Olanda - 21
domandar altro, attraversai una strada, infilai un portone, passai per
un cortile, e arrivai a un altro portone che dava sur un'altra strada,
dove il ragazzo si fermò, buttò in terra la valigia, si fece dare la
mancia, e senza rispondere alle mie domande, mi piantò su due piedi.
Dove m'aveva condotto? Che cosa dovevo far là? Quanto ci sarei stato?
Che sarebbe seguito di me? Era un mistero. Cominciava a imbrunire.
Passavano per la strada contadini e contadine a braccetto, frotte di
ragazzi che canterellavano, coppie d'amanti che si parlavano
nell'orecchio; tutti brilli e festosi; e tutti passando davanti a me,
così solo e accigliato, mi lanciavano un'occhiata di stupore e di pietà.
Ero dunque alla berlina! m'avevano forse condotto là con quel disegno!
Prima lo sospettai, poi mi parve di non poterne più dubitare, mi si
accese il sangue, mi si strinse il cuore, afferrai la valigia per
tornare all'albergo e vendicarmi a qualunque rischio... In quel momento
vidi comparire una diligenza e mi balenò un raggio di speranza. La
diligenza si fermò davanti al portone, un ragazzo ritto sul montatoio mi
fece un cenno, accorsi, domandai ansiosamente:--Alla stazione della
strada ferrata?--_Oui, monsieur_,--mi rispose francamente,--_pour partir
pour Helder_--Ah! che il buon Dio ti benedica, ragazzo dell'anima
mia!--gli gridai saltando dentro e mettendogli un fiorino in mano;--Tu
mi hai ridato la vita!--La diligenza mi condusse alla stazione e pochi
minuti dopo partii per Helder.
Chi non ha viaggiato, riderà di quest'avventura, e dirà che è
un'esagerazione o una favola; ma chi per poco abbia esperienza di
viaggi, si ricorderà di essersi trovato più d'una volta in simili
impicci, di aver provato gli stessi sentimenti, d'aver perduto la
bussola nello stesso modo, e d'aver forse raccontato l'avventura colle
stesse parole.
HELDER.
La definizione che fu data dell'Olanda «d'una sorta di transazione fra
la terra e il mare» non si può riferire a nessuna parte di quel paese
più opportunamente che allo spazio interposto fra Alkmaar ed Helder. Si
viaggia infatti, andando dall'una all'altra di quelle città, sopra la
terra; ma sopra una terra così minacciata, rotta, allagata dal mare, che
a guardarla dal vagone, si scorda a poco a poco di essere trasportati da
un treno della strada ferrata, e si crede d'essere appoggiati sul
parapetto d'un bastimento. Poco lontano da Alkmaar, tra i due villaggi
di Kamp e di Petten, dalla parte del Mare del Nord, per un lungo tratto
dove si crede che fosse anticamente una delle foci del Reno, la catena
delle dune è interrotta, e la costa flagellata furiosamente dal mare
che, malgrado le forti opere di difesa che gli si oppongono, s'addentra
continuamente nel seno della terra. Un po' più oltre c'è un ampio
_polder_ inondato, a traverso il quale passa il gran canale del Nord.
Di là dal _polder_, intorno al villaggio di Zand, si stende una gran
pianura deserta, sparsa di sterpeti, di stagni e d'alcune casupole di
contadini coperte di tetti piramidali, che da lontano presentano
l'aspetto di monumenti mortuarii. Di là dal villaggio di Zand, un
vastissimo _polder_ (chiamato Anna Paulowna, in onore della moglie di
Guglielmo II d'Orange, granduchessa di Russia) che fu prosciugato fra il
1847 e il 1850. Dopo il _polder_, da capo vaste pianure, sterpeti e
paludi, fino all'estrema punta della Nord-Olanda, dove sorge, velata
dalla nebbia e sferzata dai venti e dalle onde, la giovine e solitaria
città di Helder, la sentinella morta dei Paesi Bassi.
* * * * *
Helder ha questa singolarità, che quando vi s'è dentro, si cerca la
città e non si trova. È, si può dire, una sola lunghissima strada,
fiancheggiata da due schiere di piccole case rosse, e protetta da una
diga gigantesca che forma come una spiaggia artificiale sul Mare del
Nord. Questa diga, che è una delle più meravigliose opere dei tempi
moderni, si stende per la lunghezza di quasi dieci chilometri dal
Nieuwediep, dov'è l'entrata del gran canale del Nord, fino al forte il
principe Ereditario, che si trova all'estremità opposta della città; è
costrutta interamente con massi enormi di granito di Norvegia e di
pietra calcare del Belgio; è percorsa sulla sommità da una bella strada
carrozzabile; e scende nel mare, coll'inclinazione di quaranta gradi,
fino alla profondità di sessanta metri. In vari punti è rafforzata da
dighe minori, composte di travi, di fascine e di terra, che s'avanzano
per circa duecento metri nel mare. Le più alte maree non arrivano mai a
bagnarne la sommità; e l'onda infaticabile si spezza vanamente su
quell'immane baluardo che le sorge incontro, quasi più in atto di
minaccia, che di difesa, come una sfida della pazienza umana al furore
degli elementi.
Il Nieuwdiep che s'apre a una delle estremità di Helder, è un porto
artificiale, che protegge con grandi moli e dighe robuste i bastimenti
che entrano nel canale del Nord. Le porte del bacino, chiamate porte a
ventaglio, le più grandi dell'Olanda, si chiudono da sè stesse per
effetto della pressione delle acque. In questo porto sono ancorati un
gran numero di bastimenti, dei quali moltissimi provenienti
dall'Inghilterra e dalla Svezia; e una buona parte della flotta militare
dell'Olanda, composta di fregate e di piccoli vascelli, più puliti
ancora delle più pulite case di Broek. Sulla riva sinistra del Nieuwdiep
v'è un grande arsenale marittimo, dove risiede un contr'ammiraglio.
Sul finire del secolo scorso, nulla esisteva di tutto questo. Helder non
era che un villaggio di pescatori appena segnato sulla carta. L'apertura
del gran canale del Nord e una breve passeggiata fatta da Napoleone I in
un battello di pescatori da Helder fino all'isola di Texel, che si vede
distintamente dall'alto della diga, trasformarono il villaggio in
città. Osservando il tratto di mare compreso fra quell'isola e la riva
olandese, Napoleone concepì l'idea di fare di Helder «la Gibilterra del
Nord» e cominciò coll'ordinare la costruzione di due forti, uno chiamato
allora Lasalle, ed ora Principe Ereditario, e l'altro Re di Roma, ora
ammiraglio Dirk. Gli avvenimenti non gli permisero di mandare ad effetto
il suo grandioso disegno; ma l'opera rapidamente incominciata da lui, fu
lentamente proseguita dagli Olandesi a segno che Helder è ora la prima
città forte dello Stato, capace di trentamila difensori, atta ad
impedire a una flotta l'entrata nel canale del Nord e nel Golfo di
Zuiderzee, e oltre che difesa a una grande distanza da un baluardo di
scogli e di banchi di sabbia, fortificata in maniera da potere, in casi
estremi, inondare tutta la provincia che le si stende alle spalle.
