Parvenze e sembianze - 2

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ma quale de’ gentiluomini bolognesi non avrebbe ceduto magari l’amore di
tutte per l’amore della sola Bianca Bentivogli Barbazza
Alli spirti celesti in vista eguale —?²³
Dicono che Bianca Cappello ebbe i capelli biondi e gli occhi neri (io
non ricordo la tela in cui la ritrasse il Bronzino); il poeta Rinaldi
pareva ammirare in Pellegrina Bonaventura il candore della carnagione
nel lume dei neri occhi e nel riflesso dei capelli neri; a Bianca
Barbazza, rassomigliante in questo alla madre piú che alla nonna, fu
pure attribuita la vivacità del “nero e del bianco„ in altra serie di
“motti„, parte satirici e parte laudatori. Eccone alcuni:
_Piombino da muratore_ — Virginia Ricordati Maranini
_Il zibellino_ — Dorotea Albanesa Bulgarini
_La mula del papa_ — N. Simoni Peppia
_Il guardo soave_ — Diana Barbieri Rinieri
_Il parapetto_ — Caterina Caccialupi Alamandini
_La Ninfa_ — Livia Rossi Fantuzzi
_La modesta_ — Camilla Beri Bandini
_La tramontana_ — Camilla Orsi Leoni
_La buona_ — Camilla Orsi Ghisellieri
_La favorita_ — Doratrice Oro Gambari
_La matrona_ — Silvia Orsi Sampieri
_La pensosa_ — Valeria Lambertini Guidotti
_La buona notte_ — Claudia Fantuzzi Paltroni
_Il delfino, La cassa di noce_ — Camilla Fantuzzi Bandini
_Il buondí_ — Clementina Orsi Ercolani
_Il falcone_ — Orsina Foscherari Favi
_L’Armida, Il Giardino d’Amore_ — Lodovica Amorini Campeggi
_La parlatrice_ — Olimpia Guerrini Ghiselli
_La splendida_ — Ippolita Campagni Ghiezzi
_Il bianco et il nero_ — Bianca Bentivogli Barbazzi²⁴.
Ma le sembianze di Bianca Bentivogli meritaron ben altro che l’insulsa
indeterminatezza di questi attributi! Ella, “sole di beltà„, come la
chiamò il Malvasia nella _Felsina pittrice_, per arte di Guido Reni si
rivide immortale in figura d’una _Cleopatra_ che Andrea Barbazza
acquistò, non so l’anno, e Antonio Bruni credette di rendere in rima:
.... Non sembra in tela espressa,
Perché il pittor l’avviva, amor l’ancide;
Le dà spirto il pennel, l’angue l’uccide²⁵.
Cosí dunque, con lieve sforzo di fantasia, possiamo imaginare Bianca
nell’effusione di tutto il giovanile splendore a quella festa che né
pure un anno dopo le sue nozze, al carnevale del 1615, fu data nel
palazzo del Podestà, e che per magnificenza d’apparati e vestiari e
novità d’invenzione e per la nobiltà dei cavalieri che vi
tornearono — con essi anche il Barbazza e il fratello di Bianca
Alessandro — parve meravigliosa e degna d’imperituro ricordo²⁶.
Ne era venuta l’idea a parecchi gentiluomini i quali avendo ricercato
una sera, come solevano di frequente per passare le ore, “qual fosse la
piú espedita via d’acquistare la grazia dell’amata donna„, né essendo
riusciuti ad accordarsi sulle varie proposte, avevan risoluto di
rimettersene al giudizio delle armi. Detto, fatto; e per l’operosità in
ispecie di Gabriele Guidotti, che inventò favola e macchine, curò
l’allestimento del teatro e instruí i cavalieri, il 2 marzo a un’ora di
notte tutta l’eletta società di Bologna poté convenire all’atteso
divertimento.
