Ottavia - 3

io posso i nostri empj maneggi: io, trarti,
piú che nol credi, ad ultimo periglio.--
Io di Neron fui consigliero; e m'ebbi
vestito il core dell'acciar suo stesso.
Io, vil, credei per compiacerti, o finsi
creder, (pur troppo!) del perduto trono
reo Britannico pria; quindi Agrippina
d'avertel dato; e Plauto e Silla rei
d'esserne degni reputati; e reo
di piú volte serbato avertel, Burro:
ma, reo stimai me piú di tutti, e stimo;
e apertamente, a ogni uom che udire il voglia,
in vita, e in morte, io 'l griderò. Tua rabbia,
sbramala in me; securo il puoi: ma trema,
se Ottavia uccidi: io te l'annunzio; tutto
sovra il tuo capo tornerá il suo sangue.--
Dissi; e dir m'importava.--A me in risposta
manderai poscia, a tuo grand'agio, morte.

SCENA TERZA
NERONE, POPPEA.

POPPEA Signor, deh! frena il furor tuo...
NER. Tai detti
scontar farotti in breve.--Oh rabbia!... Oh ardire!
Finché non giungon l'armi, io son quí dunque
minor d'ogni uomo? Or da ogni parte ho stretta
di diversi rispetti: ad uno ad uno,
costor che a un tratto io svenerei, m'è forza,
con lunghi indugj, ad uno ad un svenarli.
POPPEA Oh quai punture al cor mi sento! oh quanto
meco mi adiro! Io son la ria cagione
d'ogni tuo affanno, io sola.
NER. A me piú cara
sei, quanto piú mi costi.
POPPEA È tempo al fine,
tempo è, Neron, ch'alto rimedio in opra
da me si ponga, poiché sola io 'l tengo.
Queta mai non sperar l'audace plebe,
finch'io son teco. Ah! generosa prole,
qual darle io pur di Cesari son presta,
Roma or la sdegna. Alla prosapia infame
di egizio schiavo un dí pervenga, è meglio,
la imperial possanza.--Animo forte,
qual non m'avrò fors'io, sveller può solo
or da radice il male.--Ancor ch'io presti
velo, e non altro, al popolar tumulto
che altronde vien, pure in mio core ho fermo,...
ahi, sí, pur troppo!... e il deggio, e il voglio...
NER. Ah! cessa.
Tempo acquistar m'era mestier col tempo;
e giá ne ottenni alquanto. Omai, che temi?
Trionferemo, accertati...
POPPEA Deh! soffri,
che, s'io pure a' tuoi piedi ora non spiro,...
l'ultimo addio ti doni...
NER. Oh! che favelli?
Deh! sorgi. Io mai lasciarti?...
POPPEA A te che giova
meco infingerti? Appien fors'io non veggo,
signor, che tu, sol per calmar miei spirti,
or di celarmi il tuo timor ti sforzi?
Non leggo io tutti i tuoi piú interni affetti
nel volto amato? occhio di donna amante,
sagace vede.--Attonito, da prima,
dalle insolenti popolari grida
fosti, al tornar di Ottavia; or, crescer odi
l'ardire; onde atterrito...
NER. Atterrito io?...
POPPEA So, che il forte tuo core ognor persiste
nella vendetta: ma, son dubbj i mezzi:
e intanto esposto a replicati oltraggi
rimani tu. Le irriverenti fole
per anco udir di un Seneca t'è forza:
ben vedi...
NER. Atterrito io?
POPPEA Sí; per me il sei:--
né in te potrebbe altro timor; tu tremi,
che il popolar furore in me non cada.--
Amar potresti, e non tremare? Il tuo
stato mi è lieve argomentar dal mio.
Del tuo periglio, e di tua immago io piena,
e di me stessa immemore, ad un lampo
di passeggiera pace, or non mi acqueto.
Ai terror nostri io vo' dar fine, e trarre
te d'ogni rischio, a costo mio. Per sempre
perder ti vo', per conservarti il core
del popol tuo.
NER. Ma che? mi credi?...
POPPEA Ah! lascia:
farti in tuo pro forza vogl'io: son ferma
di abbandonare il trono tuo; sbandirmi
di Roma; e, s'uopo fia, dal vasto impero.
Quella che il volgo in seggio or vuole, in seggio
donna rimanga, poiché il volgo è fatto
l'arbitro del tuo core: abbiasi il trono,
(ma questo è il men) del mio Nerone ell'abbia,
e il talamo, e l'amore... Ahi me infelice!...
Cosí tu pace, e sicurezza avrai.--
Sollievo a me, s'io pur merto sollievo,
e s'io posso non tua restare in vita,
bastante a me sollievo fia, l'averti,
col mio partir, tolto ogni danno...
NER. Ai preghi
del tuo consorte arrenditi; o i comandi
del tuo signor rispetta. A me non puoi,
neppur tu stessa, toglierti; né il puote
umana forza, se il mio impero pria
non m'è tolto, e la vita. All'ira immensa
ch'entro in petto mi bolle, alla vendetta
ch'esser de' tanta, (anch'io lo veggio) i mezzi
son lenti; e il pajon piú: ma il venir tarda
nocque a vendetta mai?
POPPEA Credi, a salvarti,
o a piú tempo acquistar, giovar può solo
il mio partir: vuoi che sforzata io parta,
mentre il posso buon grado? Il popol s'ode
ciò minacciare; e la minor fia questa
di sue minacce: a Ottavia altro marito
sceglier pretende, e che con essa ei regni.
Sta il trono in lei; tu il vedi. Or, ch'io ti lasci
scambiar Poppea pel trono? Ah! Neron, prendi
l'ultimo addio...
NER. Non piú: troppo m'irrita...
POPPEA E s'anco il dí pur giunge, ove tu palma
abbi d'Ottavia, e della plebe a un tempo,
odio pur sempre ne trarrai, non poco.
E allor; chi sa? ne incolperesti forse
la misera Poppea. Quel ch'or mi porti
verace amor, chi sa se in odio allora
nol volgeresti, ripentito? Oh cielo!...
A un tal pensier di tema agghiaccio. Ah lungi
io da te morrò pria;... ma intero almeno
cosí il tuo amor ne porto io meco in tomba...
NER. Basta omai, basta; in me giá l'ira è troppa...
d'abbandonarmi ogni pensier deponi.
E Roma, e il mondo, e il ciel nol voglian, mia
sarai tu sempre: a te Neron lo giura.

