Racconti e bozzetti - 11

pietra impassibili come battaglioni al _presentat-arm_, sono per me
tante stonature, raffrontati con le curve or leggiadre, or maestose
delle colline e dei monti, con l'ampio padiglione del cielo, con quel
fremito di vita che anima tutto, dalla foglia tremolante sul ramo
all'acqua cristallina che si rompe sui sassi.
Oh! l'acqua, la grande incantatrice! Dipingiti per un momento la
natura quale una donna bella, capricciosa, elegante, e poi dimmi se
non ho ragione di chiamar l'acqua il suo finimento di gioie. Ecco:
ella si spiana in un lago, ed è la _broche_ di brillanti; scende
romorosa dall'alto, ed è il pendente a faccette che scintilla alla
luce; si devolve placida tra i margini d'un fiume, ed è il monile di
perle che consente all'arco delicato del collo. Quando il gioielliere
vuol vantare il diamante, dice ch'esso _ha una bell'acqua_, nè certo
troverebbe al suo pensiero espressione più acconcia di questa.
All'uscita di Serravalle l'acqua ti si affaccia subito allo sguardo.
Prima la senti strepitare fra le ruote dei molini e delle cartiere,
poi queta ed immobile forma i così detti _laghetti_ di Serravalle
che bagnano le falde di monti vestiti di faggi, indi s'allarga in un
lago, cui fu dato il nome lugubre di _lago morto_. La superficie n'è
tersa e levigata come d'uno specchio; non l'agita una corrente, non
la increspa una brezza, non la solca uno schifo. I monti all'intorno
non sono altissimi, ma aridi e nudi, e sparsi solo qua e là di qualche
macchia d'erba che dà maggior rilievo alla sterilità del tutto, come un
ciuffo di capelli sulla testa d'un calvo. A vederli riflessi nel lago
essi hanno un non so che di fantastico che ti colpisce: sia il colore
dell'acqua, sia la immobilità strana di quelle immagini capovolte,
ti sembra d'essere in un mondo di apparizioni, e ne provi un senso di
freddo e di turbamento. Però, quando salendo la strada che fiancheggia
il monte hai girato mezzo lago, dal punto elevato in cui ti trovi e
dov'è la villa di Fadalto, volgi lo sguardo alla vallata percorsa, la
prospettiva cangia d'aspetto; chè nel fondo del quadro il bel verde
dei colli di Serravalle ti conforta la pupilla e fa un contrasto assai
pittoresco con le tinte sabbionacee delle alture che si specchiano nel
_lago morto_. Ma io non ti vo' condurre passo passo lungo il cammino,
e mi contenterò di farti fare una breve sosta sulle rive d'un altro
lago, quello di Santa Croce. Non è nè ampio nè sinuoso come i laghi
di Lombardia, non è seminato tutto intorno di giardini e di palazzi
signorili, ma vi spira un alito di pace, un soffio di poesia casta e
serena, che forse esso perderebbe ove fosse meno isolato, meno deserto.
