Parvenze e sembianze - 5

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Nel sermone a Francesco Gavotti il Chiabrera feriva in vece le donne,
dubitoso che per le vanità delle mode e per le pompe e i sollazzi, la
loro onestà potesse restar “salda in piede„:
.... Io rimiro le donne oggi far mostra
Di sua persona avvolte in gonne tali,
Che stancano le man di cento sarti.
Men ricamato stassi infra le nubi
L’arco baleno: io tacerò dell’oro.
Oro il giubbone, òr le faldiglie, ed oro
Sparso di belle gemme i crini attorti.
Negletta fra’ suoi veli appar l’Aurora
Sorta dall’Oceáno. Io già non nego,
Che assai sovente la beltà del viso
Fa tradimento alla mirabil pompa.
Or sí fatta donzella è non contenta
Di sua statura, ma levata in alto
Su tre palmi di zoccoli gioisce
Di torreggiare, e per non dare un crollo,
E non gire a baciar la madre antica,
Se ne va da man destra e da man manca
Appuntellata su due servi, ed alza
Il piede, andando, come se ’l traesse
Fuor d’una fossa; onde movendo il passo
È costretta a contorcer la persona,
E a ben dimenar tutto il codazzo.
O Democrito antico, ove dimori?
Ove sei gito? A sí leggiadre usanze
Giungi carrozze da città, carrozze
Per la campagna, seggiole, lettiche,
Staffieri, paggi. Il padre di famiglia
I golfi passerà per mezzo il verno
Su frale nave mercatando, ovvero
Con l’armi in dosso seguirà l’insegne
Fra mille rischi, e ne’ palazzi alteri
Serva farà sua libertate a’ cenni
D’aspro signor, per adunar moneta;
E poi disperderalla in compir voglie
E soddisfar vaghezze della donna?
La donna darà legge? avrà la briglia
D’ogni governo in mano?....
Ci voleva proprio il coraggio d’Arcangela Tarabotti per sostenere che le
donne del tempo di lei e del Chiabrera erano in tutto schiave agli
uomini!

III.

Povera Tarabotti! A undici anni per volontà del padre suo, duro uomo di
mare, era stata costretta a vestir l’abito di monaca nel convento di
Sant’Anna in Venezia; a cambiare il bel nome di Elena in quello brutto
d’Arcangela; a porgere un vóto quando in lei “diversa dalla lingua e
dagli atti esteriori, altro intendeva la mente„. Cosí “fino alla
consecrazione„ era rimasta “monaca di nome, ma non d’abito e di costumi;
quello pazzamente vano e questi vanamente pazzi„⁶²: consacrata, nella
condanna della sua calda giovinezza; nello strappo pur dai sogni di
quelle gioie che avrebbe voluto gustare, quante gliene suggerivano la
fantasia ed i sensi; nella racchiusa e muta disperazione d’ogni bene,
d’ogni conforto avvenire, aveva imparato a scrivere, la monacella, e
aveva studiato assai per richiamarsi un giorno con le sue opere alla
giustizia e alla pietà del mondo. E riuscita che fu a comporre _La
semplicità ingannata_, _La tirannia paterna_ e _L’inferno monacale_, le
parve d’aver tratta per l’infelicità sua e per quella di mille altre
sciagurate sue eguali, un’aspra vendetta della crudeltà dei genitori, di
una barbara costumanza, di una legge fatta contro la natura per l’amore
di Dio. Ai due ultimi libri non fu data licenza di stampa, quantunque
s’adoprasse per essa Vittoria Medici della Rovere granduchessa di
Toscana: il primo usci a Leida solo nel 1654 e fu proibito da papa
Innocenzo decimo perché tra l’una citazione e l’altra di storia sacra,
tra l’uno e l’altro ragionamento sconclusionato, erano scatti d’odio
contro i parenti che sacrificavano le figliuole alla clausura.
