Olanda - 09

L'Aja--in olandese S'Gravenhage o S'Hage,--la capitale politica, la
Washington dell'Olanda, della quale Amsterdam è la New-York,--è una
città mezza olandese e mezza francese, con larghe strade senza canali;
vaste piazze piene d'alberi, case signorili, alberghi splendidi, e una
popolazione composta in gran parte di ricchi, di nobili, d'impiegati, di
letterati, d'artisti; e d'un popolino più raffinato che quello delle
altre città olandesi.
Nel primo giro che feci per la città, quello che mi colpì di più furono
i quartieri nuovi, dove abita il fiore dell'aristocrazia danarosa. In
nessuna città, nemmeno nel sobborgo Saint-Germain a Parigi, mi sentii
tanto povero diavolo come in quelle strade. Sono strade larghe e
diritte, fiancheggiate da palazzini di forme snelle e di colori gentili,
con grandi finestre senza persiane, per le quali si vedono i tappeti, i
vasi di fiori e i mobili sontuosi delle sale a terreno; con tutte le
porte chiuse; e non una bottega, non un annunzio sui muri, non una
macchia, non una festuca a cercarla con cent'occhi. Quando passai per
quelle strade, v'era un silenzio profondo. Solo di tratto in tratto
incontravo qualche carrozza aristocratica che scorreva sul pavimento di
mattoni quasi senza far rumore, e vedevo qualche lacchè impalato dinanzi
a una porta, o qualche testa bionda di signora dietro a una tendina.
Passando rasente le finestre, osservavo colla coda dell'occhio il mio
meschino vestiario di viaggiatore riflesso spietatamente dalle grandi
vetrate, mi pentivo di non aver portato i guanti, provavo una certa
umiliazione di non essere almeno cavaliere di nascita, e mi pareva di
udire qua e là delle voci sommesse che dicessero:--Chi è quel pezzente?
Della città antica, la parte più considerevole è il Binnenhof, un
gruppo di vecchi edifizi di differenti stili d'architettura, che da due
lati guarda, su due vaste piazze, e da un altro sopra un grande stagno.
In mezzo a questo gruppo di palazzi, di torri, di porte monumentali,
d'un aspetto medioevale e sinistro, v'è uno spazioso cortile, nel quale
s'entra per tre ponti e tre porte. In uno di quegli edifizi risiedevano
gli Statolderi, e ora v'è la seconda Camera degli Stati generali; dalla
parte opposta, v'è la prima Camera, i Ministeri e diversi altri uffici
d'amministrazione pubblica. Il ministro dell'interno ha il suo ufficio
in una piccola torre bassa, nera, lugubre, che pende a filo sulle acque
dello stagno.
Il Binnenhof, la piazza che si stende ad occidente chiamata Buitenhof, e
un'altra piazza di là dallo stagno chiamata Plaats, nella quale si
giunge passando sotto una vecchia porta che faceva parte d'una prigione,
furono il teatro dei più sanguinosi avvenimenti della storia d'Olanda.
Nel Binnenhof, fu decapitato il venerando Van Olden Barneveldt, il
secondo fondatore della repubblica, la più illustre vittima di quella
lotta secolare tra il patriziato borghese e lo statolderato, tra il
principio repubblicano e il principio monarchico, che travagliò così
miseramente l'Olanda. Il patibolo ora innalzato dinanzi all'edifizio
dove sedevano gli Stati generali. Dalla parte opposta v'è la torre dalla
quale si dice che Maurizio d'Orange, non visto, assistesse al supplizio
del suo nemico. Nella prigione ch'è fra le due piazze, fu torturato
Cornelio De Vitt accusato ingiustamente d'aver tramato contro la vita
del principe d'Orange. Nel Plaats furono trascinati dal popolo furioso,
laceri e insanguinati, Cornelio e Giovanni De Vitt, il gran pensionario,
e là sputacchiati, calpestati, uccisi a colpi di picca e di pistola; e
poi mutilati e vilipesi i loro cadaveri. Nella stessa piazza fu
pugnalata Adelaide di Poelgest, amante d'Alberto, conte d'Olanda, il 22
settembre del 1392; e si mostra ancora la pietra sulla quale cadde
spirando.
