Racconti e bozzetti - 12

svizzera, che producono un effetto assai pittoresco, sospese come sono
su quelle acque biancastre e mugghianti, e contrastano coi pochi, ma
lindi fabbricati di Perarolo, ove si trovano alcune dimore di signorile
eleganza, come quella del senatore Costantini. I monti d'intorno sono
tutti vestiti di pini, d'abeti, di larici, di mughe, ed hanno una tinta
cupa che dà maggior risalto a qualche striscia di neve che ne incorona
le cime.
Dopo Perarolo si sale nuovamente e gli orizzonti s'allargano. Dalla
strada che gira intorno al monte domini ancora per un buon tratto
Perarolo, il Boite, Caralte, e sempre giù giù, serpeggiante fra balze
e dirupi come un nastro che si svolge capriccioso, vedi la Piave. E
appunto nella Piave scorgi la chiusa dei legnami detta _Cidolo_, sulla
quale ti dirò due parole di spiegazione. Allorchè l'albero è reciso
dal ceppo, esso viene assoggettato alla così detta operazione dei
_segni_, la quale consiste nell'incidere sopra ogni tronco un'impronta
particolare che serva a indicarne il proprietario. Indi, dai boschi,
i singoli pezzi sono gettati nel fiume e affidati alla corrente. Si
raccolgono entro il _Cidolo_ o la chiusa; e di là a certi tempi vengono
rimessi in libertà e procedono nel loro viaggio. A mano a mano che
passano davanti agli opificî di seghe, ciascuno riconosce dal segno
i pezzi che gli spettano, o li prende, lasciando che gli altri tirino
innanzi. È dogma del commercio cadorino di rispettare religiosamente i
_segni_, nè accadde mai a memoria d'uomo che alcuno facesse suo un solo
tronco d'albero che non gli appartenesse.
Ma ecco il campanile di Pieve e le rovine del vecchio castello, antica
sede del Governo cadorino. Due castelli sono lo stemma del Cadore:
l'uno è appunto questo di Pieve; l'altro sorgeva nell'ultimo lembo del
territorio cadorino, ora in potestà dell'Austria.
Però quando credi d'esser vicinissimo a Pieve, la via se ne dilunga
piegando a sinistra, e ti trovi invece nel piazzale di Tai, ove
sboccano altre due strade, quella che viene da Pieve ed Auronzo, e
quella di Cortina d'Ampezzo. Sebbene fra Tai e Pieve corra circa un
mezzo chilometro, pure questi paesi sogliono confondersi insieme e sono
realmente riguardati come una sola cosa. Fa il conto che Tai e Pieve
formino la Buda-Pest del Cadore. Tai è la città commerciale. Pieve è la
città politica. Tai è la città degli alberghi (veramente non ve n'ha
che uno). Pieve è la città dei pubblici ufficî, quando se ne eccettui
però l'ufficio telegrafico, che ha la sua ultima stazione a Tai. Come
Longarone, ch'è alle porte del Cadore, v'introduce le derrate che
riceve dalla pianura, così Tai, che si trova nel centro, è il fondaco
naturale di tutti quei distretti, pei quali Longarone è situata troppo
lontana. Convengono colà gli abitanti dei comuni dell'Ampezzano e di
quelli d'Auronzo, e sul piazzale dinanzi all'osteria, all'insegna del
Cadore, vedi arrestarsi sovente il biroccino del Tirolese, che con la
piuma bianca al cappello viene a spendere le sue _Bank-Noten_ e ad
aggiungere dell'altra carta alla carta, da cui è inondato il Regno
d'Italia. Oh! l'osteria all'insegna del Cadore, co' suoi letti di
ferro e le lenzuola di bucato, con le cortine diligentemente inamidate
e bianchissime, col soffitto senza ragnateli e con le pareti senza la
inevitabile vaschetta dell'acqua santa che ti perseguita nelle locande
di villaggio, può esser davvero maestra di decenza a certi alberghi
di città! Vi si conservano poi singolari abitudini patriarcali. Per