Ma lasciando anche da parte la sua importanza strategica, Helder è una
città degna d'esser veduta per il suo carattere anfibio, che lascia
sempre dubbiosi d'essere sul continente o sopra un gruppo di scogli e
d'isolette mille miglia lontano dalla costa europea. In qualunque verso
si cammini, si riesce in vista del mare. La città è attraversata e
circondata da canali grandi come fiumi, che gli abitanti passano sulle
zattere. Dietro la gran diga v'è una lunga distesa d'acqua stagnante che
s'alza e s'abbassa colla marea, come se comunicasse col mare per via
sotterranea. Da tutte le parti corre acqua, prigioniera, è vero, in
mezzo a due sponde, ma alta e minacciosa, che pare aspetti la prima
occasione per riconquistare la sua spaventosa libertà. La terra, intorno
alla città, è nuda e desolata, e il cielo, quasi sempre nuvoloso, è
attraversato da grandi stormi di uccelli marini. La città stessa,
formata da una sola fila di case, pare che abbia coscienza della sua
postura arrischiata, e aspetti d'ora in ora una catastrofe. Quando il
vento fischia e il mare mugge, si direbbe che ogni buon helderese non
abbia a far di meglio che chiudersi in casa, dire le sue orazioni e poi
ficcare la testa sotto le lenzuola ed aspettare quello che Dio manda.
La popolazione, che conta diciottomila anime, è altrettanto singolare
che la città. È una mescolanza di negozianti, d'impiegati regi,
d'ufficiali di marina, di soldati, di pescatori, di gente arrivata dalle
Indie, di gente che si dispone a partire, e di parenti di chi arriva e
di chi parte, andati là per dare il primo abbraccio o l'ultimo addio;
perchè è quello l'estremo angolo di terra olandese che il marinaio
saluta partendo, e il primo ch'egli vede al ritorno. Ma essendo la città
così lunga e sottile, si vede pochissima gente; e non si sente altro
rumore che le cantilene lamentevoli dei marinai che rattristano il cuore
come grida di naufraghi lontani.
Benchè giovanissima, Helder è ricca di grandi ricordi storici al pari
d'ogni altra città olandese. Essa ha visto il gran pensionario De Vitt
attraversare per il primo, in un piccolo battello, lo stretto di Texel,
scandagliare colle proprie mani la profondità delle acque, e mostrare ai
piloti e ai capitani olandesi, che non volevano avventurarsi a quel
passo, la possibilità di far tragittare la flotta mandata a combattere
l'Inghilterra. In quelle acque gli ammiragli De Ruyter e Tromp tennero
fronte alla flotta francese e alla flotta inglese riunite. Poco lontano
di là, nel polder chiamato lo Zyp, l'anno 1799, il generale inglese
Abercrombie respingeva l'assalto dell'esercito francese e dell'esercito
batavo comandati dal generale Brome. E infine, perchè pare una legge
naturale che ogni città olandese debba aver visto qualche cosa di strano
e d'incredibile, Helder vide una sorta di battaglia anfibia, tra di
terra e di mare, per la quale manca un nome nel linguaggio militare:
vide nel 1795 la cavalleria e l'artiglieria leggera del generale
Pichegru attraversare di galoppo il golfo gelato di Zuiderzee,
slanciarsi verso la flotta olandese imprigionata fra i ghiacci presso
l'isola di Texel, e circondatala come una fortezza, intimarle la resa e
prenderla prigioniera.
Quest'isola di Texel, che, come dissi, si vede distintamente dall'alto
della diga di Helder, è la prima di una catena d'isolette che si stende
in forma d'arco dinanzi a tutta l'apertura del Zuiderzee sino alla
provincia di Groninga; e che si crede formasse, prima dell'esistenza del
gran golfo, una costa continua la quale serviva di baluardo ai Paesi
Bassi. In quest'isola di Texel, che non conta più di seimila abitanti,
sparsi in parecchi villaggi e in una piccola città, ha una rada nella
quale gettan l'áncora i vascelli da guerra e i grandi bastimenti della
compagnia delle Indie. Da questa rada partirono sulla fine del secolo
decimosesto i bastimenti dell'Heemskerk e del Barendz per il memorabile
viaggio che fornì al poeta Tollens il soggetto del suo bel poema
_L'invernata degli Olandesi alla Nuova Zembla_.
Ed ecco in breve quella storia dolorosa e solenne, come fu narrata dal
Van Kampen e cantata dal Tollens.
Non potendo ancora gli Olandesi, sulla fine del secolo decimosesto,
lottare fronte a fronte cogli Spagnuoli e coi Portoghesi per
impadronirsi del commercio delle Indie, pensarono di cercare una nuova
via, a traverso i mari artici, per arrivare in minor tempo ai porti
dell'Asia orientale e della China. Una società di mercanti olandesi
affidò l'impresa avventurosa ad un esperto marinaio di nome Barendz, il
quale partì con due bastimenti dall'isola di Texel, il 6 giugno del
1594, alla volta del polo. Il bastimento capitanato da lui arrivò fino
alla punta settentrionale della Nuova Zembla, e ritornò in Olanda.
L'altro prese la via più conosciuta dello stretto di Waïgatz, si spinse
a traverso i ghiacci del golfo di Kara, e giunse in un mare aperto ed
azzurro, dal quale scoperse la costa russa rivolta verso il sud-est. La
direzione di questa costa fece credere che il bastimento avesse
oltrepassato il capo Tabis, designato da Plinio, autorità allora
incontestata, come l'estremità dell'Asia settentrionale, e che però si
potesse giungere di là, con una breve navigazione, ai porti dell'est e
del sud del continente. Non si sapeva che dopo il golfo dell'Obi l'Asia
si stende ancora per 120 gradi a levante dentro il cerchio polare. La
notizia di questa scoperta, portata in Olanda, vi destò una grandissima
gioia. Sei grandi navigli furono immediatamente allestiti e caricati di
mercanzie da vendersi ai popoli dell'India, un piccolo bastimento fu
destinato ad accompagnare la squadra fin che avesse oltrepassato il
supposto capo Tabis, e poi tornare a portarne la notizia; e la squadra
partì. Ma questa volta il viaggio non rispose alle speranze. I
bastimenti olandesi trovarono lo stretto di Waïgatz tutto ingombro di
ghiacci, e dopo aver inutilmente tentato di aprirsi una via, ritornarono
in patria.
Dopo questo infelice successo, gli Stati Generali, benchè promettessero
un premio di venticinque mila fiorini a chi riuscisse nell'impresa,
rifiutarono di concorrere alle spese di un nuovo viaggio; ma i cittadini
non si scoraggiarono. La reggenza d'Amsterdam noleggiò due bastimenti,
assoldò dei bravi marinai, celibi quasi tutti, perchè il ricordo delle
famiglie non infiacchisse, in mezzo ai pericoli, il loro coraggio, e
affidò il comando della spedizione al valoroso capitano Heemskerk. I due
bastimenti partirono il 18 maggio del 1596. Sull'uno era maestro-piloto
il Barendz, dell'altro era patrono un Van de Ryp. Da principio non
andaron d'accordo sulla via da prendere; ma poi il Barendz si lasciò
persuadere dal Van de Ryp a far vela verso il nord, invece che verso il
nord-est; e fecero vela verso il nord. Arrivarono così al 74° grado di
latitudine settentrionale, presso una piccola isola, alla quale diedero
il nome d'Isola degli Orsi, in memoria d'un combattimento di parecchie
ore che dovettero sostenere contro una frotta di quegli animali. Non
vedevano intorno a sè che roccie altissime e dirupate che pareva
chiudessero il mare da ogni parte. Continuarono a navigare verso il
nord. Il 19 giugno scoprirono un paese che chiamarono Spitsbergen per le
sue roccie tagliate a picco, e che credettero fosse la Groenlandia; e là
videro grandi orsi bianchi, cervi, renne, oche selvatiche, enormi balene
e volpi di tutti i colori. Di qui, essendo giunti oramai fra il 76° e
l'80° grado di latitudine settentrionale, dovettero rivolgersi al sud e
approdare daccapo all'Isola degli Orsi. Il Barendz però non volle più
seguire la direzione settentrionale che il Ryp aveva seguita fino
allora, e si rivolse al sud-est; il Ryp fece vela verso il nord; e così
si divisero.
