Racconti e bozzetti - 01
ENRICO CASTELNUOVO
RACCONTI E BOZZETTI.
UN SIGNORE POSSIBILE.
ABNEGAZIONE. — RIMEMBRANZE DEL CADORE.
IL RACCONTO DELLA SIGNORA ADELAIDE — UN RAGGIO DI SOLE.
IL COLPO DI STATO DI CLARINA.
IL COGNATO DELLA COGNATA.
FIRENZE.
SUCCESSORI LE MONNIER.
1872.
Proprietà letteraria.
UNA RIGA DI PREFAZIONE.
Questi racconti, lettori carissimi, non pretendono punto di essere
una novità. Il primo è comparso molti anni addietro in un modesto
_Almanacco_, che, fra alcuni giovani veneziani, stampavamo ai tempi
del dominio austriaco; il penultimo ebbe gli onori dell'_Antologia_;
gli altri tutti videro la luce nella _Strenna Veneziana_, pubblicazione
annua, alla quale prendevano parte anche scrittori di merito, ma che,
come accade di tutte le Strenne, non poteva aspirare ad un'assai
larga diffusione. Si sa che nelle Strenne il contenente uccide il
contenuto, i cartoni soffocano lo stampato. Scendo a tanti particolari
per iscusare questo tentativo di risurrezione. Infatti, una seconda
edizione de' miei lavori non si spiegherebbe se non fosse chiarito che
una prima edizione propriamente detta non vi è mai stata.
Del resto, io non mi dissimulo che queste cosuccie possono aspirare
tutt'al più a esser giudicate mediocri. Ma siffatta considerazione non
mi scoraggia.
Nei primi bollori della giovinezza, quando si spera di arrivare al
sublime, si disdegna superbamente il mediocre, e si ripete quella
sentenza che dev'esser stata proferita a vent'anni: non essere, in
arte, permessa la mediocrità. Ognuno principia la vita con questo
convincimento, ognuno, senza voler confessarlo, ne mitiga la rigidezza
col maturarsi del senno.
A una sentenza assoluta che mi sembra fallace non ne contrapporrò
un'altra assoluta del pari, e non porrò quindi la riabilitazione della
mediocrità nell'arte come una tèsi generale. Credo invece ch'essa possa
valere per buona parte della letteratura e pel romanzo in ispecie;
credo che le opere eccellenti, come sarebbero, per esempio, _I promessi
sposi_ e _Davide Copperfield_, non debbano escludere mille altri libri
di gran lunga inferiori, intesi alla pittura del vero, benchè inabili
a riprodurlo con eguale efficacia. Quanto più si sparge l'abitudine
del leggere, tanto più cresce l'opportunità del romanzo, che, per
l'indole sua, è meglio atto a penetrare in tutte le classi sociali.
Ebbene; il romanzo che riesce a provocare un onesto sorriso, a spremer
dal ciglio una lagrima pietosa, a rinvigorire nell'anima un sentimento
gentile, a svegliare nell'uomo accasciato dall'assiduo lavoro le virtù
sopite della fantasia, quando pure non tocchi l'eccellenza dell'arte,
può presentarsi senza baldanza, ma senza rossore, e prendere il suo
posto nella folla delle opere letterarie. È un posto umile; però è un
posto che giova vedere occupato, come piace che nei teatri, oltre alle
poltrone ed ai palchetti, sieno occupate anche l'altre sedie.
Se questo volume adempierà almeno qualcheduna delle condizioni che
ho pocanzi accennate, io non mi gonfierò certo di superbia come il
tacchino che credeva d'esser pavone, ma neppure mi pentirò di averlo
dato alle stampe.
_Venezia, 14 luglio 1872._
L'AUTORE.
UN SIGNORE POSSIBILE.
I.
Nel paese di *** venne a morire, non ha guari, un possidente
ricchissimo, il quale agli ozî beati dell'opulenza prepose l'attività
della vita campestre e, facendosi ammaestratore ed amico de' suoi
coloni, seppe volgere le dovizie al più nobile degli scopi, a quello
cioè di migliorare le condizioni materiali e morali de' propri simili.
