Parvenze e sembianze - 7

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che le mogli fanno ai mariti, tolga ogni titubanza alle compagne
cominciando per prima i racconti dei ridevoli casi con la libertà delle
frasi ridevoli, e bene Emilia, che male “si restringe sotto qualunque
giogo„, fatta regina, lascia, “come buoi al prato„, le compagne libere
al tema.

VIII.

_Filostrato_ “tanto viene a dire quanto uomo vinto ed abbattuto da
amore„⁸³. E di Troilo — il carattere del quale è forse il piú bello del
_Filostrato_ — non fu mal detto: “Natura ardentissima, non conosce né
patria né religione: non ama e non vede che Griseida. Quasi ogni giorno
si slancia animoso nel campo dei Greci in cerca di gloria per
illustrarsi agli occhi della sua bella. È l’amore che lo rende eroe.
[84]_„ Troilo, non piú eroe di poema, ma ancora spirito ardente, nato
per combattere e per soffrire, rivive di vita reale nella lieta
compagnia del _Decamerone_.
Quando è coronato re dice alle donne: “Amorose donne, per la mia
disavventura, poscia che io ben da mal conobbi, sempre per la bellezza
d’alcuna di voi stato sono ad amor soggetto; né l’essere umile, né
l’essere ubbidiente, né il seguirlo in ciò che per me s’è conosciuto
alla seconda in tutti i suoi costumi, m’è valuto, ch’io prima per altro
abbandonato, e poi non sia sempre di male in peggio andato: e cosí credo
che io andrò di qui alla morte.„ E a lui piace si ragioni di coloro “li
cui amori ebbero infelice fine.„ Pur mentre le novelle si svolgono fiere
tutte, tranne quella di Pampinea, come il suo amore, egli cade in
profondi pensieri e al terminare di esse esprime con lamentevoli parole
e con rigidi atti com’egli per amore arda e soffra, e ogni ora “mille
morti senta, né per tutte quelle una sola particella di diletto gli sia
data.„ Cosí quando, vinto ed abbattuto dalla passione, nella canzone
ch’egli canta per volere di Fiammetta regina invoca la morte, non
esagerato, non inverosimile, ci sembra il suo dolore.
Null’altra via, niun altro conforto
Mi resta piú che morte alle mie doglie:
Dàllami dunque omai,
Pon fine, Amor, con essa alli miei guai
E ’l cor di vita sí misera spoglia......
Quale è la donna nel cui viso, allora che Filostrato resta di cantare,
appare il rossore della colpa e del rimorso? Le tenebre della
sopravvenuta notte nascondono quel rossore, né io so distinguer tra le
sette giovani colei ch’è traditrice e crudele. Emilia, la quale potrebbe
per la leggerezza sua aver somiglianza con la Griseida del _Filostrato_,
non parmi, poiché ella asserisce che “amare merita piú tosto diletto che
afflizione a lungo andare„; non Lauretta, cui non possono riferirsi le
parole di Filostrato:
Fa costei lieta, morend’io, signore,
Come l’hai fatta di nuovo amadore;
giacché Lauretta rimpiange un morto amante e vive malcontenta di lui che
l’ama al presente. Forse è Filomena, la discreta Filomena, che le
compagne invidiano appunto pe’l “nuovo e piacevole amore.„
Avvertito da Fiammetta che non gli è concesso di rattristare troppo a
lungo gli altri con i suoi travagli, dopo la quarta giornata il giovane,
infelice chiede perdono alle gaie donne e si propone di ridere e di
muovere a riso. Però narra la novella dell’usignolo che fu preso dalla
figlia, di Ricciardo Manardi, e di Filippa adultera che si liberò con un
motto della pena di morte, e di Peronella, e di Calandrino pregno, e del
giudice cui furono tolte le brache: torna la fierezza e la nobiltà
dell’animo suo a dominare la stupenda novella di Mitridanes e Natan.

IX.

_Lauretta_⁸⁵ allorquando si prepara alla novella di Landolfo Ruffolo, la
quale benché contenga grandi miserie ha “splendida riuscita„, si rivolge
agli ascoltanti con queste parole: “Ben so che pure a quelle miserie
avendo riguardo, con minor diligenza fia la mia udita, ma altro non
potendo, sarò scusata.„ E quando Filostrato re le chiede di cantare:
“Signor mio — risponde —, delle altrui canzoni io non so, né delle mie
alcune n’ho alla mente che sia conveniente a sí lieta brigata: se voi di
quelle che io ho volete, io dirò volontieri.„
Ella parla in tono umile e accarezza con molte lodi le compagne, in
ispecie la piú ardimentosa, Emilia; è timida e, per abitudine,
dolcissima; eppure in udirla affidare quello che pensa e sente di sé
alla sua canzone apparirebbe tutt’altra.