— “Com’è possibile, o ingannatori, che chiudiate in seno un cuore cosí
crudele, che soffra di tormentar il corpo delle vostre figliuole, che
pur son vostre viscere, con perdita forse della lor anima....; e che con
la loro procuriate di precipitar anco le vostre medesime negli abissi
dell’inferno, come rei di colpa mortalissima, per aver violentata la
volontà di quelle, alle quali Iddio l’ha conceduta libera?.... Voi,
tiranni d’averno, aborti di natura, cristiani di nome e diavoli
d’operazioni...., pretendete d’esser scrutatori di quei cuori che non si
vedono se non da gli occhi di Dio, e disponete con pazza pretensione
sino dell’arbitrio di quelle creature che pur anche stanno chiuse
nell’alvo materno, senza aspettare ch’esse vi dichiarino a qual stato le
inclini il loro genio, senza pensare quale iniquità sia lo sforzare
l’altrui istinto„.
Questo e gli altri due libri passavano manoscritti di mano in mano,
recando all’autrice lodi di scrittori famosi, che le si professavano
divoti, e biasimi di frati maligni, che l’accusavano di farsi bella
d’opere d’altri. Ma nel 1633 il cardinal Federico Cornaro patriarca di
Venezia ebbe voglia di convertire al bene e alla rassegnazione la suora
ventottenne divenuta oramai una ribelle pericolosa, e co’ suoi consigli
e rimproveri raggiunse l’intento: d’allora in poi Arcangela intese a
scrivere cose buone: _Il paradiso monacale_; _La luce monacale_; _La via
lastricata per andare al Cielo_; _Le contemplazioni dell’anima amante_;
_Il purgatorio delle mal maritate_⁶³. E si diede a compiere buone opere,
tra cui piú la dilettava quella di maritar le novizze. Fra le sue
lettere sono parecchie del tema di questa: “La novizza assolutamente non
vuole il....; ella dice che quarant’anni son troppi per una
giovanetta.... Per ella (!) è piú proporzionato un giovinetto bello,
vivace et affaccendato, che un uomo sodo e mezzo buffalo, qual’è il
vedovo propostole. V. S. Illustrissima sa il suo bisogno; provveda di
cosa a proposito, se vuole la mancia....„
Anche doveva sdegnarsi se, come io credo le accadesse, qualcuno
s’innamorava di lei: certo metteva in burletta un tal B... (fosse il
frate Brusoni, che era e dicevano suo amico e che — vedremo pur
questo — dopo averle fatti grandi servigi s’inimicò con lei?), un tal
B., il quale forse temperando l’amore con lo scherzo, o piú tosto, ciò
che non era strano in quei tempi, adombrando l’amore con versi oscuri e
bizzarri, le inviava de’ cosí fatti sonetti:
Lucido mio piropo! E quando mai
Potrò stemprarti in olocausto il core?
Tu rintuzzi del sol fulgidi i rai,
Oroscopo fatal del pronto ardore.
Io t’offersi la fede e già passai
Per smeraldi di fuoco al ciel d’Amore,
Sollecito amatore il pié portai
Sotto i vestigi tuoi ricco d’onore.
Circonciso mio lume, ahi ch’io t’adoro
Funerato fra bende oscure e nere,
E mentr’io t’amo piú languisco e moro!
Vessillario son io di tue bandiere;
La fiamme mie velate alzo al martoro,
Solennizzando il cor vittorie intiere⁶⁴.
Ma benché pentita e ammalata la Tarabotti persistette ad amare, se non
gli uomini, il mondo, e piú la sua fama di scrittrice. E quando a
quarantasette anni si sentí vicina a morire scrisse alla amica Betta
Polani: “Perché il peregrinaggio della mia vita è giunto alli ultimi
confini di questo mondo, a voi, che siete stata assoluta padrona della
parte piú cara di me stessa, mando li miei scritti, che sono le piú care
cose ch’io abbia e che mi rincresca di lasciare. Direi che fossero
bruciati, ma qua dentro non ho di chi fidarmi. _Le contemplazioni
dell’anima amante_, _La via lastricata del Cielo_, e _La luce monacale_
sieno stampate, se cosí piace a voi; il resto sia gettato nel mare
dell’oblio: ve ne prego in visceribus Christi.... Amatemi se ben morta,
e addio per sempre„⁶⁵.