Queste memorie funeste, quelle porte massiccie e basse, quel gruppo
disordinato di edifizi cupi, che la notte, quando la luna batte sulle
acque del lago morto, presentano l'aspetto d'un castello enorme e
inaccessibile, destano in mezzo a quella città allegra e gentile, un
sentimento di tristezza solenne. Il cortile, di notte, non è rischiarato
che da qualche raro fanale; le poche persone che passano, s'affrettano
come se avessero paura; non si sente il rumore dei passi, non si vede
una finestra illuminata; vi si entra con una vaga inquietudine e se
n'esce quasi con piacere.
Fuor di questo, l'Aja non ha monumenti considerevoli nè antichi nè
moderni. Vi sono parecchie mediocri statue di diversi principi d'Orange;
una cattedrale vasta e nuda e un palazzo reale modesto. Su molti edifizi
pubblici si vede scolpita una cicogna, ch'è l'animale araldico della
città. Parecchi di questi uccelli passeggiano liberamente nella piazza
del mercato dei pesci, mantenuti a spese del municipio come gli orsi di
Berna e le aquile di Ginevra.
* * * * *
Il più bell'ornamento dell'Aja è il suo bosco; una vera meraviglia
dell'Olanda e uno dei più magnifici passeggi del mondo.
È un bosco d'ontani, di quercie e dei più grandi faggi che si vedano in
Europa, del circuito di più d'una lega francese, posto ad oriente della
città, a pochi passi dalle ultime case; una vera oasi deliziosa in mezzo
alla malinconica pianura olandese. Appena vi s'è entrati, appena si sono
oltrepassati i padiglioni, le casette svizzere, i chioschi sparsi in
mezzo ai primi alberi, par di essersi smarriti in una foresta sterminata
e solitaria. Gli alberi sono fitti come un canneto, i viali si perdon
nel buio; ci son laghi, canali quasi nascosti dalla verzura delle
sponde; ponti rustici, crocicchi di sentieri abbandonati, recessi
chiusi, oscurità profonde e fresche in cui par di respirare l'aria d'una
natura vergine e d'essere infinitamente lontani dai rumori del mondo.
Questo bosco, che come quello della città di Haarlem, si vuol che sia un
resto d'un'immensa foresta che copriva anticamente quasi tutta la costa
dell'Olanda, è rispettato dagli Olandesi come un monumento della loro
storia nazionale. Nella storia d'Olanda, in fatti, si trovano moltissimi
atti che gli si riferiscono, e che provano che in ogni tempo si ebbe una
cura gelosa della sua conservazione. Gli stessi generali spagnuoli
rispettando questa specie di culto nazionale, preservarono il bosco
sacro dalle offese dei soldati. In più d'un'occasione di gravi
strettezze finanziarie quando il governo sarebbe stato disposto a
decretarne la distruzione per vender le legna, i cittadini scongiurarono
il pericolo con una oblazione volontaria. Mille ricordi sono legati a
questo bosco diletto: ricordi d'uragani spaventosi, ricordi d'amori
principeschi, di feste celebri, di avventure romanzesche. Alcuni alberi
portano il nome di re e d'imperatori, altri di elettori germanici; un
faggio ha la fama d'esser stato piantato dal gran pensionario e poeta
Giacobbe Catz; altri tre, dalla contessa d'Olanda, Giacomina di Baviera;
e si accenna ancora il luogo dove essa soleva riposare delle sue
passeggiate. E ci lasciò il suo ricordo anche il signor Voltaire, che ci
ebbe non so che ripesco galante con la figliuola d'un parrucchiere.
In fondo al bosco, dove la piccola vegetazione presa da una sorta di
furia conquistatrice, s'alza, s'ammucchia, s'arrampica su per gli
alberi, s'intreccia sopra i sentieri, si stende sulle acque, e
intercetta da tutte le parti il passo e la vista, come se volesse celare
i misteri di qualche dimenticata divinità silvestre, si nasconde un
palazzotto reale, chiamato la Casa del Bosco, una specie di _Casa del
labrador_ della villa d'Aranjuez, eretta nel 1647 dalla principessa
Amelia di Solms in onore di suo marito Federico Enrico lo Statoldero.
Quando andai a visitare questo palazzo, mentre stavo cercando cogli
occhi la porta d'entrata, vidi uscire e salire in carrozza una signora
d'aspetto nobile e benevolo, che presi per una viaggiatrice inglese, che
avesse terminata la sua visita. La carrozza mi passò accanto, mi levai
il cappello, la signora fece un cenno del capo e scomparve.