Tre ordini di gradini e tre ordini di logge accolsero gli spettatori:
nei gradi a mezzodí le dame; di fronte a loro il cardinal legato Capponi
e i magistrati; a destra e a sinistra i cavalieri. Nella scena
dell’azione s’ergeva un tempio dorico circondato d’alberi; nell’alto, al
principio, s’aprí una nube e apparve Giove in mezzo agli dei; e a lui
Venere, con a lato il figliuolo cui accennava, chiese licenza di
scendere in terra per soccorso e consiglio delle misere donne. Giove,
manco a dirlo, assentí, e la nuvola si rinchiuse. Ed ecco uscire dal
tempio un coro di sacerdoti, i quali si disponevano a sacrificare alla
dea un leone un capro e un drago, quando a suono d’una musica sí dolce
che — asserisce uno il quale l’udí, non io — “tutti gli spettatori
sembrava ardessero del soavissimo fuoco d’Amore„, comparvero Venere e il
figlio e l’amico di casa, Marte. Amore liberò le belve dall’imminente
sacrificio:
E questo altar or sia — _disse_ —
Il tribunale ove porrò la seggia
Per giudicar de’ cori
Quali sian di pene e premi
Meritevoli ardori.
Un Amorino venne a querelarsi al picciolo Iddio di certa giovinetta che
aveva abbandonato l’amante suo, ma poiché Venere difese la colpevole e
poiché Marte, il quale aveva ragioni sue proprie di contraddizione alla
dea, sostenne il cavaliere amante, bisognò trovare la fine del contrasto
in particolari certami e in un generale torneo. Veramente ci fu ad
intermezzo la comparsa della Gelosia in forma di larva orrenda con uno
stuolo di “mostri neri ignudi alati„ e “con uno strepito di anime
perdute„ in una voragine di fuoco; ma come la femmina maligna non riuscí
a “mettere contagio nell’anima degli spettatori„ — asserisce uno
spettatore, non io — posso risparmiarne la descrizione.
E siamo cosí al meglio dello spettacolo. Arrivano due tamburini,
ventiquattro paggi con scudi, e sei staffieri con due azze, due picche e
due mazze; e dietro loro i cavalieri padrini del mantenitore, Francesco
Cospi e Giovan Gabriello Guidotti; poi infine il mantenitore di Venere,
Alessandro Bentivoglio, “vestito di morello e d’argento; calza intiera
con tagli di cordelle d’argento, foderate di tela d’argento e morella, e
strascinandosi dietro lunghissimo manto di seta morella, ricamato di
fiori d’argento e di vari colori, tempestato di grosse gemme e perle,
con cimiero altissimo di piume in pomposa mostra„. Di contro a lui, in
una pianura, sorge uno scoglio con sópravi una donna — la Terra! —, che
esorta le donne ad amare e cantare le lodi di Amore e quindi se ne va,
mentre giunge una testuggine (qualcosa come il cigno wagneriano) recando
con i loro padrini i due cavalieri Florimanno e Ribano — Alessio e
Giovanni Orsi —, i quali vengono a sostenere “che la virtú non è
compagna d’Amore„. Ma mal per essi, giacché Candauro, ossia il
Bentivoglio, li abbatte entrambi. E sparisce la scena e apparisce il
mare in cui s’eleva Proteo a dire anche lui non so quali belle parole:
indi due altri cavalieri arrivano per farsi vincere dal cavaliere di
Venere. Seguono due altri condotti da Iride, dei quali pure avviene
l’abbattimento, e poi....
“... udissi un rimbombo.... et il cielo incominciò a rosseggiare, e
balenando e fiammeggiando in guisa che parea che egli veramente ardesse,
e a poco a poco radunandosi tutte quelle fiamme in globi, formarono come
nuvola di fiamme in mezzo della quale udivasi la voce di persona, che
rassomigliava il Fuoco, e cosí diceva de’ suoi cavalieri:
E questi miei di vive fiamme ardenti,
Fiamme, che il loro Amor, che l’altrui sdegno
Si nutre al cor cocenti,
Non troveran da te pace e pietade,
Rigida inesorabile beltade?