Niuna sconsolata
Di dolersi ha quant’io,
Che ’n van sospiro lassa innamorata.
Colui che muove il cielo ed ogni stella
Mi fece a suo diletto
Vaga, leggiadra, graziosa e bella,
Per dar qua giú ad ogni alto intelletto
Alcun segno di quella
Biltà, che sempre a lui sta nel cospetto;
Et il mortal difetto,
Come mal conosciuta,
Non mi gradisce, anzi m’ha disperata.
E, seguitando, dal ricordo del morto amante che
......... volentieri
Giovinetta _la_ prese
Nelle sue braccia e dentro a’ suoi pensieri,
tratta a considerare la presunzione e la fierezza del suo innamorato che
di lei è geloso a torto, s’abbandona al dolore e all’ira ed esclama:
........ io lassa quasi mi dispero,
Cognoscendo per vero,
Per ben di molti al mondo
Venuta, da uno essere occupata.
Io maledico la mia sventura,
Quando, per mutar veste,
Sí, dissi mai..........
E rimpiange la vita oscura e l’oscuro amore d’un tempo, e prega l’amico,
il quale ella ha in Cielo, che ridivenga pietoso di lei e da Dio le
impetri di andare a lui.
Dal contrasto tra la franca e sdegnosa sincerità di questa canzone, per
cui alcuno della compagnia ripensa maligno il detto milanese “meglio un
buon porco che una bella tosa„, e la dolce e timida umiltà dei suoi
discorsi, Lauretta sorge su viva, mirabilmente. Non è in essa il tipo
della donna che loda gli altri sperando a sé guiderdone di lodi
maggiori, e innanzi agli altri si umilia bramando la levino essi a
grande stima, finché, nel timore di essere disprezzata e nella certezza
di non essere da quello stesso che ama pregiata sí come merita, caccia
l’usata modestia ed incolpando la tristezza altrui, accesa d’ira e cieca
di orgoglio, esagera le proprie virtú? Impeti questi di animo debole; ed
essa è infatti cosí debole che adiratasi, se ne pente, e per riaversi
d’ogni cattivo giudizio, il giorno dopo si pone a considerare negli
altri il proprio difetto e i danni partoriti dall’ira, e cerca scusarsi
scusando la fragilità femminile: “...... Se ragguardar vorremo, vedremo
che il fuoco di sua natura piú tosto nelle leggiere e morbide cose
s’apprende, che nelle dure e piú gravanti; e noi pur siamo (non
l’abbiano gli uomini a male) piú delicate che essi non sono e molto piú
mobili.„
Mobile ad ogni affetto, essa finisce la novella di Tofano esclamando: “E
viva amore, e muoia soldo e tutta la brigata!„, con commozione di gioia
pari a quella d’entusiasmo con cui l’incomincia: “O Amore, chenti e
quali sono le tue forze! chenti i consigli, e chenti gli avvedimenti!
Qual filosofo, quale artista mai avrebbe potuto o potrebbe mostrare
quegli dimostramenti che fai tu subitanei a chi seguita le tue
orme?....„
Tale, s’io l’ho ben veduta, è Lauretta.

X.

_Elisa_⁸⁶, anzi acerbetta che no, “non per malizia, ma per antico
costume„, è d’animo molto sensibile e nell’abbandono in cui la lascia
l’uomo da lei amato è la causa del suo dolore inconsolabile.
..... Et è sí cruda la sua signoria,
Che giammai non l’ha mosso
Sospir né pianto alcun che m’assottigli.
Li prieghi miei tutti glien’ porta il vento,
Nullo n’ascolta, né ne vuole udire:
Per che ogni ora cresce ’l mio tormento;
Onde ’l viver m’è noia, né so morire....
È Elisa dolorosa che racconta la miserevole istoria di Gerbino e della
figlia del re di Tunisi, i quali innamorarono l’uno dell’altra per
udita, senz’essersi veduti mai; ella è che descrive le sofferenze del
mite conte d’Anversa; ella è che avvolge di sospirosa pietà il racconto
del puro e veementissimo amore il quale fu tra la figlia del conte
d’Anversa e il figlio della dama inglese.
