O tutto o nulla: romanzo - 04
La signora Vezzosi alzò il ventaglio in atto di minaccia.
— Signor Anselmi, — diss’ella, — sapete che non siete punto galante,
quest’oggi? Un bell’omaggio lo rendete, alle donne! Quando son libere,
le fuggite.
— Abbiate pazienza, Donna Elena, son fatto così. Del resto, sono così
poco pericoloso, che il mio omaggio alle dame.... non libere, non deve
far paura a nessuno. Si sa, ogni donna ha bisogno di un uomo, come la
vite di un sostegno. Quando la vite perde il palo, il savio agricoltore
si affretta a dargliene un altro. Io.... — soggiunse con tragico
accento il contino Anselmi, — io non sarò quel palo. E son certo che
anche il signor De Rossi la pensa così.
— Vi ha mai manifestate le sue opinioni in proposito?
— No, ma un uomo giunto alla sua età, cioè a dire con tanti anni di
navigazione, e per conseguenza passato per tante burrasche, o sarebbe
naufragato prima, o non ci casca più. Questa è la mia opinione. —
La signora Vezzosi stava per rispondere, quando si udì un rumore di
passi nell’anticamera.
— Ecco Gerardo; — diss’ella. — Son già le sei!
— Signora, ecco un’osservazione e un accento molto lusinghieri per me.
— Ma sì, ma sì! — rispose la signora Vezzosi, sorridendo amabilmente. —
Mi avete fatto volare il tempo, con le vostre follie. —
La bussola si aperse ed entrò nel salotto il commendatore Gerardo
Vezzosi. Non meritava il suo cognome, in verità, ma non poteva neanche
dirsi un uomo antipatico. Portava gli occhiali d’oro e la barba corta
intorno al mento, per somigliare al conte di Cavour, buon’anima sua;
ma non ne veniva a capo. Era ancora troppo smilzo, per essere tolto in
iscambio. Era stato deputato, tant’anni addietro, e si parlava sempre
di lui come di un senatore possibile. Egli, del resto, aspettando
la nomina, ne aveva già l’aria. In gioventù peccava di ruvidezza,
e l’ingratitudine degli elettori e qualche fiasco elettorale,
sopravvenuto a renderla più solenne, non avevano contribuito a farlo
più maneggevole. Ma da qualche anno, e per il solo fatto che i giornali
lo avevano preconizzato senatore in quelle loro liste fantastiche da
cui suol essere preceduta una infornata ministeriale, il commendatore
Gerardo era diventato uno zucchero, un marzapane, sorrideva a tutti,
dava volentieri del tu e versava anche più volentieri nel seno dei
conoscenti la piena delle sue idee sulla politica estera. Come vedete,
faceva il suo mestiere di candidato; cosa che non disdisse neppure a
Cesare, che era Cesare e aveva domate le Gallie.
— Gerardo, — gli disse il contino Anselmi, stendendogli la mano, — son
qui a fare una guerra atroce alla tua signora.
— Ah sì? — fece il commendatore sorridendo benevolmente. — Speriamo
almeno che avrà saputo difendersi.
— Non ne dubitare. È una cittadella. Ed io, poichè tanto le son giunti
i soccorsi, levo prudentemente l’assedio. —
Con quest’ultima arguzia il contino Anselmi prese commiato.
— Meriteresti che ti si facesse prigioniero e che ti si trattenesse a
pranzo; — replicava intanto il commendatore.
— Grazie, grazie di cuore; ho un impegno; — disse l’Anselmi.
E stretta gentilmente la mano alla signora Elena, e dato un crollo
con britannica vigoria alla destra del suo amico Gerardo, il contino
Anselmi si avviò verso l’uscio.
— Diamine! Diamine! — borbottava egli tra sè, nell’atto di scendere le
scale. — Una lo vuole e l’altra lo vorrebbe. Il De Rossi è nato sotto
buona luna. Con quell’aria da scimunito! Che cosa ci trovino le donne
in questi tipi, io non lo so. Ma già, — conchiuse filosoficamente,
mettendo il piede in istrada, — per piacere a loro, un uomo non ha da
essere solamente scimunito; deve anche parerlo. —
V.
Aldo De Rossi uno scimunito? Sissignori, così lo aveva giudicato
l’Anselmi, e tale doveva essere per molti, se non a dirittura per
tutti.
È difficile, molto difficile, che una donna sia bella agli occhi
di un’altra; ma è anche più difficile che un uomo vi ammetta senza
contrasto e senza restrizioni la superiorità d’un altr’uomo. In genere
non si bada a queste demolizioni scambievoli dei signori uomini, poichè
in società si bada molto alle donne; ma la cosa è proprio così, come
ho l’onore di raccontarvi. Il lievito dell’invidia s’impasta benissimo
con questa farina del diavolo che è la natura umana, e le anime
refrattarie son poche. Così avviene che un uomo non sia gabellato per
sapiente, che a patto di essere riconosciuto pedante e noioso, o che
non sia annoverato tra i belli, che a patto d’essere confinato tra gli
sciocchi. Si ammette questo, ma si aggiunge sempre la nota in margine;
ad una qualità, riconosciuta a denti stretti, risponde sempre un grosso
difetto, che deve guastarla senz’altro.
Le donne, per solito, non danno retta a questi giudizi mascolini, o li
accettano soltanto per dissimular meglio una loro propensione, che non
mette conto manifestare alle turbe. E nello stesso modo gli uomini non
accettano che _pro forma_ il giudizio della signora Ipsilonne sulla
signora Zeta, facendo dentro di sè tutte le possibili e immaginabili
restrizioni mentali. Donde la conseguenza naturalissima che uomini e
donne s’ingannino a vicenda, col miglior garbo del mondo.
O non sarebbe meglio dire alla libera quel che si sente? No, lettori
dell’anima mia; la società civile ha mestieri di questi giuochi
innocenti. Non è neanche vero, come certuni pretendono, che tutti
capiscano lo scherzo. I dolci di sale non mancano mai, e c’è sempre il
gusto di tirare qualcheduno dalla sua. Poi, il vivere in società gli è
come il destreggiarsi in diplomazia. Non si ha da dire mai la verità.
Capiscano pure gli avversari qual ragione vi fa parlare in un modo o
nell’altro, e sempre contrariamente alle opere vostre; negando oggi,
potrete in ogni occasione mantellarvi della vostra innocenza.
Aldo De Rossi, battezzato dal contino Anselmi con l’epiteto di
scimunito, non rendeva pan per focaccia a lui, nè ad altri della sua
risma. Apparteneva al numero di quei pochi che non si risciacquano mai
la bocca dei torti e dei difetti di nessuno, e che, quando possono,
o se ne ricordano, rendono giustizia a tutti. Egli faceva anche di
più, e questo era un difetto suo; si esagerava facilmente i meriti di
tutti. Avrete già capito di qui che Aldo De Rossi pigliava ombra d’ogni
più piccola cosa e in ogni rivale assiduo vedeva un rivale fortunato.
Innamorato, come possono esserlo soltanto certi caratteri malinconici
e chiusi, che ardono e si consumano da sè come la lampada dei
sepolcri (vecchia lampada, ti rimetto io, dopo tanti anni d’ingiusta
dimenticanza, all’onore del mondo), Aldo si struggeva di vedere tanti
farfalloni intorno alla donna amata, e s’immaginava d’esser l’ultimo,
anzi peggio che l’ultimo, nelle grazie di lei.
Nè senza un po’ di ragione, in verità. La dama era tanto cortese, tanto
umana, tanto facile dispensiera di vezzi alla moltitudine de’ suoi
adoratori, che Aldo De Rossi giunse fino a pensare d’essersi innamorato
d’una creatura vana, come ce ne son tante, e in forma d’angioli, sotto
la cappa del cielo. Immaginate come ne soffrisse. Ma non c’era rimedio,
poichè il male era fatto, e Aldo De Rossi era uno di quei caratteri
intieri e diritti, che, una volta avviati, non tornano più indietro.