Io qui con lor, donne gentili, vegno
Per palesarvi solo,
Nel fiammeggiante lor tacito aspetto,
Qual sia la pena e ’l duolo
De l’infocato petto....
“Dopo le quali parole chiusasi la nuvola, continuamente spargendo raggi
e faville di odorate fiamme, venne ad abbassarsi infino all’orizzonte, e
quivi scoppiando con molti tuoni e baleni, espose fuori.... (oh
meraviglia!).... il signor Andrea Barbazzi, cavaliere dell’ordine di San
Michele e giovane di animo eguale alla grandezza del suo nascimento et
di vero valore, et insieme il signor Ippolito Bargellini, non inferiore
di generosità d’animo et di altezza di pensiero a chi si sia, i quali
erano vestiti superbamente con calze intiere alla spagnuola, a tagli di
cordelle d’oro e d’argento, foderate di tela d’oro ardente, con fiamme
rosse, con le facelle di fuoco ardente in mano, cimieri altissimi
fabbricati con piume rosse e fiori d’oro, a guisa di lingue di fiamme,
che in forma di piramide ascendevano al cielo....„. “Li seguivano due
gran Ciclopi ignudi, se non in quanto erano ricoperti vagamente in parte
nel petto e nei fianchi da drappi dell’istesso colore del quale erano
vestiti i primi; portavano due gran facelle nelle mani accese et pesanti
martelli, et avevano un sol grand’occhio in mezzo la fronte; la faccia
affumicata e rabbuffati i crini, e barba folta, sicché propriamente
parevano Sterope e Bronte che venissero dalla fucina di Volcano e da gli
incendii etnei ad accompagnare i cavalieri ardenti„. E tanti altri
cavalieri successero che se ne composero squadre e, seguendo il torneo
generale, gli eroi, sempre per divergenza d’opinioni intorno il miglior
modo d’amare, “incominciarono con li stocchi in tal maniera a ferirsi
che fecero impallidire i sembianti ed agghiacciare di gelata paura il
cuore a molte di quelle bellissime dame„. Ma a conforto di esse si fé
innanzi Amore a comandare tregua e quiete e a dar la sentenza
pacificatrice:
Chi cerca, amando e oprando, amore e fama,
Merta il pregio d’Amore e sol ben ama.

V.

Può darsi che Bianca Barbazza vivesse parecchi anni rattenuta in onestà
dalla trista rimembranza della madre sciagurata, ma alle amiche le quali
ne invidiavano la bellezza, ai corteggiatori che non potevano sperare
trionfi su lei, a tutta quella società che l’attorniava avida di
pettegolezzi e di scandali dové poscia e finalmente recare conforto la
voce d’un fatto sicuro: Bianca aveva per amante il marchese Fabio Pepoli
e traeva una tresca con lui. Si riferiva il tempo e il luogo de’ loro
segreti convegni e nelle conversazioni e nei ritrovi si coglievano senza
fatica le loro occhiate bramose e i sorrisi e gli accenni; e il Pepoli
ardendo di violenta passione non avvertiva di procedere cauto, e la dama
o non sapeva frenare l’impeto suo, o cieca anch’essa d’amore gli
consentiva senza troppi riguardi. Forse solo il marito poeta non
s’adombrava per la solerzia del marchese in servirgli la moglie e si
spiegava ogni cosa con la libertà delle “convenienze cavalleresche„; ma
i fratelli di lui, cui premeva intatto il “lustro„ della famiglia,
osservavano bene e ascoltavano. Però il conte Guido Antonio trovandosi
nell’estate del 1621 a certa festa di ballo, alla quale erano pure gli
amanti o si discorreva di loro, disse abbastanza alto da essere
udito: — Provvederemo! —²⁷
I Barbazza non scherzavano e i loro bravi erano usi “di fare
all’archibugiate ogni giorno„, onde Fabio Pepoli, messo in guardia,
volle prevenire il compimento della minaccia con audace prontezza, e
d’accordo con gli amici Aldrovandi, Vizani e Riari il 6 luglio su l’ora
di notte venne in piazza san Domenico verso casa Barbazza: il luogo era
deserto; solo, un po’ lungi dalla porta, Guido Antonio se ne stava al
fresco. E su lui precipitarono i giovani cosí all’improvviso che egli
non fu in tempo a ritirarsi in casa e dové schermirsi male armato ma con
cuor di leone: i colpi piovevano e uno lo feriva al capo; egli
indietreggiava urlando, e indietreggiando stramazzò nella chiavica
ch’era in mezzo della strada. Cosí fu salvo, perché gli assalitori
persuasi d’averlo morto fuggirono e sfuggirono ai fratelli del conte
giunti in soccorso. Guido guarí dopo poco della ferita e per attendere a
sicura vendetta — ebbe il nome di _vendicatore prudente_ — interruppe il
romore dell’accaduto asserendo con tutti di ignorare chi l’avesse
aggredito e dando a credere d’essere stato còlto in isbaglio.