Ma, come accade, Elisa è inasprita dal suo stesso dolore, sí che quasi a
vendetta di sé, la quale si lascia commovere dall’infelicità altrui e
dal ricordo della sua infelicità, ama le novelle di cui i personaggi han
l’animo pieno d’acerbità e d’amarezza: tutta festevole ripete le parole
con cui la Guasca scosse il re pusillanime; esalta la severa e pronta
risposta di Guido Cavalcanti agli amici beffardi, e il modo onde la
monaca si liberò dal castigo che la badessa volea infliggerle; e
d’un’acre gioia avviva il racconto della lezione che Ghino di Tacco
diede all’abate di Cligní. Piú, Elisa regina comanda che argomento alle
novelle sia la prestezza dei motti, perché da sí fatte novelle esse ed
altri possano trarre vantaggio.
È acerba quando, prima di novellare, ammonisce, e, ad esempio, avanti la
novella dello Zima essa dice: “Credonsi molti, molto sapiendo, che altri
non sappia nulla, li quali spesse volte, mentre altri si credono
uccellare, dopo il fatto sé da altri essere stati uccellati conoscono„;
e avanti quella della badessa caduta in peccato: “Assai sono li quali,
essendo stoltissimi, maestri degli altri si fanno e castigatori; li
quali, come voi potrete comprendere per la mia novella, la fortuna
alcuna volta, e meritamente, vitupera.„
Se, ne’ rari oblii dell’intima cura, è pronta al riso, piú pronta è allo
sdegno: ride infatti piú delle compagne ai princípi delle oscene canzoni
che Dioneo vorrebbe cantare, ma tosto lo minaccia dell’ira sua; nello
stesso modo che dopo aver riso di gran cuore al litigio fra Licisca e
Tindaro, Licisca, la quale troppo lo prolunga, minaccia di bastonate. Ed
è Elisa che irrompe come niuna delle sue compagne sarebbe capace, e per
due volte, contro i frati ed i preti.
————
Il _Decamerone_ è veramente, come già altri affermò, un romanzo d’amore
con vita e vicende di personaggi: vivono essi nel libro immortale e non
per azioni, ma per i loro discorsi, per le canzoni e per le novelle
rivelano e rilevano i loro caratteri.
Il Landau dopo avere a pena accennato alle figure di Dioneo e di
Fiammetta, di Filomena e di Panfilo, scrisse: “Anche gli altri narratori
sembra che sieno stati realmente, e la maggior parte di essi rappresenta
nella descrizione del poeta un carattere determinato„; ma invece il
Körting avvertiva un carattere determinato solo in Fiammetta. A conforto
di quel che pensava il Landau il signor Camillo Antona-Traversi ripeté
le parole del Carducci: “Quei giovani e quelle donne, pur nella lieta
concordia con cui servono all’officio di narratori, sono gente viva,
hanno un carattere spiccato ciascuno, e ne improntano la loro
narrazione„, e, sempre per oppugnare il Körting, non accorgendosi poi di
contraddire in certo modo al Carducci e di dar ragione e torto a tutti e
due i critici tedeschi, aggiunse di suo: “I dieci personaggi del
_Decamerone_, piú che persone, sono dieci leggiadrissime macchiette
disegnate da mano provetta, sotto cui si rivela il grandissimo e geniale
artista. [87]_„ No, no, non macchiette: i dieci personaggi del
_Decamerone_ sono proprio dieci persone leggiadrissime!


LA NOVELLA DI FIORDILIGI

Iroldo amava Tisbina come già Tristano amò la regina Isotta, e quanto
bene Isotta volle a Tristano, Tisbina voleva ad Iroldo: per questo
vivevano lieti e contenti. Ma in digrazia d’entrambi la bella dama,
trovandosi un giorno con molte persone a un suo giardino in Babilonia,
ebbe vaghezza di certo gioco pe’l quale alcuno, nascostole il capo in
grembo e levata una mano dietro il dorso, dovea indovinare chiunque
veniva a batterlo su la palma; e secondo la sorte e la vicenda del gioco
anche Prasildo s’inginocchiò dinanzi a Tisbina e le posò il capo nel
grembo. Prasildo era un gentile e valoroso barone. Nella soave positura
egli si sentí dunque accendere improvviso in cuore un fuoco di cui mai
aveva sentito l’uguale; una sí viva fiamma che per timore avrebbe voluto
non dovere piú rialzarsi, e cercava di non indovinare; e questa fu la
prima radice della sua passione senza conforto. In breve a tal partito
lo condussero Amore e l’altera resistenza di Tisbina che un dí, piena
l’anima di tristezza, si ridusse in un boschetto a piangere e a meditar
di morire.