Intanto egli si trovava a mal partito, e avrebbe potuto dire con Dante:
«Io sono tra color che son sospesi.» Non dava un passo indietro, ma non
ne faceva uno avanti; e quella incertezza dolorosa gli toglieva, non
solo la serenità dello spirito, ma anche l’uso della parola. Intendo
l’uso vero e proprio della parola, che è stata data all’uomo per
dissimulare il pensiero; chè, quanto a dire buon giorno, buona sera
e tutte l’altre frasi di prima necessità, Aldo De Rossi ci reggeva
ancora. A farvela breve, ci aveva l’amaro in corpo; qual meraviglia
se non poteva dar fuori il dolce? Ma il peggio era questo, che egli,
sempre così torbido e muto accanto alla donna amata, diventava libero,
sciolto, perfino arguto, con tutte le altre. Perchè non c’era solamente
la signora Vezzosi, che avesse i cavallereschi omaggi del signor Aldo
degnissimo. Le necessità del racconto mi obbligano a non presentarvene
che una; ma in verità ce n’erano parecchie. E tutte riconoscevano in
Aldo De Rossi un compito cavaliere; fors’anche qualcheduna, oltre la
signora Elena, avrebbe gradita una corte meno superficiale e generica.
Sempre così, non è vero? Si ha presso questa o quella delle proprie
conoscenze la giusta misura di quel che si vale; ma si va al
cospetto di una donna a cui si vorrebbe far atto di vassallaggio e di
sudditanza, a cui frattanto si scocca un inno in un’occhiata, un poema
in una stretta di mano; e si sente subito un gran freddo; l’inno si
gela a mezz’aria; il poema resta inedito _in pectore_; ci si ritrova
piccini piccini, ed anche passabilmente ridicoli. Là, proprio là,
dove si voleva essere qualche cosa, con l’onesto desiderio di offrire
qualche cosa in omaggio di leale servitù, non si è, non si vale, non si
conta più nulla.
Una sera, non reggendo più a quel trattamento, che si era forse anche
un po’ meritato col suo umore scontroso, prese di schianto il cappello.
Lo prese nel senso figurato e nel proprio, e se ne andò dalla casa
della donna amata; un’ora dopo che c’era entrato, e col proposito di
restarci per tutta la sera! Il poveretto aveva centomila diavoli in
corpo e andò girelloni per le vie della città, senza sapere che si
facesse, proprio alla guisa dei matti. In uno di quei lucidi intervalli
che occorrono nelle pazzie più acute, come le radure nei boschi più
folti, Aldo De Rossi riconobbe il palazzo in cui abitavano i Vezzosi;
vide lume dalle finestre del salotto della signora Elena, e si ricordò
che, dopo quella tale conversazione, in cui le aveva manifestato
l’animo suo, non era più stato a farle visita.
Era una scortesia, dopo la gentile profferta che la signora Elena gli
aveva fatta, di aiutarlo in ogni occasione. Aldo pensò allora che la
sua serata era andata a male. Abitudini di caffè, o d’altri ritrovi
mascolini, non ne aveva da un pezzo. Perciò, soccorrendo la ragione del
caso, che è spesso la ragione determinante delle azioni umane, infilò
il portone e salì dalla signora Elena.
Anche in casa Vezzosi c’era conversazione. Il commendatore Gerardo
faceva la sua partita con una mezza dozzina di uomini gravi. La
signora Elena, la commendatrice, stava a chiacchiera con gl’inevitabili
Alcibiadi, con qualche Socrate sperso e con due o tre dame della sua
corte. S’intende che erano tutte meno belle di lei; che altrimenti
Aspasia non le avrebbe sopportate.
Aldo De Rossi ha accolto come un Pericle.
— Ah, siete qui, voi? Che miracolo è questo?
— Donna Elena, non è un miracolo. Dite piuttosto il desiderio di
ossequiarvi.
— Lasciamo andare i complimenti. Vogliamo notizie del mondo. Siete
l’ultimo arrivato e dovete portarcene il fior fiore. Ecco qui il
cavaliere Sestavalle, il quale pretende che il matrimonio della
Morandini sia andato a monte.
— Il matrimonio si farà; — rispose Aldo De Rossi, con una sicumèra che
non era rincalzata dal menomo grado di certezza.
— Scusate, De Rossi, — entrò a dire Alcibiade primo, che era, come
sapete, il cavaliere Sestavalle, — io ripeto ciò che m’ha detto il
Cusani, che è lo zio materno della sposa.
— Non vuol dir nulla; — replicò Aldo De Rossi, con la medesima
asseveranza; — vedrete che il matrimonio si farà ugualmente. Lo sposo
è innamorato; la sposa è deliberata di entrare in convento, se non le
dànno il Revelli. O il Revelli, o la clausura. Che volete di più?
— Signor De Rossi, — rispose l’Alcibiade, inchinandosi, — voi siete
meglio informato di me.
— Non vorrei farvi dispiacere, — disse Aldo, inchinandosi a sua volta,
— ma questa è la verità. Un forte amore deve passare avanti a tutte
le quistioni di dare e avere, che inventano i signori babbi, per
tormentare i poveri cuori. In fin de’ conti, non sono mica i babbi che
hanno da sposarsi, ed io non capisco perchè s’impuntino a voler fissare
i termini di una felicità che essi non hanno a godere. Una sola cosa
è vera, una sola cosa trionfa di tutti i calcoli umani; l’amore. Il
quale, poi, — soggiunse Aldo De Rossi, mutando tono con una facilità
straordinaria, — ci conduce a fare tutte le più grandi sciocchezze del
mondo. Già, incominciamo a dire che spesso si crede di amare e non si
ama. Qualche volta avviene di cedere ad un movimento di stizza, e di
procacciarsi un inferno in questa vita, peggiore di quello che ci è
minacciato nell’altra. Auguro agli sposi di amarsi davvero e di non
dover finire che in purgatorio. —
Aldo De Rossi seguitò un bel tratto su questo tono, senza neanco sapere
che diavolo dicesse. Era maravigliato dentro di sè d’aver buttata là
con tanta sicurezza una bugìa di quella fatta, e voleva affogarla in
un mare di parole, come se ciò potesse farla dimenticare all’udienza. E
tirò avanti in quella forma, finchè lo lasciarono dire.
— Infine, — proseguiva, — che cos’è l’amore? Un inganno scambievole. Ci
si avvede poi che uno ci ha messo troppo del suo, e l’altro, o l’altra,
ci ha messo troppo poco. Ora, signore mie, il troppo, è come il troppo
poco; almeno, per ciò che risguarda gli effetti. Il troppo è un errore.
Dio vi salvi dagli uomini che amano troppo, perchè essi seguono un
falso indirizzo della loro fantasia, come chi sogna ad occhi aperti.
E quando finalmente essi vengono a pensarci su.... Perchè, io reputo
necessario avvertirlo, gli uomini lo hanno sempre, il momento in cui
tornano a ragionare; e quando essi vengono a pensarci su, si avvedono
di non essere nel vero. A certe altezze non si può stare; vi colgono le
vertigini e si casca giù. Ma perchè l’altezza non è qui che un sogno,
la cascata non è altro che un risveglio improvviso. Ed è un brutto
risveglio, signori miei, quando si riconosce d’aver voluto incarnare
il proprio sogno in una persona viva, la quale, poverina, non poteva
sopportare, con le sue spalle delicate e bianche, un peso così grave.