Non passarono quattro mesi che Guido Antonio incominciò dal mover
questione e dal ferire il conte Filippo Aldrovandi, compagno di Fabio
Pepoli nella bella impresa contro di lui²⁸: quanto al Pepoli, come
malaccorto, avrebbe finito co ’l farsi egli provocatore. Infatti
l’ultimo giorno di gennaio del 1622 in via San Mamolo, dove i cittadini
carnescialavano al corso delle maschere, Fabio s’imbatté in Guido
Antonio e susurrò qualche cosa all’orecchio d’un amico, né, ad un
secondo incontro, disse piano queste parole:
— Conviene che m’imbatta sempre ad incontrare questa razza di b....
f...! —
— Quest’è troppo: andiamo! — disse allora il Barbazza a un suo
_confidente_; e l’uno e l’altro furono in due passi a casa a mascherarsi
da villani, e armati di _terzette_ tornarono nel corso. Il satellite
avrebbe dovuto sparar egli una archibugiata alle spalle del Pepoli
quando gli tornasse appresso, ma al momento opportuno gli mancò il
coraggio; il conte allora mirò rapido e sí dritto che colpi a morte il
marchese; poscia si dileguò tra la folla in confusione per l’accaduto,
corse a casa, depose gli abiti di maschera e tornato subito in San
Mamolo venne alla farmacia della Pigna, dove giaceva il moribondo, e con
voce ferma eppure compassionevole: — Che peccato — esclamò — che questo
cavaliere abbia fatto una tal fine! —
Ma tosto Guido Antonio, Astorre, Romeo e Giacinto Barbazza con un loro
zio, pei quali tutti oramai spirava mal’aria in Bologna, si nascosero in
casa di Giambattista e Aldobrandino Malvezzi, loro fratelli uterini, e
con l’aiuto di essi scalarono nella notte le mura della città e si
diressero a rifugio in Piemonte. Troppo tardi l’indomani fu per ordine
del Cardinal Legato pubblicata una grida che proibiva l’andare in
maschera “sotto pena di galera et altre pene„ e furono chiuse le porte
della città, ad eccezione di quelle di Strada Maggiore e San Felice, per
le quali tuttavia non era concesso d’uscire “senza bollettino, sotto
pena della vita„²⁹.