Erede d'un pingue censo, egli stimò acconcio di porre sua stanza in
mezzo alle terre che gli appartenevano, e quantunque le fossero in sito
molto remoto, nè vi si vedesse nemmen da lunge il fumo della capitale,
credette però che l'animo e l'ingegno per esercitarsi pienamente
abbiano d'uopo soprattutto d'operosità e che per coloro, i quali
sanno riempiere la stoffa del tempo, il silenzio d'una villa non valga
meno del trambusto d'una città. Era nobile di _petite noblesse_, come
direbbero i Francesi, perchè suo padre, di famiglia gentilizia, aveva
osato insudiciare il blasone sposando un'onesta borghese: contuttociò
era così invalso l'uso presso i suoi aderenti e presso gli estrani
di chiamarlo il conte Alberto, che noi nel farne la biografia lo
nomineremo così, sebbene egli non celasse punto la sua origine mezzo
popolana.
Fu certo un dì memorando per gli abitanti di *** quello, in cui il
giovane signore prese possesso delle sue terre. I servi gallonati,
accorsi in frotta a rendergli omaggio, videro un uomo sul primo fiore
degli anni, di modi schietti, di vestire semplice, al quale parea
pesassero quelle dimostrazioni d'ossequio, e premesse invece assaissimo
d'investigare le condizioni della tenuta, lo stato e l'educazione dei
villici. Ahimè! le vecchie livree use alla famigliare insolenza d'un
patrizio mezzo rimbambito che non solea dimorar nella villa se non
due mesi di autunno, nè d'altro occupavasi che dei cavalli e dei cani,
mostravano gradire assai poco le sottili ricerche del nuovo padrone e
quel suo fare amichevole sì, ma pur decoroso e tanto diverso dai modi
del conte defunto. V'è alcuni signori che trattano il popolo con quel
tuono carezzevole, con cui si trattano i cagnolini, salvo sempre a
pigliarli a calci quando se ne presenti il destro, ed è pur doloroso
che siffatta costumanza incontri favore presso quelli che dovrebbero
esserne offesi: tanto può la consuetudine dell'obbedienza e della
servilità!
Lo stato della tenuta non porse invero argomento di consolazione
al conte Alberto. Essa era divisa in molti affitti, ma a prezzo sì
tenue che la rendita totale era minore assai di quello che avrebbe
potuto e dovuto essere; e d'altro lato i fittaiuoli, avendo a pagare
pochissimo, non si davano alcun pensiero d'introdurre miglioramenti di
sorta nella cultura. L'ignoranza delle cose agrarie era estrema: non
s'era estirpato nemmeno uno degli errori, dei pregiudizî d'un tempo;
aggiungasi a ciò la mancanza assoluta di capitali, il sistema degli
affitti brevissimi, onde i coltivatori non si affezionavano al suolo,
il difetto d'ingrassi, di strumenti rurali, di tutto. Ne' contadini
miseria somma, superstizioni d'ogni maniera, indolenza confitta
nell'ossa in guisa da doversi quasi adoperar la forza per mandarli al
lavoro. Nessun istinto di previdenza, nessuno spirito di associazione,
nulla, alla lettera.
Novanta su cento, a cui fosse caduta in sorte quella eredità, avrebbero
lasciato le cose nello _statu quo_, contentandosi di riscuotere le
rendite sempre laute abbastanza da consentire una vita opulenta.
Ma il conte Alberto era uomo di tempra diversa. Egli aveva radicato
nell'animo due convinzioni, che hanno il merito d'esser giuste e la
disgrazia d'essere impopolari: l'una che i ricchi non debbano starsi
con le mani alla cintola; l'altra che da una fortuna, per quanto
pingue ella sia, s'abbia a trarre il miglior frutto possibile e che
il beneficio vero e durevole recato alla società non venga già dallo
sperpero, ma bensì dall'acconcio uso delle proprie ricchezze. Invero
non era impresa da pigliarsi a gabbo quella di trovare il bandolo
d'una sì scarmigliata matassa. Il sistema degli affitti può parere ed
essere il migliore, come quello che crea in seno alle vaste proprietà
signorili un'industria decorosa ed indipendente, e spinge gli animi
all'emulazione e all'attività. Ma quando lo spirito d'iniziativa
sia morto del tutto, quando i fittaiuoli non abbiano nè danaro nè
cognizioni, ci par necessario, a rimetter le cose sulla buona via
che un padrone di volontà risoluta e d'ingegno illuminato prenda egli
stesso ad amministrare le cose sue, e con l'autorità di chi va dritto
e sicuro allo scopo, introduca le riforme opportune e susciti le
potenze latenti del suolo e l'energia sopita degli uomini. E appunto a
quest'ardua intrapresa s'accinse il nostro protagonista.