— Dio! Come cascate anche voi, signor De Rossi! — notò una delle
sue ascoltatrici. — Avevate cominciato con un poema e finite con una
satira.
— Signora mia, la farsa non viene, di solito, dopo la tragedia? Io
seguo l’uso. La vita è una varietà. E se permettete, poichè la parola
vi sembra amara, passerò alle note musicali, che non dicono nulla, o
soltanto ciò che si vuole. —
Il pianoforte era vicino, e, con quella volubilità nervosa che avete
già notata nel suo discorso, Aldo De Rossi andò a sedersi davanti
alla tastiera. Non era un Liszt, nè un Rubinstein, credo necessario di
avverticene; ma suonava abbastanza bene, per non lacerare a dirittura
gli orecchi e per rendersi utile alla società, attaccando per uso
altrui il _valtzer_ o la quadriglia che egli non voleva ballare.
Per quella volta, non essendo il caso di far ballare nessuno, Aldo De
Rossi attaccò un motivo del _Rigoletto_, e proprio quello che mette le
donne a raffronto con le piume.
La signora Elena capì (che cosa non capiscono le donne?) che spirava un
vento di scirocco, e che il De Rossi aveva perduta la tramontana. Ebbe
compassione di lui, e, appena le venne fatto di trovare un pretesto, si
mosse dal suo posto per andare verso il pianoforte.
— Orbene, — diss’ella, passando accanto al De Rossi, — voi non siete
contento, signor Aldo?
— Dite pure che sono triste; — rispose il De Rossi, continuando a
suonare.
— Vi va sempre male?
— Malissimo.
— Vi ho promesso di aiutarvi; — ripigliò la signora. Ditemi il
nome. —
Aldo guardò la signora Elena e stette zitto.
— Ho cercato di scoprir terreno, — proseguì ella, con grande sincerità,
— e non ci sono riescita. Non avete fiducia in me, signor Aldo?
— Ne ho molta; — rispose il giovine; — ma chiedere il soccorso di una
donna....
— Non si tratta di chiedere; — interruppe ella, — si tratta di
accettare.
— Orbene, anche l’accettare non va.
— Perchè? Una donna può saperne, in queste cose, più di voi. Chi sa poi
che non v’inganniate, disperandovi così!
— Non mi dispero, signora. So già quel che mi tocca.
— Ma infine, questo nome, non è possibile saperlo?
— Ve lo dirò.... più tardi. Perdonate!
— Sarà troppo tardi, allora; — replicò la signora Vezzosi.
Aldo De Rossi non rispose più nulla, e affogò un sospiro, che gli
esciva dal petto, in un diluvio di note.
Egli, come vi sarà facile intendere, si vergognava di dover mettere la
sua causa nelle mani di una donna. E di qual donna, poi! Per l’appunto
di quella che gli aveva lasciato capire tante cose, e a cui aveva
detto con brutale schiettezza: ne amo un’altra. Aggiungete che Aldo De
Rossi sentiva come un rimorso di quella sincerità, che non era neppur
necessaria, poichè egli avrebbe potuto benissimo cavarsi d’impiccio
con uno scherzo, fingendo, alla disperata, di essere canzonato dalla
signora Vezzosi. E come mai aveva potuto osar tanto, a rischio di
offendere il suo amor proprio? Ma già, egli era un ragazzo così fatto;
quando sentiva di amare una donna, non poteva simulare tenerezza
per un’altra, e gli mancava la prontezza di spirito per girare le
difficoltà di un dialogo condotto agli estremi del sì o del no.
La signora Elena non istette a domandargli più altro e si allontanò dal
pianoforte con aria abbastanza sostenuta. Aldo pensò di averla offesa,
e perdette il filo della suonata. Perciò, dopo aver annaspato per due
o tre minuti sulla tastiera, si tolse di là e andò a sedersi presso
le dame. Ci erano sulla tavola parecchi giornali illustrati; ne prese
uno e cominciò a meditare su d’una scena più o meno autentica della
spedizione inglese nell’Afganistan.
La conversazione si reggeva in quel mentre per merito degli Alcibiadi,
che in caso simile facevano uffizio di Telamoni. Lo sapete pure, si
chiamano Telamoni quelle atletiche figure di marmo che reggono le
travature e i cornicioni delle fabbriche. Se avessi detto Cariatidi,
mi sarei fatto capire anche meglio, perchè infatti, in società, certi
personaggi noiosi si chiamano per l’appunto Cariatidi. Ma le Cariatidi
son femmine, e i Telamoni son maschi. Diciamo dunque Telamoni, tanto
più che io sto per presentarvi il signor Silvestro Caramelli, Telamone
di primissima forza, entrato allora nel salotto della signora Vezzosi.
Il signor Silvestro Caramelli non va descritto con troppe parole. Vi
basti sapere che era vecchio, così vecchio da far venire la voglia
di domandargli notizie del patriarca Matusalemme. Per altro, sempre
diritto come un fuso, con tanto di solini insaldati, all’inglese;
sempre in cravatta bianca ed abito nero, e sempre a balli, a teatri, in
conversazioni e dovunque si radunasse la miglior compagnia. Aggiungo
che non istava mai fermo in un luogo. Aveva fatto il farfallone in
gioventù e seguitava a farlo in vecchiaia; ma non più per corteggiare
le dame, e sfrombolare a tutte il medesimo complimento, studiato di
prima sera; sibbene per raccontare in casa Ipsilonne il fatterello
udito poc’anzi in casa Zeta, e far girare in tal guisa prontamente,
per tutte le conversazioni della città, una notizia, che, senza di lui,
avrebbe stentato tre giorni, fors’anco una settimana, a penetrare nel
gran regno delle chiacchiere. Potete immaginare come una simile qualità
lo rendesse prezioso. Era il gazzettino dei salotti, e dove non lo si
vedeva ancora, lo si aspettava con una certa ansietà.
— Bravo Caramelli, avete fatto bene a venirmi a vedere; — disse la
signora Elena, stendendogli la mano. — Un po’ tardi, per altro!
— È vero, ma ho già fatto due visite, stasera; — rispose il Telamone. —
Sono stato dalla Vernetti, che ha la cognata a letto, con la sua solita
emicrania. Poi dal presidente Roberti che si dispone a partire per le
acque, insieme con la nipote. Oh, buona sera, De Rossi; — soggiunse,
vedendo Aldo seduto lì presso. — Quantunque non sarebbe guari
necessario, poichè ci siamo lasciati poc’anzi.
La signora Vezzosi diede una sbirciata al De Rossi, che si era turbato
e involontariamente alzava gli occhi verso di lei.
— Ma sapete, — diss’ella, volendo averne lo intiero, — che siete due
amici preziosi! Eravate ambedue dalla bellissima Camilla e siete venuti
a finire la serata da me! Ciò merita una lode particolare.
— Signora, — rispose il Caramelli, facendo la ruota; — per nessuna cosa
al mondo avrei voluto mancare al vostro tè, che è come dire alla dolce
abitudine di farvi la mia corte.
— Grazie! Il complimento è gentile come il vostro pensiero; — disse la
signora Vezzosi. — Vedete il vostro compagno di viaggio. Egli ha avuto
come voi il pensiero gentile, ma non mi ha detto il complimento. —
Aldo De Rossi, tirato in ballo a quel modo, alzò la testa e balbettò
alcune parole che non mette conto ripetere.