— Udite voi, fiori, — diceva con lamentevole voce — e voi, piante, e tu,
sole, le mie parole estreme, e vedete la mia cruda fine; ma che nessuno
la sappia, perché colei che mi vi forza potrebbe ricevere incolpazione
di crudeltà, ed io pur sí crudele l’amo e l’amerò ancora nell’altro
mondo. —
Cosí trasse la spada dal fianco, e pallido per la morte imminente chiamò
piú volte Tisbina, quasi nel nome di lei il paradiso si dovesse aprire
al suo spirito. Ma Tisbina si trovava per caso proprio là presso a lui;
giacché venuta a caccia in quel luogo con Iroldo, l’uno e l’altro
avevano ascoltate le querele dell’infelice giovane e con tanta pietà,
che quando egli ripeté il suo nome, ella si fece innanzi di tra le
fronde e, come ivi fosse giunta allora allora, tutt’ansiosa e tremante
gli disse queste parole:
— Prasildo, se tu m’ami non mi abbandonare, ché sono in pericolo
dell’onore e della vita; e io ti faccio sicuro del mio bene se tu
compirai ciò che mi vuole e ti domando. —
Bisogna sapere che oltre la selva di Barberia era l’orto dove Medusa
custodiva il tronco del tesoro dai rami d’oro e dai pomi di smeraldo, e
che Medusa era una rea femmina la quale a vederla ammaliava in guisa da
togliere ogni piú salda ricordanza del tempo trascorso; onde Tisbina,
per consiglio di Iroldo, disse a Prasildo ch’avea gran necessità d’un
ramo del prezioso tronco.
Ma un assai cattivo consiglio aveva dato Iroldo alla sua donna,
sapendosi bene che l’amore vince tutte le cose.
————
Ricorderete come anche madonna Dianora sdegnosa dell’amore di messer
Ansaldo Gradense, pensasse liberarsi di lui con domandargli, se voleva
gli compiacesse, un giardino di gennaio bello come di maggio, e come
messer Ansaldo, pur comprendendo che nella richiesta era una cosa quasi
impossibile, tanto s’adoprò e ricercò che un negromante, a condizione di
grandissima mercede, la mattina del primo dí di gennaio fece apparire un
giardino quale era desiderato. Quanto patí allora madonna Dianora!; e a
lungo avrebbe pianto la sua onestà perduta, se messer Ansaldo, in udire
la generosità del marito di lei, che la mandò a lui affinché, non
trovando via di sciogliersene, osservasse la data parola, generosamente
non l’avesse sciolta dell’obbligo contratto per sua poca considerazione.
————
Prasildo, dunque, speranzoso d’amore, senza por tempo in mezzo e
avanzando sé stesso d’ardire e di desiderio si pose in viaggio; traversò
in nave il mar Rosso e giunse ai monti di Barca. Ivi, a sua gran fortuna
s’imbatté in un vecchio pellegrino, il quale udita la cagione del suo
viaggio gli insegnò la maniera di compier l’impresa: entrasse nel
giardino di Medusa dalla porta della Povertà recando uno specchio in cui
Medusa si scorgesse riflessa non già co ’l viso candido e vermiglio, che
dimostrava per malia, ma con la faccia, che aveva per natura, di serpe
orribile e feroce, e cosí la facesse fuggire atterrita di sé medesima
dalla custodia dell’albero d’oro; spiccato il ramo, uscisse per la porta
della Ricchezza lasciando un po’ del ramo all’Avarizia, la quale alla
Ricchezza sta sempre d’accanto. Ciò fece il barone, e poté tornare in
patria tutto giulivo; poté far sapere alla dama amata ch’egli era pronto
a mostrarle il ramo d’oro di cui l’aveva richiesto. All’annunzio Tisbina
fu ferita da acuto cordoglio e stesasi su ’l letto ruppe in lamenti
della sua sorte e dell’amante, e pur questi, come l’udí lamentare e
n’apprese la ragione, pianse e si dolse senza misura. Stringeva al seno
Tisbina sua e confondendo le sue lagrime con quelle di lei diceva invano
che meritava pena egli solo, perché egli stolto l’aveva fatta fallire, e
che morire toccava a lui solo: la dama voleva la morte con lui a pena
che avesse attesa la promessa a Prasildo. Pertanto i due amorosi
infelici ordinarono di bere il veleno che un medico saggio ed antico
preparò loro in sí fatta tempera, che avrebbe dovuto privarli dell’anima
con singolare dolcezza. Prima Iroldo sorbí metà della tazza, poi la
porse alla dama senza guardarla, ed ella la vuotò fino al fondo. E dire
che fu per lei un martirio piú grande il dovere andare a Prasildo!; e
nondimeno v’andò.