Il Barendz arrivò il 17 luglio presso la Nuova Zembla, rasentò la costa
settentrionale dell'isola e continuò a navigare verso il sud. Allora
cominciarono le avversità. Via via che procedevano, gli enormi massi di
ghiaccio galleggianti sul mare, divenivano più fitti, si congiungevano
in vastissimi strati, si ammontavano in roccie e montagne scoscese ed
altissime, in modo che il bastimento si trovò in breve in mezzo a un
vero continente di ghiaccio che gli nascose l'orizzonte da tutte le
parti. Vedendo che era impossibile di raggiungere la costa orientale
dell'Asia, pensarono di tornare indietro; ma era già il 25 d'agosto,
tempo in cui l'estate, in quelle regioni, volge alla fine; e non
tardarono ad accorgersi che non era più possibile neanche il ritorno. Si
trovavano imprigionati fra i ghiacci, smarriti in una solitudine
spaventosa, avvolti da un'immensa nebbia, senza disegno, senza speranze,
e in procinto d'essere da un momento all'altro urtati e sepolti dalle
montagne di ghiaccio che galleggiavano e cozzavano con tremendo strepito
intorno alla nave. Non rimaneva loro che una sola via di salute, o
piuttosto un mezzo di ritardare la morte: erano vicini alla costa della
Nuova Zembla, potevano abbandonare il bastimento e ridursi a passare
l'inverno in quell'isola deserta. Era una risoluzione disperata, che non
richiedeva meno coraggio che quella di rimanere a bordo; ma almeno
portava con sè il moto, la lotta, una nuova forma di pericoli. Dopo
qualche esitazione, scesero dal bastimento e approdarono all'isola.
L'isola era disabitata; nessun popolo del nord v'aveva mai posto piede;
era tutta un deserto di ghiaccio e di neve, flagellato dalle onde e dai
venti, sul quale il sole non gettava che raramente un raggio fuggitivo e
senza calore. Nondimeno, i poveri naufraghi mandarono grida di gioia
quando vi posero il piede, e s'inginocchiarono nella neve per
ringraziare la Provvidenza. Dovettero pensar subito a fabbricarsi una
capanna. Nell'isola non v'era un albero; ma per fortuna si trovava là
presso una gran quantità di legno galleggiante, che il mare aveva
portato dal continente. Si misero all'opera, tornarono al loro
bastimento, ne portarono via assi, travi, chiodi, pece, casse, botti;
piantarono le travi nel ghiaccio; col ponte fecero il tetto; sospesero
al tetto le loro brande; tappezzarono le pareti colle vele; riempirono
le fessure colla pece. Ma mentre lavoravano corsero pericoli e
soffrirono patimenti inauditi. Il freddo era tale che quando si
mettevano un chiodo fra le labbra, subito s'agghiacciava, e per levarlo
si laceravano le carni e si empivano la bocca di sangue. Gli orsi
bianchi, spinti dalla fame, li assalivano furiosamente in mezzo ai massi
di ghiaccio, intorno alla loro capanna, persino nell'interno del
bastimento; e li costringevano a interrompere il lavoro per difendere la
propria vita. La terra era talmente indurita che bisognava scavarla come
pietra viva. Intorno al bastimento l'acqua era gelata a tre tese e mezza
di profondità. S'era rappresa la birra dentro le botti e aveva perduto
affatto il sapore: e il freddo cresceva di giorno in giorno. Finalmente
riuscirono a rendere la loro capanna abitabile e furono al riparo dalla
neve e dal vento. Accesero il fuoco e cominciarono a poter dormire
qualche ora, quando non erano svegliati dagli urli delle fiere che
giravano intorno alla capanna. Alimentavano le lampade col grasso degli
orsi che uccidevano a traverso gli spiragli delle pareti, si scaldavano
le mani nelle loro viscere sanguinose, si vestivano delle loro pelli e
mangiavano carne di volpe, aringhe e biscotti ch'eran loro rimasti
delle provvigioni del viaggio. Intanto il freddo cresceva a tal segno
che gli orsi non uscivan più dalle loro tane. Gli alimenti e le bevande
gelavano persino accanto al fuoco. I poveri marinai si bruciavano le
braccia e i piedi senza risentire il menomo calore. Una sera che, per
timore di morire di freddo, avevan chiuso ermeticamente la capanna,
andarono a un filo dal morire soffocati, e dovettero, per non
soccombere, affrontare di nuovo quel freddo tremendo.
A tutte queste calamità se n'aggiunse un'altra. Il giorno quattro di
novembre essi aspettarono inutilmente l'aurora; il sole non apparve più;
la notte polare era cominciata. Allora quegli uomini di ferro si
sentirono mancar l'animo, e il Barendz dovette, dissimulando l'angoscia,
spiegare tutta l'eloquenza che potè trarre dal cuore, per impedire che
si abbandonassero alla disperazione. Il nutrimento e la legna
cominciarono a scarseggiare; i rami d'abete trovati sulla spiaggia erano
buttati sul fuoco quasi con rammarico; il lume era alimentato appena
tanto da rompere le tenebre. Ciò nonostante, la sera, quando riposavano
dalle fatiche della giornata, raccolti intorno al loro piccolo focolare,
avevano ancora qualche momento di allegrezza. Il giorno della festa dei
Re fecero un piccolo banchetto con vino e paste di farina fritte
nell'olio di balena, e tirarono a sorte a chi toccasse la Corona della
Nuova Zembla. Altre volte giocavano, raccontavano vecchie storie,
facevano brindisi alla gloria di Maurizio d'Orange, parlavano delle
loro famiglie. Ogni giorno cantavano i salmi tutti insieme,
inginocchiati sul ghiaccio, col viso rivolto verso le stelle. Qualche
volta un'aurora boreale squarciava la immensa oscurità da cui erano
avvolti; e allora uscivano dalla loro capanna, scorrevano per le rive,
festeggiavano con tenera gratitudine quella luce fuggitiva, come una
promessa di salvamento.
Giusta i loro computi, il sole doveva ricomparire il giorno 9 di
febbraio del 1597. S'erano ingannati: la mattina del 24 gennaio, appunto
in uno di quei periodi di tempo ch'erano più che mai scoraggiati e
tristi, uno d'essi, svegliandosi, intravvide un chiarore straordinario,
gettò un grido, balzò a terra, destò i compagni, uscirono tutti dalla
capanna, e videro a levante il cielo rischiarato da una luce viva, la
luna smorta, l'aria limpida, le sommità delle roccie e delle montagne di
ghiaccio colorate di rosa; l'alba, infine, il sole, la vita, la
benedizione di Dio e la speranza di riveder la patria, dopo tre mesi di
notte e d'angoscia. Per qualche momento rimasero immobili e silenziosi,
e come sopraffatti dalla commozione; poi proruppero in lacrime,
s'abbracciarono, sventolarono i loro berretti vellosi, fecero risonare
quelle solitudini orrende d'accenti di preghiera e di grida di gioia. Ma
fu una breve gioia: si guardarono in viso, ed ebbero spavento e pietà
gli uni degli altri. Il freddo, l'insonnia, la fame, i travagli
dell'animo, li avevano consunti e trasfigurati in modo che quasi più non
si riconoscevano. E i loro patimenti non erano ancora finiti! In quello
stesso mese la neve cadde in tanta abbondanza, che la capanna rimase
quasi sepolta, e dovettero uscirne ed entrarci per l'apertura del
cammino. Col diminuire del freddo, ricomparvero gli orsi, e
ricominciarono quindi i pericoli, le notti insonni, i combattimenti
feroci. Scemava il loro vigore, e l'animo, per poco risollevato,
ricadeva.