Seppi un momento dopo da una cameriera del palazzo che quella
«viaggiatrice» era niente meno che sua maestà la Regina d'Olanda.
* * * * *
Mi sentii una leggera scossa al sangue. La parola «regina» m'ha fatto
sempre, indipendentemente dalla persona a cui si riferisca,
quest'effetto; e non saprei dirne chiaramente il perchè. Forse perchè mi
ricorda certe visioni luminose e confuse dell'adolescenza.
L'immaginazione amorosa d'un ragazzo di quindici anni qualche volta
striscia sulla terra e qualche volta si slancia con desiderii
mostruosamente audaci a un'altezza vertiginosa. Sogna delle bianchezze
sovrumane, dei profumi che danno il delirio e delle voluttà che fanno
cader fulminati, e suppone che tutto questo si ritrovi nelle creature
misteriose e inaccessibili che la fortuna ha poste in cima della scala
sociale. E fra i mille casi strani, insensati, impossibili, che
s'avvicendano nella sua mente nelle notti febbrili, sogna anche di
superare nelle tenebre, colla sua agilità infantile, muri altissimi,
cancellate formidabili, fossi profondi, di sospingere porte
misteriosamente aperte, di passar per corridoi senza fine, in mezzo a
gente assopita, per sale immense, nel silenzio; di salire per scale
aeree, di arrampicarsi su pei rilievi d'una torre, rischiando la vita,
a una tremenda altezza, sopra i grandi alberi d'un giardino illuminato
dalla luna; e infine di giungere spossato e insanguinato sopra un
balcone, e là sentir da una voce sovrumana parole d'una pietà profonda,
e rispondere con altre parole d'una tenerezza immensa, scoppiare in
pianto, invocar Dio, curvar la fronte sul marmo, coprir di baci
disperati un piede scintillante di gemme, abbandonar il viso nei rasi
profumati, e sentirsi fuggir la ragione e la vita in un amplesso più
forte della natura umana.
* * * * *
In quel palazzo, chiamato il _Palazzo del Bosco_, v'è, fra le altre cose
considerevoli, una sala ottagona coperta dal pavimento alla vôlta di
pitture dei più celebri artisti della scuola del Rubens, fra le quali
uno smisurato quadro allegorico del Jordaens che rappresenta l'apoteosi
di Federico-Enrico; una sala piena di preziosi regali dell'imperatore
del Giappone, del vicerè d'Egitto e della Compagnia delle Indie; e
un'altra elegante saletta decorata di pitture a chiaroscuro che si
scambiano, anche considerate attentamente, per bassorilievi: opera di
Jacob De Witt, pittore che acquistò in quell'arte corbellatrice una
grande rinomanza sul principio del secolo scorso. Le altre son sale
piccine, belle, ma senza fasto, e piene di tesori che non dan
nell'occhio, come si convengono alla grande e modesta casa d'Orange.
Mi parve strano quell'uso di lasciar entrare gli stranieri nel palazzo
nel momento stesso che la Regina ne usciva; ma non mi fece più specie
quando conobbi altre consuetudini, altri tratti popolari, il carattere,
in una parola, della famiglia reale d'Olanda.
Il re, in Olanda, è considerato quasi più come statoldero che come re.