— Per mantenere ciò che ti giurai perdo l’onore ma anche la vita — gli
disse quand’egli scorgendola patita e lagrimosa volle allietarla con
belle parole; e alla fine il barone apprese quel che non avrebbe mai
voluto apprendere. Di che afflitto oltremodo, rimproverò Tisbina d’aver
dubitato della sua cortesia e l’assolse del giuramento; e poiché ella
tra breve sarebbe morta, seco stesso deliberò di seguitare il suo
esempio.
Non era cosa nuova che due amanti si dessero la morte, ma sarebbe stata
nuova che tre morissero per un solo amore: se non che il medico antico e
saggio essendo venuto in sospetti si recò dal barone allorché questi,
partita la dama, stava per compiere il suo divisamento, e a tempo poté
accertarlo che non già un veleno, bensí un mite narcotico aveva
preparato a Tisbina.
Avvenne pertanto che Prasildo corresse a casa d’Iroldo, il quale di già
risvegliatosi gemeva accanto la sua donna in sembianza di morta, e gli
spiegasse come il succo bevuto non era neppure nocivo e come la dama era
libera per suo volere dell’obbligo verso di lui. Allora Iroldo sentí
rifluirsi la vita al cuore; e, tanto fu cortese, volle vincere la
generosità di Prasildo; volle che la bella donna restasse di lui, ed
egli incontanente partí da Babilonia. Per vero Tisbina, quando riebbe i
sensi e seppe l’accaduto, tramortí una volta e due; ma via!, si rassegnò
poi presto.
Ciascuna donna è molle e tenerina
Cosí del corpo come de la mente;
E simigliante de la fresca brina
Che non aspetta il caldo al sol lucente:
Tutte siam fatte come fu Tisbina,
Che non volse altra battaglia per nïente,
Ma al primo assalto subito si rese,
E per marito il bel Prasildo prese.
————
Cosí Fiordiligi finí la novella raccontata a Rinaldo per distrarlo dalla
noia del viaggio, che entrambi avevano da percorrere in groppa allo
stesso cavallo, e dalla cupidigia che gli potea venire della sua
bellezza. E Fiordiligi fu abile raccontatrice: la patetica istoria scese
canora dalle sue labbra, disinvolta e atteggiata in leggiadria d’ottave,
e non già aspra per forma di stecchiti periodi e non interrotta.
Ma s’io m’interruppi fu per un salto di pensiero, per un lampo di
memoria che mi richiamò al Boccaccio; e, del resto, credo che nel caso
mio uno qualunque de’ giovinetti eruditi i quali si atteggiano a Rajna e
a Landau e spasimano alla ricerca delle fonti non già di belli e regali
fiumi, ma di arsi ruscelletti e di gore morte, e vagano in oriente ed
occidente e traversano secoli per scoprire un riscontro casuale, pur che
paia necessario, a una frase o a una imagine; uno qualunque di quei
tanti che sanno tante nuove cose di storia letteraria, affermerebbe e
insegnerebbe:
— Nel canto duodecimo, parte prima dell’_Orlando_, il Boiardo imitò,
parafrasò, copiò la quinta novella della decima giornata del
_Decamerone_. E, come vuole la critica positiva, si prova.
Messer Ansaldo Gradense fu “uomo d’alto affare e per arme e per cortesia
conosciuto per tutto„, e Prasildo è “un barone„.
Di Babilonia stimato il maggiore;
E certamente ciò ben meritava,
Ch’è di cortesia pieno e di valore.
Molta ricchezza, di ch’egli abbondava,
Dispendea tutta quanta in farsi onore;
Piacevol ne le feste, in arme fiero,
Leggiadro amante e franco cavaliero.