SCENA QUARTA
TIGELLINO, NERONE, POPPEA.

TIGEL. Viva Neron.
NER. Gli hai tu dispersi? spenti?
Signor son io di Roma?--E che? tu torni
senza sangue sul brando?
TIGEL. Ancor di sangue
tempo non è; ma ben si appressa, io spero.
Pur, grand'arte esser vuole: io fei piú grida
sparger fra 'l volgo: or, che ti appresti forse
a ripigliare Ottavia; ov'ella possa
d'alcune taccie di maligne lingue
purgar sua fama: or, che gli oltraggi insani
fatti a Poppea, destato a nobil ira
aveano il cor d'Ottavia stessa; e ch'ella
di pace in Roma apportatrice riede,
non di scompiglio...
POPPEA E crede il popol stolto,
ch'io la di lei pietá?...
NER. Sempre arte, sempre?
Non ferro mai?
TIGEL. La men probabil cosa,
vera talvolta al popol pare. O stanco
fosse, o convinto, a queste varie voci,
ei rattemprò di sua ribelle gioja
il gran bollore in parte. Il dí frattanto
si muore; e fian segnal funesto l'ombre
di ragioni ben altre. Giá giá taciti
i pretoriani schieransi; proscritte
giá son piú teste. Il nuovo sol vedrassi
sorger nel sangue; e nel silenzio, quindi.
Ma, se pur spento ogni tumulto affatto
doman tu vuoi; se a breve gaudio falso,
lungo terribil lagrimar verace
vuoi che sottentri; ad evidenza piena
or t'è mestiero trar le accuse gravi
giá intentate ad Ottavia: in altra guisa
mai non verresti del tuo intento a fine.
Tutti uccider non puoi...
NER. Men duol.
TIGEL. Ma tutti
convincer puoi. L'ultima strage è questa,
ove adoprar l'arte omai debbi.
NER. Vanne,
poich'è pur forza; e le intentate accuse
caldamente prosiegui. Andiam, Poppea;
vendetta avrem di quest'iniqua. Intanto
il di verrá, che compier mie vendette,
piú mestier non mi fia l'altrui soccorso.


ATTO QUINTO

SCENA PRIMA
OTTAVIA.