Fabio Pepoli, dopo ventiquattr’ore di strazio, spirava lasciando il
dovere di vendicarlo ai fratelli suoi Guido e Giampaolo. I quali
pregarono anzi tutto il Granduca di Toscana d’intromettersi ad accertare
se i Malvezzi avessero per caso avuto parte nell’assassinio del loro
fratello: il Granduca indusse il Legato Ubaldini a raccogliere prove che
i Malvezzi non erano colpevoli; poi egli e il cardinale, per amore di
pace, fecero giurare a Giambattista e ad Aldobrandino Malvezzi “su
l’onore di veri cavalieri„, e il giuramento porre in scrittura di
notaio, che “non avevano dato consiglio aiuto e favore alcuno, né con
assistenza né con qualsivoglia altro modo ad eseguire l’assassinio di
Fabio Pepoli„, e che mai avrebbero porto “consiglio, favore et aiuto ai
signori Barbazza„, né avrebbero mai offesi i Pepoli o “tentato
d’offenderli né per sé né per mezzo d’altri„³⁰. Ma non giurarono,
furbi!, di non aver aiutati i loro parenti a fuggire. I Barbazza
scampati alla forca rimasero molti anni alla corte piemontese: Astorre,
il quale ebbe su l’anima parecchi delitti, fu condannato a morte in
contumacia, ma ottenne poi grazia nel 1659, “in riguardo alla sua grave
età„, pagando quattro mila scudi³¹; e la pace fra le famiglie dei
Barbazza e dei Pepoli non fu conchiusa che morti Guido e Giampaolo
Pepoli e solo per intromissione dei príncipi di Savoia e di Toscana.
Quant’odio dall’amore di Bianca Bentivoglio!

VI.

E quanto misero il retaggio di Bianca Cappello; retaggio di colpe, di
sciagure e drammi foschi! Ancora un mistero: la contessa Barbazza nei
sette anni che trascorsero fra la morte del Pepoli e la sua morte, quetò
forse, per sconcia avidità dei sensi, ricordi e rimorsi in nuovi amori,
finché la frenò e a poco a poco l’uccise il veleno propinatole dai
congiunti, o piú tosto patí ella sette anni interi, da prima la cupa
fantasia rinnovandole giorno a giorno lo strazio di quella scena — a un
colpo d’archibugio l’uomo amato cadere sanguinante e dolorare e gemere
tra una folla di maschere — e poi, di pari, consumandola giorno a giorno
la corrosione lenta della tisi, se non del veleno e della vendetta
maritale? — “Il 15 ottobre 1629 morí Bianca Bentivoglio Barbazza d’una
lunghissima e penosissima infermità, che a poco a poco l’andò
struggendo; e non fu chi non dubitasse che non le fosse stato dato il
diamante a causa della corrispondenza col marchese Fabio Pepoli„³².
Troppo lasso di tempo sembra che fosse tra l’offesa e il castigo; ma
pure un fatto aggraverebbe sopra Andrea Barbazza il sospetto di
uxoricidio: egli compose e pubblicò una canzone, una canzone di
ventinove stanze, in morte di sua moglie³³.
Da sí vasto ocean d’amari affanni
Ov’ondeggio caduto,
Deh! chi recando aiuto
Sia che mi tragga a riva? E chi consola
Naufrago il cor tra le miserie e i danni?
So ben che morte sola
Può dar fine al martir, posa al cordoglio,
Ma sol per piú morir, morir non voglio....
E nel secentesimo di questi e di quest’altri versi sarebbe bastevole e
facile prova di ipocrisia e di mal tentato inganno:
Quando l’alma di lei che ’l Ciel mi diede
Dal _casto_ vel si sciolse
E ’l Ciel se la ritolse,
Privo restai de l’anima e del core,
Orbo di gioie e d’aspre cure erede;
Ond’è solo il dolore
Che mi sostiene e serba il petto vivo,
Benché de l’alma io sia vedovo e privo....
Se non che seguono altri versi per cui converrebbe supporre nel
cavaliere Barbazza una perversa sottigliezza a coprire il suo delitto.
Egli lamenta in un punto:
Vidi....
.... la beltà che tanto amai
Farsi preda a maligno
Umor, che di sanguigno
Foco sparse il bel volto e del bel petto
Tinse il candore, e chiuse agli occhi i rai
In cui visse il diletto
E col diletto Amor, ch’ha per fortuna
D’aver la tomba ov’ebbe in pria la cuna....;
No! Io sono docile alla commozione della poesia; io odio la malignità
nella storia; io credo al diarista Galeati: “Il 29 ottobre 1629 (data
certa) morí l’illustrissima signora contessa Bianca del conte Ulisse
Bentivogli, di febbre etica„. E con pena sincera do fede a un povero
marito che si duole, privo degli occhi languidi consolatori e preganti
consolazione della sua moglie soave, cosí:
Quegli occhi, dico, a me sí dolci e cari,
Ch’ancor nel duol sepolti
In me vidi rivolti.