II.
V'è nei favori della rinomanza una solenne ingiustizia che non potrà
torsi giammai, perch'ella deriva dalla natura stessa delle cose. La
fama non guarda alle difficoltà superate, ma agli effetti ottenuti. Uno
scaltro diplomatico, che nato nelle corti s'esercitò di buon'ora alla
flessibilità delle schiene e agli artifizî della parola, corrà senza
dubbio quei lauri, a cui sospirerebbe invano un onesto cittadino sorto
fra mille difficoltà a qualche fortuna coi sudori della fronte e le
forze del fecondo intelletto. È il lamento di Figaro che querelavasi
d'aver dovuto, per vivere, spiegare più ingegno di quanto n'era occorso
per governare la Spagna due secoli; è il lamento di tutti coloro che,
partendo dai gradini più bassi della scala, si vedono precessi da
quelli che pigliarono le mosse dai gradini più alti. Ma l'uomo altero
d'un nobile orgoglio, l'uomo sicuro della propria coscienza dice: —
_Non importa._ — La gloria non dev'essere lo scopo dell'esistenza,
ma sì fare il bene senza desiderio di guiderdone, senza timore di
avversità.
Noi non affermeremo che il giovane signore siasi tenuto precisamente
questo discorso, il quale potrebbe parere un po' troppo solenne per
la occasione; ma gli è certo ch'egli mettevasi, senza speranza di
celebrità, ad un'opera molto più complicata di tante altre che fruttano
plausi ed allori.
Non gli fu difficile sciogliere verso un tenue compenso gli affitti
tuttora in corso, e aumentando i salari de' contadini rialzarne
lo spirito abbattuto e accenderli di nuova lena. Ma nel mentre
questo primo rimescolarsi destava la curiosità del paese e ognuno
pronosticava a suo talento sul nuovo venuto, alcuni atti del conte
Alberto suscitarono un clamore siffatto che ogni uomo meno intrepido
se ne sarebbe impaurito. Prima di tutto, conscio che l'abbondanza del
capitale è condizione _sine qua non_ d'una buona cultura, e che perciò
conviene proporzionare la vastità delle terre al danaro, di cui si può
disporre, egli vendette un buon terzo della sua tenuta, nè gli oracoli
del villaggio sapevano capirne il perchè. Come, apponevasi, egli vuol
restarsi fra noi, vuol fare l'agricoltore e comincia collo spacciare i
suoi fondi? Che logica è questa? Poi commise l'eresia di non permettere
che, secondo il vecchio costume, alcuni animali malati si recassero
alla porta della chiesa per ottenervi miracolosamente la guarigione:
oltraggio manifesto alla libertà di coscienza. Infine osò abolir le
livree e ristringere grandemente il numero dei corsieri di lusso,
mutandone una diecina con umili cavalli da lavoro. Il profeta Geremia
non si dolse con più patetiche note sulla caduta Sionne di quello
che si rammaricasse il sacrestano del villaggio sullo spento decoro
della tenuta di ***. Le generazioni si erano succedute nell'antica
possessione; ma nessuno aveva osato alienare una parte dell'avito
retaggio, nessuno per gretta spilorceria aveva spogliato i servi de'
loro abiti a galloni, nessuno aveva venduto i cavalli ed i cocchi.
Sparpagliate per le circostanti colline erano altre cinque o sei ville.
Appartenevano tutte a famiglie nobili, gonfie dei loro titoli e dei
pregiudizî di casta, le quali, vivente il conte Bernardo predecessore
d'Alberto, convenivano nel castello qualche sera d'autunno a giocarvi
il _tre sette_ o a discutere gravemente sul loro albero genealogico.
La dubbia nobiltà del padrone odierno, le audaci dottrine ch'ei non
peritavasi di sfoggiare, non consentivano certo a quegli aristocratici
puro sangue di varcarne le soglie. Uno soltanto, un vecchio marchese,
vi venne spinto dalla curiosità e fu accollo con gentilezza veramente
squisita; ma nell'uscire, accompagnato da uno degli antichi domestici
che più non aveva l'abito turchino coi bottoni d'oro, non potè
astenersi dal susurrare: — Dov'è il decoro, dov'è la dignità, quando i
servi si lasciano andar vestiti come tutti gli altri? — Ma! — sospirò
il servo quasi commiserandosi; chè pur troppo gli uomini s'attaccano
alla livrea. — E il padrone è molto spilorcio? — proseguì inanimito il
marchese. — Eh! lo dicono, — rispose l'altro; — ma a me in coscienza
non pare; pel salario, pel vivere si sta meglio di prima. — Diavolo! —
soggiunse il marchese stupito, e uscì borbottando.