Avevano però ancora un filo di speranza. Non eran riusciti ad estrarre
dal ghiaccio il loro bastimento, nè quando l'avessero estratto,
avrebbero potuto riassettarlo in modo da renderlo servibile; ma avevano
trascinato sulla riva una barca e una scialuppa, e a poco a poco, sempre
difendendosi dagli orsi che si slanciavano fin sulla soglia della loro
capanna, eran venuti a capo di ripararle alla meglio. Con questi due
piccoli legni essi contavano di dirigersi verso uno dei piccoli porti
della Russia, di rasentare cioè la riva settentrionale della nuova
Zembla, costeggiare la Siberia e attraversare il Mar Bianco; di fare,
insomma, un viaggio di almeno quattrocento miglia tedesche. In tutto il
mese di marzo il tempo variabilissimo li tenne in una continua vicenda
di speranze e di disinganni. Più di dieci volte videro il mare sgombro
fino alla riva e si apparecchiarono alla partenza; ed altrettante volte
una recrudescenza improvvisa di freddo riammontò ghiacci su ghiacci, e
chiuse la via da ogni parte. Nel mese d'aprile i ghiacci furono immensi
e continui. Nel mese di maggio riebbero il tempo incostante. Nel mese di
giugno, finalmente, poterono risolversi a partire. Dopo avere stesa una
minuta relazione di tutte le loro avventure, della quale lasciarono una
copia nella capanna, la mattina del 14 di giugno, con un bellissimo
tempo e il mare aperto da tutte le parti, dopo nove mesi di soggiorno in
quella terra funesta, fecero vela verso il continente. Su due barche
scoperte, sfiniti da tanti patimenti, andavano a sfidare i venti
furiosi, le lunghe pioggie, i freddi mortali, i ghiacci vorticosi di
quel mare immenso e terribile nel quale pareva una disperata impresa
l'avventurarsi con una flotta. Per lungo tempo, durante il viaggio,
ebbero a respingere gli assalti degli orsi marini, soffrire la fame,
nutrirsi di uccelli uccisi a sassate e d'ova trovate sulle coste
deserte, sperare e disperare, rallegrarsi e piangere, dolersi qualche
volta di aver abbandonato la nuova Zembla, invocare la tempesta,
desiderare la morte. Sovente dovettero trascinare le loro barche sopra
campi di ghiaccio, legarle perchè non le portasse via il vento,
stringersi tutti in un gruppo in mezzo alla neve per resistere al
freddo, cercarsi nella nebbia fitta, chiamarsi per nome, toccarsi per
timore d'essersi perduti e per darsi coraggio gli uni agli altri. Non
tutti resistettero a così tremende prove. Qualcuno morì. Il Barendz
medesimo, che si era imbarcato infermo, sentì, dopo pochi giorni, che la
sua fine s'avvicinava, e lo disse ai compagni. Non cessò però un momento
di dirigere la navigazione, e di fare ogni sforzo per abbreviare a
quella povera gente il viaggio tremendo di cui egli sapeva di non poter
vedere la fine. La vita gli mancò mentre esaminava una carta geografica,
il suo braccio cadde irrigidito nell'atto di accennare la terra lontana,
e l'ultima sua parola fu un incoraggiamento e un consiglio. Nella baia
di San Lorenzo, incontrarono, si può immaginare con qual gioia, una
barca russa, che diede loro dei viveri, del vino e del cochlearia,
rimedio per lo scorbuto, di cui s'erano ammalati parecchi marinai, i
quali subito ne guarirono. Costeggiarono la Siberia, e incontrarono
altri legni russi di più in più frequenti, e si provvidero di vivande
fresche colle quali ristorarono le loro forze. All'entrata del Mar
Bianco, una nebbia densissima divise le due barche, che oltrepassarono
però tutt'e due il capo Candnoes, e favorite dal vento, percorsero in
trenta ore un spazio di centoventi miglia, in capo al quale si
ricongiunsero gettando grida d'allegrezza. Ma una gioia ben maggiore li
aspettava a Kilduin. Trovarono là una lettera del Ryp, comandante
dell'altro bastimento, partito insieme con loro dall'isola di Texel, il
quale annunziava il suo arrivo. Dopo breve tempo la barca e la scialuppa
raggiunsero il bastimento a Kola. Era la prima volta che i naufraghi
della Nuova Zembla rivedevano la bandiera della patria dopo la partenza
dall'isola degli Orsi, e la salutarono con un delirio di gioia. I
compagni del Ryp e i compagni del Barendz si precipitarono gli uni nelle
braccia degli altri, si raccontarono le vicende corse, piansero gli
amici perduti, dimenticarono i patimenti sofferti, e tutti insieme
fecero vela verso l'Olanda, dove arrivarono sani e salvi il 29 ottobre
del 1597, tre mesi dopo la partenza dalla capanna. Così finì l'ultima
impresa tentata dagli Olandesi per aprire una nuova via al commercio
colle Indie a traverso i mari del polo. Quasi tre secoli dopo, nel 1870,
il capitano d'un bastimento svedese, cacciato dalla tempesta sulla costa
della Nuova Zembla, vi ritrovava la carcassa di un naviglio e una
capanna con dentro due caldaie, un pendolo, una canna di fucile, una
spada, un'accetta, un flauto, una bibbia, alcune casse riempite di
utensili e dei brandelli di vestimenta putrefatte. Questi oggetti,
riconosciuti dagli Olandesi come appartenenti ai marinai del Barendz e
dell'Heemskerke, furono portati in trionfo all'Aja ed esposti come
reliquie sacre nel Museo di Marina.
* * * * *
Con tutte queste immagini nella mente, la sera, dall'alto della gran
diga di Helder, al lume della luna che ora si nascondeva bruscamente
dietro le nuvole, ora si mostrava all'improvviso in tutta la sua luce,
io non potevo saziarmi di guardare la riva sabbiosa di quell'isola di
Texel e quel gran mare del Nord, che non ha più altri confini da quel
lato che i ghiacci eterni del polo; il mare che gli antichi credevano la
fine dell'universo: _illuc usque tantum natura_, come dice Tacito; il
mare su cui apparirono nei giorni di grande tempesta le forme
gigantesche delle divinità germaniche; e spaziando cogli occhi su quel
piano immenso e sinistro, non sapevo esprimere altrimenti a me stesso
il mio sgomento misterioso, che coll'esclamare di tratto in tratto, a
mezza voce:--Barendz!... Barendz!--ed ascoltare io stesso il suono di
questo nome, come se lo portasse il vento da una lontananza sterminata.
IL ZUIDERZEE.
Mi rimaneva a vedere l'antica Frisia, la ribelle indomata di Roma, la
terra delle belle donne, dei grandi cavalli e degl'invitti scivolatori,
la più poetica provincia della Neerlandia: e nell'andarvi, avevo modo di
soddisfare un altro vivissimo desiderio: quello di attraversare il
Zuiderzee, l'ultimo nato dei mari.
Questo grande bacino del Mare del Nord, che bagna cinque provincie e
quadra più di settecento chilometri, seicento anni fa non esisteva. La
Nord-Olanda toccava la Frisia, e dove ora si stende il golfo, c'era una
vasta regione sparsa di laghi di acqua dolce, il maggiore dei quali, il
Flevo, rammentato dal Tacito, era separato dal mare da un istmo fertile
e popoloso. Se il mare abbia per sola sua forza rotto gli argini
naturali di questa regione, o se invece l'abbassamento del suolo
un cortile, e arrivai a un altro portone che dava sur un'altra strada,
dove il ragazzo si fermò, buttò in terra la valigia, si fece dare la
mancia, e senza rispondere alle mie domande, mi piantò su due piedi.