Quasi ad uopo maggior languidi e mesti
Pietà chiedendo in muti accenti amari....
Pietà! — gli aveva chiesto Bianca con i brividi del malore e del
rimorso; ed Andrea le aveva perdonato, son certo, con gentile
misericordia di poeta; né, lei seppellita, poté forse resistere a non
piangere piú volte nella chiesa del Corpus Domini e a pregare spesso
Santa Caterina de’ Vigri, vicino al cui corpo incorrotto è la tomba dei
Bentivoglio, che Iddio lo ricongiungesse alla pallida e tremula
fiammella della sua Bianca.
Canzone, imponi al canto, al pianto freno:
Ben so ch’a me non lice
La mia cara Euridice
D’indi ritorre ove beata splende,
Ch’ivi affanno non ha di duol terreno.
Ma lieto amor l’accende
Che ’n Dio la stringe e con devoto zelo
Fa che m’inviti a rimirarla in Cielo.
Affettuoso uomo fu Andrea Barbazza: tanto vero, che per il bene che egli
volle alla sua nuora impudica, Settimia Mandoni, le male lingue
asserirono ottenesse il senatorato ed altri uffici mercè i favori di
lei³⁴ tanto vero, che a sessantasei anni s’accese di Silvia Boccaferri,
la quale egli, rimasto vedovo quasi vent’anni di Bianca Bentivogli,
sposò in Santo Stefano il 30 maggio del 1648.


GREGORIO LETI SPIRITO SATIRICO

I.

Non fu tutto merito e tutta colpa dello zio vicario se Gregorio di
giovane scapestrato divenne uomo d’austeri costumi; d’incredulo
cattolico fidente calvinista e di fanullone uno scrittore fecondissimo.
Già nella fanciullezza e giovinezza prima troppo l’avevano fatto
digiunare e dir _pater noster_ e servir messe e baciar mani sporche di
preti e di frati quelle due figure paurose del padre Merenda e di Don
Grassi. Poiché da sua madre, Isabella Lampugnani, rimasta vedova di
Geronimo Leti governatore d’Antea, era stato posto nel 1639 alla scuola
de’ gesuiti di Cosenza, ed egli, irrequieto scolaro e incomposto
chiericuzzo, era cresciuto dai nove fino quasi ai vent’anni con
l’oppressione e il fastidio addosso del Grassi per custode e del Merenda
per precettore: tanta oppressione e tale fastidio che quando gli morí la
madre e passò in Roma alla tutela dello zio don Augusto, “non poteva piú
vedere né chiese né sacerdoti„³⁵.
Lo zio, il quale era un po’ petulante, sí, ma in fondo un’ottima pasta
d’uomo, e vagheggiava pe ’l nipote la fortuna medesima ch’egli aveva
avuta nella prelatura, avvedendosene, con che sbigottimento s’imagini!,
pensò dargli a maestro e guida di coscienza quello sciocco del suo
cappellano; Non l’avesse mai fatto! Il cappellano si mise a mortificare
Gregorio nelle confessioni frequenti e a gravarlo di sbadigliati digiuni
e rabbiose recitazioni d’offici, e Gregorio, caduto dalla padella nelle
bracie, prese con maggiore ardire a ridere per le strade in faccia ai
preti e per le chiese ai santi; a dire qualche porcheriòla; a leggere
libri proibiti e ad accarezzare le ragazze. Per dire la verità, che
colpa avea lui se le donne vedendolo “fresco, sano, robusto e ben fatto
della persona„, gli volgevano occhiate lusingatrici e se egli, piú tosto
che ad attendere i beni del sacerdozio, si sentiva “inclinato a godere
la dolcezza del maritaggio?„ Basta; còlta un giorno nella chiesa
vescovile una bella e docile giovinetta e trattala pudicamente dietro un
banco le diede solo sette baci, e poi, cosí per gioco, s’andò a
confessare dal cappellano; e questi in penitenza gli ingiunse su ’l
serio “di mangiare o almeno ben masticare sette fila di paglia della
lunghezza ciascuna di un piede, per causa che la confessione portava
sette baci„.³⁶ Era dunque l’esorbitanza d’una ridicola e proterva
severità, e Gregorio stucco e ristucco piantò lo zio e si recò a Milano
dai parenti della madre, presso cui stette due anni.
