ansei, e mantenendo un fuoco micidiale da bersaglieri contro le
masse nemiche. Vi furono da ambo i lati morti e feriti, vittime inutili
d'una lotta che non aveva più scopo. Un oste del luogo, vecchio coi
capelli bianchi, certo più che sessantenne, che quel giorno aveva
anch'egli brandita la sua carabina e preso parte alla pugna, me ne
disse le vicende con ardor giovanile, e l'inatteso approssimarsi
degli Austriaci, e lo sgomento delle donne, e il piglio risoluto dei
_nostri_, e il primo sangue versato, e il giungere al campo austriaco
d'una staffetta portante la novella dell'armistizio. Come mi piaceva
sentire in bocca al valoroso vegliardo quella frase — _i nostri!_ —
Com'era bello quel suo infiammarsi nel racconto del breve conflitto!
Certo nell'animo di lui non era sceso ancora lo scoramento, onde quasi
menano vanto tanti Italiani. La luna di miele della libertà dovrebbe
durare secoli: a noi sembrò più dicevole di chiuderla nella cerchia
coniugale d'un mese e di atteggiarci poscia a mariti noiati.
In Cadore il patriottismo è sano e vigoroso, convinto che dopo aver
toccato una mèta
Ch'era follia sperar
sarebbe delitto il mettere a repentaglio gli acquistati beni con le
discordie intestine e con le violenti diatribe, convinto che non v'è
gloria passata che basti a far perdonare la colpa di porre a cimento
le sorti della propria contrada. Perciò in quella terra veramente
eroica, in mezzo a quegli uomini veramente d'azione, non mi accadde di
sentir vituperato il Governo come solevasi dell'austriaco, nè di veder
fatti segno al pubblico sprezzo tutti coloro che sorsero a qualche
rinomanza in Italia. I difetti delle nostre amministrazioni e de'
nostri uomini si conoscono in Cadore non meno che altrove; ma i lamenti
che se ne muovono non prendono quel tuono d'acrimonia che distingue
in molte parti della Penisola le opposizioni, nè indossano quel manto
d'intolleranza che nega il patriottismo a chiunque si faccia lecito
di non osteggiare l'Autorità. E ciò che più conforta chi giunge dalle
città atrabiliari e dalle campagne indifferenti della pianura, si è
la pienezza della fede nei patrî destini, si è il sentirsi affollati
d'interrogazioni sulle vicende politiche e sull'avvenire economico del
paese; non già da ricchi possidenti del luogo, ma da poveri coloni, che
una cinquantina di miglia più in giù non saprebbero se non assordarci
di piagnistei sulla malattia delle uve e la gravezza delle imposte.
Oserò io dirlo? A quest'ultimo lembo della Penisola che, in ogni
moto di popolo, fu o un covo d'insorti, o un rifugio di profughi, a
questa regione alpina, ove dai 1848 al 1866 si congiurò in ogni casa,
giovò forse non esser gonfiata dagli articoli del giornalismo e dalle
arringhe dei _meetings_. Che pur troppo sinora in Italia pubblicisti
e tribuni fecero più male che bene alla patria. Come que' membri dei
consigli di disciplina della Guardia Nazionale che vestirono la divisa
di giudici, perchè non volevano aver le noie di militi, così una gran
parte di essi assunsero l'ufficio di dispensatori di luce per ismettere
l'uniforme di cittadini, per sottrarsene ai doveri, per giustificare
coi fremiti furibondi i tepidi e patologici affetti.
E adesso, chiudendo la parentesi, rimettiamoci in via, e dai Treponti
dirigiamoci al punto estremo del nostro pellegrinaggio, ad Auronzo.
Dopo Treponti si perde la compagnia della Piave, che, come abbiam
visto, vien giù dal Comelico, e la strada solitaria costeggia sempre
l'Ansei, passando in mezzo a un bosco di abeti. Uscendo dal fitto degli
alberi, ti si apre al guardo un altipiano di ricca e bella verdura,
cinto, ma non oppresso da monti, in mezzo al quale spiccano le candide
muraglie della chiesetta d'Auronzo e i tetti bassi ed affumicati delle
capanne di legno. Pieve arieggia uno de' soliti borghi della pianura,
Tai è composta di poche case, Calalzo non è che un gruppo di meschini
tugurî; ma Auronzo, paesotto piuttosto grosso e diviso in due parti
(_villa piccola_ e _villa grande_), ha un suo aspetto particolare con
quelle abitazioni quasi tutte di legno, con que' vicoli che salgono
con leggiero declivio sul pendio d'un monte, con quei mulini che vi
romoreggiano mossi dalla corrente, con quell'abbondanza di acqua che
vi zampilla in fontane, vi scorre in ruscelli, vi mugge in torrenti.