esempio, un forestiere di riguardo, e capisci che a Tai io passavo
per tale, può esser certo che durante il pranzo avrà la compagnia
dell'oste, il quale è anche il negoziante del luogo, uomo dalla
faccia rubiconda e serena, che ti esilara l'animo, e ha i caratteri
dell'onestà e dell'agiatezza. Intanto una delle padrone ti serve a
tavola, la saliera di lusso esce dallo scaffale della credenza, e ti
si ammanniscono porzioni di carne da farti credere uno di quegli eroi
d'Omero che sotto le mura di Troia si divoravano placidamente grossi
quarti di vitello e di bove. Tra un boccone e l'altro discorri di
politica, del ministero Menabrea, del corso forzoso e del prezzo della
rendita; poi, se sei uomo d'affari, cerchi d'insinuarti destramente
nell'animo del tuo interlocutore, che, come ti dissi, è persona
facoltosa, e gli esalti le mille virtù della tua casa di commercio,
e gli parli del petrolio, dello zucchero d'Olanda e di quello di
Germania, e tenti di concludere qualche negozio. Ma l'oste, ch'è
persona riflessiva, si mette in guardia e si riserba di esaminare,
vedere, ponderare, ec. ec.; si lagna degli scarsi consumi, nega di aver
moneta, e chiude il discorso con la frase consueta: — _Pochi affari,
signor mio, pochi affari._ — In questo mezzo arriva la posta, recando,
fra le altre cose, anche la _Gazzetta di Venezia_. L'oste naturalmente,
da quell'uomo saggio e stagionato ch'egli è, ha una grande venerazione
per questo periodico; nondimeno, per uno speciale atto d'ossequio, si
dà premura d'offrirtelo prima ancor di spiegarlo, e t'invita a leggerlo
all'aria aperta sopra uno dei sedili di paglia, che, il dopo pranzo, si
mettono fuori della locanda. Ivi si riuniscono, all'imbrunire, alcuni
fra' più notabili personaggi dei luoghi vicini e tengono conferenze
politiche e sociali, mentre altri più giovani e vigorosi giocano la
partita alle bocce, il _cricket_ degl'Italiani. I giuocatori non son
tutti del paese; vi si mescolano due o tre impiegati d'altre provincie
addetti agli ufficî di Pieve. L'impiegato, gracile vegetale del Regno
d'Italia, non è difficile a ravvisarsi fra mille. Io l'ho riconosciuto
a Tai da un distintivo infallibile, il cappello a cilindro unto alla
base. L'osservatore filosofo sa che il cappello di quel genere è
richiesto dalla dignità dello Stato, e che nel luccicare dell'unto sta
scritto in lettere cubitali: — _Il mio stipendio non mi permette di
comperarmi un cappello nuovo._ — Mentre le bocce rotolavano saltellando
sullo stradale, que' poveri impiegati discorrevano fra loro di
emolumenti, di traslocazioni e delle altre miserie di _monsù Travet_.
L'oste assisteva in piedi al progresso della partita, con le gambe
aperte come quelle d'un compasso che vuol descrivere un circolo, e con
le mani unite dietro la schiena, tenendo in pugno un grosso bastone di
legno che con la punta radeva il suolo: di tratto in tratto accorrevano
a fargli festa le nipotine, che poi sguizzavano rapidissime entro
un orto chiuso da un basso steccato e posto a fianco della locanda.
In verità, a me pareva d'assistere alla bella scena dell'_Ermanno e
Dorotea_ del Goethe, quando l'oste del _Leon d'oro_, insieme coi più
ragguardevoli cittadini, s'intratteneva delle cose del giorno.
L'osteria _al Cadore_ è per Tai un edifizio cospicuo, a cui non saprei
quale altro potesse agguagliarsi fuori dell'ufficio telegrafico che
vi sorge dappresso. È l'ultima stazione telegrafica di questo lembo
d'Italia, e ad allontanarsene si prova un senso d'infinito rammarico.