V'è in lui, come diceva del duca d'Aosta quel tal repubblicano
spagnuolo, la _minor quantità di re possibile_. Il sentimento che il
popolo olandese nutre per la famiglia reale non è tanto di devozione per
la famiglia del monarca quanto di affetto per quella casa d'Orange che
partecipò a tutti i suoi trionfi e a tutte le sue sventure, che visse,
per così dire, della sua vita per lo spazio di tre secoli. Il paese, in
fondo, è repubblicano, e la sua monarchia è una sorta di presidenza
coronata, senza alcun fasto monarchico. Il Re pronunzia dei discorsi ai
banchetti e nelle feste pubbliche come da noi i ministri; e gode anzi la
fama di oratore, poichè parla all'improvviso, con una voce potentissima
e un certo impeto d'eloquenza soldatesca, che eccita un indicibile
entusiasmo nel popolo. Il principe ereditario, Guglielmo d'Orange,
studiò all'Università di Leida, sostenne esami pubblici e prese la
laurea d'avvocato. Il principe Alessandro, secondogenito, sta studiando
ora nella stessa Università, è membro del Club degli studenti, e invita
a pranzo i suoi professori e i suoi compagni di scuola. All'Aja, il
principe Guglielmo entra nei caffè, discorre coi vicini, s'accompagna
per la strada coi giovani suoi conoscenti. Nel bosco, la regina si
mette a seder sur una panca accanto a una povera donna. E non si può
dire che usin così, come altri principi, per acquistare popolarità,
poichè la famiglia d'Orange non ne può nè acquistare nè perdere, non
essendoci in quel popolo, per natura e per tradizione repubblicano,
nemmeno un indizio di fazione, non dico che voglia la repubblica, ma che
ne pronunzi il nome. Per contro, quel popolo, che ama e venera il suo
re, che nelle feste in onor suo gli stacca i cavalli dalla carrozza ed
esige che tutti portino una coccarda color d'arancio in omaggio al nome
d'Orange, nei tempi ordinari non si occupa punto dei fatti suoi e della
sua famiglia. All'Aja mi ci volle molto per sapere che grado avesse
nell'esercito il principe ereditario. Uno dei primi librai della città,
al quale rivolsi quella domanda, si meravigliò della mia curiosità che
gli parve puerile, e mi disse che probabilmente non avrei trovato in
tutta l'Aja cento persone che sapessero darmi una risposta.
La sede della corte è all'Aja; ma il re passa una buona parte
dell'estate in un suo castello nella Gheldria, e va ogni anno a star
qualche giorno in Amsterdam. Il popolo dice che v'è uno statuto il quale
obbliga il re a passare in Amsterdam dieci giorni all'anno, e il
municipio di quella città a fargli le spese per quei dieci giorni;
suonata la mezzanotte dell'undecimo, un fiammifero che bruci Sua Maestà
per accendere il sigaro, è a carico suo.
Tornando dalla villa reale all'Aja, trovai il bosco animato dalla
passeggiata della domenica: musica, carrozze, una folla di signore, i
caffè pieni di gente, e stormi di bambini da ogni parte.
Allora osservai per la prima volta il bel sesso olandese.
La bellezza è un fior raro in Olanda come in tutti i paesi; ma vidi
nondimeno assai più donne belle in un giro di cento passi nel bosco
dell'Aja, che non ne abbia viste in tutti i quadri dei Musei olandesi.
Non si vede fra quelle signore nè la bellezza scultoria delle romane, nè
gli splendidi colori delle inglesi, nè l'espressione vivacissima delle
andaluse; ma una finezza, una grazia innocente e affabile, una
leggiadria tranquilla, un'ideina che piace. Hanno l'attrattiva, disse
giustamente uno scrittore francese, del fiore di valeriana che adorna i
loro giardini. Son piuttosto alte che piccine, e grassotte; hanno i
tratti del viso irregolari, la pelle unita e brillante, d'un bel bianco
pallido o d'un roseo delicatissimo, che vi sembra stato suffuso
dall'alito di un angelo; i pomelli delle guancie salienti; gli occhi
d'un azzurro chiaro, sovente chiarissimo, in alcune di un'apparenza
vitrea, che danno uno sguardo vago come quello d'una persona distratta.
Si dice che non hanno bei denti: non lo potrei affermare perchè ridon
poco. Camminano con meno leggerezza che le francesi, con meno rigidezza
che le inglesi; vestono alla moda di Parigi; con più grazia all'Aja che
ad Amsterdam, benchè meno riccamente; e mettono in pomposa evidenza le
loro grandi capigliature bionde.
Mi fece specie il vedere ancora vestite da bimbe, colle sottane corte e
i calzoncini bianchi, ragazze che da noi hanno già il vestire e l'aria
di donne fatte. In Olanda, dove la vita è lenta e l'impazienza un
sentimento ignoto, le ragazze non hanno fretta di smetter gli usi e
l'aspetto della puerizia, e d'altra parte, entrano naturalmente assai
più tardi che in altri paesi in quella età così critica, nella quale,
come dice mirabilmente, al solito, Alessandro Manzoni, par che entri
nell'animo una potenza misteriosa, che solleva, adorna e rinvigorisce
tutte le inclinazioni e tutte le idee. Raramente una ragazza si marita
prima di vent'anni. Non dico le bambine del regno di Decan che per quel
che si racconta piglian marito all'età di ott'anni e son nonne prima dei
venti; ma le italiane e le spagnuole che si sposano a quattordici o
quindici, in Olanda sono considerate come creature miracolose. Là le
ragazze quindicenni vanno sole alla scuola coi capelli giù per le
spalle, e non c'è anima nata che le guardi. Ho inteso parlare quasi con
orrore d'un giovanotto dell'Aja accusato da altri giovanotti di cercare
delle avventure amorose in quell'età per essi non meno sacra
dell'infanzia.