Ecco, giá il popol tace: ogni tumulto
cessò; rinasce il silenzio di morte,
col salir delle tenebre. Quí deggio
aspettar la mia sorte; il signor mio
cosí l'impone.--Or, mentre sola io piango,
che fa Nerone? In rei bagordi egli apre
la notte giá. Securo stassi ei dunque?
sí tosto? appieno?... E in securtá pur viva!
Ma, a temer pronto, e a distemer del pari,
nulla ei piú crede ad un lontan periglio:
di un tanto error, deh, non glien torni il danno!--
Fra disoneste ebrezze, e sozzi giuochi
di scurril mensa, or (qual v'ha dubbio?) orrenda
morte ei mi appresta. Il fratel mio giá vidi
cader fra le notturne tazze spento;
scritto in note di sangue a mensa anch'era
d'Agrippina l'eccidio: ognor la prima
vivanda è questa, che a sue liete cene
imbandisce Neron; le palpitanti
membra de' suoi.--Ma, il tempo scorre; e niuno
venire io veggio,... e nulla so... Del tutto
Seneca anch'egli or mi abbandona?... Ah, forse
piú non respira... Oh cielo!... ei sol pietoso
era per me... Neron giá forse in lui
il furor suo... Ma, oh gioja! Eccolo, ei viene.

SCENA SECONDA
OTTAVIA, SENECA.

OTTAV. Seneca, oh gioja! ancor sei dunque in vita?
Vieni, o mio piú che padre... E che? nel volto
men tristo sembri: oh! che mi arrechi?

SENECA Intatta,
godi, è pur sempre la innocenza tua.
Le tue tante virtú d'alcun lor raggio
infiammato a virtude hanno i piú bassi
servili cori. Infra martíri atroci,
fra strazj orrendi, le tue ancelle a un grido,
tutte negaro il tuo supposto fallo.
Marzia fra loro era da udirsi: in fermo
viril libero aspetto (e da far onta
a noi schiavi tremanti) in Neron fitti
gl'imperterriti sguardi, ora a vicenda
Tigellino, or Nerone, ad alta voce
mentitor empj iva nomando: e piena
di generosa rabbia, inni solenni
di tua santa onestá cantando, salda
ella ai tormenti, da forte spirava.
OTTAV. Misera! ahi degna di miglior destino!...
Ma ciò, che vale? A ricomprar mio sangue,
havvi sangue che basti?
SENECA Or, piú che pria,
scabro a Neron fassi il versarlo. Hai tratto
lustro ed onor donde sperò l'iniquo
che infamia trar tu ne dovresti, e morte.
Eucero stesso, benedire ei s'ode
il suo morire. Or giuramenti orrendi,
per cui sua testa agli infernali Numi
consacra; or spande liberi, e feroci
detti, che attestan tua virtude; or giura
piú a grado aver e funi, e punte, e scuri,
che l'oro offerto di calunnia in prezzo.
Di Tigellino ei le promesse infami
chiare ad ogni uomo fa; lo ascoltan pieni
d'inusitato orror gli stessi feri
suoi carnefici, e quasi le lor mani
trattengon, mal loro grado. In fretta io vengo
il grato avviso a dartene.
OTTAV. Deh! mira,
chi viene a me: miralo, e spera.
SENECA Oh cielo!

SCENA TERZA
TIGELLINO, OTTAVIA, SENECA.

TIGEL. Il tuo signor ver te m'invia.
OTTAV. Deh! rechi
tu almen mia morte? Or che innocente io sono,
grata sarammi.
TIGEL. Il tuo signor per anco
tal non ti crede; e, ad innocente farti,
non bastava il munir di velen pria
Eucero, e tutte le tue conscie ancelle,
sí, che ai martir non resistesser: gli hai
tolti ai tormenti, ma a te stessa il mezzo
di scolparti toglievi...
OTTAV. Or, qual novella
menzogna?...
TIGEL. Omai vieta Neron, che fallo
non ben provato a te si apponga. Or altra,
ben altra accusa or ti s'aspetta; e il reo,
non fra' martir, ma libero, e non chiesto,
viene a mercé.
OTTAV. Qual reo? Parla.
TIGEL. Aniceto.
SENECA D'Agrippina il carnefice!
OTTAV. Che sento?
TIGEL. Quei, che Neron d'alto periglio trasse:
fido era allora al suo signor; tu, donna,
traditor poscia il festi. Ei ripentito,
vola or sull'orme tue; primo ei s'accusa;
e tutto svela: ma non men sua pena
ne avrá perciò.
OTTAV. Quale impostura?...
TIGEL. Ei forse
l'armata, ond'è duce in Miseno, a un cenno
tuo ribellar non prometteati?--E dirti
deggio, a qual patto?
OTTAV. Ahi! lassa me! Che ascolto?
Oh scellerata gente! oh tempi!...
TIGEL. Impone
a te Nerone, o di scolparti a un tempo
dei sozzi amori, e de' sommossi duci,
e degli audaci motti, e delle tante
tese a Poppea, ma invano, insidie vili,
e del tumulto popolare; o vuole,
che rea ti accusi: a ciò ti dona intero
questo venturo dí.
OTTAV. ... Troppo ei mi dona.--
Vanne, a lui torna: e pregalo, ch'ei venga
quí con Poppea. Narrar vo' solo ad essi
i miei tanti delitti: altro non chieggo:
tanto impetrami; va. Dell'onta mia
lieta a gioir venga Poppea; l'aspetto.