L'arciprete del luogo era nato per non aver alcuna opinione.
Originario di quei dintorni e assunto da quindici anni alla suprema
dignità ecclesiastica del paese, egli era giunto alla cinquantina non
occupandosi d'altro che delle funzioni obbligatorie della chiesa,
e dell'allevamento d'una schiera numerosissima di polli, i quali
erravano in piena libertà pel verziere e lungo il vestibolo della
casa parrocchiale, senza però che il loro aspetto innocente potesse
temperare la dura condanna a cui erano sortiti. Aveva poco amore
alle prediche e, ci dispiace dirlo, poca eloquenza, nè sappiamo
quanta efficacia avessero i suoi sermoni sui devoti abitanti di
***. All'arrivo del conte Alberto nella villa, egli si recò a fargli
omaggio, e sentendo che il nuovo signore proponevasi di soggiornare
stabilmente colà, gli arrise la speranza di qualche lauto banchetto,
a cui verrebbe senza dubbio invitato. I primi provvedimenti del conte
che parvero sovversivi agli altri, a lui non fecero nè caldo nè freddo,
e con la massima maraviglia udì affermarsi da uno dei signorotti più
autorevoli del paese che il conte era un eresiarca, un emissario di
Satana, e che bisognava osteggiarlo in tutte le guise. — E ciò tocca
soprattutto a lei, — soggiunse il furibondo interlocutore: — a lei che
non deve lasciar che le male piante prendan radice, a lei ch'è preposto
alla cura dell'anime.... — Ma veramente Vossignoria forse esagera....
— Come, vuol insegnare a me, vuol dirmi ch'io non conosco gli uomini?
Glielo ripeto.... un Arnaldo da Brescia, un Lutero.... — Ah! in questo
caso poi, — disse Don Gaudenzio con un certo piglio che voleva essere
risoluto; — in questo caso poi.... — Guerra l'ha da essere. — Ma senza
dubbio, — rispose languidamente il prete, disegnando con la punta
dell'ombrello un circolo sulla sabbia.... — E intanto ella non deve
andare più in quella casa.... — Ma, capisce,... le convenienze.... — La
non ci deve andare, ce ne va del decoro.... — Sì, sì, ha ragione....
intendo, — e il nuovo Don Abbondio si sbarazzò più che in fretta del
fanatico personaggio tentennando il capo dolorosamente.
Le altre _notabilità_ del villaggio erano il farmacista, fine
diplomatico; il maestro di scuola, individuo a cui la fame aveva tolto
quasi il senso comune; il medico, uomo illuminato e in ottime relazioni
col conte Alberto; il sacrestano, pieno d'idee retrive e di virulenza
da energumeno; un certo signor Placido, organista di merito, ma
paurosissimo; un cotale Melchiorre, larva di deputato comunale. Come si
vede da questa rassegna, le massime liberali del conte potevano trovare
ben pochi fautori.
III.
Se fossimo agronomi, potremmo empire molte pagine a descrivere
gl'infiniti miglioramenti introdotti dal conte Alberto nella tenuta.
Ci basti dire che a poco a poco tutto il vecchio sistema di cultura
venne invertito. Non piccola parte dei campi fu ridotta a pascolo,
temperando con acconci lavori d'irrigazione i difetti naturali
del suolo; e ne avvenne che per la scarsezza di praterie in que'
dintorni parecchi possidenti si adattarono a pagare un compenso per
far pascolare colà il loro bestiame, dimodochè, oltre alla rendita,
le terre se ne avvantaggiavano per l'abbondanza degl'ingrassi. Si
accrebbe la piantagione dei gelsi, s'iniziò la coltivazione del lino
e della canape. Essendosi di gran lunga aumentata la quantità degli
animali, la cascina prese un insolito incremento, e le donne sottratte
al faticoso lavoro dei campi trovavano in quelle nuove occupazioni una
fonte d'attività e di guadagno. E molte altre idee balenavano spesso
alla mente del conte, ma se gli chiedevano quando volesse effettuarle,
egli rispondeva: — Una cosa per volta. — Quantunque avesse un fattore
ed abile e fidato assai, pure egli vigilava su tutto, provvedeva
a tutto. Soleva alzarsi per tempissimo, e a cavallo o talora anche
a piedi recavasi ne' punti principali della tenuta ad esaminarvi i
lavori fatti il dì prima, o ad impartirvi gli ordini per la giornata.
