Parvenze e sembianze - 3

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È naturale che la Mancini accogliesse in amicizia l’allegra compagna di
sfortuna, e come il sangue bolliva nelle loro vene e bisognava
sfogassero contro qualcuno il desiderio vivo della ribellione,
s’accordarono subito in far ammattire quelle povere monache che avevano
l’obbligo di custodirle. Quante birichinate facevano mai e di che gusto
rideva in apprenderle la maestà di Luigi XIV!
Versavan l’inchiostro nelle pile dell’acqua benedetta; s’aizzavano
contro di notte, pe ’l dormitorio, de’ cagnolini e urlavan _tiäut_ (il
grido dei cacciatori di cervi); riempivano d’acqua delle grandi casse
perché sfuggendo e trapassando a poco a poco il piancito andasse a
sgocciolare sui letti delle suore nel piano di sotto; snervavano le
suore vecchie, scelte per accompagnarle a passeggio, in lunghissime e
rapide corse; e cosí via. E che bene si volessero quelle due... — come
dire? — aristocratiche sgualdrinelle, provarono l’una all’altra una sera
che udendo rumore di cavalieri attorno il convento di Chelles, dove
erano state trasportate dal chiostro delle Figliuole di Maria, e
credendo la Mancini fosse il marito suo che venisse con compagni a
rapirla, s’aiutarono in fretta a nascondersi; e poiché nella grata del
parlatorio era un buco, apertovi giorni innanzi per dare ingresso a un
pasticcio di lepre, allargarono il buco e, con che stento Dio ve ’l
dica, passarono attraverso di quello. Ma l’allarme fu falso; e però esse
si disposero zitte e chete a rientrare per la via medesima onde erano
uscite. La Courcelles rientrò con discreta fatica; la Mancini invece
rimase piú d’un quarto d’ora tra due ferri della grata che la
stringevano alle costole in guisa da non consentirle né di procedere né
di retrocedere: tira e tira, finalmente la Courcelles l’ebbe a sé oramai
svenuta del tutto.
Se non che a pena ottennero licenza d’uscire libere s’inimicarono
acerbamente; né ciò poteva non accadere per la conformità degli animi e
delle voglie, la quale le condusse ad innamorarsi entrambe d’un uomo
medesimo: il giovane Cavoy. Tira e tira, anche questa volta la vittoria
fu per Sidonia; e Maria andata un giorno al palazzo dell’odiosa amica
(pur nel seicento le signore congiunte da un odio cordiale non
ripugnavano dal farsi visita) e ricevuto l’annunzio che madama non era
in casa mentre alla porta stava in attesa la carrozza del Cavoy, si
vendicò rivelando la tresca al signor di Courcelles. Cosí il marchese,
che faceva un po’ la corte alla Mancini, fu costretto a sfidare con un
pretesto qualunque il dolce amatore di sua moglie⁴¹.
La notizia del duello, per cui il Cavoy si buscò una non piccola ferita
ad un braccio, giunse tosto all’orecchio del re, il quale, fiero in
castigare i duellatori, comandò che i due cavalieri, invano accorsi a
pregarlo di perdono, fossero condotti alla Conciergerie e la loro colpa
fosse sottoposta al giudizio del parlamento. I rivali allora a
convincere che s’eran battuti non per odio, ma per “casuale rancontro„,
e che anzi si volevano il piú gran bene del mondo, si ridussero a
dormire nella medesima camera; traditore e tradito mangiarono e
giocarono insieme; e furono assolti⁴².
Non sfuggí per contro a pena aspra Sidonia; alla pena di sofferire nel
castello di Maine la sorveglianza della suocera vecchia e malevola. Che
fare a dispetto di questa? Peggio di prima! Con chi? Con qualcuno — e
per darsi buon tempo trovò un paggio del vescovo di Chartres, un giovine
cosí valoroso in distrarla, che delle sue distrazioni ella ebbe presto
segni visibili addosso. Inutile dunque sottrarsi; e il marchese si
richiamò al parlamento: convinta adultera, ella fu condannata a perpetua
clausura co ’l capo raso. Ma rimaneva tuttavia una speranza in
appellarsi al tribunale della Tournelle, e ciò fece Sidonia; e frattanto
riuscí a fuggire dal carcere con uno strattagemma assai semplice⁴³.