Non v'ha dubbio: all'economista piacerebbe assai più vederlo solcato
da vapori che vi portassero il moto delle idee e del lavoro; non v'ha
dubbio: quello scorgervi soltanto qualche battello che mena da una
sponda all'altra le famigliuole delle povere villette circonvicine, è
segno di civiltà primitiva; pure chi sente il fascino della solitudine
e del silenzio non può abbandonarne le rive senza un desiderio
vivissimo di ritornarvi. Io pensavo a quei laghi dell'Alta Scozia
descritti dalla musa pacata e malinconica del Wordsworth, vi pensavo
contemplando il raccolto paese, vi pensavo udendo il tintinnìo della
greggia che brucava l'erba proprio sul margine estremo delle acque, e
quanto, oh! quanto avrei dato per essere poeta e rappresentare ciò che
mi passava nell'animo. Era uno splendido mattino di maggio. L'azzurro
senza nube del cielo si rifletteva con una tinta più carica sul terso
cristallo dell'onda, i monti verdeggiavano per una ricca vegetazione
di primavera, e sparsi lungo le falde o sul pendìo di quelle alture
si disegnavano gruppi di casupole strette intorno al loro campanile
come intorno a un vessillo. Sono paesetti di pochi abitanti che si
assottigliano ancor più per la continua emigrazione delle donne, le
quali vanno per balie, e dei maschi che scendono nella città a farvisi
manovali o domestici. Ma pure nelle lunghe assenze non dimenticano
il loro lago, il tugurio affumicato, il campicello bagnato dei loro
primi sudori, e accorti e massai vanno raggranellando un po' di moneta
per aggiungere un lembo al podere, una pietra alla casa, un giumento
alla stalla, e poter morire tranquilli intorno al focolare domestico
circondati dai nipoti, a cui commettono le tradizioni d'una vita
modestamente operosa.
I cavalli, rinfrescati per una mezz'ora nella piccola villa di Santa
Croce, riprendono con maggior lena il cammino verso Longarone, a cui si
giunge dopo non breve tratto di via, percorsa quasi sempre in salita.
La Piave, che ti sarà fedele compagna per buona parte della tua gita
in Cadore, ti si fa incontro poco dopo il lago di Santa Croce, e da
Capo di Ponte la vedi stendersi serpeggiando di vallata in vallata e
dileguarsi lontana dietro i monti del Bellunese.
Longarone è una borgata importante, abitata da gente ricca, onesta,
industriosa. È, per dirla con voce francese, l'_entrepôt_ del
Cadore. Posta alla soglia di questa provincia montuosa, ella vi si fa
dispensiera dei prodotti della pianura e sparge nelle valli circostanti
il grano che la terra avara non vi produce che in minima copia, e
le stoffe modeste destinate a vestire quelle popolazioni massaie.
Addossata ai monti, non ha ampiezza di prospettiva se non da un lato,
cioè alla destra di chi viene da Santa Croce: ivi si stende ampio e
bellissimo il bacino della Piave, della cui vista magnifica non puoi
però godere pienamente se non discendi alla così detta _Punta_, ov'è
posto l'edificio di seghe del Wiel.
Ogni edificio di seghe è, per così dire, una sintesi della vita
cadorina: là il prodotto principale di que' luoghi, il legname, subisce
le sue trasformazioni; là i robusti alpigiani compongono la zattera,
l'avventurosa viaggiatrice dei fiumi e delle lagune. A Longarone non
siamo ancora in Cadore; ma, visitando il grandioso opificio del Wiel,
puoi farti un concetto di tutti quelli che incontrerai poscia sulla
strada di Perarolo e che non ne reggono il confronto nè per lo spazio
che abbracciano, nè per l'importanza delle opere idrauliche, a cui
diedero origine. Il Wiel vi si è messo dentro con passione d'artista;
ha voluto domar la natura, ha fatto strade, e canali, e bacini che
ti danno l'idea d'essere in un piccolo arsenale marittimo, e nei
quali l'acqua non mugghia impetuosa, non corre veloce a somiglianza
d'un convoglio in ritardo, ma queta, placida, carezzevole, lambe le
pareti del suo carcere e serve di rifugio alle zattere in costruzione.