Dove m'aveva condotto? Che cosa dovevo far là? Quanto ci sarei stato?
Che sarebbe seguito di me? Era un mistero. Cominciava a imbrunire.
Passavano per la strada contadini e contadine a braccetto, frotte di
ragazzi che canterellavano, coppie d'amanti che si parlavano
nell'orecchio; tutti brilli e festosi; e tutti passando davanti a me,
così solo e accigliato, mi lanciavano un'occhiata di stupore e di pietà.
Ero dunque alla berlina! m'avevano forse condotto là con quel disegno!
Prima lo sospettai, poi mi parve di non poterne più dubitare, mi si
accese il sangue, mi si strinse il cuore, afferrai la valigia per
tornare all'albergo e vendicarmi a qualunque rischio... In quel momento
vidi comparire una diligenza e mi balenò un raggio di speranza. La
diligenza si fermò davanti al portone, un ragazzo ritto sul montatoio mi
fece un cenno, accorsi, domandai ansiosamente:--Alla stazione della
strada ferrata?--_Oui, monsieur_,--mi rispose francamente,--_pour partir
pour Helder_--Ah! che il buon Dio ti benedica, ragazzo dell'anima
mia!--gli gridai saltando dentro e mettendogli un fiorino in mano;--Tu
mi hai ridato la vita!--La diligenza mi condusse alla stazione e pochi
minuti dopo partii per Helder.
Chi non ha viaggiato, riderà di quest'avventura, e dirà che è
un'esagerazione o una favola; ma chi per poco abbia esperienza di
viaggi, si ricorderà di essersi trovato più d'una volta in simili
impicci, di aver provato gli stessi sentimenti, d'aver perduto la
bussola nello stesso modo, e d'aver forse raccontato l'avventura colle
stesse parole.
HELDER.
La definizione che fu data dell'Olanda «d'una sorta di transazione fra
la terra e il mare» non si può riferire a nessuna parte di quel paese
più opportunamente che allo spazio interposto fra Alkmaar ed Helder. Si
viaggia infatti, andando dall'una all'altra di quelle città, sopra la
terra; ma sopra una terra così minacciata, rotta, allagata dal mare, che
a guardarla dal vagone, si scorda a poco a poco di essere trasportati da
un treno della strada ferrata, e si crede d'essere appoggiati sul
parapetto d'un bastimento. Poco lontano da Alkmaar, tra i due villaggi
di Kamp e di Petten, dalla parte del Mare del Nord, per un lungo tratto
dove si crede che fosse anticamente una delle foci del Reno, la catena
delle dune è interrotta, e la costa flagellata furiosamente dal mare
che, malgrado le forti opere di difesa che gli si oppongono, s'addentra
continuamente nel seno della terra. Un po' più oltre c'è un ampio
_polder_ inondato, a traverso il quale passa il gran canale del Nord.
Di là dal _polder_, intorno al villaggio di Zand, si stende una gran
pianura deserta, sparsa di sterpeti, di stagni e d'alcune casupole di
contadini coperte di tetti piramidali, che da lontano presentano
l'aspetto di monumenti mortuarii. Di là dal villaggio di Zand, un
vastissimo _polder_ (chiamato Anna Paulowna, in onore della moglie di
Guglielmo II d'Orange, granduchessa di Russia) che fu prosciugato fra il
1847 e il 1850. Dopo il _polder_, da capo vaste pianure, sterpeti e
paludi, fino all'estrema punta della Nord-Olanda, dove sorge, velata
dalla nebbia e sferzata dai venti e dalle onde, la giovine e solitaria
città di Helder, la sentinella morta dei Paesi Bassi.
* * * * *
Helder ha questa singolarità, che quando vi s'è dentro, si cerca la
città e non si trova. È, si può dire, una sola lunghissima strada,
fiancheggiata da due schiere di piccole case rosse, e protetta da una
diga gigantesca che forma come una spiaggia artificiale sul Mare del
Nord. Questa diga, che è una delle più meravigliose opere dei tempi
moderni, si stende per la lunghezza di quasi dieci chilometri dal
Nieuwediep, dov'è l'entrata del gran canale del Nord, fino al forte il
principe Ereditario, che si trova all'estremità opposta della città; è
costrutta interamente con massi enormi di granito di Norvegia e di
pietra calcare del Belgio; è percorsa sulla sommità da una bella strada
carrozzabile; e scende nel mare, coll'inclinazione di quaranta gradi,
fino alla profondità di sessanta metri. In vari punti è rafforzata da
dighe minori, composte di travi, di fascine e di terra, che s'avanzano
per circa duecento metri nel mare. Le più alte maree non arrivano mai a
bagnarne la sommità; e l'onda infaticabile si spezza vanamente su
quell'immane baluardo che le sorge incontro, quasi più in atto di
minaccia, che di difesa, come una sfida della pazienza umana al furore
degli elementi.
Il Nieuwdiep che s'apre a una delle estremità di Helder, è un porto
artificiale, che protegge con grandi moli e dighe robuste i bastimenti
che entrano nel canale del Nord. Le porte del bacino, chiamate porte a
ventaglio, le più grandi dell'Olanda, si chiudono da sè stesse per
effetto della pressione delle acque. In questo porto sono ancorati un
gran numero di bastimenti, dei quali moltissimi provenienti
dall'Inghilterra e dalla Svezia; e una buona parte della flotta militare
dell'Olanda, composta di fregate e di piccoli vascelli, più puliti
ancora delle più pulite case di Broek. Sulla riva sinistra del Nieuwdiep
v'è un grande arsenale marittimo, dove risiede un contr'ammiraglio.
Sul finire del secolo scorso, nulla esisteva di tutto questo. Helder non
era che un villaggio di pescatori appena segnato sulla carta. L'apertura
del gran canale del Nord e una breve passeggiata fatta da Napoleone I in
un battello di pescatori da Helder fino all'isola di Texel, che si vede
distintamente dall'alto della diga, trasformarono il villaggio in
città. Osservando il tratto di mare compreso fra quell'isola e la riva
olandese, Napoleone concepì l'idea di fare di Helder «la Gibilterra del
Nord» e cominciò coll'ordinare la costruzione di due forti, uno chiamato
allora Lasalle, ed ora Principe Ereditario, e l'altro Re di Roma, ora
ammiraglio Dirk. Gli avvenimenti non gli permisero di mandare ad effetto
il suo grandioso disegno; ma l'opera rapidamente incominciata da lui, fu
lentamente proseguita dagli Olandesi a segno che Helder è ora la prima
città forte dello Stato, capace di trentamila difensori, atta ad
impedire a una flotta l'entrata nel canale del Nord e nel Golfo di
Zuiderzee, e oltre che difesa a una grande distanza da un baluardo di
scogli e di banchi di sabbia, fortificata in maniera da potere, in casi
estremi, inondare tutta la provincia che le si stende alle spalle.