La sua cameriera, la quale aveva licenza d’entrare e di uscire dalla
prigione, finse un doloroso mal di denti e per due giorni si mostrò ai
custodi co ’l viso tutto fasciato e nascosto tra i veli in modo che
appena le si vedevano gli occhi: il terzo giorno la padrona usci in vece
e in veste della cameriera; né alcuno s’avvide di quell’inganno prima
che ella con la carrozza gli abiti e i denari d’un antico amante si
fosse messa in sicuro. La serva fedele venne condotta fuori del regno, e
Sidonia, scampando alla caccia del tristo marito, si recò a Digione, e
da Digione a Ginevra, dove una mattina, nell’osteria dei tre Re,
presentò una lettera commendatizia a un noto scrittore calvinista:
Gregorio Leti.
— “Non crediate, signor Leti — gli disse la procace e sagace marchesa —,
che io sia qui per male affare: la ragione è che il mio marito mi vuole
et io non lo voglio„.
Poverina! E che occhi, mio Dio!; che voce, che bocca, che guancie,
che.... Lasciamolo dire al Leti stesso: “oh che poppe! (certe cose si
vedevano per indulgenza della moda) oh che mammelle!„; e, a raccogliere
la descrizione di tutto il resto in un’espressione sola, “che Paradiso
terrestre!„⁴⁴
Ma il Leti era scialbo pittore, né alcuno ritrasse meglio madame di
Courcelles che madame di Courcelles: il ritratto ch’essa si fece è opera
di cesello ardito arguto graziosissimo.
— “Confesserò che se non sono una gran bellezza sono tuttavia una delle
piú amabili creature che si possan vedere: nell’aspetto e nei modi non
ho cosa che dispiaccia e tutto in me par fatto per innamorare; e le
persone piú dissimili d’indole e di animo si trovano d’accordo nel dire
che non si può vedermi senza volermi bene. Sono alta, con figura
mirabile, con bei capelli bruni, proprio come convengono a rilevare la
freschezza e la bellezza della mia carnagione, la quale per altro ha qua
e là dei segni non radi di vaiolo. I miei occhi sono grandi, né celesti
né neri, ma di certa tinta fra le due singolarmente piacevole, e nel
tenerli un po’ socchiusi, per abitudine, non per affettazione, do al mio
sguardo una tenerezza e vaghezza senza pari. Ho il viso d’una regolarità
perfetta: è vero che non ho la bocca molto piccola, ma non l’ho poi mica
tanto grande. Qualcuno afferma che nelle proporzioni giuste della
bellezza io difetterei per il labbro inferiore un poco troppo sporgente;
ma io credo mi facciano questa censura perché non possono farmene altre,
e perdóno a quelli che dicono ch’io non ho la bocca del tutto regolare,
se per loro è un difetto che mi dà un’ineffabile grazia e una vaga
vivacità nel riso e nei moti del viso.