All'opificio arrivi per un sentiero scosceso tagliato nel monte, e,
giunto che tu vi sia, ti spingi sotto a una tettoia di legno, che
par di quelle che si vedono a certe stazioni di strada ferrata. Ivi
si trovano le seghe, ivi è l'arca santa del tempio. Sotto gli assiti
che servono di pavimento corre rapidissima l'acqua, e, secondo che
s'innalza o s'abbassa un sostegno, irrompe in cascata romorosa o si
devolve cheta e tranquilla senza strepito alcuno. Nel primo caso, com'è
naturale, le seghe lavorano, nel secondo fanno sciopero. Allorchè sono
in moto, senti uno schiamazzo d'inferno, e non è da maravigliarsene,
poichè l'opificio ha 17 seghe, ciascuna delle quali appronta una
tavola ogni otto minuti, e poichè in quel recinto sono raccolti circa
cento operai. Non ti attendere da me la descrizione dei congegni, coi
quali si forma il legname. Tra i bernoccoli della mia povera testa
non c'è quello della meccanica, ed io non m'arrischierei a descrivere
una macchina semplicissima per tema di farmi dar la baia dal più
ottuso studente di un Istituto tecnico. Ti dirò soltanto che il tronco
dell'albero svestito della corteccia, appena che fu reciso dalla
pianta, viene tagliato in pezzi lunghi circa 12 piedi, ognuno de' quali
si accomoda sopra una specie di letto di tortura, ove la lama dentata,
mossa dalla sottoposta corrente, s'avanza inesorabile, lasciando ogni
volta dietro a sè una tavola lunga, uguale, levigata. Com'è facile
a immaginarsi, la convessità dell'albero fa sì che la sega, tanto
nel primo suo viaggio quanto nell'ultimo, separi dal tronco schegge
irregolari che servono come legna da fuoco, o, flessibili come sono, si
adoperano per connettere insieme le zattere. I ritagli minori, le così
dette _segature_, non avevano sinora un uso determinato: in piccola
parte servivano per concime, le più andavano disperse. Sembrerebbe però
che ormai dovessero esser serbate a miglior destino. Alcuni ingegneri
francesi, che visitarono l'opificio del Wiel e presero seco una certa
quantità di queste segature, le trovarono alte ad aggregarsi nuovamente
insieme mediante non so quale preparato chimico, in modo da produrre
un legname d'un ordine inferiore, ma solido e compatto in modo che
l'industria possa trarne profitto. Io non mi farei mallevadore di
siffatta scoperta; ma so che la potenza dell'industria moderna risiede
appunto in questa virtù di far sì che nulla vada perduto, di scoprire
un'utilità in ciò che prima giudicavasi imbarazzante e superfluo. È
una specie di riabilitazione anche questa, ed è una riabilitazione
assai più discreta e ragionevole di quella che si vorrebbe mettere
in voga nel mondo morale. Difatti, mentre i romanzieri cercano di
persuaderci che le signore dalle camelie hanno in sè gli elementi
delle donne più virtuose e castamente appassionate, gli industriali
si contentano d'assegnare un posto modesto agli antichi rifiuti delle
officine. E mi ricordo che il Rossi di Schio, quell'esimio uomo che
tutti conoscono, lesse una volta una saporita Memoria all'Istituto
veneto circa il partito che si ricava dai vecchi e frusti tessuti, i
quali sin a poco tempo fa erano retaggio incontrastato delle tignuole,
e adesso, sfilacciati nuovamente, tornano a subire il processo
della fabbricazione. I panni che ne derivano sono però d'una qualità
ordinaria, e il Rossi non si sognò nemmeno di esaltarli come il _nec
plus ultra_ della specie.
Ma sento già richiamarmi al mio dovere di parlare del Cadore e non
d'altro.
L'operazione che bene o male vi ho descritta non serve che alla
formazione delle tavole, le quali secondo la loro spessezza prendono
nel commercio nomi diversi. Il legname serbato alle travature non passa
per la prova della sega, ma è uguagliato con l'ascia. Quanto a quello
che si destina per gli alberi dei bastimenti, esso è piuttosto raro
in Cadore ed è fornito dal solo bosco di Somadida. Io non ne ho veduto
nell'opificio del Wiel.