Sinchè quel filo misterioso ci segue, non v'è terra così remota ove noi
non ci sentiamo in famiglia; quand'esso ci abbandona, siamo assaliti
da una nostalgia inquieta e profonda: ogni stormire di foglia ci pare
debba annunziarci qualche sventura. Al davanzale d'una delle finestre
dell'ufficio stava appoggiata e sporgente con mezza la persona una
giovane vestita con eleganza cittadinesca; aveva, se non m'inganno,
un succinto abito bigio, il camicino e i polsini inamidati, e una
fettuccia di seta rosa intorno al collo. Era, senza dubbio, la moglie
dell'ufficiale telegrafico, e assisteva con una certa aria di tedio
alla partita che si giuocava sulla spianata davanti all'albergo;
tantochè, se non fosse una temerità poco lodevole a voler leggere in
viso alla gente, io avrei trovato scritto sulla fronte di lei: — _A
Tai mi ci annoio moltissimo._ — E, diciamola schietta, se per chi vi
passa due o tre giorni, quelli son luoghi d'incanto, chi vi rimane per
lunghi mesi ha bisogno di possedere la scienza della vita in sommo
grado. Non portando le abitudini e le raffinatezze della città, si
può passarsela tollerabilmente in mezzo ai monti: conviene diventar
panteisti, immedesimarsi con quella natura splendida ad un tempo e
selvaggia, attendere alla cascina e al verziere, e saper tenere lunghi
ragionamenti con la pecora che torna dal pascolo e con la pèsca che
s'indora sul ramo. Signora _telegrafista_, la mi perdoni, ma mi sembra
che con la sua leggiadrìa, e co' suoi polsini, e col suo camicino
bianco, e con la sua fettuccia rosa, ella questa scienza della vita non
l'abbia.
A un passo dall'ufficio telegrafico trovi una viuzza che sale sul
monte. Da una parte e dall'altra di questa via angusta e fangosa
sorgono le abitazioni di Tai. Sono di legno, e di quell'architettura
che abbiamo già osservata a Perarolo; i tetti di cortecce d'albero
sovrapposte sporgono in fuori per un buon metro, e hanno una pendenza
notevole, come suolsi nei paesi nordici ove bisogna agevolare lo
scolo alle nevi. I fumaiuoli non si usano, e il fumo esce dalla porta
annerendo le gallerie, le pareti esterne e le scale, ciò che, a dire
il vero, non coopera a dare un aspetto di decenza al villaggio.
Il pian terreno d'ogni casa è una specie d'arca di Noè, ov'hanno
domicilio gli animali domestici, e si vede che la popolazione di Tai
partecipa piuttosto ai gusti del Michelet che non segua i precetti del
Mantegazza, e concede sotto il suo tetto un posticino alle bestie.
— _Chicchirichì._ — Dal pollaio senti la nota misurata ed acuta del
vigile gallo, mentre vi risponde in chiave di baritono il paziente
e rassegnato bove dalla sua stalla, il porco grugnisce a mezza voce,
e l'asino, il tenore dei quadrupedi, innalza al cielo il suo raglio
patetico. Qua e là passeggia dinanzi al noto abitacolo il grave
tacchino, impettito come un senatore, la gallinella con passo leggiero
di danzatrice va beccando rasente alle siepi.