Oh s’ella avesse potuto trar seco nella tomba tutte le copie di
quell’_Antisatira in risposta al_ Lusso Donnesco _del signor Francesco
Buoninsegni_, che per poco non le aveva sciupata ancora vivente quella
celebrità a cui, approssimandola la morte, desiderava lasciare il suo
nome per l’età sua e per l’avvenire!
Udite pettegolezzo, il quale, tanto era vano il seicento, parve rumore
di gravi casi.

IV.

Nel 1638, alla stagione che il vin nuovo ribollisce nelle botti, venne
voglia ai signor Francesco Buoninsegni, detto da un contemporaneo
l’“Apollo di Siena„, di scrivere una satira “menippea„ contro il “lusso
donnesco„, la quale dovea, credo, servirgli a un discorso nell’Accademia
degli Intronati⁶⁶. Egli cominciando con l’avvertenza dell’Ariosto:
Donne, e voi che le donne avete in pregio.
Per Dio, non date a questa istoria orecchia,
giocherellava a motti insulsi e con uno stile saltellante e barcollante,
per sciocca simulazione d’ebbrezza, intorno la vanità delle donne e
delle loro mode al tempo suo, e gli sembrava di pungere piú vivamente
con questi che furon tenuti per sali finissimi.
— Si sa che mezzo di vittoria a quelle che “s’impiegano nelle onorate
ambascerie d’amore„ son le promesse di gemme, oro e vesti, perché le
donne cedono tutto al lusso e al vestire, che testimonia “la pena
dell’antico peccato„. Ed è giusto indossino abiti di seta, la quale è
“vomito d’un verme„, se esse sono “vermi i quali rodono il cuore degli
amanti„, e se possono dirsi un “vomito delicato della natura„. Per le
pianelle tutte dorate e sí alte che con la coda coprono una mezza donna
di legno, potrebbero anche imaginarsi trasformate in alberi da un
novello Ovidio; ma giacché i loro capelli, che sono posticci, non
potrebbero divenir frondi, meglio è chiamarle il rovescio del colosso di
Nabuccodonosor: hanno i piedi d’oro e il capo di legno. Anche, perché ai
cenci che si legano in capo sormontano “un’attrecciolatura di perle
orientali„, e perché le perle e il sale “escono da uno stesso padre„,
consentite si affermi ch’esse dove non han sale mettono perle.
L’arguzia meriterebbe un castigo al signor Buoninsegni, ma egli né pure
ha da temere pianellate dalle donne, le quali “hanno piú vigore nelle
gambe per istrascinar le ingenti pianelle che forza per avventarle„; e
però segue a burlare l’acconciatura alla moda del capo femminile
rammentando un poeta:
I corpi delle donne
Che corrono alla festa
Con cosí ricche gonne,
Con tante gioie in testa,
Son cappanne di fieno
Coperte con pazzissimo lavoro
Di tegole, di perle e doccie d’oro.