E durante quelle sue gite soffermavasi nelle abitazioni de' contadini,
e attendeva pazientemente ai discorsi della villana che filava sulla
soglia del casolare, e alla spensierata allegria dei bambini dispersi
nell'orto, e ne faceva argomento di considerazioni e di studio. —
Quanta serenità d'animo in quelle povere genti, ma pur anche quanta
imprevidenza e che larga dose di pregiudizî! A chi spetta l'incarico
d'illuminarle? Allo Stato, dicono molti. Ma lo Stato è poi sempre
illuminato abbastanza da poterglisi conferire l'ufficio che illumini
gli altri? E se pur è, ha egli tutti i mezzi per compiere efficacemente
un'opera di tanto peso? Che potrà far lo Stato? Aprir delle scuole o
per dir meglio perfezionare quelle che ci sono, esiger tutt'al più che
i contadini vi mandino i loro figliuoli, ma poi? Poi basta. Lo Stato ha
troppe faccende pel capo, e non può aver tutte quelle sollecitudini,
tutte quelle accortezze, tutta quell'annegazione necessaria a chi
voglia innalzare un edifizio su basi sicure. Quest'ufficio non potrà
adempiersi in ogni sua parte che da chi, oltre ad intenderne l'utilità,
vi abbia un interesse diretto: senza il pungolo dell'interesse vi
saranno tentativi parziali, non s'inizierà mai un'opera di generale
efficacia. Ora la educazione de' contadini a chi gioverebbe meglio
che ai possidenti? Sono essi quindi che dovrebbero mettersi a capo
d'un'impresa sì generosa, essi che guardando più in là del domani
dovrebbero comprendere che intima attenenza vi sia tra la condizione
dei coloni e il progresso dell'agricoltura. — Siffatte considerazioni
raffermavano sempre più il conte Alberto ne' suoi nobili proponimenti:
non lo arrestava la tema di essere frainteso, non la certezza dei
molti ostacoli onde gli si sarebbe intralciato il cammino, non quella
peritanza ch'è propria degli spiriti poco ambiziosi e gl'impaurisce
coll'idea degli errori che potranno commettere. Certo tutto quello che
farò, egli diceva in cuor suo, non sarà ottimamente fatto; ma che il
bene abbia a superare il male, oh! di questo me ne assicura la mia fede
nelle nuove idee, nella verità, nel progresso.
IV.
La scuola del villaggio era posta in mezzo ai campi fuori assolutamente
dell'abitato, e per giungervi c'era da fiaccarsi il collo tre o quattro
volte lungo i sentieri sassosi, o su ponticelli formati d'un tronco
d'albero spartito in due che traversavano i ruscelli ed i fossi.
Un casolare tenuto in piedi come Dio vuole, costituiva ad un tempo
l'edifizio destinato all'_istruzione pubblica_ e la dimora del maestro
e della sua numerosa famiglia. La stanza ove si raccoglievano i bimbi
era a pian terreno, e qualche maiale osava talvolta aprire col muso
la porta forse per approfittare della lezione. Ma i fanciulli non
la intendevano così, e traevano partito dal comparire della sconcia
bestia per alzare il vessillo della rivolta: chi si fingeva atterrito,
chi montava sulla panca come se arringasse le moltitudini, chi
raggomitolandosi nel miglior modo possibile spingeva l'audacia fino a
gettar qualche nocciolo di pesca sulla cattedra del _professore_. Era
come un guanto di sfida che il maestro raccoglieva coraggiosamente.
Egli ponevasi in tasca con aria di mistero quello strumento d'infamia
e brandendo uno scudiscio, che solea tenersi vicino, scendeva dal
suo posto a passo di carica e menava colpi a dritto e a rovescio.