Però, anzichè occuparsi della gallina, sarà miglior consiglio alzare
il capo e fissare lo sguardo al monte Antelao, il re di quella catena,
la cui cima torreggia dominatrice sopra altri monti minori. Dicono i
Cadorini che, se il suo comignolo è vestito di nubi, la pioggia non è
lontana, e non conviene avventurarsi a troppo lunghe gite. Io, dopo
le debite osservazioni, ridiscesi la via percorsa e lasciai passare
un breve acquazzone camminando su e giù pel vestibolo dell'albergo,
e gettando di tratto in tratto l'occhio nella cucina, ove parecchî
uomini, vestiti a foggia di montanari, seguivano attenti il bollire
del riso nella pentola, e il giro uniforme dello spiedo sopra le
brage. Piovigginava ancora quando uscii all'aperto, e deliberai di
fare una passeggiata dalla parte che mena a Cortina d'Ampezzo. Le
nuvole s'erano diradate alquanto; non così però che il grigio non
prevalesse ancor all'azzurro. Le montagne s'erano liberate il capo
dalla benda che le teneva nascoste; ma, anzichè spiccare sulla curva
d'un orizzonte limpido e trasparente, disegnavano i loro contorni sopra
un fondo cinereo, mentre larghe falde biancastre si appiccicavano ai
loro fianchi come brandelli di una vesta sdrucita. Talora lasciavano
vedere soltanto le cime, e a mirarle così isolate, con quella loro
tinta fredda d'inchiostro di China punteggiata qua e là dalle nevi,
avevano qualche cosa di lugubre e di sinistro. Le avresti dette spettri
giganteschi che, celata la persona in un ampio lenzuolo, si fossero
alzati dalle loro tombe per godere ancora una volta lo spettacolo di
questo piccolo mondo. Il vento scomponeva gli ordini di quelle masse
di nubi che ora procedevano serrate, ora sciolte, ora s'incontravano
evitandosi rapidamente, ed ora cozzavano e si mischiavano insieme.
Dalle pensili selve usciva un gemito malinconico, malinconico come il
cielo velato, malinconico come l'ora che transita fra il giorno e la
notte. E io andavo innanzi senza avvedermene, lasciavo alla mia destra
Nebiù, piccola villa tutta fra i monti, e in faccia mi si prospettava
Valle, grosso paesotto, e un po' più in là Venas, posta sul ciglione
d'un monte non elevato, da cui si direbbe volesse spiccare il salto di
Saffo. Stupendo paese, abbenchè ivi tu non senta il romoreggiare della
Piave, e la strada sia meno variata, e le pendici dei monti, coltivate
a frumento o a praterìa, non abbiano punto dell'arido come in altri
luoghi del Cadore. Voci di fanciulli si sollevavano dietro a quegli
alberi, gruppi festevoli ruzzolavano pel verde declivio di quelle
alture, e qua e là le campane suonavano l'_Ave Maria_. È l'ora dei
raccolti pensieri, è l'ora in cui l'anima sospira affannosamente alle
cose lontane o perdute. Come se la brezza increspa la superficie d'un
lago, discerni solo confusamente ciò che vi dorme nel fondo, così nella
lotta diuturna della vita talora il passato si nasconde o si vela. Ma
come se l'acqua si spiana, gli oggetti ch'ella ricopre si disegnano con
netti contorni, così nella solitudine e nel silenzio acquistano rilievo
le memorie dei tempi fuggiti. E l'anelito che ti fa evocare i diletti
estinti sembra pago un instante, e li vedi affacciarsi al tuo sguardo
e sorriderti, e schiudere le braccia all'usato amplesso. Oh! non così,
immagine fuggitiva ed eterea, non così io credevo incontrarti su questi
monti, mia sorella, mia sposa, Emma mia. Anima soavemente innamorata
del bello, perchè non eri tu meco a ritrar sulla tela i varî aspetti di
questa natura sublime? Poveretta! I tuoi pennelli giacciono polverosi
nel loro cassetto, i tuoi disegni sono intatti nella cartella; ma la
tua mano bianca e gentile non mescerà più i colori sulla tavolozza,
non prenderà più la matita. Mia buona Emma, mia perduta da un anno!
Così giovane, così leggiadra, così pura, perchè involarti da me?
Non eravamo sempre vissuti insieme, non avevamo cominciato ad amarci
bambini, giocando insieme nella sala o sul terrazzo della tua dimora?