Ma pur troppo don Augusto Leti saliva rapido la scala degli uffici
ecclesiastici, e divenuto vicario d’Orvieto con in vista la nomina a
vescovo, volle ancora il nipote con sé.
Lo riebbe infatti, e cominciò ad esortarlo con paterna dolcezza che, non
avendo beni sufficenti per vivere gentiluomo, si facesse prete o alla
peggio soldato, e onorasse la famiglia nella maniera di suo padre.
Gregorio scuoteva la testa: Né armi né brevario! Piú tosto medico o
legale; ma lo zio vicario, che con ragione aveva poca fede nella scienza
e nella legge umana, scuoteva egli pure il capo sospirando e
scongiurando Iddio, e alla fine lasciò Gregorio libero di sé e della
roba sua: chi avrebbe potuto frenarlo?
Il giovinotto lieto e avventato come un puledro che si senta le briglie
su ’l collo, vagò alcun tempo per l’Italia e sprecò gran parte dei
quattrini lasciatigli dalla madre; indi, com’era naturale, fece ritorno
allo zio già vescovo in Acquapendente, che l’accolse tuttavia con bontà
e con speranza di rimetterlo per la strada buona. Ma in Gregorio non
c’era solo lo scapato, c’era l’incredulo, e che guajo per monsignor
vescovo avere un nipote il quale non voleva piú comunicarsi!
— Gregorio, Gregorio — gli diceva —: se tu non pigli altra strada, o che
tu morrai eretico, o che sarai processato in qualche inquisizione! —³⁷
Quand’ecco un giorno di settembre del 1658 monsignor vescovo cerca il
nipote e non lo trova; e una giovine, Antonia Ferretti, che il nipote di
monsignore aveva fatta uscire di monastero con promessa di matrimonio,
cerca l’amante e non lo trova: né lo zio seppe piú nulla di lui fino a
che apprese ch’egli si perdeva in Bologna nell’amore d’una cantatrice;
né la fidanzata ebbe piú altra notizia di lui fino al dí in cui le fu
detto ch’egli era a Ginevra calvinista e ammogliato! Tutto vero; perché
da Acquapendente Gregorio era corso ancora qua e là in cerca di vita
allegra, e venuto a Bologna con la cantante e compiute chi sa quali
pazzie, aveva poi considerato seco medesimo come seguitando di tal passo
avrebbe in poco tempo dato fondo a quel po’ di roba che gli rimaneva, e
come il meglio gli sarebbe stato recarsi a Parigi per cercarvi fortuna
alla corte. Cosí postosi subito in viaggio e giunto a Valenza, vi aveva
ottenuta la protezione del marchese di Valavoir generale dell’armi
francesi in Italia; s’era inteso con un capitano ugonotto a rilevare i
mali della Chiesa di Roma, e poscia s’era invaghito di portarsi a
Ginevra, luogo di paradiso per la libertà del governo e per la
rettitudine del calvinismo che vi si professava. Rimasto a Ginevra
alcuni mesi dopo fatta l’abiura e passato a Losanna, qua aveva stretta
amicizia co ’l celebre medico Guerin, padre d’una ragazza bellissima
diciottenne; e come il medico filosofo l’innamorava sempre piú della
riforma, egli pian pianino innamorava di sé la figliuola di lui, la
quale presa in moglie tre mesi dopo, s’era ricondotto in Ginevra.