Un osservatore giudizioso, vedendo quello spettacolo, si sarebbe
convinto sempre più della superiorità degli eserciti disciplinati
sulle moltitudini, abbenchè numerose ed ardite. Il maestro di scuola,
solo contro una cinquantina di ragazzi, sapeva ottener la vittoria per
la celerità dei movimenti, per la sicurezza degli scopi, per l'unità
del comando. I fanciulli debellati uscivano precipitosi della stanza
traendo urla da ossessi, il porco manifestava la sua disapprovazione
con ispaventevoli grugniti, e il vincitore non riposava sugli allori,
finchè non gli fosse svelato il furfante che osava lanciare un nocciolo
di pesca sulla sua cattedra. La sconfitta mette a galla i vizî degli
uomini e i delatori non mancavano mai. Severe punizioni erano inflitte
al colpevole, che per ultimo doveva chieder perdono a mani giunte e
protestare in nome di tutti i santi che _non l'avrebbe fatto più_.
Nondimeno simili scene ripetevansi quasi ogni giorno e sottraevano allo
_studio_ due lunghe ore. Molte famiglie ne pigliavano pretesto per non
mandare i loro bimbi alla scuola: poi c'erano i freddi dell'inverno,
poi gli ardenti calori della state, e così di seguito. Insomma, nel
paese il saper leggere era poco men che un miracolo; s'immagini quindi
lo scrivere. I numeri si conoscevano fino al 90 per merito del lotto,
giuoco grandemente morale ed educativo. Non che siffatta benedizione
vi fosse precisamente nel villaggio, ma i gonzi incaricavano il
portalettere di giocare per loro conto nella città, e il libro dei
sogni era gravemente discusso nella domenica e negli altri giorni
festivi.
A malgrado d'una condizione di cose sì miserevole, quando il conte
Alberto insistette presso alcuno degli _ottimati_ sulla necessità di
qualche provvedimento, le sue proposte furono malissimo accolte. Si
levò anzi un grido d'inquietudine, e per poco non si credette vederci
l'intervento di Satana. Alberto non si smarrì dell'animo, e poichè
il paese respingeva così sdegnosamente il suo consiglio, deliberò
d'occuparsi soltanto de' suoi coloni. Era nel centro della tenuta una
fattoria bella e spaziosa, ma costruita in guisa da riuscir piuttosto
un edifizio di lusso che non un locale acconcio al suo ufficio. Il
conte dispose due vaste sale all'uso di scuola, destinando l'una
all'insegnamento del leggere, dello scrivere e del far di conto, e
serbando l'altra per qualche lezione da darsi agli adulti su cose
elementari attinenti all'agricoltura. Per istruire i bimbi ottenne,
non senza difficoltà, l'aiuto del suo fattore, al quale sapeva male
di diventar maestro di scuola: il resto dell'insegnamento pesava per
intero sulle sue spalle, e non era peso sì lieve; altro è sapere, altro
spiegar popolarmente ciò che si sa. Nondimeno, triste e singolare a
dirsi, la parte più ardua dell'impresa era quella di trovar discepoli.
Nulla al mondo uguaglia l'albagia dell'ignoranza. La fondazione di
questa scuola fu accolla assai freddamente, e qualcuno se ne dolse
come d'una offesa recata al decoro dei contadini. — Questi signori, si
mormorava, vogliono farci sentire a ogni momento la loro superiorità.
Per che motivo il conte apre una scuola? Per dirci a un dipresso:
queste cose che voi ignorate, io le so, io sono un brav'uomo e voi
siete somari. Io vi farò toccar con mano la vostra nullità al mio
cospetto, e voi me ne ringrazierete per soprammercato.... — A malgrado
di queste insinuazioni maligne, la costanza e l'energia del conte
Alberto vinsero il punto. Tanto fece e disse per suscitar l'amor
proprio de' suoi coloni; tanto si adoperò perfino presso le madri
e i bimbi medesimi, che a lungo andare le lezioni sì nell'una come
nell'altra scuola poterono rallegrarsi di un uditorio sufficientemente
fiorito.
Un giorno che il concorso era più numeroso del solito, Alberto,
radunati insieme gli adulti e preso un tuono confidenziale, tenne ad
essi all'incirca questo discorso:
— Tra l'altre ragioni, per le quali io ho insistito che interveniate a
questa scuola, ve n'è una che non vi dissi finora e che pure, secondo
il mio modo di vedere, non è la meno importante. Io desidero che noi
altri ci comprendiamo a vicenda; siamo pur destinati a vivere insieme.