Nella mia qualità di cittadino delle lagune, al veder tanta ricchezza
di fonti, intorno alle quali le fanciulle d'Auronzo, ignude le
braccia, piegata la persona, s'affaccendano a fare il bucato, pensai
all'interminabile questione dell'acquedotto veneziano, lunga come
quella d'Oriente, complicata come quella dello Schleswig-Holstein, e
invocai sulla mia patria una vena della linfa cadorina per far tacere
una volta il cicaleccio e spegnere gl'incendi del nostro giornalismo.
Chi lo direbbe? Anche Auronzo «la divisa dal mondo ultima _Auronzo_»
ha una questione municipale. Qua e là vidi scritto col gesso —
_Abaso il segetario_, — e deplorai vivamente che nessun giornale del
luogo potesse con sagge e temperate polemiche, come si costuma fra
noi, illuminare l'opinione pubblica, e che gli abitanti d'Auronzo
non avessero alcun _organo indipendente_, su cui far valere le loro
ragioni. È davvero una cosa umiliante, tanti secoli dopo Panfilo
Castaldi e il Guttemberg, di non possedere un torchio e una scatola di
caratteri di stampa, coi quali annunziare a tutti i popoli della terra
che i propri concittadini son ladri e balordi, egoisti quando rifiutano
i pubblici uffici, impudenti quando gli accettano.
Frattanto alcuni degli abitanti d'Auronzo cercano consolarsi della
grave mancanza, formando un nucleo di società, che per sì piccola villa
è veramente prezioso. Si radunano in dieci o dodici in una specie di
gabinetto di lettura, ove ricevono i giornali di Venezia e di Firenze,
e così, giuocando e ciarlando, ingannano le lunghissime sere d'inverno,
e non si coricano che a mezzanotte, cosa da fare stupire chi consideri
che in alcuni mesi dell'anno il sole non rischiara quella valle per più
di tre ore al giorno, e una lastra di ghiaccio copre costantemente le
vie.
Una questione ben più grave della municipale tiene sospesi gli animi in
Auronzo, ed è quella della divisione dei boschi. In tutto il Cadore la
maggior parte della proprietà boschiva è in mano ai Comuni, ma tra i
Comuni più ricchi v'è quello d'Auronzo, ove, per singolare contrasto,
la popolazione è poverissima, e s'è avvezzata ormai a vivere di
sussidî. Ivi noi vediamo una miniatura del _pauper_ inglese, dell'uomo
cioè che, nella piena vigorìa dell'età, rinunzia alle compiacenze
del lavoro per chiedere burbanzoso i sussidî del suo Comune, come si
chiede una imposta. Perciò alcuni opinano che sarebbe saggio consiglio
di venire a un riparto dei boschi, i quali, dicendosi comunali,
sono, a rigore, proprietà dei singoli abitanti. Ma un provvedimento
sì radicale incontra gagliardi oppositori, mentre sembra a molti che
questa specie di legge agraria rovinerebbe il paese, affidando la
conservazione dei boschi a gente cupida di farne danaro, e improvvida
quindi dell'avvenire, e dimentica, o per accidia, o per ignoranza, di
quelle cure che un tal genere di proprietà richiede. I boschi sarebbero
distrutti, e con essi la principale, l'unica fonte di ricchezza del
luogo, e i coloni tornerebbero al vecchio mestiere di poveri, senza
poter affidarsi all'antica liberalità del Comune, ormai esausto di
mezzi. Vorrebbesi quindi da molti che la proprietà rimanesse indivisa
qual'è nelle mani del Municipio; ma che questo, anzichè volgerne i
profitti a mantenere un accattonaggio legale, sapesse convergerli a
far sorgere fonti di lavoro agli abitanti, a promuovere, per esempio,
l'industria mineraria, ristretta ora alle vicine cave di zinco. Di
tale questione, che si dibatte in Cadore con una vivacità che sente
dell'acrimonia, io mi son fatto semplice espositore: confesso però che
mi sembrerebbe incauto non poco un riparto di beni fra una popolazione
che non diede caparra alcuna di alacrità, ma fu avvezza sinora ad
aspettare la manna dal cielo.