“J’ai enfin — nella traduzione il ritratto perde, tardi me n’avveggo,
colore e finezza — j’ai enfin la bouche bien taillée, les lèvres
admirables, les dents de couleur de perle; le front, le joues, le tour
du visage beaux; la gorge bien taillée; les mains divines; les bras
passables, c’est à dire un peu maigres; mais je trouve de la consolation
à ce malheur par le plaisir d’avoir les plus belles jambes du monde. Je
chante bien sans beaucoup de méthode; j’ai même assez de musique pour me
tirer d’affaire avec les connaisseurs. Mais les plus grand charme de ma
voix est dans sa douceur et la tendresse qu’elle inspire; et j’ai enfin
des armes de toute espèce pour plaire, et jusqu’ici je ne m’en suis
jamais servie sans succès. Pour de l’esprit, j’en ai plus que personne;
je l’ai naturel, plaisant, badin, capable aussi des grandes choses, si
je voulais m’y appliquer. J’ai des lumières et connais mieux que
personne ce que je devrais faire, quoique je ne la fasse quasi
jamais —„.⁴⁵
Gregorio Leti, adunque, rapito d’ammirazione, ma pur senza sospetto o
desiderio di ricadere nelle antiche voglie, alloggiò la marchesa in casa
d’una signora per bene e la introdusse nella miglior società ginevrina;
e come l’accompagnava egli per tutto, forse tratto dalla vanità
lusingata — per vederla “era cosí grande il concorso nelle strade che ci
voleva mezz’ora a far cento passi„, — anche si accese un pochino di lei.
Tuttavia capí presto che un abito nero e semplice non poteva reggere in
confronto alle “casacche di velluto e alle spade d’oro e d’argento„
delle quali fu ressa intorno a Sidonia, e richiamatosi ancora a sé
medesimo riprese i “libri e gli scartafacci„ ch’aveva banditi e continuò
la vita di Filippo II.⁴⁶
Intanto madame di Courcelles trovava impunemente e liberalmente offeriva
il piacere di agevoli amori e dominava in sovranità di grazie e di
spirito tutta Ginevra. Regina, con mutabilità fanciullesca accarezzava e
incrudeliva: un capitano del reggimento d’Orléans assunto tra gli altri
ai suoi baci e poi abbattuto quand’era piú folle di gioia con inganni e
disprezzo, si vendicò dando a leggere le lettere di lei agli amici; e fu
una copia di queste lettere che Chardon de la Rochette rinvenne e diede
alle stampe nel milleottocentotto.
Ma d’improvviso Sidonia lasciò la Svizzera, riprese la via di Parigi, si
fece rinchiudere in carcere. Era morto il marchese marito ed ella
sperava, anzi sapeva per certo che con la prigionia volontaria avrebbe
meritata “una sentenza onorevole che le riacquistasse, diceva cosí per
dire, la riputazione, e, quel che le importava davvero, una gran parte
della sua dote„⁴⁷.
Gregorio Leti, il quale forse non pensava piú a lei, trovandosi a Parigi
nell’agosto del 1679 ricevette una letterina proprio di lei, che
tutt’allegra lo pregava d’una visita “non piú corta d’una giornata„;
ricordasse che altra volta le aveva insegnato essere opera di pietà
visitare i prigionieri; di piú, venisse a consolarla della morte di suo
marito, alla qual consolazione la troverebbe “molto ben disposta„⁴⁸.
Il Leti, che pure era disinvolto, che pure in gioventú aveva baciate le
ragazze in chiesa, rispose con una misera lettera impacciandosi a
scherzare intorno la prigionia di madama e alla libertà delle donne
francesi, e a dichiarare, tra molte lodi iperboliche e proteste
d’affetto, che non acconsentirebbe alla visita domandata. Onde a ragione
la marchesa gli riscrisse chiamandolo “debole d’animo„, e burlandolo
come uomo il quale “stava chiuso in casa fino a sedici ore di
ventiquattro per scriver la vita dei morti„, e con un cuore “piú piccolo
di quello d’un polpastrello negava di soffrire la clausura di dodici ore
con una dama in anima e in corpo.„
Insomma, non cedere al desiderio e allo spirito di lei era impossibile;
ma Gregorio, dibattuto fra la necessità di non parere ridevolmente
timido e il dubbio di non poter resistere alla tentazione, volle prima
porre in sicurezza la sua continenza con una seconda lettera: “Di
grazia, Madama, diciamo la cosa come passa, senza mascherarla: crede
ella che sia una buona opera d’andare a visitarvi in prigione?