Non basta: un paragone piú sottile, che fece fortuna, è tra le donne e
un mazzo di carte. Di queste _il matto da tarocchi_ risponde alla testa
di quelle: quelle hanno i _denari_ e li sciupano nelle gioie; le _spade_
piccoline le portano tra i capelli e tengono uno spadino ai fianchi;
nascondono i _bastoni_ sotto i ciuffi; attaccano _coppe_ alle borse dei
mariti; e cosí via. Né il satirico scrittore smette di saltellare fino a
che si ricorda essere inutile discorrere contro le donne, alle quali non
bastano ad aprire gli orecchi, non che i consigli ed i frizzi, i lunghi
e i gravi pendenti. —
Questa “satira menippea„ pervenne alle mani del padre Angelico Aprosio
da Ventimiglia, dottissimo uomo ma di testa corta, il quale ne inviò
copia al senatore Loredano affinché procurasse le fosse fatta una
risposta da pubblicarsi con essa; e Giambattista Torretti, per preghiera
del Loredano, al quale una moltitudine di scrittori s’inchinava come a
un maestro e a un Mecenate, compose una _Controsatira_ “modestissima„ e
tale “che non mosse alcuno a scrivergli contro„⁶⁷. Ma cinque anni dopo
ad Arcangela Tarabotti, che nel monastero di Sant’Anna leggendo e
scrivendo mitigava i tormenti delle memorie vecchie, dei nuovi desideri
e dell’isterismo, fu recato da alcune dame il brutto scherzo del
Buoninsegni; ed essa, la monacella che già aveva sostenuto contro un
altro scrittore, in pseudonimo Orazio Plata, non essere le donne di
natura inferiore agli uomini, divampò d’ira a scorgerle tanto schernite
pei loro difetti e pei loro gusti.
— “Oh scellerata ed impervertita mente degli uomini, ai quali mancando
forse il potersi impiegare in iscrivere fatti egregi et racconti
virtuosi, poiché al nostro secolo vi sono pochissimi di loro che operino
azione degna di immortalità, quasi tutti si danno ad oltraggiare e
sprezzare le nobili operationi donnesche!„.⁶⁸ — E pare di vederla e
udirla inveire contro il Buoninsegni nella sua fantasia a cospetto di
lei con l’attitudine d’un delinquente.
— Ah sí!, le donne veston di seta perché sono vermi? portano perle
perché mancano di sale? Vermi gli uomini “che rodono l’onor delle donne
e hanno tarlata la loro libertà„; e, quanto alle perle, esse sono
“proporzionate al candore e alla purità dell’animo loro„, precisamente
come del nero dei loro vestiti, che a voi, signor Buoninsegni, pare un
mezzo di seduzione, è ragione “quella mestizia che le tiene oppresse,
per esser sottoposte alla tirannia degli uomini e ai loro indegni
capricci„. E le pianelle alte sono un’“invenzione lodevole„, giacché per
queste le donne “van sempre sollevate dal suolo e tendono al Cielo„; e
se han dorate le pianelle, “se l’infima parte è d’oro, che sarà il
resto?„ Gli uomini, non le donne, cerchino le loro qualità e le loro
cose in un mazzo di carte. Per i _denari_ infatti si disonorano; con le
_coppe_ si ubbriacano; e portano _spade_ dorate ai fianchi, gli
Orlandi!; e riversano i _bastoni_ su le spalle delle mogli sciagurate. E
poi nei _tarocchi_ sono i loro ritratti con le facce da _diavolo,
appiccato, bagatelliere, amore_ falso. — Capo di legno alle donne? Teste
di legno hanno i mariti, signor Buoninsegni; ma già voi procedete troppo
a sofismi. “Ah se alle femmine non fosse diniegata l’applicazione alle
scienze bensí si sentirebbero concetti non sofistici e mendicati
paradossi!„ Del resto — aggiungeva suor’Arcangela —, “ad ogni ora può
provarsi se le donne han piú forza nelle gambe o nelle braccia!„ —
Cosí dunque la Tarabotti si sfogò in un’_Antisatira_ oppugnando ogni
frizzo dell’“Apollo di Siena„ e mettendo ella in burletta le mode degli
uomini, che portavano zazzere comprate a contanti, si profumavano alla
francese e per far apparire belle e grosse le gambe si riempivano le
calze di bambagia; e l’_Antisatira_ mandò a vedere al cognato Pighetti.
Il quale la lesse con l’Aprosio ed entrambi trovandola “ripiena di mille
spropositi e di non poche impertinenze„⁶⁹, cercarono di dissuadere
l’autrice dallo stamparla. Di che la Tarabotti pativa e s’inquietava con
l’Aprosio.