Ma lasciando anche da parte la sua importanza strategica, Helder è una
città degna d'esser veduta per il suo carattere anfibio, che lascia
sempre dubbiosi d'essere sul continente o sopra un gruppo di scogli e
d'isolette mille miglia lontano dalla costa europea. In qualunque verso
si cammini, si riesce in vista del mare. La città è attraversata e
circondata da canali grandi come fiumi, che gli abitanti passano sulle
zattere. Dietro la gran diga v'è una lunga distesa d'acqua stagnante che
s'alza e s'abbassa colla marea, come se comunicasse col mare per via
sotterranea. Da tutte le parti corre acqua, prigioniera, è vero, in
mezzo a due sponde, ma alta e minacciosa, che pare aspetti la prima
occasione per riconquistare la sua spaventosa libertà. La terra, intorno
alla città, è nuda e desolata, e il cielo, quasi sempre nuvoloso, è
attraversato da grandi stormi di uccelli marini. La città stessa,
formata da una sola fila di case, pare che abbia coscienza della sua
postura arrischiata, e aspetti d'ora in ora una catastrofe. Quando il
vento fischia e il mare mugge, si direbbe che ogni buon helderese non
abbia a far di meglio che chiudersi in casa, dire le sue orazioni e poi
ficcare la testa sotto le lenzuola ed aspettare quello che Dio manda.
La popolazione, che conta diciottomila anime, è altrettanto singolare
che la città. È una mescolanza di negozianti, d'impiegati regi,
d'ufficiali di marina, di soldati, di pescatori, di gente arrivata dalle
Indie, di gente che si dispone a partire, e di parenti di chi arriva e
di chi parte, andati là per dare il primo abbraccio o l'ultimo addio;
perchè è quello l'estremo angolo di terra olandese che il marinaio
saluta partendo, e il primo ch'egli vede al ritorno. Ma essendo la città
così lunga e sottile, si vede pochissima gente; e non si sente altro
rumore che le cantilene lamentevoli dei marinai che rattristano il cuore
come grida di naufraghi lontani.
Benchè giovanissima, Helder è ricca di grandi ricordi storici al pari
d'ogni altra città olandese. Essa ha visto il gran pensionario De Vitt
attraversare per il primo, in un piccolo battello, lo stretto di Texel,
scandagliare colle proprie mani la profondità delle acque, e mostrare ai
piloti e ai capitani olandesi, che non volevano avventurarsi a quel
passo, la possibilità di far tragittare la flotta mandata a combattere
l'Inghilterra. In quelle acque gli ammiragli De Ruyter e Tromp tennero
fronte alla flotta francese e alla flotta inglese riunite. Poco lontano
di là, nel polder chiamato lo Zyp, l'anno 1799, il generale inglese
Abercrombie respingeva l'assalto dell'esercito francese e dell'esercito
batavo comandati dal generale Brome. E infine, perchè pare una legge
naturale che ogni città olandese debba aver visto qualche cosa di strano
e d'incredibile, Helder vide una sorta di battaglia anfibia, tra di
terra e di mare, per la quale manca un nome nel linguaggio militare:
vide nel 1795 la cavalleria e l'artiglieria leggera del generale
Pichegru attraversare di galoppo il golfo gelato di Zuiderzee,
slanciarsi verso la flotta olandese imprigionata fra i ghiacci presso
l'isola di Texel, e circondatala come una fortezza, intimarle la resa e
prenderla prigioniera.
Quest'isola di Texel, che, come dissi, si vede distintamente dall'alto
della diga di Helder, è la prima di una catena d'isolette che si stende
in forma d'arco dinanzi a tutta l'apertura del Zuiderzee sino alla
provincia di Groninga; e che si crede formasse, prima dell'esistenza del
gran golfo, una costa continua la quale serviva di baluardo ai Paesi
Bassi. In quest'isola di Texel, che non conta più di seimila abitanti,
sparsi in parecchi villaggi e in una piccola città, ha una rada nella
quale gettan l'áncora i vascelli da guerra e i grandi bastimenti della
compagnia delle Indie. Da questa rada partirono sulla fine del secolo
decimosesto i bastimenti dell'Heemskerk e del Barendz per il memorabile
viaggio che fornì al poeta Tollens il soggetto del suo bel poema
_L'invernata degli Olandesi alla Nuova Zembla_.
Ed ecco in breve quella storia dolorosa e solenne, come fu narrata dal
Van Kampen e cantata dal Tollens.
Non potendo ancora gli Olandesi, sulla fine del secolo decimosesto,
lottare fronte a fronte cogli Spagnuoli e coi Portoghesi per
impadronirsi del commercio delle Indie, pensarono di cercare una nuova
via, a traverso i mari artici, per arrivare in minor tempo ai porti
dell'Asia orientale e della China. Una società di mercanti olandesi
affidò l'impresa avventurosa ad un esperto marinaio di nome Barendz, il
quale partì con due bastimenti dall'isola di Texel, il 6 giugno del
1594, alla volta del polo. Il bastimento capitanato da lui arrivò fino
alla punta settentrionale della Nuova Zembla, e ritornò in Olanda.
L'altro prese la via più conosciuta dello stretto di Waïgatz, si spinse
a traverso i ghiacci del golfo di Kara, e giunse in un mare aperto ed
azzurro, dal quale scoperse la costa russa rivolta verso il sud-est. La
direzione di questa costa fece credere che il bastimento avesse
oltrepassato il capo Tabis, designato da Plinio, autorità allora
incontestata, come l'estremità dell'Asia settentrionale, e che però si
potesse giungere di là, con una breve navigazione, ai porti dell'est e
del sud del continente. Non si sapeva che dopo il golfo dell'Obi l'Asia
si stende ancora per 120 gradi a levante dentro il cerchio polare. La
notizia di questa scoperta, portata in Olanda, vi destò una grandissima
gioia. Sei grandi navigli furono immediatamente allestiti e caricati di
mercanzie da vendersi ai popoli dell'India, un piccolo bastimento fu
destinato ad accompagnare la squadra fin che avesse oltrepassato il
supposto capo Tabis, e poi tornare a portarne la notizia; e la squadra
partì. Ma questa volta il viaggio non rispose alle speranze. I
bastimenti olandesi trovarono lo stretto di Waïgatz tutto ingombro di
ghiacci, e dopo aver inutilmente tentato di aprirsi una via, ritornarono
in patria.
Dopo questo infelice successo, gli Stati Generali, benchè promettessero
un premio di venticinque mila fiorini a chi riuscisse nell'impresa,
rifiutarono di concorrere alle spese di un nuovo viaggio; ma i cittadini
non si scoraggiarono. La reggenza d'Amsterdam noleggiò due bastimenti,
assoldò dei bravi marinai, celibi quasi tutti, perchè il ricordo delle
famiglie non infiacchisse, in mezzo ai pericoli, il loro coraggio, e
affidò il comando della spedizione al valoroso capitano Heemskerk. I due
bastimenti partirono il 18 maggio del 1596. Sull'uno era maestro-piloto
il Barendz, dell'altro era patrono un Van de Ryp. Da principio non
andaron d'accordo sulla via da prendere; ma poi il Barendz si lasciò
persuadere dal Van de Ryp a far vela verso il nord, invece che verso il
nord-est; e fecero vela verso il nord. Arrivarono così al 74° grado di
latitudine settentrionale, presso una piccola isola, alla quale diedero
il nome d'Isola degli Orsi, in memoria d'un combattimento di parecchie
ore che dovettero sostenere contro una frotta di quegli animali. Non
vedevano intorno a sè che roccie altissime e dirupate che pareva
chiudessero il mare da ogni parte. Continuarono a navigare verso il
nord. Il 19 giugno scoprirono un paese che chiamarono Spitsbergen per le
sue roccie tagliate a picco, e che credettero fosse la Groenlandia; e là
videro grandi orsi bianchi, cervi, renne, oche selvatiche, enormi balene
e volpi di tutti i colori. Di qui, essendo giunti oramai fra il 76° e
l'80° grado di latitudine settentrionale, dovettero rivolgersi al sud e
approdare daccapo all'Isola degli Orsi. Il Barendz però non volle più
seguire la direzione settentrionale che il Ryp aveva seguita fino
allora, e si rivolse al sud-est; il Ryp fece vela verso il nord; e così
si divisero.