SCENA QUARTA
OTTAVIA, SENECA.

SENECA E che vuoi far?
OTTAV. Morir; sugli occhi loro.
SENECA Che parli?... Oimè! tel vieterá, se il brami...
OTTAV. E un sí gran dono da Neron vogl'io?--
Ad altri il chieggo; e spero...
SENECA Erami noto
Nerone assai; ma pur, nol niego, or sono
d'atro stupor compreso. Ognor piú fero
ch'altri nol pensa, egli è.
OTTAV. --Seneca, ad alta
impresa, io te nel mio pensiero ho scelto.
S'hai per me stima, amor, pietade in petto,
oggi men puoi dar prova. A me giá fosti
mastro di onesta, e d'incorrotta vita;
di necessaria morte esser mi dei
or tu ministro.
SENECA Oh ciel!... Che ascolto?... Morte
d'impeto insano esser de' figlia?
OTTAV. A vile
tanto mi hai tu, che d'immutabil voglia
non mi estimi capace? Or, non è forse
morte il minor dei minacciati danni?
Ch'altro mi resta? di'.--Tu taci?
SENECA ... Oh giorno!
OTTAV. Su via, rispondi: altro che far mi avanza?
SENECA ... Mi squarci il cor... Ma, poss'io mai sí crudo
esser da ciò?...
OTTAV. Saviezza in te fallace
or tanto fia? Puoi dunque esser sí crudo
da rimirarmi straziata in preda
della rival feroce, a cui mia vita
poco par, se mia fama in un non toglie?
Lasciarmi esposta alle mal compre accuse
d'ogni ribaldo hai core? alla efferata
del rio Nerone insazíabil ira?
SENECA ... Oh giorno infausto! Or perché vissi io tanto?
OTTAV. Ma, e che t'arresta?... e che paventi?... Ancora
forse hai speme?
SENECA Chi sa?...
OTTAV. Tu, men ch'ogni altri,
speri: Neron troppo conosci: hai fermo
tu per te stesso (e certo a me nol nieghi)
sfuggir da lui con volontaria morte:
tu, fermo in ciò, da men mi credi; e m'ami?
Tremendo ei m'è, fin che dell'alma albergo
queste misere mie carni esser veggio.
Oh qual può farne orrido strazio! e s'io
alle minacce, ai tormenti cedessi?
Se per timor mi uscisse mai del labro
di non commesso, né pensato fallo,
confessíon mendace?... Da lunghi anni
uso a mirar dappresso assai la morte,
tu stai securo: io non cosí; d'etade
tenera ancor, di cor mal fermo forse;
di delicate membra; a virtú vera
non mai nudrita; e incontro a morte cruda
ed immatura, io debilmente armata;
per te, se il vuoi, fuggir poss'io di vita;
ma, di aspettar la morte io non ho forza.
SENECA Misero me! co' miei cadenti giorni
salvar sperava i tuoi. Dovea la plebe
udir da me le ascose, inique, orrende
arti del rio Neron;... ma invano io vissi:
tace la plebe; ed altro omai non ode
che il timor suo. Di questa orribil reggia
mi è vietato l'uscire... Oh ciel! chi vale
contro empio sir, s'empio non è?
OTTAV. Tu piangi?...
Me dall'infamia e dai martír, deh! salva:
da morte, il vedi, ogni sperarlo è vano.
Salvami, deh! pietade il vuole...
SENECA E quando...
io pur volessi,... in sí brev'ora,... or... come?...
Meco un ferro non ho; giunge a momenti
Nerone...
OTTAV. Hai teco il velen sempre: usbergo
solo dei giusti in queste infami soglie.
SENECA Io,... con me?...
OTTAV. Sí; tu stesso, altra fíata,
tu mel dicesti. I piú segreti affetti
del travagliato animo tuo, qual padre
tenero a figlia, a me svelavi allora.
Rimembra, deh! ch'io teco anco ne piansi.--
Ma, il nieghi? Io giá maggior di me son fatta.
Necessitá fa prodi anco i men forti.
Giunge or ora Nerone; al fianco ei sempre
cinge un acciaro: io mi v'avvento, e il traggo,
e men trafiggo... La mia destra forse
mal servirammi: io ne farò pur l'atto.
Di aver tentato di trafigger lui,
mi accuserá Nerone: e ad inaudita
morte dannar tu mi vedrai...
SENECA Deh! donna,
quai strali di pietade a me saetti?...
Per me il vorrei... Ma,... t'ingannasti; io meco
non ho veleno...
OTTAV. ... E ognor non rechi in dito
un fido anello? eccolo; il voglio...
SENECA Ah! lascia...
OTTAV. Invano... Io 'l tengo. Io ne so l'uso: ei morte
ratta, e dolce rinserra...
SENECA Il ciel ne attesto...
deh! ten prego,... mel rendi... Or, s'altra via...
OTTAV. Altra non resta. Eccolo schiuso... Io tutta
giá sorbita ho coll'alito la polve
mortifera...
SENECA Me misero!...
OTTAV. Gli Dei
t'abbian mercé del prezíoso dono,
opportuno a me tanto... Ecco... Nerone.
A liberarmi... deh!... morte... ti... affretta.