Di grazia, lettori miei, che cosa avrebbe potuto egli rispondere? Che
cosa avreste risposto voi, nel suo-caso? Forse a un dipresso così: —
Signora Elena, io non potevo schiccherarvi un complimento, sul fare di
quello del signor Caramelli, perchè dianzi, quando son capitato nel
vostro salotto, voi non mi avete dato occasione di raccontarvi dove
fossi stato e donde venissi. Al signor Caramelli è venuta la palla al
balzo, perciò egli ha potuto dirvi da che casa tornava, ed aggiungere
(che Dio glielo perdoni) d’avermi trovato in casa del presidente
Roberti. Voi gli avete detto allora.... quel che gli avete detto, ed
egli ha potuto rispondervi quello che v’ha risposto, non una parola di
più, non una di meno. —
Ma vedete un po’ che lungo discorso sarebbe riescito per una cosa da
nulla. Credete a me, lettori umanissimi; era meglio rispondere poche
parole senza sugo, come fece per l’appunto il signor Aldo De Rossi.
Le balbettò, come vi ho detto. Ma non balbettò, rispondendo per lui, il
signor Silvestro Caramelli che era in vena di cortesie.
— Il signor De Rossi ha fatto meglio; — osservò il Telamone. — Mi ha
preceduto da voi. Benedetta gioventù! Ma io, pur troppo, non ho le sue
gambe. A cinquantott’anni non si fanno più miracoli.
— Già cinquantotto? — esclamò, con la più candida delle ipocrisie, la
signora Vezzosi. — Per caso, signor Caramelli, non ve ne aggiungete
qualcheduno?
— A qual pro? — disse modestamente il Telamone. — Quando si hanno, si
hanno, e non c’è verso di mandarli via. —
Aldo De Rossi aveva ripreso lo studio del suo giornale illustrato. Ma,
nel voltare la pagina, gli avvenne di alzare la testa, e i suoi occhi
si scontrarono in quelli della signora Vezzosi, che avevano l’aria di
dirgli:
— Li vedete, signorino, i vostri gelosi segreti, come vanno a finire?
Custoditeli ancora, se vi riesce! —
Aldo, in quel punto, maledisse il signor Silvestro Caramelli fino alla
decimaquinta generazione. Siamo giusti, il signor Silvestro se l’era
meritata, perchè aveva commesso una indiscrezione. Statuisce il codice
della buona società (un libro, tra parentesi, di cui manca tuttavia
un’edizione completa) che non è bene raccontare in conversazione
d’avere veduto Tizio, o Cajo, nel tal luogo, perchè potrebbe darsi
il caso che Tizio e Cajo dicessero a lor volta di essere stati nel
tal altro, o di non essere stati in nessuno, e sarebbero colti in
flagranti di contraddizione. E poi in questa società, tutta segreti
d’Arlecchino, non si sa mai dove uno mette i piedi e le mani. Qua si
pesta, senza volerlo, una coda; là si ferisce, senza saperlo, un povero
cuore geloso. Eppure, a farlo apposta, queste indiscrezioni occorrono
frequenti, anche quando non c’entri l’animo deliberato di commetterle.
Si ha sempre bisogno di un soggetto di chiacchiera. Le discussioni
di politica, di economia, di amministrazione, riescono uggiose alle
dame, ed io in verità non saprei condannarle. Non si ha sempre la dote
dei teatri sotto la mano, nè un ballo, nè un’opera nuova da levare
al cielo, o da cacciare all’inferno. I discorsi galanti dispiacciono
ai mariti; e poi, che serve? ora è tornata di moda una certa rigidità
puntigliosa, che rimanda questi discorsi a migliore occasione. Di che
cosa si ha dunque a parlare, Dio buono? — Ho visto il tale; ero col
tale; andando insieme abbiamo veduta la tale, che entrava nella via
tale, accompagnata dal tale. — E in tale maniera s’imbastisce un cencio
di conversazione, senza badare al pericolo di dare, con tale minutezza
di particolari, un colpo mortale a qualcuno.
Aldo De Rossi, vedendosi scoperto per quel capriccio del caso, era
rimasto un po’ sconcertato. Ma infine, non aveva rimorsi, perchè non
aveva ingannato nessuno.
Si chiacchierò, senza il suo aiuto, di cento cose diverse. Poi giunsero
i pezzi grossi della sala da giuoco, e la signora Elena si alzò dal
suo trono, per prendersi cura del tè; cura gelosa, che è riservata alle
padrone di casa. Versato dalle mani di una bella signora, il tè diventa
migliore. Almeno, così dicono tutti coloro che lo trovano buono. Io,
che non l’ho per tale, mi restringo ad ammettere che diventa più bello.
— E così, commendatore, — diceva intanto il signor Silvestro Caramelli
al padrone di casa, — voi andrete quest’anno a Courmayeur?
— Ma, veramente la tentazione c’è; — rispose il signor Gerardo. — Per
altro, voi sapete che un marito per bene non deve aver volontà.
— Sentite com’è galante, Donna Elena? — disse allora il Telamone,
volgendosi alla signora Vezzosi.
— Gerardo lo è sempre, — rispose la signora continuando ad amministrare
il suo néttare; — ma questa volta egli ascolta anche i consigli della
prudenza.
— Ah sì! — disse il Vezzosi, ridendo. — Minerva che ha indossati i
panni del mio amico Anselmi! Figuratevi, egli ha detto a mia moglie
e ripetuto a me che la strada è disastrosa. Se avesse detto lunga,
pazienza; ma disastrosa, poi!
— Oh, per me, — replicò la signora, — lunga e disastrosa è tutt’uno.
Gerardo, io mi ribello al codice, e non vi seguo.
— Il codice ha proprio che la moglie debba seguire il marito? — notò il
Vezzosi, continuando a fare l’amabile, come soleva, quando era in mezzo
alla gente. — E non ha invece che il marito debba seguir la moglie?
Sentiamo dove vorreste andar voi, Elena.
— Io? — esclamò la signora. — Non ho preferenze. Ma siccome credo che
più di Courmayeur vi gioverebbe Recoaro, o Montecatini....
— Luoghi non tanto lontani! — soggiunse il signor Vezzosi, con un fil
d’ironia.
— Eh, anche questa ragione ha il suo pregio; — replicò la signora.
— Quest’anno ci vuol essere gran gente, a Montecatini; — entrò a dire
il Caramelli. — Ho letto ieri sul giornale che ci vanno due ministri;
nientemeno!
— Quali? — domandò il commendatore Vezzosi.
— Il ministro dei lavori pubblici e quello degli esteri. La politica
italiana si farà tutta al Tettuccio.
— E alla locanda della Pace; — aggiunse Alcibiade primo. — Come vedono,
questo è un buon segno.
— Certamente; — disse il signor Vezzosi, sorridendo all’arguzia del
Sestavalle. — E voi credete che a Montecatini non si morrà dal caldo?
— Esagerazioni di certi malinconici, che non sanno vivere in nessun
luogo; — rispose l’Alcibiade. — Io ci sono stato ancora l’anno scorso,
e fo conto di ritornarci.
— Vedete? — osservò la signora Elena, giubilando in cuor suo per tutti
quei soccorsi inattesi. — Ecco una buona occasione per farvi risolvere.
— Ditela pure preziosa; — rispose il commendatore, che pensava molto ai
ministri, e poco al Sestavalle.
— Inoltre, — soggiunse il Telamone Caramelli, — avrete il presidente
gran croce. Egli parte lunedì, con la sua bella nipote.
— Questa sarà una fortuna per me; — disse la signora Elena, volgendo
una rapida occhiata al De Rossi, il quale reputò conveniente di fare
l’astratto. — A voi, Gerardo, che amate tanto ragionar di politica,
lasceremo già uomini gravi, i presidenti, i ministri.
— Ah sì, due vecchi amici, i ministri; — rispose il commendatore
Gerardo; — li rivedrò volontieri.
— Siete dunque deciso? — domandò l’Alcibiade primo.
— Ma sì, caro Sestavalle; — replicò il signor Gerardo; — io son uomo di
pronte risoluzioni. E poi (voi non lo crederete, perchè non si usa...
o almeno non è costume di confessarlo in società) io amo mia moglie.