Madonna Dianora andò a casa di messer Ansaldo “in su l’aurora, con due
suoi famigliari innanzi e con una cameriera appresso„; e quando Tisbina
andò a casa di Prasildo
Era di giorno e lei accompagnata.
Nota Gilberto che “quasi ogni cosa diviene agli amanti possibile„, e
Tisbina:
Deh quanto è pazza quell’alma che crede
Che amor non possa ogni cosa compire!;
e cosí via.
Prove di nessun valore; ma senza tener conto di esse si può anche
ammettere che il Boiardo rammentasse il Boccaccio, e non si può negare
certa somiglianza nella concezione generale del racconto e la quasi
identità nelle condizioni in cui son posti i personaggi. Se non che
quanta differenza ne’ tratti, nel colore, nell’atteggiamento tra le
figure del poeta e del novelliere, e quanto diversa l’arte di questo
dall’arte di quello!
Vedete: Tisbina è una creatura graziosa nella sua dolcezza e debolezza.
Per amore non vuol concedere ad altri le gioie che concede al suo amante
e vuol morire con lui; non ama il barone, ma lo compiange e l’ammira, e
glielo dichiara fin prima d’essere assoluta dalla sua promessa. Dopo,
gli dà un bacio e lo consola; ultimamente gli si acconcia tosto e
volentieri. — Dianora è nobile donna, forte, sdegnosa. Amava suo marito?
Non è detto: per onestà rifiuta i meravigliosi doni e disprezza la fama
dell’innamorato Gradense; per onestà, e non per pietà, con domanda di
cosa creduta impossibile tenta indurlo a cedere dinanzi la sua
resistenza. Curiosa come ogni donna, si reca a vedere il giardino a pena
comparso e lo loda, ma ritorna a casa afflitta “a quel pensando a che
per quello era obbligata„; non pensando al cavaliere il cui fervente
amore ha potuto tanto; e se il marito non la costringesse, sarebbe
disposta a perdere piú tosto la stima di donna leale che di moglie
onorata. Accompagnata e in su l’aurora, per non esser vista, va a casa
del barone, e senza troppo ornarsi, perché il marito le ha fatta
raccomandazione di cercar via a disciogliersi dalla promessa serbando
puro il suo onore, e primo mezzo a riuscire nell’intento ella pensa
trovare nel mostrarsi poco piacevole: miracolo della virtú che in questa
donna può piú della vanità!
Ogni altro mezzo adopera poi, senza pregare né piangere, nelle sue poche
parole al barone. Gli dice: — “Né amor ch’io vi porti, né promessa fede
mi menan qui.... — Non l’ama né pur ora, né l’amerà mai; e piuttosto che
acconsentire ai suoi desideri mancherebbe alla parola data —... ma il
comandamento del mio marito, il quale, avuto piú rispetto alle fatiche
del vostro disordinato amore che al suo e mio onore, mi ci ha fatto
venire.„ — Rileva la liberalità del marito e incolpa l’amante; rileva
che suo marito è debole, ch’ella è forte; che suo marito ha compassione
di lui e che essa no. Né altro concede ad Ansaldo se non una dignitosa
espressione di gratitudine: — “Niuna cosa mi poté mai far credere,
avendo riguardo a’ vostri costumi, che altro mi dovesse seguir della mia
venuta, che quello ch’io veggio che voi ne fate; di che io vi sarò
sempre obbligata.„ —
E chi affermerebbe che Iroldo e Prasildo furono foggiati sui tipi stessi
del marito e dell’innamorato di Dianora?
Gilberto è ritratto d’uomo che è inflessibile nell’adempimento del
dovere; che riflette e non può essere perturbato a lungo dalle
commozioni: si adira alla confessione della moglie, ma tosto si frena e
la rimprovera mite; non inveisce contro il barone, ma anzi affermando
che quasi ogni cosa è agli amanti possibile, sembra scusarlo, e certo lo
stima, se ha speranza che Dianora possa ottenere da lui di non macchiare
la propria onestà. Leale cavaliere e sicuro della fedeltà della moglie,
nella scelta tra il disonore che ella si ceda per una volta all’amante e
il disonore ch’ella manchi alla data parola, non può restare a lungo
dubbioso; e gode e confessa di sentirsi capace di un sacrificio che
nessuno forse saprebbe compire. Lo piega ad esso anche il timore del
negromante, è vero, ma senza questo tanta vigoria d’animo non sarebbe un
po’ inverosimile? Ansaldo arde d’amore e splende di magnificenza e
d’ogni lode, tuttavia Gilberto non teme, perché sa che sua moglie potrà
concedergli il corpo, l’animo no, e perché sente, con sentimento il
quale noi vantiamo di moderna perfezione spirituale, che la donna
contaminata dall’amore di chi ella non ama è ugualmente degna d’affetto
e di stima.