Un'altra cosa che si nota subito in una città olandese,--eccettuata
Amsterdam,--è la mancanza della prostituzione elegante.
Quell'abbigliamento e quei modi particolari, che dicono:--Son del bel
numer una,--non si vedono affatto o quasi; e quel che si vede, c'è da
scommettere nove volte su dieci che viene dall'immenso semenzaio della
Senna.--"Badate," mi dicevano certi olandesi liberi pensatori, "siete in
un paese protestante, c'è molta ipocrisia." Sarà; ma non può essere una
gran piaga quella che si può ancora dissimulare. Società equivoca non
n'esiste: non ce n'è ombra in pubblico, non ce n'è idea nella
letteratura; la lingua stessa è ribelle alla traduzione d'una sola delle
formule infinite che costituiscono il linguaggio doppio, lubrico e
guizzante di quella società, nei paesi dov'ella si trova. D'altra parte,
nè padri, nè madri non chiudon gli occhi sulla condotta dei figli
scapoli, sian pure uomini tanto fatti; la disciplina della famiglia non
fa eccezione per le barbe lunghe; e quello che poi cospira colla
disciplina è il temperamento freddo, l'abitudine all'economia e il
rispetto dell'opinion pubblica.
Parlare del carattere e della vita delle donne olandesi, coll'aria di
esporre i frutti dell'esperienza propria, non essendo stato che qualche
mese in Olanda, sarebbe una presunzione più ridicola ancora che
impertinente; mi debbo dunque contentare di far parlare i libri e gli
amici.
Molti scrittori hanno trattato scortesemente le donne olandesi. Uno le
chiamò macchine da bambini; un altro massaie apatiche; un anonimo del
secolo scorso spinse l'impertinenza fino a dire che come gli uomini, in
Olanda, sogliono cercare le loro amanti nella classe delle fantesche,
così le donne (le signore, intende di dire) non spingono molte volte più
in alto le loro aspirazioni. Ma questi son giudizi dettati dalla stizza
di qualche corteggiatore scorbacchiato. Daniele Stern, che come donna ha
in questa materia un'autorità particolare, dice che sono altere, leali,
attive, caste. Qualcuno lasciò trapelare dei dubbi intorno alla tanto
predicata placidità dei loro affetti. Sono acque chete, scrisse
l'Esquiroz, ma si sa quel che si dice delle acque chete. Sono vulcani
gelati, disse l'Heine, che quando sgelano....! Ma di tutti i giudizi
letti, mi parve il più notevole quello di Saint Evremont: che le donne
olandesi non sono abbastanza vive per turbare il riposo degli uomini; e
che ce ne sono, sì, delle amabili; ma che non v'è nulla a sperarne, o
per la loro saggezza, o per una freddezza che tien luogo in loro di
virtù.
Un giorno, in un crocchio di giovanotti dell'Aja, citai questo giudizio
di Saint Evremont, e domandai bruscamente:--È vero?--Sorrisero, si
guardarono, uno rispose:--Direi...;--un altro:--Mi pare...;--un
terzo:--Sarebbe...;--infine s'accordarono tutti nel dire che era vero.
Altre volte raccolsi degl'indizi provanti che le cose corrono oggi tale
e quale come ai tempi dello scrittore francese. Si parlava in un
crocchio d'un personaggio leggermente ridicolo. "Eppure,--disse
uno,--quell'ometto d'apparenza così posata è un donnaiolo di prima
riga." Io domandai colla frase sacramentata: "Turba il riposo delle
famiglie?" Si misero tutti a ridere e uno rispose: "Che! Turbare il
riposo delle famiglie in Olanda! Sarebbe una delle dodici fatiche di
Ercole." "Noi olandesi,"--mi disse una volta un amico,--"non siamo
conquistatori, e non possiamo esserlo perchè ci manca la scuola. Non c'è
nulla di più falso in Olanda che la famosa definizione: il matrimonio è
come una fortezza assediata; chi è fuori vorrebbe esser dentro; chi è
dentro vorrebbe esser fuori. Qui chi è dentro ci sta bene e chi è fuori
non pensa ad entrare."--"La donna olandese," mi disse un altro, "non
sposa l'uomo, sposa il matrimonio."--Questo che si dice all'Aja, città
elegante, nella quale è grande l'influsso della civiltà francese, è
anche più vero detto delle altre città dove i costumi antichi si son
serbati più schietti. E dicano e scrivano pure i viaggiatori galanti che
in Olanda si dorme, e che la felicità domestica vi è un _bonheur un peu
gros_. Questa donna che esce poco, che balla poco, che ride poco, che
non s'occupa che dei suoi bambini, di suo marito e dei suoi fiori, che
legge libri di teologia e guarda la strada collo specchio per non farsi
vedere alla finestra, quanto è più poetica.... Oh perdonami, stavo per
dirtene una dura, Andalusia!