— Signor Anselmi, — diss’ella, — sapete che non siete punto galante,
quest’oggi? Un bell’omaggio lo rendete, alle donne! Quando son libere,
le fuggite.
— Abbiate pazienza, Donna Elena, son fatto così. Del resto, sono così
poco pericoloso, che il mio omaggio alle dame.... non libere, non deve
far paura a nessuno. Si sa, ogni donna ha bisogno di un uomo, come la
vite di un sostegno. Quando la vite perde il palo, il savio agricoltore
si affretta a dargliene un altro. Io.... — soggiunse con tragico
accento il contino Anselmi, — io non sarò quel palo. E son certo che
anche il signor De Rossi la pensa così.
— Vi ha mai manifestate le sue opinioni in proposito?
— No, ma un uomo giunto alla sua età, cioè a dire con tanti anni di
navigazione, e per conseguenza passato per tante burrasche, o sarebbe
naufragato prima, o non ci casca più. Questa è la mia opinione. —
La signora Vezzosi stava per rispondere, quando si udì un rumore di
passi nell’anticamera.
— Ecco Gerardo; — diss’ella. — Son già le sei!
— Signora, ecco un’osservazione e un accento molto lusinghieri per me.
— Ma sì, ma sì! — rispose la signora Vezzosi, sorridendo amabilmente. —
Mi avete fatto volare il tempo, con le vostre follie. —
La bussola si aperse ed entrò nel salotto il commendatore Gerardo
Vezzosi. Non meritava il suo cognome, in verità, ma non poteva neanche
dirsi un uomo antipatico. Portava gli occhiali d’oro e la barba corta
intorno al mento, per somigliare al conte di Cavour, buon’anima sua;
ma non ne veniva a capo. Era ancora troppo smilzo, per essere tolto in
iscambio. Era stato deputato, tant’anni addietro, e si parlava sempre
di lui come di un senatore possibile. Egli, del resto, aspettando
la nomina, ne aveva già l’aria. In gioventù peccava di ruvidezza,
e l’ingratitudine degli elettori e qualche fiasco elettorale,
sopravvenuto a renderla più solenne, non avevano contribuito a farlo
più maneggevole. Ma da qualche anno, e per il solo fatto che i giornali
lo avevano preconizzato senatore in quelle loro liste fantastiche da
cui suol essere preceduta una infornata ministeriale, il commendatore
Gerardo era diventato uno zucchero, un marzapane, sorrideva a tutti,
dava volentieri del tu e versava anche più volentieri nel seno dei
conoscenti la piena delle sue idee sulla politica estera. Come vedete,
faceva il suo mestiere di candidato; cosa che non disdisse neppure a
Cesare, che era Cesare e aveva domate le Gallie.
— Gerardo, — gli disse il contino Anselmi, stendendogli la mano, — son
qui a fare una guerra atroce alla tua signora.
— Ah sì? — fece il commendatore sorridendo benevolmente. — Speriamo
almeno che avrà saputo difendersi.
— Non ne dubitare. È una cittadella. Ed io, poichè tanto le son giunti
i soccorsi, levo prudentemente l’assedio. —
Con quest’ultima arguzia il contino Anselmi prese commiato.
— Meriteresti che ti si facesse prigioniero e che ti si trattenesse a
pranzo; — replicava intanto il commendatore.
— Grazie, grazie di cuore; ho un impegno; — disse l’Anselmi.
E stretta gentilmente la mano alla signora Elena, e dato un crollo
con britannica vigoria alla destra del suo amico Gerardo, il contino
Anselmi si avviò verso l’uscio.
— Diamine! Diamine! — borbottava egli tra sè, nell’atto di scendere le
scale. — Una lo vuole e l’altra lo vorrebbe. Il De Rossi è nato sotto
buona luna. Con quell’aria da scimunito! Che cosa ci trovino le donne
in questi tipi, io non lo so. Ma già, — conchiuse filosoficamente,
mettendo il piede in istrada, — per piacere a loro, un uomo non ha da
essere solamente scimunito; deve anche parerlo. —
V.
Aldo De Rossi uno scimunito? Sissignori, così lo aveva giudicato
l’Anselmi, e tale doveva essere per molti, se non a dirittura per
tutti.
È difficile, molto difficile, che una donna sia bella agli occhi
di un’altra; ma è anche più difficile che un uomo vi ammetta senza
contrasto e senza restrizioni la superiorità d’un altr’uomo. In genere
non si bada a queste demolizioni scambievoli dei signori uomini, poichè
in società si bada molto alle donne; ma la cosa è proprio così, come
ho l’onore di raccontarvi. Il lievito dell’invidia s’impasta benissimo
con questa farina del diavolo che è la natura umana, e le anime
refrattarie son poche. Così avviene che un uomo non sia gabellato per
sapiente, che a patto di essere riconosciuto pedante e noioso, o che
non sia annoverato tra i belli, che a patto d’essere confinato tra gli
sciocchi. Si ammette questo, ma si aggiunge sempre la nota in margine;
ad una qualità, riconosciuta a denti stretti, risponde sempre un grosso
difetto, che deve guastarla senz’altro.
Le donne, per solito, non danno retta a questi giudizi mascolini, o li
accettano soltanto per dissimular meglio una loro propensione, che non
mette conto manifestare alle turbe. E nello stesso modo gli uomini non
accettano che _pro forma_ il giudizio della signora Ipsilonne sulla
signora Zeta, facendo dentro di sè tutte le possibili e immaginabili
restrizioni mentali. Donde la conseguenza naturalissima che uomini e
donne s’ingannino a vicenda, col miglior garbo del mondo.
O non sarebbe meglio dire alla libera quel che si sente? No, lettori
dell’anima mia; la società civile ha mestieri di questi giuochi
innocenti. Non è neanche vero, come certuni pretendono, che tutti
capiscano lo scherzo. I dolci di sale non mancano mai, e c’è sempre il
gusto di tirare qualcheduno dalla sua. Poi, il vivere in società gli è
come il destreggiarsi in diplomazia. Non si ha da dire mai la verità.
Capiscano pure gli avversari qual ragione vi fa parlare in un modo o
nell’altro, e sempre contrariamente alle opere vostre; negando oggi,
potrete in ogni occasione mantellarvi della vostra innocenza.
Aldo De Rossi, battezzato dal contino Anselmi con l’epiteto di
scimunito, non rendeva pan per focaccia a lui, nè ad altri della sua
risma. Apparteneva al numero di quei pochi che non si risciacquano mai
la bocca dei torti e dei difetti di nessuno, e che, quando possono,
o se ne ricordano, rendono giustizia a tutti. Egli faceva anche di
più, e questo era un difetto suo; si esagerava facilmente i meriti di
tutti. Avrete già capito di qui che Aldo De Rossi pigliava ombra d’ogni
più piccola cosa e in ogni rivale assiduo vedeva un rivale fortunato.
Innamorato, come possono esserlo soltanto certi caratteri malinconici
e chiusi, che ardono e si consumano da sè come la lampada dei
sepolcri (vecchia lampada, ti rimetto io, dopo tanti anni d’ingiusta
dimenticanza, all’onore del mondo), Aldo si struggeva di vedere tanti
farfalloni intorno alla donna amata, e s’immaginava d’esser l’ultimo,
anzi peggio che l’ultimo, nelle grazie di lei.
Nè senza un po’ di ragione, in verità. La dama era tanto cortese, tanto
umana, tanto facile dispensiera di vezzi alla moltitudine de’ suoi
adoratori, che Aldo De Rossi giunse fino a pensare d’essersi innamorato
d’una creatura vana, come ce ne son tante, e in forma d’angioli, sotto
la cappa del cielo. Immaginate come ne soffrisse. Ma non c’era rimedio,
poichè il male era fatto, e Aldo De Rossi era uno di quei caratteri
intieri e diritti, che, una volta avviati, non tornano più indietro.