“Essendo V. S. parziale del Buoninsegni mi vorrebbe senza lingua per
lui, e perciò va dissuadendomi col dar nome di satire e di duelli
impropri ad una buona religiosa la verità tanto grata a Dio„; ma quanto
alla sua esortazione d’esser “buona religiosa„, “spero di giungere nel
coro de’ Serafini, non che d’essere annoverata nel catalogo delle
Santissime Vergini, delle cui sacre bende allor che mi cinsi il capo,
non solo fui riposta nel lor numero, ma ancora annoverata fra le
martiri„.⁷⁰ Insomma, come ella era deliberata a “diriger sempre le sue
parole a dire la verità delle malizie degli uomini„, i due censori
dovettero accontentarsi che essa stampasse l’_Antisatira_ con qualche
mutazione e con qualche complimento, cosí, per indorare la pillola,
all’autore della “satira menippea.„.
Ma se la Tarabotti era monaca, l’Aprosio era frate, e come tale sentiva
imperioso il bisogno di non darsi per vinto; ond’è che rivedendo a mano
a mano le bozze le quali la Tarabotti mandava a correggere al Pighetti,
gongolando e zitto zitto egli preparava una difesa del Buoninsegni che
abbattesse l’oltracotanza della suora. Compose, consapevole il Pighetti,
_La maschera scoperta_; ma presto dovette apprendere per essa che se il
resistere alle donne è impresa difficile, è tempo perduto prendersela
con le monache. _La maschera scoperta_, quando fu sbrigata dal revisore
per il Sant’Uffizio, passò a Luigi Quirini, segretario dello studio di
Padova; e questi, prima di dar l’ultimo permesso di pubblicazione, la
diede a leggere a quella buona lana del frate Girolamo Brusoni, allora
in carcere per colpa di apostasia: né il Brusoni si distrasse solo con
la lettura del manoscritto, ma ne prese copia, e uscito di prigione
pochi dí dopo, corse a cederla, o, se è vero quel che dice l’Aprosio, a
venderla alla Tarabotti, “per ritrovar qualche sovvenimento alla sua
fame.„⁷¹ Onde la Tarabotti diede in ismanie; e come alcuni dicevano che
l’_Antisatira_ — già pubblicata e dedicata alla granduchessa di
Toscana — non era scritta da lei, parendo loro troppo ben fatta, ed
altri asserivano che doveva proprio esser sua, essendo zeppa di
strafalcioni nelle sentenze e nei ricordi classici, addio fama di donna
illustre se anche fosse stato concesso all’Aprosio di mandare alle
stampe la _Maschera scoperta_!
A riparare l’ultimo colpo bisognava dunque il soccorso di quanti potenti
le volevano bene, e scriveva al Loredano invocandolo come “protettore
benigno e difensor valoroso del senso donnesco„; al granduca di Parma
Ferdinando Farnese assicurandolo della tristizia dell’Aprosio,
“predicatore delle glorie del vino, confessore de’ bugiardi. Mecenate
degli ubbriachi„,⁷² — cioè del Buoninsegni; — scriveva per aiuto a molti
altri, e alla fine ottenne quel che desiderava: _La maschera scoperta_
non fu pubblicata. Imaginate voi l’ira dell’Aprosio? Io l’imagino per le
lettere che gli inviava la monacella, la quale sembrava corbellarsi di
lui e affermava con una piccola bugia ch’ella non s’era adoperata
affatto “nella sua patria o fuori„ a ch’egli non potesse stampare
scritti contro di lei. — “Io non pretesi altro da Lei che fosse levato
il mio nome da quell’opera (_La Maschera_), acciò che la commedia della
_Maschera discoverta_ non finisse in tragedia per qualcuno„.⁷³ — Capite?