Il tuo nome non chiudeva per me ogni dolcezza? Ed ecco, oggi io non so
più scriverlo senza che la guancia mi si bagni di pianto, non so più
sentirlo proferire dagli altri senza che un fremito mi corra tutte le
membra. E vorrei che la mia prosa negletta acquistasse, parlando di
te, un inusato fascino, onde come in nitido cristallo vi si potesse
specchiar la tua immagine e invaghire di sè chi svolge le carte di
questo volume. Nè ti dolga, schiva com'eri di lodi, s'io consacro alla
tua memoria questa pagina disadorna, e faccio pubbliche le tue virtù e
il nostro amore. No, io non disturberò la tua pace con vanti superbi;
mi basti richiamare sulla tua tomba un sospiro e una lagrima di chi
sente la religione della famiglia, e sa che vuoto lasci nel mondo il
dileguarsi d'una di queste dee casalinghe, ministre di sacrificî e di
affetti. O giovani madri, che vi vedete saltellare intorno una nidiata
di bambini, e li vedete crescere dal vostro soffio nudriti, dall'ombra
vostra difesi, come teneri arbusti che isolati non reggerebbero nè
all'impeto del vento, nè alla sferza del sole, possa un Nume tutelare
serbarvi a que' cari angioletti. Ma se voi li lasciate, chi prenderà il
vostro posto? Di che canzoni culleremo i loro sonni, di che racconti
intratterremo la loro infanzia? Dalla _ninna nanna_, con cui la
balia addorme il lattante, fino al volumetto di novelle, sul quale il
fanciullo impara a sillabare, per tutto è il nome materno: il mondo
non ha previsto il caso che i bambini non avessero madre. Miei poveri
orfanelli, aprendo il libro della vita, voi troverete lacerata una
pagina; la pagina che vi avrebbe compensato di tante altre, o stolte, o
ingannatrici, o nefande; la pagina, su cui avreste riposato lo sguardo
nei giorni dell'abbattimento e dello sconforto; la pagina, nella quale
era scritto a lettere d'oro: — _Amore materno!..._ —
E tu perdona, o lettore, s'io ti parlai de' miei lutti. Vi sono tanti
che riempiono interi volumi dei loro panegirici vanitosi, ch'io spero
meritare indulgenza se ho consacrato poche parole al mio dolore....

III.
Una modesta dichiarazione. — La leggenda del Cristo. — L'asina di
Balaam e i bovi cadorini. — La capitale del Cadore. — Aspetto della
natura dopo Pieve. — Le donne al lavoro dei campi. — Il torrente
Molinà e la villa di Calalzo. — I cimiteri di villaggio. — Lozzo
di Cadore e le sue rovine. — I Tre ponti. — Fatto d'armi del 14
agosto 1866. — Il patriottismo dei Cadorini. — Auronzo. — Un modo
primitivo di dibattere la cosa pubblica. — Un gabinetto di lettura
fra i monti. — La questione dei boschi. — Un ripiego da capocomico.
Come puoi credere, il paese di Tai non offre trattenimenti serali.
Il viaggiatore non ha da far nulla di meglio che coricarsi per esser
vigile e pronto ai primi chiarori dell'alba.
Una delle gite più frequenti pei forestieri che vengono a Tai è
quella sul monte Antelao. Si alzano per tempissimo e vanno a vedere
dalla pendice del monte il levarsi del sole. Potrei fartene anch'io
una descrizione di fantasia, piena d'entusiasmi a freddo, e di punti
ammirativi concepiti nel calamaio; ma, nell'accingermi a questa breve
monografia, ho giurato a me stesso di non compiacere in nulla ai
capriccî della immaginazione, e di non descrivere che quello che ho
veduto realmente. Ora la mia gita in Cadore fu così precipitosa, ch'io
non potei dilungarmi dalla strada postale, e mi dichiaro di per me
un _touriste_ di terzo o quarto ordine. Viaggiare presto, viaggiare
in carrozza seguendo l'itinerario della diligenza, è rinunziare
spontaneamente ad ogni azione sopra i lettori che vorrebbero sentirsi
narrare le cavalcate sull'asino, le ardue discese giù per i greppi, le
colazioni sull'erba, le cacce al camoscio, e che so io? Io mi scuserò
co' due versi di messer Lodovico Ariosto:
Nè che poco io vi dia da imputar sono,
Chè quanto posso dar tutto vi dono.