Intanto egli si trovava a mal partito, e avrebbe potuto dire con Dante:
«Io sono tra color che son sospesi.» Non dava un passo indietro, ma non
ne faceva uno avanti; e quella incertezza dolorosa gli toglieva, non
solo la serenità dello spirito, ma anche l’uso della parola. Intendo
l’uso vero e proprio della parola, che è stata data all’uomo per
dissimulare il pensiero; chè, quanto a dire buon giorno, buona sera
e tutte l’altre frasi di prima necessità, Aldo De Rossi ci reggeva
ancora. A farvela breve, ci aveva l’amaro in corpo; qual meraviglia
se non poteva dar fuori il dolce? Ma il peggio era questo, che egli,
sempre così torbido e muto accanto alla donna amata, diventava libero,
sciolto, perfino arguto, con tutte le altre. Perchè non c’era solamente
la signora Vezzosi, che avesse i cavallereschi omaggi del signor Aldo
degnissimo. Le necessità del racconto mi obbligano a non presentarvene
che una; ma in verità ce n’erano parecchie. E tutte riconoscevano in
Aldo De Rossi un compito cavaliere; fors’anche qualcheduna, oltre la
signora Elena, avrebbe gradita una corte meno superficiale e generica.
Sempre così, non è vero? Si ha presso questa o quella delle proprie
conoscenze la giusta misura di quel che si vale; ma si va al
cospetto di una donna a cui si vorrebbe far atto di vassallaggio e di
sudditanza, a cui frattanto si scocca un inno in un’occhiata, un poema
in una stretta di mano; e si sente subito un gran freddo; l’inno si
gela a mezz’aria; il poema resta inedito _in pectore_; ci si ritrova
piccini piccini, ed anche passabilmente ridicoli. Là, proprio là,
dove si voleva essere qualche cosa, con l’onesto desiderio di offrire
qualche cosa in omaggio di leale servitù, non si è, non si vale, non si
conta più nulla.
Una sera, non reggendo più a quel trattamento, che si era forse anche
un po’ meritato col suo umore scontroso, prese di schianto il cappello.
Lo prese nel senso figurato e nel proprio, e se ne andò dalla casa
della donna amata; un’ora dopo che c’era entrato, e col proposito di
restarci per tutta la sera! Il poveretto aveva centomila diavoli in
corpo e andò girelloni per le vie della città, senza sapere che si
facesse, proprio alla guisa dei matti. In uno di quei lucidi intervalli
che occorrono nelle pazzie più acute, come le radure nei boschi più
folti, Aldo De Rossi riconobbe il palazzo in cui abitavano i Vezzosi;
vide lume dalle finestre del salotto della signora Elena, e si ricordò
che, dopo quella tale conversazione, in cui le aveva manifestato
l’animo suo, non era più stato a farle visita.
Era una scortesia, dopo la gentile profferta che la signora Elena gli
aveva fatta, di aiutarlo in ogni occasione. Aldo pensò allora che la
sua serata era andata a male. Abitudini di caffè, o d’altri ritrovi
mascolini, non ne aveva da un pezzo. Perciò, soccorrendo la ragione del
caso, che è spesso la ragione determinante delle azioni umane, infilò
il portone e salì dalla signora Elena.
Anche in casa Vezzosi c’era conversazione. Il commendatore Gerardo
faceva la sua partita con una mezza dozzina di uomini gravi. La
signora Elena, la commendatrice, stava a chiacchiera con gl’inevitabili
Alcibiadi, con qualche Socrate sperso e con due o tre dame della sua
corte. S’intende che erano tutte meno belle di lei; che altrimenti
Aspasia non le avrebbe sopportate.
Aldo De Rossi ha accolto come un Pericle.
— Ah, siete qui, voi? Che miracolo è questo?
— Donna Elena, non è un miracolo. Dite piuttosto il desiderio di
ossequiarvi.
— Lasciamo andare i complimenti. Vogliamo notizie del mondo. Siete
l’ultimo arrivato e dovete portarcene il fior fiore. Ecco qui il
cavaliere Sestavalle, il quale pretende che il matrimonio della
Morandini sia andato a monte.
— Il matrimonio si farà; — rispose Aldo De Rossi, con una sicumèra che
non era rincalzata dal menomo grado di certezza.
— Scusate, De Rossi, — entrò a dire Alcibiade primo, che era, come
sapete, il cavaliere Sestavalle, — io ripeto ciò che m’ha detto il
Cusani, che è lo zio materno della sposa.
— Non vuol dir nulla; — replicò Aldo De Rossi, con la medesima
asseveranza; — vedrete che il matrimonio si farà ugualmente. Lo sposo
è innamorato; la sposa è deliberata di entrare in convento, se non le
dànno il Revelli. O il Revelli, o la clausura. Che volete di più?
— Signor De Rossi, — rispose l’Alcibiade, inchinandosi, — voi siete
meglio informato di me.
— Non vorrei farvi dispiacere, — disse Aldo, inchinandosi a sua volta,
— ma questa è la verità. Un forte amore deve passare avanti a tutte
le quistioni di dare e avere, che inventano i signori babbi, per
tormentare i poveri cuori. In fin de’ conti, non sono mica i babbi che
hanno da sposarsi, ed io non capisco perchè s’impuntino a voler fissare
i termini di una felicità che essi non hanno a godere. Una sola cosa
è vera, una sola cosa trionfa di tutti i calcoli umani; l’amore. Il
quale, poi, — soggiunse Aldo De Rossi, mutando tono con una facilità
straordinaria, — ci conduce a fare tutte le più grandi sciocchezze del
mondo. Già, incominciamo a dire che spesso si crede di amare e non si
ama. Qualche volta avviene di cedere ad un movimento di stizza, e di
procacciarsi un inferno in questa vita, peggiore di quello che ci è
minacciato nell’altra. Auguro agli sposi di amarsi davvero e di non
dover finire che in purgatorio. —
Aldo De Rossi seguitò un bel tratto su questo tono, senza neanco sapere
che diavolo dicesse. Era maravigliato dentro di sè d’aver buttata là
con tanta sicurezza una bugìa di quella fatta, e voleva affogarla in
un mare di parole, come se ciò potesse farla dimenticare all’udienza. E
tirò avanti in quella forma, finchè lo lasciarono dire.
— Infine, — proseguiva, — che cos’è l’amore? Un inganno scambievole. Ci
si avvede poi che uno ci ha messo troppo del suo, e l’altro, o l’altra,
ci ha messo troppo poco. Ora, signore mie, il troppo, è come il troppo
poco; almeno, per ciò che risguarda gli effetti. Il troppo è un errore.
Dio vi salvi dagli uomini che amano troppo, perchè essi seguono un
falso indirizzo della loro fantasia, come chi sogna ad occhi aperti.
E quando finalmente essi vengono a pensarci su.... Perchè, io reputo
necessario avvertirlo, gli uomini lo hanno sempre, il momento in cui
tornano a ragionare; e quando essi vengono a pensarci su, si avvedono
di non essere nel vero. A certe altezze non si può stare; vi colgono le
vertigini e si casca giù. Ma perchè l’altezza non è qui che un sogno,
la cascata non è altro che un risveglio improvviso. Ed è un brutto
risveglio, signori miei, quando si riconosce d’aver voluto incarnare
il proprio sogno in una persona viva, la quale, poverina, non poteva
sopportare, con le sue spalle delicate e bianche, un peso così grave.
— Dio! Come cascate anche voi, signor De Rossi! — notò una delle
sue ascoltatrici. — Avevate cominciato con un poema e finite con una
satira.