In tragedia! Ma il Pighetti, per riaversi nella stima della cognata, che
l’aveva creduto “promotore„ della _Maschera_ e gli aveva scritto: “le
ferite che si danno alle spalle sono da traditore e le parole che si
dicono in assenza di coloro di cui si parla non possono offendere„,
dovette interporsi tra il frate e la monaca, perché quello desistesse
dal vendicarsi di questa e dal minacciarla: infatti l’Aprosio
s’accontentò d’allargare la materia della _Maschera_, e dandole
sembianza d’una censura “non contro le donne, ma le vanità e i vizi in
generale„, compose _Lo scudo di Rinaldo, ovvero lo specchio del
disinganno_, che vide la luce nel 1646. Veramente nello _Scudo_, opera
in cui l’autore biasimava il lusso del suo e di tutti i tempi riferendo
brani d’innumerabili scrittori antichi e contemporanei, se non mancavano
rimproveri agli uomini perché mettevan la parrucca, lasciavan crescere
lunghe le unghie e tormentavano “li mustacchi„, erano piú le frecciate
alle donne, le quali coprivan la fronte e scoprivan le poppe, si
tingevano i capelli o ne assumevano di posticci, s’imbellettavano,
facevano mostra d’orecchini e di zoccoli ridicoli. Tuttavia nella
prefazione la Tarabotti riceveva lode di scrittrice famosa, e nel
capitolo settimo ella poteva rileggere l’elogio che già le aveva fatto
in latino il Pighetti: — “La purissima penna di cui ti servi, un angiolo
deve aver tratto per te dalle sue ali„. —
Se non che era appena quetato un frate quando un altro si fece addosso
ad Arcangela, e fu, chi lo crederebbe?, l’amico suo Girolamo Brusoni.
Perché l’assalisse negli _Aborti dell’occasione_ io non so bene; so che
una volta la Tarabotti gli chiedeva scusa scrivendogli: — “Può aver
peccato in me una bile, che mossa dal male continuato che tengo attorno,
cagiona in me una certa rabbietta ch’alle volte mi farebbe
precipitare„; — e che un’altra volta si doleva con lui: —.“Quando mi
capitarono nelle mani _Li aborti dell’occasione_, allora mi conobbi
d’avvantaggio tradita.... S’ella però ha cosí operato per rendermi la
pariglia d’un inganno scherzevole dovea star nelli limiti....„ —⁷⁴
Che piú? Avanti di morire l’infelice suora ebbe ancora da difendere le
donne proprio dagli scherni di quel cavaliere ch’ella avea chiamato
“protettore del sesso donnesco„: il Loredano, il quale per certa
accademia compose sei sonetti satirici non tutti blandi e né pure arguti
come questo che segue:
_S’allude al costume della Spagna di donare il condannato all’ultimo
supplicio alla donna pubblica che lo chiede per marito._
Con li occhi chiusi e con le man legate,
Assicurato con infami scorte,
Veniva un meschinel condotto a morte
Perch’avea in chiesa bastonato un frate.
Quando mossa una femmina a pietate
Gridò: — Fermate, sbirri: il vo’ consorte. —
A questo dire s’allargò la corte
E poneva il paziente in libertate.
Ma il reo con una faccia gioviale
Ricusò di tal grazia il benefizio
E corse ad incontrar l’ora fatale.
Poi disse al boia: — Esercita il tuo ufficio
Ché se la forca è un tormentoso male
La moglie è in verità maggior supplicio.⁷⁵
Ma il piú acerbo avversario d’Arcangela fu Lodovico Sesti (Lucido
Ossiteo), che nel 1656 stampò a Siena una _Censura dell’Antisatira_
dedicandola al granduca Mattia di Toscana. Cotesto “accademico
Aristocratico„ tra le altre cose diceva alle donne che non conveniva
loro il darsi alle lettere perché “la sella disdice al somaro„; che gli
uomini “usavan la parrucca per coprire i difetti cagionati dai loro
regali„; che esse ostentavano il seno perché “si mostra la mercanzia che
si vuol vendere„, e rifacendo il famoso confronto delle carte da gioco
aggiungeva che le donne
Sono nate
Sol per esser mescolate,
E si vede al paragone
Chi le mescola piú piú n’è padrone.