Il modo di trasporto praticato in Cadore pei legnami rende necessario
di sottoporre la tavola a una perforazione ai due capi, senza la
quale i singoli pezzi non potrebbero connettersi insieme e formare la
zattera. Una tale perforazione è però una cosa che dà molto a pensare
ai negozianti, perchè sui mercati, ove essi inviano i loro legnami,
trovano la concorrenza di quelli che, venuti da altri paesi per strada
ferrata, sono intatti in tutta la loro lunghezza, e preferiti a questo
titolo dai compratori. E questa, come vedremo più tardi, non è l'ultima
fra le cagioni del decadimento del commercio cadorino.
Lettore carissimo, se per avventura tu visiti le segherìe del Wiel, e
il cortese ed intelligentissimo direttore dell'opificio t'invita a una
breve sosta nella casa del proprietario situata a pochi passi di là,
non te lo far dire due volte: accetta l'invito, ed entrato che tu sia
nel salotto terreno di quella semplice, ma elegante dimora, affacciati
alla finestra e guarda dinanzi a te. A' piedi ti corre la Piave e
si perde via via nell'ampia vallata; al tuo fianco è l'edificio di
seghe coi suoi diversi scompartimenti, col suo moto vario, continuo,
operoso, e tutto intorno scorgi monti o vestiti di verde, o aridi
e ignudi, o per la lontananza vaporosi e sfumati, o coperti la cima
di nevi. Quel piccolo borgo alla tua sinistra, proprio sulle sponde
del fiume, è Codissago, abitato tutto da conduttori e costruttori di
zattere. Son veri anfibî, e a ogni tratto li vedi lanciarsi nell'acqua
e immergervisi fino alla cintura, sia per imprigionare una tavola che
si è divisa dalle compagne, sia per ravviare la zattera impacciata in
qualche sinuosità della riva: poi ripigliano il loro posto affidando
al sole, se c'è, la cura di rasciugare i loro panni grondanti. Alcuni
di essi appartengono a opificî che si trovano più in su nel Cadore;
e dopo poche ore di sonno devono nel colmo della notte abbandonare la
loro casetta di Codissago e dirigersi verso Perarolo lungo il cammino
deserto, ove non altro che lo scrosciar del torrente risponde al suono
uniforme dei loro passi. In mezzo a questa esistenza che non conosce
riposo si fanno modeste fortune, e fra gli abitanti di Codissago vi
sono famiglie agiate, che non abbandonano però il mestiere paterno e la
zattera tradizionale.
Volgendo ora lo sguardo dal lato opposto, scorgi sul pendìo d'un monte
il campanile e la chiesa di Longarone, e più in alto e sospese quasi
sulla tua testa come nidi di rondini le villette di Pirago, d'Igna,
di Crosta, che a chi le mira dal basso paiono volersi precipitar
giù e prendere un bagno nella Piave. Ma se questa voglia del bagno
non se la possono cavare, fanno la cura della doccia e si lavano
il capo abbondantemente nelle irrefrenate pioggie d'autunno. Sul
dorso del monte si distinguono i solchi profondi scavati dall'acqua,
a cui non bastano più gli sfogatoi consueti, e vi fu un anno, nel
quale un piccolo diluvio afflisse que' luoghi e poco mancò che uno
scoscendimento della roccia non travolgesse nel fiume quei gruppi
di case. Certo che in novembre una gita colà non deve aver soverchie
attrattive; ma nel maggio un vero soffio primaverile anima tutta la
valle, e ti seducono come una cara promessa gli alberi fruttiferi
in fiore, e i tralci ricchi di pampini, tanto più belli a vedersi
inquantochè siamo nel punto estremo, in cui alligni la vite da questa
parte d'Italia.