Ora m'è noto che parecchî de' miei atti incontrarono presso di voi una
severa censura. Io credo che abbiate torto, ma appunto perciò mi sta
a cuore di dimostrarvelo. E a tale scopo mi sono proposto di pigliare
una via lunga sì, ma infallibile, e invece di spiegarvi a dirittura il
perchè di questo e di quello, determinai di cominciare coll'insegnarvi
a leggere. La mia idea vi fa ridere? Eppure, vedete, la non è tanto
strana come par sulle prime. Ve lo proverò con un esempio. Quando
volete salire al secondo o al terzo piano d'una casa senza paura di
rompervi il collo, che cosa fate? Spiccate forse un salto? No, davvero;
vi contentate di salir la scala. Ebbene; anche nell'istruzione bisogna
andar su scalino per scalino, e tante cose non si capiscono o almeno
non si ritengono se non si hanno certe cognizioni elementari. Partendo
dal basso faremo meno strada, lo ammetto, ma avremo anche meno paura di
sdrucciolar per indietro. E di mano in mano che ascenderemo, vi darò
ragione dei fatti miei, e credo che in fin dei conti vi persuaderete
che il nuovo padrone tanto flagellato non operava così fuor di
proposito, come vi si vorrebbe far credere. Per me vi assicuro che
il giorno in cui ne sarete convinti, sarà uno dei più belli della mia
vita. —
V.
Cadeva un giorno d'estate quando il signor Placido, l'organista del
villaggio, tenendo in una mano un popone involto in un fazzoletto
turchino e nell'altra un rotolo di carte di musica, si avviava a casa
con passo affrettato. Giunto dinanzi al cancello della villa del conte,
egli, obbedendo all'indole rispettosa sortita da madre natura, si toccò
il berretto col dito; cerimonia che egli faceva costantemente senza
guardare nemmeno se alcuno potesse scorgerlo, giacchè, diceva egli, a
fare un atto di ossequio non ci si perde nulla. Quale fu il suo stupore
quando intese chiamarsi ripetutamente a nome, e alzando gli occhi tutto
scompigliato si trovò al cospetto del conte Alberto in persona, che gli
si rivolse con piglio cortese:
— Aspettava proprio lei, e s'ella mi favorisce, avrò a dirle una
parola. —
Il signor Placido era combattuto fra la riverenza e lo sbigottimento.
Da un lato il sentirsi parlare in tuono tanto benevolo da
un personaggio di sì alto affare solleticava l'amor proprio
dell'organista; ma dall'altro che si direbbe delle sue relazioni con un
uomo d'idee bislacche, sovversive, rivoluzionarie? Il signor Placido,
ci è d'uopo riconoscerlo, era grande partigiano dell'ordine; però la
riverenza prevalse. Ma il povero diavolo con le mani impacciate tra
il popone e la musica ebbe a durar molta fatica a levarsi il berretto
di capo e a prendere quell'atteggiamento rispettoso che si addicesse
all'occasione.
— Eccellenza, — ei borbottò alfine, alternando le parole e gl'inchini,
— io non era avvisato; ella vede in quale stato io mi trovi....
— Bando ai complimenti, signor Placido; io non son uomo che badi
al vestito. Entri, entri, chè già ci spicciamo presto. — E fattogli
amichevole violenza, lo costrinse ad entrar nel giardino e a sederglisi
accanto sopra una panchina di marmo posta al limitare del viale. Il
signor Placido cercò di farsi un po' disinvolto, depose a' suoi piedi
il popone e la musica, ma il cuore gli batteva per lo meno cento
battute al secondo.
— Ho un'idea che mi preme comunicarle, — riprese Alberto, — e conto sul
suo appoggio....
— Lei mi canzona, Eccellenza.... Come mai?...
— Oh! è cosa semplicissima.... Prima d'essere organista, ella, signor
Placido, non era forse istruttore d'una banda militare?
— Sì, Eccellenza, tal fui, ma sono passati tanti anni....
— Non importa, la non vorrà dirmi che la si è scordata la musica. Alle
corte, la mia idea è questa. Vorrei fondare una banda nella villa e
affidarne a lei l'istruzione. Acconsente? — Conforme al suo nome, il
signor Placido non era l'uomo dalle rapide determinazioni. A malgrado
di ott'anni vissuti nel servizio militare, un nonnulla bastava a fargli
perder la bussola: immaginisi quindi s'egli poteva risponder così su
due piedi alla proposizione di Alberto.
— Ma, Eccellenza, ecco.... direi.... l'idea è buona... anzi ottima....
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