— Signora mia, la farsa non viene, di solito, dopo la tragedia? Io
seguo l’uso. La vita è una varietà. E se permettete, poichè la parola
vi sembra amara, passerò alle note musicali, che non dicono nulla, o
soltanto ciò che si vuole. —
Il pianoforte era vicino, e, con quella volubilità nervosa che avete
già notata nel suo discorso, Aldo De Rossi andò a sedersi davanti
alla tastiera. Non era un Liszt, nè un Rubinstein, credo necessario di
avverticene; ma suonava abbastanza bene, per non lacerare a dirittura
gli orecchi e per rendersi utile alla società, attaccando per uso
altrui il _valtzer_ o la quadriglia che egli non voleva ballare.
Per quella volta, non essendo il caso di far ballare nessuno, Aldo De
Rossi attaccò un motivo del _Rigoletto_, e proprio quello che mette le
donne a raffronto con le piume.
La signora Elena capì (che cosa non capiscono le donne?) che spirava un
vento di scirocco, e che il De Rossi aveva perduta la tramontana. Ebbe
compassione di lui, e, appena le venne fatto di trovare un pretesto, si
mosse dal suo posto per andare verso il pianoforte.
— Orbene, — diss’ella, passando accanto al De Rossi, — voi non siete
contento, signor Aldo?
— Dite pure che sono triste; — rispose il De Rossi, continuando a
suonare.
— Vi va sempre male?
— Malissimo.
— Vi ho promesso di aiutarvi; — ripigliò la signora. Ditemi il
nome. —
Aldo guardò la signora Elena e stette zitto.
— Ho cercato di scoprir terreno, — proseguì ella, con grande sincerità,
— e non ci sono riescita. Non avete fiducia in me, signor Aldo?
— Ne ho molta; — rispose il giovine; — ma chiedere il soccorso di una
donna....
— Non si tratta di chiedere; — interruppe ella, — si tratta di
accettare.
— Orbene, anche l’accettare non va.
— Perchè? Una donna può saperne, in queste cose, più di voi. Chi sa poi
che non v’inganniate, disperandovi così!
— Non mi dispero, signora. So già quel che mi tocca.
— Ma infine, questo nome, non è possibile saperlo?
— Ve lo dirò.... più tardi. Perdonate!
— Sarà troppo tardi, allora; — replicò la signora Vezzosi.
Aldo De Rossi non rispose più nulla, e affogò un sospiro, che gli
esciva dal petto, in un diluvio di note.
Egli, come vi sarà facile intendere, si vergognava di dover mettere la
sua causa nelle mani di una donna. E di qual donna, poi! Per l’appunto
di quella che gli aveva lasciato capire tante cose, e a cui aveva
detto con brutale schiettezza: ne amo un’altra. Aggiungete che Aldo De
Rossi sentiva come un rimorso di quella sincerità, che non era neppur
necessaria, poichè egli avrebbe potuto benissimo cavarsi d’impiccio
con uno scherzo, fingendo, alla disperata, di essere canzonato dalla
signora Vezzosi. E come mai aveva potuto osar tanto, a rischio di
offendere il suo amor proprio? Ma già, egli era un ragazzo così fatto;
quando sentiva di amare una donna, non poteva simulare tenerezza
per un’altra, e gli mancava la prontezza di spirito per girare le
difficoltà di un dialogo condotto agli estremi del sì o del no.
La signora Elena non istette a domandargli più altro e si allontanò dal
pianoforte con aria abbastanza sostenuta. Aldo pensò di averla offesa,
e perdette il filo della suonata. Perciò, dopo aver annaspato per due
o tre minuti sulla tastiera, si tolse di là e andò a sedersi presso
le dame. Ci erano sulla tavola parecchi giornali illustrati; ne prese
uno e cominciò a meditare su d’una scena più o meno autentica della
spedizione inglese nell’Afganistan.
La conversazione si reggeva in quel mentre per merito degli Alcibiadi,
che in caso simile facevano uffizio di Telamoni. Lo sapete pure, si
chiamano Telamoni quelle atletiche figure di marmo che reggono le
travature e i cornicioni delle fabbriche. Se avessi detto Cariatidi,
mi sarei fatto capire anche meglio, perchè infatti, in società, certi
personaggi noiosi si chiamano per l’appunto Cariatidi. Ma le Cariatidi
son femmine, e i Telamoni son maschi. Diciamo dunque Telamoni, tanto
più che io sto per presentarvi il signor Silvestro Caramelli, Telamone
di primissima forza, entrato allora nel salotto della signora Vezzosi.
Il signor Silvestro Caramelli non va descritto con troppe parole. Vi
basti sapere che era vecchio, così vecchio da far venire la voglia
di domandargli notizie del patriarca Matusalemme. Per altro, sempre
diritto come un fuso, con tanto di solini insaldati, all’inglese;
sempre in cravatta bianca ed abito nero, e sempre a balli, a teatri, in
conversazioni e dovunque si radunasse la miglior compagnia. Aggiungo
che non istava mai fermo in un luogo. Aveva fatto il farfallone in
gioventù e seguitava a farlo in vecchiaia; ma non più per corteggiare
le dame, e sfrombolare a tutte il medesimo complimento, studiato di
prima sera; sibbene per raccontare in casa Ipsilonne il fatterello
udito poc’anzi in casa Zeta, e far girare in tal guisa prontamente,
per tutte le conversazioni della città, una notizia, che, senza di lui,
avrebbe stentato tre giorni, fors’anco una settimana, a penetrare nel
gran regno delle chiacchiere. Potete immaginare come una simile qualità
lo rendesse prezioso. Era il gazzettino dei salotti, e dove non lo si
vedeva ancora, lo si aspettava con una certa ansietà.
— Bravo Caramelli, avete fatto bene a venirmi a vedere; — disse la
signora Elena, stendendogli la mano. — Un po’ tardi, per altro!
— È vero, ma ho già fatto due visite, stasera; — rispose il Telamone. —
Sono stato dalla Vernetti, che ha la cognata a letto, con la sua solita
emicrania. Poi dal presidente Roberti che si dispone a partire per le
acque, insieme con la nipote. Oh, buona sera, De Rossi; — soggiunse,
vedendo Aldo seduto lì presso. — Quantunque non sarebbe guari
necessario, poichè ci siamo lasciati poc’anzi.
La signora Vezzosi diede una sbirciata al De Rossi, che si era turbato
e involontariamente alzava gli occhi verso di lei.
— Ma sapete, — diss’ella, volendo averne lo intiero, — che siete due
amici preziosi! Eravate ambedue dalla bellissima Camilla e siete venuti
a finire la serata da me! Ciò merita una lode particolare.
— Signora, — rispose il Caramelli, facendo la ruota; — per nessuna cosa
al mondo avrei voluto mancare al vostro tè, che è come dire alla dolce
abitudine di farvi la mia corte.
— Grazie! Il complimento è gentile come il vostro pensiero; — disse la
signora Vezzosi. — Vedete il vostro compagno di viaggio. Egli ha avuto
come voi il pensiero gentile, ma non mi ha detto il complimento. —
Aldo De Rossi, tirato in ballo a quel modo, alzò la testa e balbettò
alcune parole che non mette conto ripetere.