Chi, dalla Punta, ascende l'erta che mette a Castello, non può
resistere alla gran tentazione che ha rovinato Orfeo e la moglie di
Lot, quella cioè di guardare dietro a sè e godere ancora una volta del
magnifico panorama. E quanto più in alto egli sale, tanto più il quadro
gli si presenta compiuto, sinchè un gran martellar sulla pietra che gli
ferisce le orecchie richiama ad altri oggetti la sua attenzione. Siamo
a Castello, il paese degli scalpellini. La pietra dura che si trova in
grembo a quei monti ne alimenta l'industria, e viene anche esportata
per la costruzione di vasche per fontane e di pilastri solidissimi, uno
de' quali regge imperterrito un ponte sulla Piave, proprio in faccia
alla casa del Wiel. Gli abitanti di Castello sortirono una speciale
attitudine all'architettura, e le case del villaggio furono edificate
di loro mano, e non mancano di regolarità e di buon gusto. Certo essi
non possono avere attinto che dallo spettacolo della natura il senso
artistico che li governa. Parrebbe a prima vista che delle arti diverse
l'architettura fosse quella che meno dovesse ispirarsi agli aspetti
stranamente mutevoli del mondo esterno, ella che tende a costringere
l'ideale nel letto di Procuste d'una linea castigata e severa; ma
v'è nella natura un così ammirando conserto di amabile varietà e di
rigida simmetria, che il compasso può trovarvi le sue proporzioni nella
guisa medesima che il pennello vi trova i colori. Chi ne dubitasse,
non ha che a considerare la relazione che passa fra i grandi stili
architettonici e la natura de' paesi ov'ebbero origine. Non era
soltanto l'allegria spensierata e voluttuosa dell'Olimpo greco che
faceva sorgere i tempî, modelli di grazia e di venustà; il capitello
corintìo fu, dicono, suggerito da un vaso di fiori, e furono certo
i pergolati odorosi, ove le fanciulle menavano in giro le danze, che
insegnarono a curvare in arco la pietra, e diedero il tipo ai lunghi
colonnati fuggenti. E così non era soltanto lo spiritualismo cristiano
che creava le chiese gotiche misteriosamente solenni: nella guglia
eminente che fendeva le nuvole era un ricordo dei nordici abeti; nella
oscurità del sacro recinto era una reminiscenza delle patrie selve,
contese ai raggi del sole.
Sennonchè ai poveri abitanti di Castello non cadde certo in pensiero di
essere iniziatori d'una rivoluzione nell'architettura, nè di edificare
monumenti durevoli nel loro umile villaggio. Manca loro lo studio,
manca il moto assiduo d'una civiltà che ne fecondi l'ingegno, e devono
sudare per vivere alla giornata. Alla popolazione che s'addensa non
forniscono più sufficiente lavoro le cave di pietra, e ogni anno,
a dieci, a venti per volta, quegl'industri alpigiani abbandonano
il loro paesello e trasmigrano per lo più verso la Transilvania,
ove s'impiegano come manovali nelle strade ferrate che si stanno
costruendo. Mi dicevano, che in non lungo tratto di tempo fossero
partiti da Castello oltre a 700 abitanti.
E adesso, o lettore, ne partiremo noi pure, non già per recarci in
Transilvania, ma per entrare in Cadore, di cui siam giunti alla porta.
Ora soltanto s'alza la tenda: finora non abbiamo assistito che alla
sinfonia, ma era la sinfonia del Guglielmo Tell.

II.
Si entra in Cadore. — Termine. — Gli abeti ed i larici, e studî
psicologici relativi. — Rivalgo e la difesa del Cadore nel 1848.
— Pietro Fortunato Calvi. — Perarolo. — La chiusa dei legnami. —
Tai e il suo albergo. — L'oste di Tai e il giuoco delle palle. —
Il cappello degl'impiegati regi in Italia. — Scorsa nell'interno
del paese. — Il monte Antelao. — Un'ora di passeggiata sulla strada
d'Ampezzo. — Pensieri malinconici.
Chi discorre de' paesi nordici senz'averli mai visitati non sa farsi
altra idea che di nevi perpetue e di desolati scopeti, e ignora
le grazie infinite, e le belle tinte, e i vaghi splendori di una
natura settentrionale. La natura è una elegante damina che ha il suo
guardaroba d'estate e il suo guardaroba d'inverno, e riesce seducente
del pari circonfusa di pelli, o ravvolta di bianchi veli ondeggianti.