Ansaldo Gradense è il signore di grand’animo, sicuro di sé in ogni
parola e in ogni atto, ripugnante da ogni voglia disordinata e volgare.
Per la donna che ama cerca e procura ciò che egli stesso credeva
impossibile; ma quando Dianora viene alla sua casa, le muove incontro
composto e rispettoso e la prega, “se pure il lungo amore il quale le ha
portato merita alcun guiderdone„, di dirgli la ragione della sua venuta,
giacché tal donna non deve esser là per soddisfarlo del suo desiderio. E
udita la risposta di lei e sentita improvvisa la invidiabile liberalità
di Gilberto, subito scioglie madonna Dianora del doloroso legame e le
raccomanda di rendere grazie al marito che stima e amerà sempre come un
fratello.
Iroldo e Prasildo sono invece due cavalieri molto simili nella grazia
dell’aspetto e ugualmente appassionati e appassionabili e poeticamente
piú docili agli affetti che alla ragione. Per compassione Iroldo
suggerisce a Tisbina il mezzo di salvare Prasildo; e venendo da lui il
consiglio, è meno mirabile la sua generosità quando prega la donna (egli
prega e non comanda come Gilberto) di andare all’amante; per
disperazione beve il veleno; per riconoscenza scongiura il Cielo a
rimeritare Prasildo della sua cortesia; per emulazione di generosità
lascia Tisbina a Prasildo.
Prasildo è timido come l’amico: va incontro a Tisbina onorandola, ma non
sa che si fare per la vergogna, e l’assolve del giuramento per provarle
ch’egli non ha mai voluto dispiacerle, piú tosto che per riconoscenza
della lealtà di lei e delle generosità d’Iroldo.
In sostanza, nella novella di Fiordiligi non è il meraviglioso rilievo
dei caratteri, la scultoria interezza delle figure ottenuta dal
Boccaccio, come seppe egli solo, con brevità e semplicità di mezzi: essa
è una gentile e pietosa narrazione e rappresentazione di fatti per
finzione poetica diffusi ed elevati a tragica intensità: i personaggi
del novelliere predominano ai casi in cui vengono per forza d’amore, per
necessità di doveri, per disposizione d’animo; dove i personaggi del
poeta soggiacciono alla forza dei casi loro e nella gravità di essi e
nell’urto violento delle passioni smarriscono colorito e fisonomia.
In sostanza non mi pare che il Boiardo abbia imitato troppo il
Boccaccio. Ma che poesia è la sua! E quanta dolcezza e freschezza per
tutto l’episodio, e che ingenua espressione di passione umana, pur
finamente osservata, nell’invenzione romanzesca! Iroldo in disperazione
beve il veleno:
E poi che per metade ebbe sorbito
Sicuramente il succo venenoso,
A Tisbina lo porse sbigottito.
Non essendo di morte pauroso,
Ma non ardisce a lei far quell’invito,
Però, volgendo il viso lagrimoso,
Mirando a terra la coppa le porse,
E di morire allora stette in forse.
Non del tossico già, ma per dolore,
Che ’l venen terminato esser dovria.
Ora Tisbina con frigido core,
Con man tremante la coppa prendia,
E biastemmando la fortuna e amore,
Che a fin tanto crudel la conducia,
Bevette il succo ch’ivi era rimaso,
In sino al fondo del lucente vaso.
Iroldo si coperse il capo e ’l volto,
Perché con gli occhi non volea vedere
Che ’l suo caro desío gli fosse tolto....
E che elegante mollezza di versi nelle similitudini semplici e delicate!
Prasildo si strugge d’amore:
Ma quale in prato le fresche vïole
Nel tempo freddo pallide si fano
Com’il splendido ghiaccio al vivo sole.
Cotal si disfacea ’l baron soprano,
E condotto era a sí malvagia sorte
Ch’altro ristor non spera che la morte.
E quando riceve consolazione, ché né egli né Tisbina morirà di veleno:
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