Bagatelle!, anzi si corre pericolo d’entrar, come l’apostolo Pietro,
santo nel pretorio di Pilato et uscirne carico di colpe. E se una serva
ebbe tanta forza con un povero vecchiarello, che farà una gran dama, di
tanta grazia e di tanta beltà, con uno che gode ancora il vantaggio
della virilità? Madama, la bellezza in una dama è un dardo de’ piú acuti
et una saetta delle piú fiere, et ivi farà la piaga maggiore dove piú
dura troverà la pelle„⁴⁹.
Cosí io penso che Sidonia di Lenoncourt dové seguire d’un’occhiata
compassionevole il Leti uscente dalla sua gaia prigione e ch’ella dové
mormorare scrollando le spalle fra dispettosa e annoiata: “Quant’è
sciocco questo grande scrittore!„

III.

Perché egli era già divenuto in fama di grande scrittore, e le sue opere
levavan rumore in tutta Europa: già avvolto di carezze e di minacce, di
ossequi e di calunnie, aveva sperimentato, quantunque invano, come il
dire la verità o quel che gli sembrava la verità, fosse travagliosa
impresa. Ginevra, dove, quasi in seconda patria, era stato ricolmo
d’onori, dove, primo italiano il quale ne fosse parso degno, era stato
fatto “cittadino borghese„, non fu piú luogo per lui dopo che ebbe dato
di cozzo nell’“odio teologico„ di quei “predicanti„; e perché Luigi XIV
lo lusingava di promesse se accettasse la nomina di suo storico, nel
1680 si portò con la famiglia in Parigi. Ma nella prima sua visita al
ministro Colbert capí che al re non piaceva uno storico calvinista, e
com’egli dichiarò che non sarebbe andato mai dal padre La Chaise, il
quale aveva ricevuto incarico di rimetterlo nel “giron della Chiesa„, il
ministro incollerito l’avverti “che il re avrebbe trovato presto la
maniera di farvelo andare„. Cosí il Leti, che, sia detto a sua lode,
rinunciava a un lauto stipendio per non rinunciare ai suoi princípi,
s’allontanò incontanente da Parigi e a Calais s’imbarcò per
l’Inghilerra.⁵⁰
Ed ivi Carlo II l’accolse con molta degnazione, gli donò mille scudi e
gli diede incarico di scrivere la storia del regno inglese; grave
compito per altri che per il Leti, il quale la condusse a termine in
breve tempo. Ma per avervi dette, al solito, cose che era meglio tacere,
e sopra tutto per aver fatta certa profezia, “che se non si portava
impedimento acciò non cadesse in successore cattolico la corona, si
sarebbero viste tragiche scene di dentro e di fuori„, gli furon
conceduti appena dieci giorni per uscire dal regno.
Si rifugiò allora ad Amsterdam; e là finalmente trovò tutta la libertà
che desiderava; ebbe l’ufficio di storiografo per gli Stati dell’Aja;
ricevette onori piú che altrove: ivi chiudeva il secolo decimosettimo
stampando la sua centesima opera e cominciava il secolo decimottavo
lavorando, in età di settant’anni, quattordici ore al giorno intorno la
_Vita di Carlo V_, la quale finí poco prima della vita sua, nel 1701.
Fibra di ferro ebbe costui!; e benché anche adesso l’Italia non manchi
di chi dà troppo a stampare, non avrà piú mai, speriamo, chi, per
riuscire a comporre cento volumi, resista come il Leti a scrivere tre
opere per volta consumando in ciascuna due giorni della settimana, e in
ogni settimana faticando tre giorni dodici ore e tre altri, sei.
Veramente, a differenza di molti instancabili scrittori odierni, non
mancava d’ingegno; e nelle storie procedendo audace sin fuori della
giustizia e feroce nelle satire sin fuori dell’onestà, commoveva e
seduceva moltitudini di lettori. Né è strano che molti, pure cattolici,
gli volessero gran bene, perché egli fu nella vita quale nelle opere:
aperto, e cosí naturalmente arguto e ardito da movere incontro anche a
gravissimi pericoli con sangue freddo e con motti ridevoli.