Di là da Castello ella è in _deshabillé_ affatto: ha smesso il vecchio
manto senza indossare il nuovo: la si direbbe quasi peritosa di vestir
l'aspetto d'altri climi in una terra così profondamente italiana.
E la via corre fra montagne alte, e dirupate, e sterili, ove appena
tra sasso e sasso spunta qualche filo d'erba germinato per caso dagli
atomi fecondi ivi deposti dal vento. La Piave gorgoglia a una certa
profondità sotto il livello della strada, ma la senti senza poter
vederla, celata com'è dalla configurazione del terreno. Qua e là
un'apertura nella roccia t'indica che sei a una delle cave di pietra,
e difatti il suono argentino dello scalpello ti ferisce l'udito e ti
accusa la vicinanza di operai invisibili.
Non passa molto però che tu esci da quelle Forche Caudine, e la scena
si allarga notabilmente. A Termine, che è il primo paese del Cadore per
chi viene dalla parte di Longarone, il letto della Piave si amplia,
e monti men desolati succedono alle squallide crode sospese sul capo
del viaggiatore durante il breve tratto dopo Castello. Un ponte di
legno attraversava una volta il fiume in quel punto, mettendo dalla
parte opposta alla strada maestra: ora non ne rimangono che frammenti
nei tratti ove l'acqua corre più profonda. Il resto si passa a guado,
e mi ricordo d'aver visto delle villanelle che vi diguazzavano fino
alle ginocchia con infantile voluttà. Dalla cima del monte scende
un'abbondante cascata.
A mano a mano che tu procedi, la corrente ti move incontro più rapida
e vedi passarti innanzi con la celerità della slitta le zattere uscite
dall'uno o dall'altro degli opificî che si succedono lungo tutta la
via.
Ed ecco lentamente le pendici di quelle alture si imboscano, e l'aria
odorata di resina ti venta sul viso, e ti sorgono maestosi dinanzi allo
sguardo l'abete ed il larice. Chi non conosce questi due bellissimi
alberi, a cui toccò in sorte la forza e la grazia? Chi non conosce
il colore delle loro foglie, e la simmetria mirabile di quei rami
che vanno lentamente digradando sino al vertice e danno alla pianta
l'aspetto della piramide? L'abete col suo verde cupo ha qualche cosa
di più maestoso e fantastico: la pallida tinta del larice ti attrae e
ti riposa più dolcemente la pupilla. Sono alberi aristocratici, e per
dirti una mia bizzarra similitudine, a vederli l'uno vicino all'altro
e' mi rendono immagine di svelte coppie di ballerini che s'avanzano a
passo di _quadriglia_. L'abete è il _cavaliere_ in cerimonioso abito
nero, il larice è la _dama_ che tiene sollevate le falde del bianco
vestito per non averne impaccio alla danza. Non mescetevi ai loro
convegni, o semplici e modeste piante della pianura e del colle: se
vedeste com'essi guardano dall'alto del loro blasone perfino i tassi e
le mughe, che pur sono della famiglia! Son proprio patrizi puro sangue:
sin nel bisbiglio delle loro fronde v'è qualche cosa di compassato, sin
nel dondolarsi delle loro cime v'è un tal quale riserbo aristocratico
che non vuol saperne di troppa dimestichezza. Però badiamo bene: essi
non appartengono ad una nobiltà frolla e degenere, ma hanno la tempra
robusta delle stirpi privilegiate che si rinvigoriscono nei disagi
e nelle fatiche. Durano imperterriti i rigidi inverni del Cadore, e
in mezzo all'imperversare di quella natura selvaggia ed indomita ben
puossi applicar loro il verso di Dante:
. . . . . . . . . non mutò aspetto,
Nè mosse collo, nè piegò sua costa.