Credo del resto che il carattere di quel paese, il colorito naturale di
que' luoghi possano colpirsi anche senza gite troppo particolareggiate.
Intanto non fa punto mestieri di abbandonar la strada maestra per
recarsi al famoso santuario del Cristo di Cadore. È una delle poche
superstizioni di un paese che nel suo complesso è sveglio, e può valer
la pena di spendervi alcune parole.
Salendo da Tai a Pieve, e quando hai fornito per tre quarti il tuo
cammino, t'imbatti in una chiesetta bianca con peristilio romano e
con un affresco di pessimo gusto sulla facciata. Se domandi che cosa
sia quella chiesa e che cosa significhi quell'affresco, ti guardano
strabiliati, come se l'ignorarlo fosse una grandissima colpa, e poi ti
raccontano questo edificantissimo avvenimento. Accadde una volta che
de' bifolchi aravano in quel sito la terra co' loro buoi, quand'ecco i
laboriosi quadrupedi arrestarsi ad un tratto, nè voler più muover passo
per quanto i loro conduttori li evangelizzassero con buone ragioni e
con la dialettica persuasiva delle bastonate. L'asina di Balaam, narra
la Bibbia, si trovò essa pure in condizioni uguali; ma, da quella
bestia di spirito ch'ell'era, seppe almeno, per adoperare una frase del
volgo, _dire i suoi sentimenti_. Citerò un brano del dialogo (_Numeri
XXII_): _.... Ed ella disse a Balaam: Che t'ho io fatto che tu m'hai
percossa già tre volte?_
_E Balaam disse all'asina: Io t'ho percossa, perchè tu m'hai beffato;
avessi pure in mano una spada che ora t'ucciderei._
_E l'asina disse a Balaam: Non sono io la tua asina, che sempre hai
cavalcata per addietro fino a questo giorno? Sono io mai stata usata di
farti così? Ed egli disse: No._
Non sembra che i bovi cadorini sfoggiassero una sì persuasiva
eloquenza; sembra invece che, sordi ad ogni maniera d'argomenti,
s'inginocchiassero con grande compunzione, onde la loro pietà inusitata
insospettì gravemente i pastori, che si accinsero a scavare la terra in
quel punto. Scava, scava, trovano, oh meraviglia! una cassa di legno.
La schiodano, ed ecco, composto fra gli assiti del cataletto, un Cristo
in croce, coi capelli lunghi, con la testa china alquanto sul petto. E
quei capelli sono ancora cresciuti, e quella testa s'è chinata ancora
di più, quasi a dar testimonianza della sua natura miracolosa. Fu
quindi deciso che quello era Cristo crocifisso in persona, e si lasciò
all'altro Cristo di Betlemme la briga di accertare la propria identità,
cosa della quale egli non pare essersi finora occupato. Intanto nel
luogo, ove successero questi fatti singolari, si eresse un tempietto
votivo, il Cristo vi venne collocato con grandissima pompa, e cominciò
a rimeritare i devoti con una buona quantità di prodigi. Occorreva la
pioggia? S'invocava il Cristo, ed ecco egli disserrava le cateratte
del cielo. Occorreva il sole? Ed ecco il Cristo col suo soffio
onnipotente diradava le nuvole e faceva apparire il più bel sereno che
si potesse desiderare. Quindi un pellegrinaggio continuo al santuario,
quindi una miriade di offerte che, a quanto mi disse argutamente
un Cadorino, consentono al Cristo miracoloso di vivere di rendita.