Quando si trovava a Ginevra gli giunse un giorno questo avviso di
Giuseppe Corso, libraio romano provveditore della casa
Panfili: — _Signor Gregorio, perché l’amo, la sua vita mi è cara: il
Signor Principe Camillo Panfili, ch’è persuaso già che V. S. sia autore
della Vita di donna Olimpia sua madre, ha giurato di spender cento mila
doppie per farla pugnalare_ —; ed egli, gettato l’angoscioso biglietto
nel fuoco, “acciò con questo se n’estinguesse la memoria, e preso un
gran foglio di carta — e reale di piú, per fargliela costar piú cara
alla posta —„ rispose all’amico: — _Signor Gioseppe, il Signor Principe
Camillo è troppo benigno e troppo economico per spender cento mila
doppie per farmi pugnalare, se con dieci potrebbe farlo due volte._ —⁵¹
In Londra, essendo la corte in tempesta per colpa della sua storia,
corse a lui, una sera alle dieci, il fratello di sua moglie, il quale
atterrito l’avvisò da parte di milord Cernis che il duca di York aveva
dato ordine di assassinarlo: nel nome di Dio, guardasse la sua persona!
— “E per questo vieni tu a svegliare il mio sonno?„ — gridò egli al
cognato; e pieno d’ira lo coprí d’ingiurie; poi messolo fuori della
camera riprese a dormire mentre quelli della famiglia stavano in pianti.
L’indomani non fu loro possibile impedirgli di uscire, e agli amici che
incontrandolo meravigliati gli ripetevano sotto voce il consiglio di
lord Cernis, il Leti rispondeva ridendo: — “Il signor duca ha il cuore
troppo augusto per risentirsi con la morte e con la prigionia della
morsicatura d’una mosca„. — E cosí fece ogni volta che gli riferirono
una vendetta imminente.
Per tanta spontaneità e vivacità di spirito; per la facilità sua a
cogliere, l’attitudine ad imaginare, la capacità a rendere tipi diversi
in azione sarcastica, Gregorio Leti fu certo uno scrittore di satire
singolare nel seicento e per noi degno di molta considerazione. È vero
che ai nostri giorni niuno s’occupò di lui convenientemente, forse
perché le sue satire derivano in gran parte la materia da pasquinate che
si possono conoscere per altra via; forse perché feriscono le colpe dei
papi e la corruzione de’ sacerdoti alti e bassi con un fine religioso o
politico di cui oggi è troppo difficile avvertire la sincerità e
l’importanza; forse, piú tosto, perché appariscono in gran parte libelli
osceni. Infatti — contraddizione curiosa! — il calvinista riformato pur
ne’ costumi è sconcio scrittore; ma, e come avrebbe potuto battere i
peccati de’ preti senza essere tale? Del resto, altri vegga il danno
ch’egli poté recare alla moralità: a me basta dare a vedere ch’egli ebbe
forza e vena satirica e che meglio la rivelò appunto nelle composizioni
piú lubriche.
E meglio fra tutte, parmi, tant’è spietato e giocondo e acuto per
rappresentazione di tipi, in quella intitolata.... — mal titolo, e
bisogna coraggio, o pudibondo lettore, — _Il Puttanismo romano_.⁵²

IV.