L'abete conserva intatto il suo color verde cupo, che fa vivo contrasto
col bianco della neve raccolta sopra i rami a festoni; il larice rimane
anch'egli ritto e impassibile, e solo perde una parte delle sue foglie
che diventano rossicce. Superbi come sono, anelano però ad una cosa,
a un raggio di sole; e come colui che tra la folla si mette in punta
di piedi per godere d'uno spettacolo gradito, così l'albero cresciuto
in plaga meno propizia o tenuto nell'ombra dal libero germoglio di più
felici compagni si schiude faticosamente il varco in mezzo a tutti gli
ostacoli, e, sia pur con l'ultima cima, riesce a confortarsi nel tepore
e nella luce dell'astro desiderato.
O che villaggio è questo, mezzo arso e distrutto, ma che pur non
porta i segni nè d'incendio, nè di devastazione recente? È Rivalgo;
e questo nome richiama una folla di pensieri alla mente. Son corsi
vent'anni, dacchè l'austriaca ferocia mise a ferro ed a fuoco quella
povera villa, e i Cadorini non vollero più riedificarla, pensando che
all'efferatezza straniera non potesse rizzarsi condegno monumento
che lasciando intatta l'opera sua. Ebbene: intorno a quelle travi
annerite, a quelle muraglie sconnesse, si agita una fantasmagoria
varia e grandiosa, e il severo paese d'intorno ti si anima tutto, e
la breve, ma splendida, epopea della difesa del Cadore ti si affaccia
dinanzi come cosa viva e presente. E odi i canti patriottici del 1848,
e le campane che suonano a stormo, e vedi i gagliardi alpigiani con la
coccarda tricolore sul petto, armati di fucili irrugginiti o di falci
correre alla difesa delle valli native, ed ogni gola di monti essere
una nuova Termopili, ed ogni scontro un trionfo. E allorchè il nemico
s'avanza, li vedi arrampicarsi sui greppi, appiattarsi dietro gli abeti
ed i larici, e di là tempestar l'invasore, o sfracellandolo sotto i
massi di pietra divelti alla roccia, o prendendolo di mira coi loro
moschetti. L'acqua della Piave riconduce verso il Bellunese i cadaveri
dei soldati austriaci, nefasto presagio a coloro che devono prenderne
il luogo, e che nel lasciare il quartiere sogliono farsi raccomandare
l'anima dal prete, disperati ormai del ritorno. È muto lungo le sponde
il romor delle seghe, è muto nelle foreste l'alterno picchiar della
scure; ma l'eco ripete di valle in valle gl'inni di guerra, e le urla
selvagge dei Croati che d'ogni sconfitta si vendicano, portando la
rovina ove passano. Così fu arso Rivalgo il 28 maggio 1848.... Ma chi
è che ha disciplinato quella massa d'uomini, di donne, di fanciulli,
chi è che ha ordinato quella eroica difesa? Tutta la popolazione
combatte, è vero; ma i soldati non sono che quattrocento, ma il duce
che li guida a Venas, alla Chiusa, a Rucorvo, alla Tovanella non è
che uno solo, Pietro Fortunato Calvi. È giovane, è bello di virile
bellezza, e il suo spirito indomito raddoppia in tutti coloro che lo
circondano l'ardimento e la fede. E per quaranta giorni l'oste nemica
si frange contro la cittadella inespugnabile delle valli cadorine,
sinchè un passo mal guardato le consente d'irrompere entro quella terra
di prodi, e di render vane le previdenze e gli sforzi dei difensori.