Di grazia, lettori miei, che cosa avrebbe potuto egli rispondere? Che
cosa avreste risposto voi, nel suo-caso? Forse a un dipresso così: —
Signora Elena, io non potevo schiccherarvi un complimento, sul fare di
quello del signor Caramelli, perchè dianzi, quando son capitato nel
vostro salotto, voi non mi avete dato occasione di raccontarvi dove
fossi stato e donde venissi. Al signor Caramelli è venuta la palla al
balzo, perciò egli ha potuto dirvi da che casa tornava, ed aggiungere
(che Dio glielo perdoni) d’avermi trovato in casa del presidente
Roberti. Voi gli avete detto allora.... quel che gli avete detto, ed
egli ha potuto rispondervi quello che v’ha risposto, non una parola di
più, non una di meno. —
Ma vedete un po’ che lungo discorso sarebbe riescito per una cosa da
nulla. Credete a me, lettori umanissimi; era meglio rispondere poche
parole senza sugo, come fece per l’appunto il signor Aldo De Rossi.
Le balbettò, come vi ho detto. Ma non balbettò, rispondendo per lui, il
signor Silvestro Caramelli che era in vena di cortesie.
— Il signor De Rossi ha fatto meglio; — osservò il Telamone. — Mi ha
preceduto da voi. Benedetta gioventù! Ma io, pur troppo, non ho le sue
gambe. A cinquantott’anni non si fanno più miracoli.
— Già cinquantotto? — esclamò, con la più candida delle ipocrisie, la
signora Vezzosi. — Per caso, signor Caramelli, non ve ne aggiungete
qualcheduno?
— A qual pro? — disse modestamente il Telamone. — Quando si hanno, si
hanno, e non c’è verso di mandarli via. —
Aldo De Rossi aveva ripreso lo studio del suo giornale illustrato. Ma,
nel voltare la pagina, gli avvenne di alzare la testa, e i suoi occhi
si scontrarono in quelli della signora Vezzosi, che avevano l’aria di
dirgli:
— Li vedete, signorino, i vostri gelosi segreti, come vanno a finire?
Custoditeli ancora, se vi riesce! —
Aldo, in quel punto, maledisse il signor Silvestro Caramelli fino alla
decimaquinta generazione. Siamo giusti, il signor Silvestro se l’era
meritata, perchè aveva commesso una indiscrezione. Statuisce il codice
della buona società (un libro, tra parentesi, di cui manca tuttavia
un’edizione completa) che non è bene raccontare in conversazione
d’avere veduto Tizio, o Cajo, nel tal luogo, perchè potrebbe darsi
il caso che Tizio e Cajo dicessero a lor volta di essere stati nel
tal altro, o di non essere stati in nessuno, e sarebbero colti in
flagranti di contraddizione. E poi in questa società, tutta segreti
d’Arlecchino, non si sa mai dove uno mette i piedi e le mani. Qua si
pesta, senza volerlo, una coda; là si ferisce, senza saperlo, un povero
cuore geloso. Eppure, a farlo apposta, queste indiscrezioni occorrono
frequenti, anche quando non c’entri l’animo deliberato di commetterle.
Si ha sempre bisogno di un soggetto di chiacchiera. Le discussioni
di politica, di economia, di amministrazione, riescono uggiose alle
dame, ed io in verità non saprei condannarle. Non si ha sempre la dote
dei teatri sotto la mano, nè un ballo, nè un’opera nuova da levare
al cielo, o da cacciare all’inferno. I discorsi galanti dispiacciono
ai mariti; e poi, che serve? ora è tornata di moda una certa rigidità
puntigliosa, che rimanda questi discorsi a migliore occasione. Di che
cosa si ha dunque a parlare, Dio buono? — Ho visto il tale; ero col
tale; andando insieme abbiamo veduta la tale, che entrava nella via
tale, accompagnata dal tale. — E in tale maniera s’imbastisce un cencio
di conversazione, senza badare al pericolo di dare, con tale minutezza
di particolari, un colpo mortale a qualcuno.
Aldo De Rossi, vedendosi scoperto per quel capriccio del caso, era
rimasto un po’ sconcertato. Ma infine, non aveva rimorsi, perchè non
aveva ingannato nessuno.
Si chiacchierò, senza il suo aiuto, di cento cose diverse. Poi giunsero
i pezzi grossi della sala da giuoco, e la signora Elena si alzò dal
suo trono, per prendersi cura del tè; cura gelosa, che è riservata alle
padrone di casa. Versato dalle mani di una bella signora, il tè diventa
migliore. Almeno, così dicono tutti coloro che lo trovano buono. Io,
che non l’ho per tale, mi restringo ad ammettere che diventa più bello.
— E così, commendatore, — diceva intanto il signor Silvestro Caramelli
al padrone di casa, — voi andrete quest’anno a Courmayeur?
— Ma, veramente la tentazione c’è; — rispose il signor Gerardo. — Per
altro, voi sapete che un marito per bene non deve aver volontà.
— Sentite com’è galante, Donna Elena? — disse allora il Telamone,
volgendosi alla signora Vezzosi.
— Gerardo lo è sempre, — rispose la signora continuando ad amministrare
il suo néttare; — ma questa volta egli ascolta anche i consigli della
prudenza.
— Ah sì! — disse il Vezzosi, ridendo. — Minerva che ha indossati i
panni del mio amico Anselmi! Figuratevi, egli ha detto a mia moglie
e ripetuto a me che la strada è disastrosa. Se avesse detto lunga,
pazienza; ma disastrosa, poi!
— Oh, per me, — replicò la signora, — lunga e disastrosa è tutt’uno.
Gerardo, io mi ribello al codice, e non vi seguo.
— Il codice ha proprio che la moglie debba seguire il marito? — notò il
Vezzosi, continuando a fare l’amabile, come soleva, quando era in mezzo
alla gente. — E non ha invece che il marito debba seguir la moglie?
Sentiamo dove vorreste andar voi, Elena.
— Io? — esclamò la signora. — Non ho preferenze. Ma siccome credo che
più di Courmayeur vi gioverebbe Recoaro, o Montecatini....
— Luoghi non tanto lontani! — soggiunse il signor Vezzosi, con un fil
d’ironia.
— Eh, anche questa ragione ha il suo pregio; — replicò la signora.
— Quest’anno ci vuol essere gran gente, a Montecatini; — entrò a dire
il Caramelli. — Ho letto ieri sul giornale che ci vanno due ministri;
nientemeno!
— Quali? — domandò il commendatore Vezzosi.
— Il ministro dei lavori pubblici e quello degli esteri. La politica
italiana si farà tutta al Tettuccio.
— E alla locanda della Pace; — aggiunse Alcibiade primo. — Come vedono,
questo è un buon segno.
— Certamente; — disse il signor Vezzosi, sorridendo all’arguzia del
Sestavalle. — E voi credete che a Montecatini non si morrà dal caldo?
— Esagerazioni di certi malinconici, che non sanno vivere in nessun
luogo; — rispose l’Alcibiade. — Io ci sono stato ancora l’anno scorso,
e fo conto di ritornarci.
— Vedete? — osservò la signora Elena, giubilando in cuor suo per tutti
quei soccorsi inattesi. — Ecco una buona occasione per farvi risolvere.
— Ditela pure preziosa; — rispose il commendatore, che pensava molto ai
ministri, e poco al Sestavalle.
— Inoltre, — soggiunse il Telamone Caramelli, — avrete il presidente
gran croce. Egli parte lunedì, con la sua bella nipote.
— Questa sarà una fortuna per me; — disse la signora Elena, volgendo
una rapida occhiata al De Rossi, il quale reputò conveniente di fare
l’astratto. — A voi, Gerardo, che amate tanto ragionar di politica,
lasceremo già uomini gravi, i presidenti, i ministri.
— Ah sì, due vecchi amici, i ministri; — rispose il commendatore
Gerardo; — li rivedrò volontieri.
— Siete dunque deciso? — domandò l’Alcibiade primo.
— Ma sì, caro Sestavalle; — replicò il signor Gerardo; — io son uomo di
pronte risoluzioni. E poi (voi non lo crederete, perchè non si usa...
o almeno non è costume di confessarlo in società) io amo mia moglie.
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