I pellegrini vengono anche di lontano, e sogliono lasciar le loro
bisacce nel peristilio ed entrar nel tempietto umili e scalzi; prima
di partire, se non appartengono ai 17 milioni d'illetterati, scrivono
il loro nome sulla facciata della Chiesa, accompagnandolo talvolta con
iscrizioni ascetiche. Sono, qual più qual meno, portenti di sintassi e
d'ortografia, e mi colpì fra le altre la seguente:
QUI BALDASSARE CHELLI TOSCANO DI PRATO COL FILIO EMILIO E SUA
CONSORTE NINA VENNE PER DEVOSIONE.
Nello scorrere queste righe in istile epigrafico non potei a meno di
chiedere a me stesso se per avventura il signor Baldassare Chelli,
toscano di Prato, fosse salito in Cadore a spargervi _notizia della
buona lingua_, secondo il desiderio di Alessandro Manzoni e del
ministro Broglio.
Comunque sia, queste singole leggende de' varî paesi, nel mentre
attestano lo spirito superstizioso dei volghi, tendono al grande
accentramento cattolico, a cui mira la Chiesa. È il municipalismo
introdotto nella fede, è un tentativo di autonomia nel campo
dell'unità. Il giorno che si forma uno di questi miti nel cuore del
popolo, la gerarchia ecclesiastica non può a meno di sentirsene
scossa: la fede esce di carreggiata, e anzichè tenersi entro i
margini prescritti, cerca i suoi conforti nelle creazioni avventicce
del momento e del luogo. Ma come opporvisi? Il prete di campagna,
o partecipi egli pure alla credenza comune, o cerchi farne suo
pro per uscire alquanto di tutela e sottrarsi alle ferree spire
che lo costringono, e acquistar maggiore importanza presso i suoi
parrocchiani, si leva assai di rado a combattere le superstizioni
nascenti, e con animo volonteroso ministra all'altare dedicato
all'idolo che sorge. La Chiesa lo sa e lascia correre. Talora fa le
viste di non avvedersene, talora concede il diritto di cittadinanza
a questa o quella delle nuove leggende, e impone a' suoi dugento
milioni di fedeli la fanfaluca che ha dovuto accettare da un gruppo di
cinquanta pastori. Sottili arti d'impero, nelle quali Roma è maestra.
Dal santuario del Cristo a Pieve corrono appena cinque minuti.
Pieve è quasi per intero costrutta di pietra, e sebbene i vetturali,
che vogliono risparmiare ai loro ronzini un buon tratto di salita,
sostengano che non vi si alloggia nemmeno per idea come nell'_osteria
al Cadore_, ella ha un aspetto molto più signorile di Tai. Ha
guarnigione [cinquanta o sessanta bersaglieri], ha pubblici ufficî, e
quindi impiegati; ha Pretura, e quindi avvocati e legulei. La piazza è
sufficientemente ampia e regolare; ha un carattere antico e contiene
i due monumenti più ragguardevoli di Pieve, la casa di Tiziano e la
chiesa. Della casa ove nacque il grande pittore dell'_Assunta_ e del
_San Pietro Martire_, non saprei dirti nulla, tranne ch'ella serve
a una vendita di vino al minuto, ciò che non mi sembra invero troppo
dicevole. Quanto alla cattedrale, che contiene due dipinti di Tiziano,
essa è piccola, ma non inelegante.
Chi viaggia con la diligenza non può recarsi più in là di Pieve, perchè
l'impresa che aveva cominciato con lo spingere le corse fino ad Auronzo
non vi trovò il suo utile, e dovette far le sue colonne d'Ercole della
capitale del Cadore. Però la strada, sebben più deserta, non è meno
varia e pittoresca: anzi, quanto più t'inoltri, tanto più folto di
abeti e di larici è il dorso dei monti, e più spesso lo sguardo ti
si riposa sopra il molle declivio degli altipiani coltivati parte a
cereali, parte a prateria. E là su quelle praterie e su quei campi vedi
disegnarsi i gruppi dei contadini e delle villanelle intenti al lavoro.