Ma dotto nell’arte,
Sia pur delle carte,
Chi primiera con queste unqua non fa?
Chi nella borsa sua flusso non ha.
E terminava la _Censura_ esortando la Tarabotti “che per l’avvenire
misurasse le sue forze, prima di cimentarsi con gl’ingegni di prima
classe.„
Vano consiglio! La suora era morta da quattro anni.


SICUT ERAT....

Quell’onesto e tranquillo sorriso che di fra i baffetti e il pizzo esce
a rischiarare, meglio de’ grossi occhi, una faccia lunga e magra quanto
la faccia di Carlo quinto, e quell’umile dito che accenna all’alto del
ritratto, ove, entro una raggiera di sole, alcuni V, iniziale di
_veritas_, spiegano le parole scritte fuori all’intorno _“et in cælo
sicut in terra„_, insistendo nella mia fantasia vi si trasformano a
importuni segni di minaccia.
Pace, o don Secondo Lancellotti, accademico Insensato, Affidato et
Humorista! Io, pur di fuggire ai colpi del vostro scherno e della vostra
mano ossuta, parlerò di voi e con voi ai protervi che osano trarre la
cattività d’oggidí in paragone alla bontà d’altri tempi.
————
Anche adesso, come nel 1623, quando l’abate don Secondo scriveva, “son
le povere donne per avventura piú de gli uomini soggette al mormorio de
gli _oggidiani_, quasi che _oggidí_ elle sieno piú che fossero mai
vanissime, con tanti sbellettamenti o lisci, e tante sorti di vesti e
per istravaganza e per valuta esorbitanti, e di rovina a’ poveri mariti
et alle proprie case„; ma non sanno essi gli _oggidiani_ che san
Girolamo, sant’Ambrogio, Cipriano, Grisostomo e Gregorio Nazianzeno
attestano con acerbe rampogne che pur del loro tempo “non solo le
maritate, ma le vergini mille sbelletti et impiastri si gettavano su ’l
viso„, adoperando in ispece il purpurisso, la cerussa e lo stibio. E
rimproverando alle signore la cura soverchia dei capelli e la smania di
averli biondi, non sanno che un re dei Persiani ed Elio Vero
s’attaccarono al mento una barba proprio d’oro e che l’usanza di
biondeggiarsi la testa al sole, per testimonianza di Tertulliano, era
fin delle donne germane e galle. Della rabbia che deriva alle donne per
la vista dei capelli bianchi rimane a confondere i brontoloni un
aneddoto di Macrobio intorno a Giulia figlia di Augusto, la quale, còlta
dal padre mentre si strappava capelli bianchi dinanzi allo specchio e da
lui interrogata se desiderasse piú tosto venir prima canuta o calva,
rispose che prima canuta. Onde Augusto l’ammoní dicendo: — Perché allora
ti rendi calva cosí giovane? — E ai tempi d’Ovidio le romane si facevano
recare di Germania le capigliature!
— “E che diremo di tant’oro che portano addosso _oggidí_, per collane,
manigli, pendenti, orecchini...., sí che molte fiate v’è di quelle non
hanno altro al mondo che quello che si vede loro attorno alla persona,
et ormai non è differenza fra l’artigiane e le nobilissime delle città?„
Ripeteremo, o meglio, se sapessero il latino dovrebbero ripeter quelli
che son sempre in doglianze, quanto in proposito dicevano Plauto,
Ovidio, Properzio e Plinio, — Ah ora è spinto tropp’oltre il lusso degli
abiti? Ma, e le vesti di porpora, di bisso o d’altro, che movevano i
predicozzi dei soliti santi Ambrogio, Girolamo, Giovanni, etc., e di cui
lasciò la descrizione Clemente Alessandrino? E quelle delicatissime e
sottilissime vesti, ricordate forse con dei brividi da Tertulliano,
sotto le quali traluceva la carne del petto e delle spalle?