Ed ora, giunto al termine della mia rapida corsa, dedicherò brevi
pagine, se il lettore me lo assente, ad alcune considerazioni generali,
le quali suppliranno alle immense lacune descrittive della mia
monografia. Nella medesima guisa, quando al teatro, per una ragione
o per l'altra, il capocomico non può far rappresentare l'ultimo atto
d'una commedia, manda uno dei suoi subalterni ad annunziare al colto
pubblico e all'inclita guarnigione che vi supplirà con una farsa non
compresa nel programma. Per solito il pubblico fischia; io ti prego, o
lettore, di non fare altrettanto, se in luogo di condurti in Comelico,
o al bosco di Somadida, o al pensile lago di Mesurina, dove si mangiano
di ottime trote, ti ammannisco una piccola dissertazione economica.
Tu non ignori che ormai l'economia politica è diventata uno di quei
pascoli comunali, ove una volta ciascuno menava gli armenti senza
pagar nulla a chicchessia. Come cent'anni fa si scriveva un sonettino
od un madrigale, così adesso si scrive una Memoria sul pauperismo, sul
risparmio e sul sistema cooperativo. Lasciami pagar questo tributo al
mio secolo.
IV.
Un'erudizione a buon mercato. — La proprietà e l'amore dei litigî
in Cadore. — I boschi. — L'oligarchia dei negozianti di legname.
— Loro spirito stazionario. — La _tariffa_ dei legnami. — I
_punti neri_ del commercio cadorino. — Progetti per arrestarne
la decadenza. — La pastorizia. — Necessità di diffonderla. —
Una dissertazione economica a proposito di un _beefsteak_. — Le
attitudini dei Cadorini. — Perorazione finale.
Comincio con facilissima erudizione. Il Cadore, come tutti sanno, è
situato nel Settentrione delle provincie venete, e forma parte del
Bellunese. Posto sulla pendice delle Alpi Rezie, è una delle cittadelle
naturali d'Italia. Dopo varie vicende, fece nel 1420 atto spontaneo
di dedizione alla Repubblica di San Marco, dalla quale ebbe in cambio
ampli privilegî ed una larghissima autonomia, che avvezzando il
popolo al governo della cosa pubblica ne acuì maggiormente la pronta
e sottile intelligenza. Può dirsi anzi che Venezia non esercitasse
sopra il Cadore che un semplice protettorato. Il paese si reggeva
con leggi proprie: la sua _Magnifica Comunità_, eletta per centurie a
suffragio di popolo, radunavasi in Parlamento ogni mese e costituiva
il potere legislativo, mentre il potere esecutivo era affidato a
quattro _Consoli_ e ad un _Vicario_, nominati dallo stesso _Consiglio_.
Rappresentava la Repubblica un _Capitano_ residente nel Castello di
Pieve, il quale assisteva bensì alle adunanze del _Consiglio_, ma
senza diritto di voto. Quest'ordine di cose durò fino al 1797. Indi
i Cadorini seguirono le alterne fortune di Venezia, alla quale li
stringe inalterabile affetto e dal cui risorgimento economico molto
s'aspettano. Il numero degli abitanti è ora di circa 40,000, ripartiti
in cinquanta villaggi, gente robusta di membra e di spirito, calda
di nobili sensi, immaginosa, faconda, ospitale; vero fenomeno per chi
conosce il gretto contado della pianura veneta. È raro il Cadorino che
non sappia leggere, e, cosa mirabile, il Comune di Pieve manteneva
scuole pubbliche fino dal 1300! Ed è pur difficile trovar quivi chi
non possieda un campicello e una casa, tanto vi è divisa la proprietà.
Ne derivano vantaggi e danni: citerò fra questi lo scarso progresso
dell'agricoltura e la smania de' litigî, che pare congenita nel
piccolo possesso e che qui s'alimenta dalla sottigliezza dialettica
della popolazione, la quale cita il Codice a memoria e ne discute
gli articoli; tantochè se il Racine fosse stato in Cadore, si direbbe
ch'egli vi avesse trovato i tipi dei suoi _Plaideurs_. A tante cause
non bastano i pochi avvocati, e un discreto numero di legulei va
ronzando intorno ai bisticciantisi, e soffia nel fuoco, e prolunga le
questioni fuor di misura.
La produzione agraria del Cadore supplisce appena al consumo di due o
tre mesi, onde non è concesso agli abitanti di vivere dei frutti del
possesso, e devono impiegarsi nei boschi o negli edificî di seghe.