Delle donne moltissime sono adoperate pei trasporti, o della legna, o
del concime, o del fieno, o anche di pesantissime pietre che servono
alle costruzioni, e tu le vedi curve sotto la rustica _gerla_ contesta
di vimini, che devi certo conoscere, se ricordi le povere femmine
che dall'Alto Friuli scendono fra noi a limosinare, portando in quel
recipiente di paglia ciò che le madri hanno di più prezioso, i loro
bambini. Nel Cadore trovi _gerle_ di tutte le dimensioni, e parrebbe
che anch'esse avessero la loro infanzia, tanto ve n'ha di piccine,
adatte a fanciulletti di cinque o sei anni. Quando non attendono a'
trasporti, le donne si mescono invece ne' campi al lavoro degli uomini.
Nella prima giovinezza, chè la fatica affretta in loro il corso degli
anni, sono bellissime di aspetto e di forme. Vestono semplici assai: le
ripara dal sole, o un cappello di paglia a larghe falde, o una pezzuola
avvolta intorno al capo, o rossa o celeste; un corpetto turchino senza
maniche fa spiccare le giuste proporzioni del busto; la gonnella più
oscura sollevata intorno alle anche, mentre vangano la terra, lascia
scoperta la sottana bianca come le maniche e come gli orli della
camicia ch'escono fuori del corpetto. Per lo più vanno scalze, o,
secondo il costume contadinesco, camminano portando i sandali in mano
per calzarli sulla strada maestra o ne' siti di maggiore riguardo.
Dopo Pieve il passaggio di carrozze è assai limitato, e perciò, come
i contadini del piano, quando guizza dinanzi a loro un convoglio di
strada ferrata, così quelle leggiadre montanine si fanno uno spettacolo
del transito d'un cocchio, e incrociate le mani sopra la zappa, oppure
tenendo il rustico arnese con la destra e appoggiando sul manico il
gomito sinistro, piegano la testa sull'avambraccio e guardano in
vaghissimo atteggiamento. Ho anch'io un'estetica esclusiva, e non
so idearmi la donna bella e poetica altro che splendida di seta,
o circonfusa di veli; ma gli è che le figure della nostra fantasia
aristocratica si disegnano tutte sopra un fondo convenzionale: o fra la
mezza oscurità di un salotto elegante, o fra i sentieri odorati di un
parco: ma la bella alpigianina, in mezzo a quei monti, a quel cielo, a
quelle pietre, sta bene vestita così; il paese che la circonda fa parte
del suo abbigliamento.
Ma eccoci a uno de' punti più pittoreschi del Cadore. A una svolta
della strada ti si apre inaspettato al fianco un angusto e profondo
burrone, stretto fra due coste del monte, entro il quale devolvesi
romoreggiante il torrente Molinà. Strepitano al basso i molini messi
in giro dall'acqua, e fa singolare contrasto col candor delle spume,
con la tinta fredda dei sassi e col malinconico colore degli abeti, il
verde vivo di qualche falda di terra coltivata a praterìa proprio al
lembo ultimo della sponda. In alto e alla sinistra di chi si affaccia
al parapetto della strada, il villaggio di Calalzo con la sua chiesetta
candida di neve, col suo campanile coperto di lavagna, pensile sulla
pendice d'un monte, pare intenda l'orecchio al gorgogliare dell'onda.
Indi la via prosegue con un'alternativa di salite e discese. Per lunga
pezza scorgi Pieve, di là da una vallata, o da monti più bassi; poi
incontri Vallesella, Donnegge, e ti additano il campanile di Lorenzago,
ove il Calvi s'accommiatò dagli amici, e quinci e quindi altre villette
vagamente sparse, quali sul vertice, quali sulla china d'un monte. Mi
ricordo una cosa semplicissima che mi colpì. A pochi metri da ciascuna
di quelle ville miri un recinto rettangolare chiuso da un muro bianco
e basso. È il cimitero. Quanto più commovente e più bello delle moli
superbe che raccolgono migliaia di estinti l'uno all'altro ignoti!