Appena fu risaputo ch’egli abitava in quel covo di eretici, il povero
zio e la povera Ferretti gli scrissero amorosamente che tornasse.
“Caro nipote, ritorna per darmi la vita e non permettere che uno zio, un
vescovo di Santa Chiesa, uno che ti ha servito da padre, muoia da un
colpo scoccato, se non dal tuo braccio, dal tuo cuore..... Se hai moglie
conducila teco, perché tanto piú gloriosa sarà la tua conversione„ —³⁸.
— “Corre voce che siete già maritato, ma questo è dubbioso; ma quando
vero fosse, credo di poter meritare il vostro amore nuziale quanto ogni
altra, e voi sapete che gli maritaggi degli eretici qui si scancellano
con l’acqua santa.... Venite dunque, caro mio bene, care mie viscere,
caro mio cuore, per levare da qualche disperattione la vostra serva che
vi desidera sposa„³⁹.
Preghiere vane: meglio dello zio vescovo, il babbo Guerin; meglio che
Antonia era Maria; meglio che il cattolicismo, il calvinismo, e che
Acquapendente, Ginevra; e per Gregorio Leti era cominciata una vita
nuova di fede sincera, d’affetti domestici, di operosità e d’austerità
di costumi.
Già: per religione e amor della moglie il libertino d’una volta diventò
e si mantenne rigido custode di sé stesso e ammonitore della morale
negli altri; di che dan fede le molte sue lettere a chi caduto in fallo
l’andò richiedendo di consigli e di protezione, e accertano le prove di
virtú ch’egli dié in assai circostanze pericolose. Ed io credo, non con
molta ammirazione, ch’egli riuscisse a resistere pure ai vezzi di quella
singolare donnina che dal Sainte-Beuve fu chiamata la Manon Lescaut
della corte di Luigi XIV; di quella singolare donnina che ora lusinga la
mia fantasia, tarda ricercatrice di celebrate beltà, con la bizzarria e
la grazia e il sorriso ond’ella nella vita breve passò per tante colpe e
vicende.

II.

Sidonia di Lenoncourt, orfanella del marchese di Mariole, a quattordici
anni vinse la volontà del Re Sole negando di sposare un fratello del
ministro Colbert; ma poiché un marito le bisognava, si cesse in moglie a
un nipote del maresciallo di Villeroy, il marchese di Courcelles. E fu
gran male: la notte stessa delle nozze il marchese volgare e cattivo
l’avvertí ch’ei “pretendeva fosse per riuscir piú savia della madre„;
ella si ribellò all’insulto e non “si consumò il maritaggio„, e poi
inacerbitosi il dissidio, un bel giorno, quando la gente diceva tuttavia
che “la signora Courcelles non aveva ricevuto dal marito che il nome„,
Sidonia s’indusse a fuggire. Ahi che il marito la raggiunse tre miglia
fuori di Parigi e la “ritenne piú stretta„!⁴⁰ Ma come la giovine
meditante vendetta acerba ebbe la ventura d’accendere della sua bellezza
nient’altri che il Louvois, il famoso rivale del Colbert, e s’avvide che
se essa avesse consentito all’innamorato, l’indegno marchese avrebbe
assentito in silenzio (troppo onore che il ministro Louvois si
accontentasse di sua moglie!), oh allora ella, per riuscire a un supremo
trionfo, adoperò sagacia e fascino e ogni arte a sedurre proprio un
cugino di suo marito, il bel cavaliere di Villeroy, e riuscí infatti a
strapparlo dalle avide braccia della principessa di Monaco. La corte in
cui una somma ipocrisia velava una somma corruzione, si levò a scagliar
pietre su la fortunata e audace peccatrice, e gl’intrighi della
principessa di Monaco e la rabbia del Louvois la fecero rinchiudere in
quel convento medesimo delle Figliuole di Maria dove gemeva per odio
maritale l’“illustre„ avventuriera Maria Mancini, la nipote del cardinal
Mazarino.
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