Nell’agosto del 1666 sembrava che la santità di Alessandro settimo
(Fabio Chigi senese) si disponesse davvero ad esaudire coloro che lo
desideravano morto e ad accontentare in ispecial guisa le donne, cui
gran mali eran venuti dal suo pontificato — “la nazione senese ha per
una certa ragione d’istinto naturale.... diretta e implacabile
l’antipatia contro il sesso muliebre„ —, e il 20 di quel mese stesso per
Roma corse lieta la voce che il papa traeva gli ultimi respiri. Onde in
quel dí “si videro le patriarchesse del bordello„ e molte loro emule
dell’aristocrazia “con sollecita e esatta diligenza girar in diverse
pratiche, stringersi in diversi negoziati e proponere diversi trattati
per vedere in ogni modo possibile di far succedere l’elezione del nuovo
Pontefice in alcuna creatura loro, o almeno in alcuno delli soggetti che
per ragione di genio.... sapessero essere aderenti al loro partito e se
ne fussero potute liberamente fidare....„
Come s’affaccendavano a ricercare le compagne per le ville intorno la
città e ad inviare avvisi a quelle ch’erano a Frascati e nei luoghi
vicini. Rintracciatesi, si composero in gruppi e ciascun gruppo scelse
un nome di cardinale da proporre a pontefice.
Cosí “Madonna Angela Sala, serenissima decana del bordello, con il suo
squadron volante s’adoprava.... per l’inclusione del cardinale Spadino
detto Santa Susanna„, che “aveva gagliardamente assicurata la loro
fede„; Nina Barcarola in vece, nella quale era riconosciuta da molte una
certa superiorità, essendo ella tutta cosa di Ravizza prelato possente
in Vaticano, chiedeva voti per il Celsi protettore del suo Ravizza e
seduceva ad aiutarla Nina Pandolfina, Nina delle Cannuccie, Maria
Vittoria delle Masse; tra le dame, quella detta la Regina “si faceva
avanti con la nominazione d’Azzolino Maldachino„, ma la duchessa Mattei,
per ragioni d’igiene, preferiva il Bonelli, “non ostante la sua ispida e
irsuta fisonomia„: l’Adrianella infervorandosi per il Rospigliosi,
“vecchio nel mestiere, faceto nella conversazione, libero nel tratto„,
contrastava colla principessa di Rossano, a cui solo l’Odescalchi pareva
un “soggetto degno e un uomo di buona volontà„. Altre sostenevano altri,
ed era facile capire che senza un lungo conclave non sarebbero riuscite
ad accordo. Però il giorno 22 centoquattro donnine condotte da Angela
Sala vollero raccogliersi a congresso, sole, senza le dame, nella via
delle Vaschette.
Ma l’adunanza ebbe principio non buono, perché gli “affezionati
assistenti„ di quelle signore “con cotal impeto fecero ressa alla porta,
che, non volendo l’un cedere.... luogo all’altro„, vennero alle mani e
si maltrattarono: il canonico Scotti restò tutto pesto; l’abate Pizzisio
perdette il naso; il cardinale Acquaviva patí una stretta funesta alle
reni; monsignor Assarini n’usci tutto spelato, e peggio ancora,
monsignor Altemps cadde all’indietro e la sua testa, che non si fracassò
per miracolo, s’enfiò ad un enorme bernoccolo. Pur le “conclaviste„,
ottenuto finalmente il silenzio, incominciavano la discussione,
quand’ecco, recando nuova cagione di rumore, entrare con fare
“sprezzante ma disinvolto„, assai dame, le quali pretendevano aver parte
al congresso; né fu picciol merito della Regina se furono accolte in non
trista maniera. Anzi la Regina, la quale era parlatrice larga e forbita,
dopo aver proposto e fatto stabilire che da quel dí in poi “tanto le
dame quanto le.... (quel tal nome che ha assonanza con _dame_) andassero
al pari e senza alcuna immaginabile distinzione, e che.... (quello
stesso nome al singolare) e _dama_ volesse dire l’istesso„, mise in
campo l’elezione di Azzolino o di Maldachino. Ella si teneva certa che
il primo concederebbe:
1.º una bolla che dichiarasse lecito ai religiosi d’andare....
“senz’alcun disturbo o pericolo„ a.... fare visite piacevoli;
2.º “la facoltà„ alle donne maritate o libere “di cavarsi la fantasia„,
immuni “da vergogna e da pena, quando e quanto loro paresse„;
3.º l’espulsione da Roma di tutta la “genia de’ monsignori senesi„;
4.º.... — Ma questa io non la dico —.