I boschi fanno la vera ricchezza del Cadore e occupano una superficie
di pertiche censuarie 718,089:44.[4] Sono per la massima parte
proprietà dei Comuni o delle Chiese: alcuni sono di privati: uno
solo, quello di Somadida, appartiene all'Erario, per dono fattone
dalla Comunità cadorina alla Repubblica veneta nel 1463. I Comuni,
di triennio in triennio, aprono le aste per vendere i loro prodotti
boschivi, e negli anni addietro i negozianti che vi concorsero, vi
fecero immensi profitti, onde in mezzo al possesso frastagliato, alle
consuetudini democratiche del Cadore, si costituì un'oligarchia di
famiglie opulenti. Sennonchè le dovizie assai rapidamente accumulate
hanno seco gravi inconvenienti, quello fra gli altri grandissimo
di assopire le ardite iniziative, di non tener desto lo spirito ai
bisogni e alle mutazioni dei tempi. Questo è un rimprovero che, salvo
alcune eccezioni, può farsi ai ricchi negozianti del Cadore. Essi
non hanno inteso la legge di progresso che governa tutte le cose, e
videro in ogni innovazione un'insidia alla loro supremazìa. Citerò un
fatto. Per insinuazione di alcuni di loro venne, durante il dominio
austriaco, sospesa per qualche tempo la linea telegrafica di Tai,
la quale, rendendo di pubblica ragione giorno per giorno il listino
della Borsa di Vienna, li disturbava in certi loro affari di cambio.
Le così dette _tariffe_ dei legnami sono uno specchio fedele della
stazionarietà cinese di questa gente. Quali erano cinquant'anni fa,
tali sono adesso. La loro unità di valore è la lira austriaca, la loro
unità di misura è il _bollo_ e l'_oncia_, la loro lingua è il dialetto
veneziano, tantochè vi vedi scritto _Refudi_ invece di _Rifiuti_,
_Roversi_ in luogo di _Rovesci_. Le cifre sono immutabili; ma siccome
anche i legnami vanno soggetti alla legge dell'offerta e della domanda,
così le variazioni di prezzi si convertono in aumenti o ribassi dalla
tariffa. I legnami scelti che vanno per la Puglia subiscono un aumento,
che oltrepassò qualche anno fa il 22 per cento, ed oggi è dal 15 al 20:
la massa però va soggetta a un ribasso, che talvolta supera il 26 ed
il 30. Comunque sia, un forestiero che consulti la tariffa, principia
col non intendere l'idioma, in cui essa è scritta, e, quando se l'è
fatta spiegare, termina col saperne quanto prima, perchè gli manca
il dato regolatore dell'aumento e del ribasso. Così una _tariffa_ di
legnami, assurda nel suo titolo, perchè tariffa significa immobilità,
assurda nella sua lingua, nelle sue misure e nella sua moneta, che non
sono nè la lingua, nè le misure, nè la moneta italiana, esige almeno
altrettanti commenti, quanti ne voglia uno de' canti più astrusi della
_Divina Commedia_.
È naturale che con tanta grettezza e con tanti intralci un commercio
non possa a lungo prosperare, ed infatti il commercio cadorino è
seriamente minacciato. Su molti degli antichi mercati il legname del
Cadore trova la concorrenza formidabile di quello della Stiria, della
Carintia, del Tirolo, della Norvegia, e persino dell'America, e non
è che la robustezza della sua fibra, e un po' anche la tradizione,
che gli consentano di mantener con decoro la lotta. Qui pure la
strada ferrata ha prodotto una rivoluzione. I legnami della Carintia
e del Tirolo, appena recisi, vengono messi nella strada ferrata,
e non subiscono quindi nè la perforazione ai due capi, che produce
una perdita per ogni pezzo, nè i ritardi d'un viaggio fluviale, nè
i danni della troppo lunga immersione; a quelli della Norvegia e
dell'America giova il modico prezzo, a tutti il sistema più semplice di
contrattazione.