* * * * *
Sino a questo punto, potrebbe credere qualcuno ch'io voglia far
sott'intendere che so la lingua olandese. Mi affretto a dire che non la
so e a scusare la mia ignoranza. Un popolo, come l'olandese, grave e
taciturno, più ricco di qualità nascoste che di belle qualità lampanti,
che vive, se posso così esprimermi, molto più dentro che fuori di sè,
che fa molto più di quello che dice, che non si spende per quello che
vale; si può studiare anche senza comprendere la sua lingua. D'altra
parte, in Olanda è straordinariamente diffusa la lingua francese. Nelle
grandi città non v'è quasi persona colta che non parli francese
correntemente, non v'è bottegaio che non sappia spiegarsi bene o male,
non v'è quasi ragazzo, anche tra il popolo minuto, che non sappia quelle
dieci o venti parole, che bastano a cavar d'impiccio uno straniero.
Questa diffusione d'una lingua così diversa da quella del paese, è un
fatto tanto più ammirabile quando si pensi che non è la sola lingua
straniera che si parli comunemente in Olanda. L'inglese e la tedesca vi
sono quasi altrettanto conosciute che la francese. Lo studio di tutte e
tre queste lingue è obbligatorio nelle scuole medie. Le persone colte,
quelle che in Italia sono quasi in dovere di sapere il francese, in
Olanda leggono la maggior parte libri inglesi, tedeschi e francesi colla
medesima facilità. Gli Olandesi hanno una particolare disposizione ad
imparare le lingue, e un'incredibile franchezza nel conversare. Noi
Italiani, prima di rischiarci a parlare una lingua straniera, vogliamo
saperla tanto da non lasciarci sfuggire dei grossi errori; arrossiamo,
quando ci scappano; evitiamo le occasioni di discorrere finchè non siamo
sicuri di parlare in modo da tirarci un complimento; e così facendo,
allunghiamo sempre più il periodo del nostro noviziato filologico. In
Olanda segue soventissimo d'incontrare gente che parla francese
rimestando con infiniti sforzi un capitale di cento parole e di venti
frasi; ma parla, regge una lunga conversazione e non mostra di curarsi
menomamente di quello che voi possiate pensare dei suoi spropositi e
della sua audacia. Portinai, facchini, ragazzi, interrogati se sappiano
il francese, rispondono colla più grande sicurezza:--_Oui_, o--_un peu_,
e s'industriano in mille modi per farsi capire, ridendo qualche volta
essi medesimi delle stravaganti contorsioni del loro linguaggio, e
arrotondando ogni risposta con un _s'il vous plaît_ o un _pardon,
Monsieur_, detto il più delle volte così graziosamente a sproposito, da
doverne ridere ad ogni costo. E pare così ovvio a tutti il sapere il
francese, che quando qualcuno deve rispondere che non lo sa, tituba, si
vergogna, e se è interrogato per la strada, finge d'aver fretta e vi
pianta su due piedi.
Quanto alla lingua olandese, per chi non sappia il tedesco è buio pesto;
e anche sapendo il tedesco, si può capirne qualcosa nei libri, con un
po' di studio; ma a sentirla parlare, è buio egualmente. Se avessi da
dire l'effetto che fa sull'orecchio a chi non la intende, direi che par
tedesco parlato da gente che abbia un pelo nella gola; il che è dovuto
alla frequenza d'un'aspirazione gutturale che somiglia alla jota
spagnuola. Gli Olandesi stessi non trovano che la loro lingua sia
armoniosa. Mi accadde spesso di sentirmi domandare con un'aria
scherzosa:--Che effetto le fa?--quasi sottintendendo che dovesse essere
un effetto poco gradevole. Eppure ci fu chi scrisse un libro per
dimostrare che Adamo ed Eva, nel paradiso terrestre, parlavano olandese.