Se dalla nomina dell’Azzolino si ricavava tutto ciò, continuava la
Regina delle dame, che importava s’egli era “una bestia cosí brutta„, se
aveva “un viso cosí deforme, un tratto cosí rustico, una figura cosí mal
fatta?„ Ma quando costui non soddisfacesse in alcun modo, ella garantiva
questi altri vantaggi da un papa Maldachino:
1.º diverrebbero padrone d’andar dove loro piacerebbe, anche in palazzo
con lui, e rimarrebbero libere d’ogni angheria;
2.º libere anche da quegli “scrocconi„ in mano dei quali dovevano stare
durante le loro infermità;
3.º sarebbero istituite tra loro “le dignità civili e di Rota, Signatura
e Camera„, ove entrerebbe una presidentessa a provvedere contro le
impertinenze dei prelati;
4.º un concistoro vedrebbe di stabilire che i papi pigliassero moglie.
E se Maldachino è brutto, ricordate, — aggiungeva la Regina — che “le
pere tanto sono piú buone quanto sono piú brutte„.
Già ella, conchiuso il suo lungo e bel discorso, s’era seduta, quando
s’alzò l’Adrianella e “con volto ridente, benché non gran cosa, fatta
una bella e graziosetta ma umil riverenza circolare„, cominciò a dire
che quanto aveva promesso Sua Maestà tornava a solo utile delle....
signore pubbliche; che la confusione delle dame con esse non le piaceva
affatto perché veniva a perdere “tutta la fatica et tutta la diligenza,
che aveva usata in vita sua, di farsi stimar da dama se bene non fosse,
e di esser creduta onesta se bene non era„, e che a lei bisognava
soltanto un po’ di dominio, il quale sperava dal Rospigliosi. Ma
Eleonora la Barcarola l’interruppe: la signora Adrianella pensava troppo
a sé, dove ella, che pure aveva fatto Ravizza quello che era, e molto
avrebbe potuto attendere dal Celsi, acconsentiva alla proposta della
Regina, desiderando il vantaggio di tutte le compagne sue. E
l’Adrianella a rispondere poco a tono e a insistere che fidarsi dei
Celsi e dei Ravizza era pazzia. Ma come Dio volle il battibecco tra lor
due finí e si fece avanti la “reverenda madre decana„, la quale “dopo di
aver fatto da trenta smorfie di conto, cominciò a dire il fatto
suo....„. Costei, a differenza della Regina, discorreva balzellando e
con la sguaiata bonarietà e smaccata gaiezza che è propria delle vecchie
sue uguali.
Per lasciare comprendere di quanta esperienza era ricca si fece prima a
raccogliere la storia della sua vita; poi vantò lo studio che poneva nel
“formare„ e reggere le sue allieve, e citava fatti; poi, accorgendosi di
andar per le lunghe prometteva di spicciarsi in due parole.... Ella,
Ciccia dello struzzo venuta da Frascati e molt’altre avrebbero dunque
preferito il cardinale Santa Susanna, in riguardo alla grande amicizia
che le legava all’abate Bernardino nipote di lui, ma pur finivano con
appagarsi del Maldachino. Maldachino?: “zitto zitto! — diceva a voce piú
bassa e co ’l gesto di chi si prepara al racconto d’un bel caso; e
rammentava come una volta lo vestirono da dama. Lo conosceva, insomma,
per un buon ragazzo e non lo credeva “capace di distinguere il ben dal
male.„
“Non aveva appena questa finito con altrettante smorfie, che
incontanente ritornò a discorrere la Regina, e fatto prima un nobile et
erudito ringraziamento alle pronte esibizioni della decana e.... stesasi
ancora in un lungo encomio sopra le di lei qualità..., voltatasi alle
altre....„ le richiese della loro opinione. “Datesi quelle giovinotte
una guardata, scappò tra l’altre a parlare la prima Nina Fiorentina con
un proemio di dicerie e di tratti poetici piacevolmente infilzati, che
parve una pasquella che allora fosse uscita dalla cima di Monte Alcino o
da Pistoia, e poscia fatto un esame generale a tutti li cardinali, e
avendo ritrovato a chi il collare torto, a chi li calzoni corti, a chi
il naso troppo piccolo, e chi troppo stretto in cintura, volando or qua
or là, si posò alla fine sopra Bandinello. Al sentir tal nome saltò
fuori la paesana sua, che era Margherita, e con uno strillo da
disperata:
— Oh affè di Dio non si poteva dir meglio!; cotesto costí vogliamo al
certo, signor sí!„ — Ma le altre gravemente tutte in coro:
— “È senese, nihil!, è senese, nihil!„ — (allusione alla forma di
procedimento che “nelle cause de’ miserabili„ seguiva ogni giorno
“l’ignorantissima canaglia della Signatura di Giustizia„).