Il Barendz arrivò il 17 luglio presso la Nuova Zembla, rasentò la costa
settentrionale dell'isola e continuò a navigare verso il sud. Allora
cominciarono le avversità. Via via che procedevano, gli enormi massi di
ghiaccio galleggianti sul mare, divenivano più fitti, si congiungevano
in vastissimi strati, si ammontavano in roccie e montagne scoscese ed
altissime, in modo che il bastimento si trovò in breve in mezzo a un
vero continente di ghiaccio che gli nascose l'orizzonte da tutte le
parti. Vedendo che era impossibile di raggiungere la costa orientale
dell'Asia, pensarono di tornare indietro; ma era già il 25 d'agosto,
tempo in cui l'estate, in quelle regioni, volge alla fine; e non
tardarono ad accorgersi che non era più possibile neanche il ritorno. Si
trovavano imprigionati fra i ghiacci, smarriti in una solitudine
spaventosa, avvolti da un'immensa nebbia, senza disegno, senza speranze,
e in procinto d'essere da un momento all'altro urtati e sepolti dalle
montagne di ghiaccio che galleggiavano e cozzavano con tremendo strepito
intorno alla nave. Non rimaneva loro che una sola via di salute, o
piuttosto un mezzo di ritardare la morte: erano vicini alla costa della
Nuova Zembla, potevano abbandonare il bastimento e ridursi a passare
l'inverno in quell'isola deserta. Era una risoluzione disperata, che non
richiedeva meno coraggio che quella di rimanere a bordo; ma almeno
portava con sè il moto, la lotta, una nuova forma di pericoli. Dopo
qualche esitazione, scesero dal bastimento e approdarono all'isola.
L'isola era disabitata; nessun popolo del nord v'aveva mai posto piede;
era tutta un deserto di ghiaccio e di neve, flagellato dalle onde e dai
venti, sul quale il sole non gettava che raramente un raggio fuggitivo e
senza calore. Nondimeno, i poveri naufraghi mandarono grida di gioia
quando vi posero il piede, e s'inginocchiarono nella neve per
ringraziare la Provvidenza. Dovettero pensar subito a fabbricarsi una
capanna. Nell'isola non v'era un albero; ma per fortuna si trovava là
presso una gran quantità di legno galleggiante, che il mare aveva
portato dal continente. Si misero all'opera, tornarono al loro
bastimento, ne portarono via assi, travi, chiodi, pece, casse, botti;
piantarono le travi nel ghiaccio; col ponte fecero il tetto; sospesero
al tetto le loro brande; tappezzarono le pareti colle vele; riempirono
le fessure colla pece. Ma mentre lavoravano corsero pericoli e
soffrirono patimenti inauditi. Il freddo era tale che quando si
mettevano un chiodo fra le labbra, subito s'agghiacciava, e per levarlo
si laceravano le carni e si empivano la bocca di sangue. Gli orsi
bianchi, spinti dalla fame, li assalivano furiosamente in mezzo ai massi
di ghiaccio, intorno alla loro capanna, persino nell'interno del
bastimento; e li costringevano a interrompere il lavoro per difendere la
propria vita. La terra era talmente indurita che bisognava scavarla come
pietra viva. Intorno al bastimento l'acqua era gelata a tre tese e mezza
di profondità. S'era rappresa la birra dentro le botti e aveva perduto
affatto il sapore: e il freddo cresceva di giorno in giorno. Finalmente
riuscirono a rendere la loro capanna abitabile e furono al riparo dalla
neve e dal vento. Accesero il fuoco e cominciarono a poter dormire
qualche ora, quando non erano svegliati dagli urli delle fiere che
giravano intorno alla capanna. Alimentavano le lampade col grasso degli
orsi che uccidevano a traverso gli spiragli delle pareti, si scaldavano
le mani nelle loro viscere sanguinose, si vestivano delle loro pelli e
mangiavano carne di volpe, aringhe e biscotti ch'eran loro rimasti
delle provvigioni del viaggio. Intanto il freddo cresceva a tal segno
che gli orsi non uscivan più dalle loro tane. Gli alimenti e le bevande
gelavano persino accanto al fuoco. I poveri marinai si bruciavano le
braccia e i piedi senza risentire il menomo calore. Una sera che, per
timore di morire di freddo, avevan chiuso ermeticamente la capanna,
andarono a un filo dal morire soffocati, e dovettero, per non
soccombere, affrontare di nuovo quel freddo tremendo.
A tutte queste calamità se n'aggiunse un'altra. Il giorno quattro di
novembre essi aspettarono inutilmente l'aurora; il sole non apparve più;
la notte polare era cominciata. Allora quegli uomini di ferro si
sentirono mancar l'animo, e il Barendz dovette, dissimulando l'angoscia,
spiegare tutta l'eloquenza che potè trarre dal cuore, per impedire che
si abbandonassero alla disperazione. Il nutrimento e la legna
cominciarono a scarseggiare; i rami d'abete trovati sulla spiaggia erano
buttati sul fuoco quasi con rammarico; il lume era alimentato appena
tanto da rompere le tenebre. Ciò nonostante, la sera, quando riposavano
dalle fatiche della giornata, raccolti intorno al loro piccolo focolare,
avevano ancora qualche momento di allegrezza. Il giorno della festa dei
Re fecero un piccolo banchetto con vino e paste di farina fritte
nell'olio di balena, e tirarono a sorte a chi toccasse la Corona della
Nuova Zembla. Altre volte giocavano, raccontavano vecchie storie,
facevano brindisi alla gloria di Maurizio d'Orange, parlavano delle
loro famiglie. Ogni giorno cantavano i salmi tutti insieme,
inginocchiati sul ghiaccio, col viso rivolto verso le stelle. Qualche
volta un'aurora boreale squarciava la immensa oscurità da cui erano
avvolti; e allora uscivano dalla loro capanna, scorrevano per le rive,
festeggiavano con tenera gratitudine quella luce fuggitiva, come una
promessa di salvamento.
Giusta i loro computi, il sole doveva ricomparire il giorno 9 di
febbraio del 1597. S'erano ingannati: la mattina del 24 gennaio, appunto
in uno di quei periodi di tempo ch'erano più che mai scoraggiati e
tristi, uno d'essi, svegliandosi, intravvide un chiarore straordinario,
gettò un grido, balzò a terra, destò i compagni, uscirono tutti dalla
capanna, e videro a levante il cielo rischiarato da una luce viva, la
luna smorta, l'aria limpida, le sommità delle roccie e delle montagne di
ghiaccio colorate di rosa; l'alba, infine, il sole, la vita, la
benedizione di Dio e la speranza di riveder la patria, dopo tre mesi di
notte e d'angoscia. Per qualche momento rimasero immobili e silenziosi,
e come sopraffatti dalla commozione; poi proruppero in lacrime,
s'abbracciarono, sventolarono i loro berretti vellosi, fecero risonare
quelle solitudini orrende d'accenti di preghiera e di grida di gioia. Ma
fu una breve gioia: si guardarono in viso, ed ebbero spavento e pietà
gli uni degli altri. Il freddo, l'insonnia, la fame, i travagli
dell'animo, li avevano consunti e trasfigurati in modo che quasi più non
si riconoscevano. E i loro patimenti non erano ancora finiti! In quello
stesso mese la neve cadde in tanta abbondanza, che la capanna rimase
quasi sepolta, e dovettero uscirne ed entrarci per l'apertura del
cammino. Col diminuire del freddo, ricomparvero gli orsi, e
ricominciarono quindi i pericoli, le notti insonni, i combattimenti
feroci. Scemava il loro vigore, e l'animo, per poco risollevato,
ricadeva.