Credo sarebbe vana speranza quella di rimettere nell'antico suo fiore
il commercio dei legnami cadorini. Nel Levante, nelle Isole Jonie ed
altrove, esso godeva di una specie di monopolio, perchè le tradizioni
onnipotenti della Repubblica di San Marco ne incatenavano il commercio
alle antiche vie, e perchè i mezzi imperfetti di comunicazione
rendevano o difficile, o impossibile la concorrenza straniera. Ma è
opera gettata l'affannarsi sulle tracce dei monopolî perduti. Ormai
non si può impedire che Trieste, la quale, favorita per tanti anni dal
Governo austriaco, e, diciamolo pure, anche dalla maggiore operosità
de' suoi abitanti, sorse vigorosa a fronte della nostra Venezia,
continui ad approfittare della strada (_Südbahn_ e sue diramazioni)
che la congiunge alla Carintia e alla Stiria, ed a spargere co' suoi
vapori i legnami lungo le coste adriatiche e mediterranee; nè si può
arrestare la concorrenza dell'America, che, sbarazzandosi con la scure
il cammino verso l'Oceano Pacifico, slancia in Europa le reliquie delle
foreste che le facevano impaccio, e vince col basso prezzo gli ostacoli
delle distanze e dei noli. Il commercio dei legnami in Cadore ha tre
_punti neri_; il prezzo superiore a quello delle altre provenienze,
la lentezza del trasporto, la perforazione delle tavole. La prima
difficoltà è forse la meno ardua a superarsi, perchè i Comuni possono
ribassare il prezzo dei loro prodotti boschivi, e i negozianti devono
contentarsi di men lauti profitti in un tempo, nel quale ogni traffico
vede assottigliati i proprî utili, ed è legge inesorabile lavorar molto
per guadagnar poco. Più malagevole sarà l'accelerare il trasporto e il
lasciare intatte le tavole, perchè ad ottener ciò converrebbe poter
valersi della strada ferrata. Ora un tronco di strada ferrata che da
Conegliano per Vittorio si spingesse direttamente attraverso il Cadore
e andasse ad unirsi col ramo della Pusteria, divisato dall'Austria per
arrivar poscia alla linea del Brennero, sarebbe certo cosa immensamente
proficua, ma non conviene dimenticare gli ostacoli e il dispendio
d'una tale impresa, che dovrebbe far superare ai convogli pendenze
assai forti. Nondimeno varrebbe certamente la pena che gli uomini
dell'arte studiassero il problema, e vedessero se i vantaggi di questa
linea ferroviaria non ne compenserebbero in larga misura la spesa.
Un altro disegno, assai degno di menzione, è quello di fondare in
Venezia un grandioso edificio di seghe a vapore. Con un deposito sempre
compiutamente assortito, con un lavoro non interrotto, esso ovvierebbe
al gravissimo inconveniente del ritardo che soffrono ora le commissioni
date in Cadore pegl'intralci naturali della fluitazione, aumentati
talora o dai ghiacci, o dall'improvviso ingrossamento delle acque;
tantochè, mentre chi si provvede in Stiria, in Carintia, in Tirolo, sa,
per così dire, il giorno preciso, nel quale riceverà la sua merce, chi
l'aspetta da Perarolo o da Longarone deve acconciarsi a imprevedibili
indugî. Non fa mestieri di spender molte parole per dimostrare che un
opificio di questo genere produrrebbe una rivoluzione nel commercio del
Cadore. L'esattezza e la celerità del lavoro, il risparmio della mano
d'opera dovuto all'azione dei grandi motori meccanici, basterebbero
di per sè soli a dar la prevalenza al nuovo opificio in confronto di
quelli ch'esistono lungo la Piave: vi si aggiungerebbero però altri
vantaggi di non minore importanza. Sparirebbe la perforazione, perchè
il legname, anche arrivando ugualmente per via fluviale, sarebbe
affidato alla corrente in tronchi anzichè in tavole, e i singoli
pezzi potrebbero quindi venir commessi insieme in modo diverso:
si conserverebbe la bianchezza apprezzata su molti mercati, e, per
ultimo, sarebbe evitato il deperimento che la tavola subisce per la
fluitazione sino a Venezia. Ma, d'altro canto, non v'ha dubbio che
interessi particolari verrebbero offesi, e il capitale fisso investito
negli edificî di seghe soffrirebbe un subitaneo deprezzamento. Quanto
ai lavoranti, essi potrebbero o trasferirsi in Venezia, ove il nuovo
opificio offrirebbe loro più larghe mercedi, o attendere ai depositi
di legname, che rimarrebbero in Cadore. Comunque sia, ammettendo pure
la possibilità d'una crisi passeggiera, non sarebbe da combattersi a
questo titolo un'utile iniziativa; solo converrebbe provvedere a quei
modi che rendessero meno penosa la transizione.