Ma benchè parlino tante lingue straniere, gli Olandesi tengon molto alla
propria; e s'indignano quando uno straniero ignorante mostra di credere,
così per sentita dire, che l'olandese sia un dialetto tedesco; cosa, per
verità, creduta da molti di coloro che conoscon quella lingua soltanto
di nome. È quasi superfluo il rammentare la storia della lingua. I primi
popoli del paese parlavano il teutono nei suoi varii dialetti. Questi
dialetti si fusero e formarono l'antica lingua neerlandese, la quale
passò nel medio evo, come le altre lingue d'Europa, per le differenti
fasi germanica, normanna, francese, e ne uscì l'olandese attuale, nel
quale rimane il fondo dell'idioma primitivo, con qualche impronta
latina. Certo v'è una grande somiglianza fra l'olandese e il tedesco, e
soprattutto un'infinità di radicali comuni; ma ne differisce molto la
sintassi, nell'olandese assai più semplice, e moltissimo la pronunzia. E
questa medesima somiglianza è cagione che gli Olandesi parlino per lo
più men bene il tedesco che l'inglese o il francese, sia per la
difficoltà che nasce dalla facilità dell'equivoco, sia perchè, non
dovendo fare un gran sforzo per riuscire a comprendere la lingua e a
parlarla per il proprio bisogno, s'arrestan lì, come segue a molti di
noi per il francese, che lo parliamo già a dieci anni e non lo sappiamo
ancora a quaranta.
È tempo ora d'andar a vedere il Museo di pittura che è il più bel
gioiello dell'Aja.
Appena entrati, ci si trova dinanzi alla più celebre di tutte le bestie
dipinte: il toro di Paolo Potter; quell'immortale toro che, come ho
detto, ebbe l'onore, nel Museo del Louvre, quando c'era la manía di
classificare i quadri in una sorta di gerarchia di celebrità, d'esser
posto accanto alla Trasfigurazione di Raffaello, al san Pietro martire
del Tiziano e alla Comunione di san Geronimo del Domenichino; quel toro,
che l'Inghilterra pagherebbe un milione di lire, e l'Olanda non darebbe
per il doppio; quel toro infine, sul quale furono certamente scritte più
pagine che non ci abbia dato pennellate il pittore, e su cui si scrive e
si disputa ancora, come se invece d'una immagine fosse una creazione
vera e viva d'un nuovo animale.
Il soggetto del quadro è semplicissimo: un toro di grandezza naturale,
ritto, col muso rivolto verso chi guarda; una vacca accosciata in terra;
alcune pecore, un pastore, un paesaggio lontano.
Il merito supremo di questo toro, si dice in una parola: è vivo.
L'occhio grave ed attonito, che esprime il sentimento d'una vitalità
vigorosa e d'una alterezza selvaggia, è reso con tanta verità, che, a
primo aspetto, vien quasi fatto di scansarsi a destra e a sinistra, come
si fa in un sentiero in campagna, quando s'incontra uno di quegli
animali. Le narici umide e nere, par che fumino e assorbiscano l'aria
con un'aspirazione profonda. I peli son resi uno per uno con tutte le
pieghe, le torsioni, le traccie dei fregamenti contro gli alberi e la
terra, e sembran peli veri attaccati alla tela. Gli altri animali non
son da meno: la testa della vacca, la lana delle pecore, le mosche,
l'erba, le foglie e le fibre delle piante, il muschio; ogni cosa è reso
con una verità prodigiosa. E mentre si capisce l'infinita cura che deve
averci messo l'artista, non si vede la fatica, la pazienza della copia;
par quasi un lavoro d'ispirazione, di foga, nel quale il pittore,
infiammato da una sorta di furore del vero, non abbia avuto un momento
d'esitazione o di stanchezza. Furon fatte su questo «incredibile colpo
d'audacia d'un giovane ventiquattrenne» infinite censure. Si censurò la
sua grandezza eccessiva per la natura volgare del soggetto; la mancanza
d'effetto luminoso, perchè la luce v'è uguale per tutto e dà risalto a
ogni cosa, senza contrasto d'ombra; la rigidezza delle gambe del toro;