Avevano però ancora un filo di speranza. Non eran riusciti ad estrarre
dal ghiaccio il loro bastimento, nè quando l'avessero estratto,
avrebbero potuto riassettarlo in modo da renderlo servibile; ma avevano
trascinato sulla riva una barca e una scialuppa, e a poco a poco, sempre
difendendosi dagli orsi che si slanciavano fin sulla soglia della loro
capanna, eran venuti a capo di ripararle alla meglio. Con questi due
piccoli legni essi contavano di dirigersi verso uno dei piccoli porti
della Russia, di rasentare cioè la riva settentrionale della nuova
Zembla, costeggiare la Siberia e attraversare il Mar Bianco; di fare,
insomma, un viaggio di almeno quattrocento miglia tedesche. In tutto il
mese di marzo il tempo variabilissimo li tenne in una continua vicenda
di speranze e di disinganni. Più di dieci volte videro il mare sgombro
fino alla riva e si apparecchiarono alla partenza; ed altrettante volte
una recrudescenza improvvisa di freddo riammontò ghiacci su ghiacci, e
chiuse la via da ogni parte. Nel mese d'aprile i ghiacci furono immensi
e continui. Nel mese di maggio riebbero il tempo incostante. Nel mese di
giugno, finalmente, poterono risolversi a partire. Dopo avere stesa una
minuta relazione di tutte le loro avventure, della quale lasciarono una
copia nella capanna, la mattina del 14 di giugno, con un bellissimo
tempo e il mare aperto da tutte le parti, dopo nove mesi di soggiorno in
quella terra funesta, fecero vela verso il continente. Su due barche
scoperte, sfiniti da tanti patimenti, andavano a sfidare i venti
furiosi, le lunghe pioggie, i freddi mortali, i ghiacci vorticosi di
quel mare immenso e terribile nel quale pareva una disperata impresa
l'avventurarsi con una flotta. Per lungo tempo, durante il viaggio,
ebbero a respingere gli assalti degli orsi marini, soffrire la fame,
nutrirsi di uccelli uccisi a sassate e d'ova trovate sulle coste
deserte, sperare e disperare, rallegrarsi e piangere, dolersi qualche
volta di aver abbandonato la nuova Zembla, invocare la tempesta,
desiderare la morte. Sovente dovettero trascinare le loro barche sopra
campi di ghiaccio, legarle perchè non le portasse via il vento,
stringersi tutti in un gruppo in mezzo alla neve per resistere al
freddo, cercarsi nella nebbia fitta, chiamarsi per nome, toccarsi per
timore d'essersi perduti e per darsi coraggio gli uni agli altri. Non
tutti resistettero a così tremende prove. Qualcuno morì. Il Barendz
medesimo, che si era imbarcato infermo, sentì, dopo pochi giorni, che la
sua fine s'avvicinava, e lo disse ai compagni. Non cessò però un momento
di dirigere la navigazione, e di fare ogni sforzo per abbreviare a
quella povera gente il viaggio tremendo di cui egli sapeva di non poter
vedere la fine. La vita gli mancò mentre esaminava una carta geografica,
il suo braccio cadde irrigidito nell'atto di accennare la terra lontana,
e l'ultima sua parola fu un incoraggiamento e un consiglio. Nella baia
di San Lorenzo, incontrarono, si può immaginare con qual gioia, una
barca russa, che diede loro dei viveri, del vino e del cochlearia,
rimedio per lo scorbuto, di cui s'erano ammalati parecchi marinai, i
quali subito ne guarirono. Costeggiarono la Siberia, e incontrarono
altri legni russi di più in più frequenti, e si provvidero di vivande
fresche colle quali ristorarono le loro forze. All'entrata del Mar
Bianco, una nebbia densissima divise le due barche, che oltrepassarono
però tutt'e due il capo Candnoes, e favorite dal vento, percorsero in
trenta ore un spazio di centoventi miglia, in capo al quale si
ricongiunsero gettando grida d'allegrezza. Ma una gioia ben maggiore li
aspettava a Kilduin. Trovarono là una lettera del Ryp, comandante
dell'altro bastimento, partito insieme con loro dall'isola di Texel, il
quale annunziava il suo arrivo. Dopo breve tempo la barca e la scialuppa
raggiunsero il bastimento a Kola. Era la prima volta che i naufraghi
della Nuova Zembla rivedevano la bandiera della patria dopo la partenza
dall'isola degli Orsi, e la salutarono con un delirio di gioia. I
compagni del Ryp e i compagni del Barendz si precipitarono gli uni nelle
braccia degli altri, si raccontarono le vicende corse, piansero gli
amici perduti, dimenticarono i patimenti sofferti, e tutti insieme
fecero vela verso l'Olanda, dove arrivarono sani e salvi il 29 ottobre
del 1597, tre mesi dopo la partenza dalla capanna. Così finì l'ultima
impresa tentata dagli Olandesi per aprire una nuova via al commercio
colle Indie a traverso i mari del polo. Quasi tre secoli dopo, nel 1870,
il capitano d'un bastimento svedese, cacciato dalla tempesta sulla costa
della Nuova Zembla, vi ritrovava la carcassa di un naviglio e una
capanna con dentro due caldaie, un pendolo, una canna di fucile, una
spada, un'accetta, un flauto, una bibbia, alcune casse riempite di
utensili e dei brandelli di vestimenta putrefatte. Questi oggetti,
riconosciuti dagli Olandesi come appartenenti ai marinai del Barendz e
dell'Heemskerke, furono portati in trionfo all'Aja ed esposti come
reliquie sacre nel Museo di Marina.
* * * * *
Con tutte queste immagini nella mente, la sera, dall'alto della gran
diga di Helder, al lume della luna che ora si nascondeva bruscamente
dietro le nuvole, ora si mostrava all'improvviso in tutta la sua luce,
io non potevo saziarmi di guardare la riva sabbiosa di quell'isola di
Texel e quel gran mare del Nord, che non ha più altri confini da quel
lato che i ghiacci eterni del polo; il mare che gli antichi credevano la
fine dell'universo: _illuc usque tantum natura_, come dice Tacito; il
mare su cui apparirono nei giorni di grande tempesta le forme
gigantesche delle divinità germaniche; e spaziando cogli occhi su quel
piano immenso e sinistro, non sapevo esprimere altrimenti a me stesso
il mio sgomento misterioso, che coll'esclamare di tratto in tratto, a
mezza voce:--Barendz!... Barendz!--ed ascoltare io stesso il suono di
questo nome, come se lo portasse il vento da una lontananza sterminata.
IL ZUIDERZEE.
Mi rimaneva a vedere l'antica Frisia, la ribelle indomata di Roma, la
terra delle belle donne, dei grandi cavalli e degl'invitti scivolatori,
la più poetica provincia della Neerlandia: e nell'andarvi, avevo modo di
soddisfare un altro vivissimo desiderio: quello di attraversare il
Zuiderzee, l'ultimo nato dei mari.
Questo grande bacino del Mare del Nord, che bagna cinque provincie e
quadra più di settecento chilometri, seicento anni fa non esisteva. La
Nord-Olanda toccava la Frisia, e dove ora si stende il golfo, c'era una
vasta regione sparsa di laghi di acqua dolce, il maggiore dei quali, il
Flevo, rammentato dal Tacito, era separato dal mare da un istmo fertile
e popoloso. Se il mare abbia per sola sua forza rotto gli argini
naturali di questa regione, o se invece l'abbassamento del suolo