A tal uopo nulla sarebbe più opportuno che il vivificare le altre
fonti di ricchezza del Cadore. Chi percorre questa regione alpina,
ammira, negl'intervalli lasciati dai boschi, la bella e ricca verdura
stendentesi talvolta sino alle estreme giogaie dei monti elevati, e
non sa intendere come non abbia ad esservi in fiore la pastorizia, e
come il paese non sia la cascina del Veneto. La Scozia e la Svizzera
s'affacciano spontanee al pensiero del viaggiatore; la Scozia e la
Svizzera, che hanno col Cadore tanta analogia di paese e sono entrambe
sì rinomate pei loro pascoli e per la bontà delle carni, del latte,
dei burri e dei formaggi che producono. Il Cadore non può, certo,
aspirare a gareggiar con esse da questo lato, perchè sarebbe follìa
che esso atterrasse i boschi per coltivare a prato i terreni; ma forse
gli converrebbe sfruttar meglio i pascoli esistenti, importando nuovo
bestiame, e soprattutto fornendosi delle razze migliori che gli mancano
affatto. La pastorizia, la quale rappresenta uno dei primi passi della
giovane umanità, è tornata in singolare onore presso i popoli più
innanzi nell'incivilimento, dappoichè gli scienziati hanno scoperto
che le nazioni sono tanto più potenti, quanto maggiore è la quantità
di _beefsteaks_ che consumano. E siccome è impossibile esigere che il
cittadino mangi _beefsteak_ solo per patriottismo, conviene che gli
si ammanniscano carni abbastanza saporite da mettere d'accordo il suo
palato con la sua coscienza. Queste ed altre considerazioni io faceva
meco medesimo al cospetto del _beefsteak_ che vidi portarmi alla
locanda di Tai e che, fisiologicamente, sarà stato un buon riparatore
di forze, ma, gastronomicamente, non era un buon cibo; ciò che prova
che l'allevamento del bestiame è ancora indietro in Cadore.
Un progresso razionale, continuato, in questa industria non può
certo operarsi dal più della popolazione cadorina che ha un possesso
omeopatico, e gran parte dell'anno sta nei boschi, o per le _taglie_
o pei _segni_. oppure è occupata nelle seghe; ma bisogna che vi si
accinga di proposito alcuno di que' ricchi che sono in istato di
portarvi un sussidio di tempo, di capitali e di studi. Io sono di
parere che chi si ponesse all'opera, oltre a recare un beneficio al
paese, otterrebbe un largo compenso alle proprie fatiche, e mi figuro
talvolta ciò che, col solo pungolo dell'interesse individuale, farebbe
un gruppo d'Inglesi che dovesse soggiornare in questa contrada, e come
presto esso vi diverrebbe maestro di fortunate iniziative, di diuturna
solerzia e di virilità persino nelle manifestazioni dell'opulenza.
Indi le cacce ardimentose, indi le stalle riccamente fornite, indi
l'allegro movimento della cascina, i cui prodotti diverrebbero materia
d'esportazione.
Certo un alto ufficio è assegnato agli uomini, che con dovizia di
mezzi e d'affetto imprenderanno a risanare il Cadore dal malessere
che lo affligge. Sia che essi tentino d'arrestar sulla sua china
il periclitante commercio dei legnami, sia che vogliano introdurre
in quella regione montuosa le abitudini della pastorizia, sia che
s'occupino a ravvivare altre industrie, come la mineraria[5] e
quella degl'intagli di legno, per la quale i Cadorini hanno rare
disposizioni,[6] da per tutto incontreranno difficoltà, ma da per
tutto anche elementi di buon successo e di compiacenza. Da un lato le
opposizioni inevitabili degl'interessi offesi, la resistenza passiva
d'un popolo schivo, forse, in sulle prime di essere disciplinato, e
non sempre operoso del pari che intelligente; ma dall'altra parte, nel
popolo medesimo quella svegliatezza d'ingegno che, a lungo andare, non
può a meno di renderlo accessibile ai savî consigli, e quell'indole
franca e leale che, quando accoglie un'idea, raccoglie senza reticenze
e senza sottintesi. E le solide virtù e i semplici costumi di queste
genti le renderebbero immensamente adatte a svolgere nel proprio grembo
tutte quelle istituzioni onde s'onora la civiltà moderna, e che appunto
non mettono salda radice ove non trovino il fondamento dell'onestà. Un
Cadore seminato di piccole Banche alla foggia scozzese o tedesca, di
Unioni di mutuo soccorso, di Casse di risparmio, di Società di consumo,
è oggi un sogno e non più, ma potrebbe essere una realtà fra pochi
anni, purchè alcuno accendesse la scintilla animatrice. Oh, fra tanti
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