Onde, nell'umile borgo di Lorenzago, Pietro Fortunato Calvi s'accomiata
dai suoi, e ne scioglie la generosa falange per correre altrove a nuove
battaglie. È il 4 giugno 1848. Sette anni ed un mese dopo quel giorno,
il 4 luglio 1854, Pietro Fortunato Calvi lasciava la vita in Mantova
per mano del boia. Egli scontava col capestro le sublimi impazienze
dell'amor di patria, sdegnoso di proferire una parola che l'avrebbe
salvato. Per ventidue lunghi mesi pregustò a sorso a sorso la morte
nelle tetre carceri, ove l'avevano preceduto il Poma, il Tazzoli, lo
Zambelli, il Canal, e tanti altri che suggellarono la loro fede col
sangue; nè mai gli venne meno il coraggio, nè mai lo vinse il dubbio
nell'avvenire d'Italia. I giudici restavano stupefatti di questa tempra
d'uomo così dissimile dalla loro, e gli ufficiali della fortezza,
nei quali la disciplina militare non avea spento il senso delle cose
nobili e grandi, parlavano con riverenza del martire intemerato. Narra
il prete Martini[2] che, quando Pietro s'avvicinò alla carrozza che
doveva condurlo al supplizio, molti di loro gli si fecero intorno e
lo abbracciarono teneramente. Tanto poteva in quegli animi l'invitta
costanza del Calvi, il nome del quale è ormai raccomandato alla
storia![3]
Ma della difesa memorabile del Cadore non rimane che la tradizione
serbata gelosamente nei cuori di quegli alpigiani: nessuno si curò, e
pare impossibile in una popolazione che ha senso e fantasia d'artista,
di raccogliere gli sparsi frammenti della gloriosa epopea; nessuno
si curò di evocar la leggenda, che in questo caso sarebbe più vera
del diario d'un fedele cronista, perchè riprodurrebbe la vita e gli
entusiasmi di un popolo. I monti del Cadore, le sue valli, i suoi
torrenti, il suo cielo, che bel fondo ad un quadro, entro il quale si
moverebbero le animose schiere dei volontarî, stretti intorno alla
maschia figura del Calvi! Giova almeno sperare che, come la difesa
dei Vosgi nel 1814 ebbe un'eco lontana negli stupendi racconti degli
Erkmann-Chatrian, così i fasti del Cadore nel 1848 troveranno di qui a
cinquant'anni chi gl'illustri con le scritture e ne divulghi la notizia
a' meno versati nella patria storia. Però non potrebbe essere narratore
efficace chi prima non avesse percorso da capo a fondo quei siti
pittoreschi, chi non tingesse la sua penna nel colore locale. Onde, o
lettore, continuiamo la nostra gita, e chi sa ch'essa non t'invogli a
rifarla da te a miglior agio, per attingervi le ispirazioni del poeta e
del romanziere.
La strada da Termine a Perarolo costeggia per la massima parte la
Piave, ed è in continua salita. Se non che i viaggi di montagna
han sempre dell'inaspettato, e quando credi di toccare il vertice
d'un'alpe, t'avvedi d'essere alle falde di monti assai più elevati,
e quando stimi di esser giunto al fondo d'una vallata, ti trovi sopra
un altipiano donde scopri a' tuoi piedi nuove valli e nuove pianure.
Così, ascesa l'erta che ti conduce a Perarolo, anzichè misurare con lo
sguardo un immenso orizzonte, ti vedi stretto entro una cinta di monti.
Ed è forse quest'angusta cornice che ti scolpisce nell'animo più vivo
che mai il bel paese di Perarolo. Ponendoli sulla spianata dinanzi alla
chiesa, moderna opera dell'architetto Negrin, vedi irrompere frettolosa
la Piave e accogliere il tributo d'un largo torrente che si precipita
dalla tua sinistra e porta il nome di Boite; indi piegar leggermente
a levante e perdersi fra le montagne, seguendo la via che hai prima
percorsa. Due ponti traversano i due torrenti antecedentemente al loro
connubio; quello gettato sulla Piave riesce ad un gruppo di capanne di
legno, nere, affumicate, con le scale e i ballatoi esterni alla foggia