Escluso il Bandinelli; la principessa di Rossano adduceva le ragioni per
cui le sembrava migliore l’Odescalchi, quando la fece ristare gran
rumore di gente che veniva dalla parte di strada: era la signora Nina
Stagnarina, la quale con un corteggio di sgualdrinelle entrava a
lamentarsi di non aver ricevuto invito alcuno al conclave. Fu pronta a
sgridarla la Rossano e a farla tacere ed uscire con ragioni molte e tali
che io non ripeto perché sbigottiscono anche me; ma la principessa non
poté subito riprendere l’interrotto discorso tanto le “conclaviste„ si
lamentavano d’essere stanche, né ci volle meno del potere della Regina
per ricondurle al silenzio. Finalmente la Rossano, con “un viso tra il
brusco e il dolce, fatto all’usanza d’una pizza da un baiocco„, ebbe
agio a ritesser le lodi dell’Odescalchi “un uomo da bene, uno spirito
puro, un animo dotato di grandi virtú....„; — Un gesuita falso! — gridò
la Brigidaccia impedendole di proseguire. Nuccia Belluccia, che aveva
dalla sua Nuccia delle cannuccie, si levò poscia ad esprimere il suo
desiderio di nominare “un buon fratone„, e fu tratto in ballo fra Silvio
de’ Vecchi.
Piú tosto poi il Celsi! — esclamava Nina Barcarola; e altre: — Meglio
Santa Susanna! — Meglio il padre Caravita! —
Era tempo di por termine al diverbio, e ciò fece la Regina sospendendo
il concistoro al modo stesso — questo paragone lo posso fare — onde ogni
bravo presidente termina ogni consiglio tumultuoso, e dicendo che per
quel giorno bastava essersi persuase della difficoltà della questione, e
che in altra adunanza (la indisse per la settima prossima) sarebbero
venute a deliberare ultimamente. E la Eleonora Adrianella, “la quale,
per esser tra l’altre forse la piú astuta e la piú pratica delle cose
del mondo, aveva in testa di far riuscire la regola che a fare il Papa
ci vuole raggiro, e con ingannare il compagno si gira tutta questa
macchina del prelatismo, si alzò a dire quattro barzellette per
licenziare il conclave„, trovando pur modo di pungere un poco la
fortunata Regina.
Ma allorché levatesi tutte in piedi stavano per andarsene, giunse
d’improvviso Stecchino principe del bordello, il quale, “tutto affannato
e afflitto, datosi di mano al cappello e fatta una riverenza a mezza
luna con quelle sue gambe storte, cominciò a mezzo il congresso, con
mille sospiri e quasi sommerso in un torrente di lacrime, ad ululare in
questa maniera: Siamo rovinati, siamo spediti, oh poverini noi! Oh
disgrazie della natura, oh malvagità delle stelle!: il Papa sta
meglio! —
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