Finiamola dunque con le citazioni e coi lamenti, e com’è vero il
proverbio che “bisogna comportare l’amico co’ suoi difetti„, cosí,
osserva don Lancellotti, “è necessario, se vogliamo vivere in questo
mondo, già che vi siamo stati mandati, comportar le donne con le loro
imperfezioni„.
————
— “Che non si fa e commette _oggidí_ per questa benedetta roba? Chi non
vede come _oggidí_ è guasto il mondo? Non si può piú trattare _oggidí_
co’ mercanti, artigiani, bottegai.... Non ti dicono mai il vero. Non ti
osservano mai quel che promettono. Ti vendono una cosa per l’altra.
Tutte le mercanzie sono falsificate....„ Cosí, proprio come nel 1892 e
nel 1623, ai bei tempi di Salomone, d’Osea e di Grisostomo, i quali ci
tramandarono memoria della loro esperienza intorno ai ladronecci
commessi dai mercanti ingannando con la lingua, e con la mano
“numerando, misurando e pesando poco giustamente„. E a conforto delle
anime semplici che si turbano “quando sentono che fallisce qualche
mercante o banchiero, ma fallisce, come si dice, co ’l danaro in mano„,
ecco un raccontino del Fulgoso, scrittore cinquecentista:
“Avendo inteso Castruccio Castracani, signore di Lucca, che un mercante
ricco sotto nome di fallimento s’era ritirato e non compariva piú, e che
poco da poi, promessa non so che somma a’ creditori, era tornato al
banco o traffico, et aveva cominciato a fabbricar un gran palazzo, lo
fece metter in prigione e con un bando chiamati a sé tutti quelli
ch’avevano d’avere, comandò che fusse loro soddisfatto e l’avanzo se lo
pigliasse il pubblico, e poi fece impiccare il marcante per la gola....„
La qual severità, notava il Fulgoso, quando fosse in uso oggigiorno — se
pure non mancasse il numero necessario di carnefici — conterrebbe molti
dal rubare, e, noto io, non permetterebbe a piú d’un cassiere di
scappare in America a fare il galantuomo.
————
— “Non potrei mai ridire quante volte io mi sia meravigliato in udendo
gli uomini giungere al termine di dolersi fino che le stagioni dell’anno
non corrono piú _oggidí_ come solevano....; che si fanno molte
variazioni di tempi in poco tempo, ora di nebbie, ora di pioggie; quando
di venti, quando di nevi; questa mattina ne travaglia il freddo, questa
sera affanneranne il caldo; oggi il sereno rallegra, dimani rattrista il
torbido....„
Nei diboscamenti trovan la prima causa di tali vicissitudini le gravi e
culte persone alla fine del secolo decimonono, ma al principio del
secolo decimosettimo la trovavano in vece.... nella riforma che avea
fatto del calendario papa Gregorio tredicesimo!
“Pochi giorni appunto sono che una persona di sessant’anni affermava
ricordarsi benissimo che bisognava già sul principio di maggio
alleggerirsi di vesti e che _oggidí_, o da quel tempo che quel papa mutò
l’anno, chi ben volesse, non può per lo freddo che talvolta segue fino
al giugno....„ Ma a toglier d’inganno _oggidiani_ simili a costui, don
Secondo radunò ricordi di strane stagioni e particolarmente di
rigidissimi inverni da Cesare, Livio, Orosio; da Matteo Villani, dal
Corio, dal Giovio, dal Bembo, dal Ghirardacci etc., e dal Sigonio questo
che vale per tutti: “L’inverno fu atrocissimo e seccò gli alberi e le
viti. Il ghiaccio del Po fu grosso di 15 braccia, che però gli uomini
per due mesi continui con le carra e bestie cariche ci passavano senza
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