SCENA QUINTA
NERONE, POPPEA, TIGELLINO, OTTAVIA, SENECA.

NER. Cagion funesta d'ogni affanno mio,
dalle mie mani al fin chi ti sottragge?
Chi per te grida omai? Dov'è la plebe?--
Ben scegliesti: partito altro non hai,
che svelarti qual sei: far chiaro appieno
a Roma, e al mondo ogni delitto tuo;
me discolpar presso al mio popol, darti
qual t'è dovuta, con infamia, morte.
SENECA Piú non mi pento, e fu opportuno il punto.
OTTAV. Nerone, appien giá sei scolpato; godi.
Giá d'esser stata tua, d'averti amato,
data men son debita pena io stessa.
NER. Pena? Che festi?
OTTAV. Entro mie vene serpe
giá un fero tosco...
NER. E donde?...
POPPEA Or mio davvero,
Neron, tu sei.
NER. Donde il velen?... Tu menti.
TIGEL. Creder nol dei; severa guardia...
SENECA E puossi
deluder guardia; e il fu la tua. Gli Dei
scampo ai giusti non niegano.
OTTAV. Mi uccide
il tosco in breve; e tu il vedrai: pietoso
ecco chi 'l diede; anzi, a dir ver, gliel tolsi.
Caro ei l'avrá, se nel punisci; io quindi
nol celo. Mira: in questa gemma stava
la mia salvezza. Di tua fede in pegno,
il dí delle mortali nozze nostre,
tal gemma tu darmi dovevi...
NER. Il veggio,
l'ultima è questa, e la piú orribil trama,
per far che Roma mi abborrisca. Iniquo,
tu l'ordisti; ma or ora...
POPPEA Alla tua pena
ti sottraesti, Ottavia; invan sottrarti
speri all'infamia.
OTTAV. A te rispondo io forse?--
Tu, Nerone, i miei detti ultimi ascolta.
Credimi, or giungo al fatal punto, in cui
cessa il timor, né il simular piú giova,
ov'io pur mai fatto l'avessi... Io moro:
e non mi uccide Seneca:... tu solo,
tu mi uccidi, o Neron: benché non dato
da te, il velen che mi consuma, è tuo.
Ma il veleno a delitto io non t'ascrivo.
Ciò far tu pria dovevi; da quel punto,
in cui t'increbbi: eri men crudo assai
nell'uccidermi allor, che in darti a donna,
che amarti mai, volendo, nol sapria.
Ma, ti perdono io tutto; a me perdona,
(sol mio delitto) se il piacer ti tolgo,
coll'affrettare il mio morir poch'ore,
d'una intera vendetta. Io ben potea
tutto, o Neron, tranne il mio onor, donarti;
per te soffrir, tranne l'infamia, tutto...
Niun danno a te fia per tornarne, io spero,...
dal... mio morire. Il trono è tuo: tu il godi:
abbiti pace... Intorno al sanguinoso
tuo letto... io giuro... di non mai... venirne
ombra dolente... a disturbar... tuoi... sonni...
Conoscerai frattanto un dí costei.--
NER. Piú la conosco, piú l'amo; e piú sempre
d'amarla io giuro.
SENECA In cor l'ultimo stile
questi detti le piantano: ella spira...
POPPEA Vieni; lasciam questa funesta stanza.
NER. Andiamo: e sappia or Roma tutta, e il campo,
ch'io costei non uccisi: e in un pur s'oda
il delitto di Seneca, e la morte.

SCENA SESTA
SENECA.

Te preverrò.--Ma l'altre etá sapranno,
scevre di tema e di lusinga, il vero.