Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, vol. II - 01

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ARTURO GRAF

MITI, LEGGENDE E SUPERSTIZIONI
DEL
MEDIO EVO

VOLUME II.

LA LEGGENDA DI UN PONTEFICE
DEMONOLOGIA DI DANTE — UN MONTE DI PILATO IN ITALIA
FU SUPERSTIZIOSO IL BOCCACCIO?
SAN GIULIANO NEL «DECAMERONE» E ALTROVE
IL RIFIUTO DI CELESTINO V — LA LEGGENDA DI UN FILOSOFO
ARTÙ NELL'ETNA — UN MITO GEOGRAFICO

TORINO
ERMANNO LOESCHER
FIRENZE ROMA
Via Tornabuoni, 20 Via del Corso, 307
1893


PROPRIETÀ LETTERARIA
TORINO — Stabilimento Tipografico Vincenzo Bona.


LA LEGGENDA DI UN PONTEFICE
(SILVESTRO II)

I.
Sembra a molti che Dante, col parlare dei mali pontefici come in più
luoghi notissimi della _Commedia_ ne parla, con lo sprofondarne un
buon numero nell'Inferno, col porre in bocca allo stesso principe degli
apostoli quella terribile sfuriata del 27º canto del _Paradiso_, abbia
dato una singolar prova di arditezza e libertà di giudizio, abbia fatto
cosa mirabile e nuova, in pien contrasto con le usanze, le opinioni, lo
spirito dell'età che fu sua.
È questo un errore.
Il medio evo, se ebbe (come Dante, del resto) viva e salda la fede, e
sincera
La riverenza delle somme chiavi,
del papato quale istituzione divina, intesa a procacciare il trionfo
della verità e la salute delle anime, ebbe pure, stimolato a ciò dalla
stessa indole del suo sentimento religioso, pronta la mente e spedita
la lingua a condannare e vituperare i troppo umani traviamenti di
quella istituzione, e usò sempre parlando dei reggitori spirituali
suoi, così maggiori come minori, non velati giudizii e libere ed acute
parole. Di ciò fanno fede certe _Bibbie_ satiriche, certi trattati del
_pianto_ e della _corruzion_ della Chiesa, molte poesie di goliardi,
molte narrazioni di storici e di novellatori, e alcune leggende
meravigliose, le quali, per avere avuto divulgazione larghissima, ed
essere state credute vere universalmente, hanno anche più significato e
fanno vie più valida testimonianza. Tale la leggenda che dice Giovanni
XII accoppato dal diavolo; tale l'altra che manda all'Inferno e libera
poi Benedetto IX; tale quella che narra della magia e della mala fine
di Silvestro II; anzi questa, essendo per molta parte ingiusta, come
or ora si vedrà; non avendo, cioè, nella vita di quel pontefice ragion
sufficiente e giustificazione opportuna, riesce più significativa e più
notabile delle altre.
La cornice storica, se così posso esprimermi, dentro a cui essa
s'inquadra, è, in breve, la seguente.
Gerberto[1], che poi fu papa col nome di Silvestro II, nacque di
umile famiglia in Aurillac, o ivi presso, nell'Alvernia, non si sa
precisamente in quale anno, ma verso il mezzo del secolo X. Rimasto
orfano, fu accolto, fanciullo ancora, nel monastero di San Geroldo,
ove fece i primi suoi studii, e d'onde, in compagnia di Borel,
conte d'Urgel, passò in Ispagna a seguitarli, sotto la disciplina
del vescovo Attone. In Ispagna dimorò alcuni anni, poi, essendo già
versatissimo nella matematica, nell'astronomia, nella musica, se ne
venne, insieme col vescovo e il conte, in Roma. In Roma il pontefice,
ch'era allora Giovanni XIII, gli pose amore, e dopo alcun tempo lo
mandò all'imperatore Ottone II, che a sua volta lo mandò a studiar
logica con un arcidiacono di Reims. Nel 972 Gerberto insegna in
quella stessa città con grande onore, e la fama del suo mirabil sapere
cresce rapidamente; ma Ottone, credendo di fargli bene, lo toglie di
là per preporlo all'abazia di Bobbio. Quivi Gerberto si attira molte
inimicizie e cade in disgrazia così del papa, come dell'imperatore.
Fa ritorno a Reims, si getta in mezzo alle contese politiche, coopera
efficacemente alla deposizione di quell'arcivescovo Arnulfo, accusato
d'aver tradito Ugo Capeto suo signore, e ne usurpa il luogo; ma nol
tiene a lungo, e condannato da un concilio, si ritrae. Nel 999 lo
troviamo arcivescovo di Ravenna, e in quell'anno medesimo, il 2 di
aprile, è fatto papa. Governa la Chiesa quattr'anni, con fermezza e
rettitudine, e muore il 12 di maggio del 1003.
Questi, in succinto, i fatti storicamente accertati, da cui prende
argomento, e tra cui s'insinua e si dilata la leggenda che mi accingo
ad esporre. Essi hanno, senza dubbio, dello straordinario, ma nulla
di portentoso, nulla di arcano, e non eccedono in nessunissima guisa i
termini naturali delle cose umane e delle umane operazioni. La fortuna
di Gerberto, salito per gradi e lentamente dall'umile condizione di
monaco alla suprema dignità di papa, non dà nemmen luogo a uno di quei
problemi storici indeterminati e involuti, intorno a' quali il critico,
che vede ogni po' dileguarsi o confondersi le cause presunte dei fatti,
o diventarne perplesso il significato, si affatica inutilmente. Data
la condizione generale dei tempi in cui Gerberto ebbe a vivere, date
le qualità dell'ingegno e dell'animo di lui, dato il favore di cui,
a tacere d'altri, gli furono larghi gli Ottoni, quella fortuna appar
naturale e spiegabilissima.
Appar tale a noi; ma tale non doveva facilmente apparire agli uomini
che la videro, o a quelli che, per più secoli di poi, ne udirono il
racconto. E però nacque la leggenda, frutto della ignoranza, congiunta,
per una parte, con l'ammirazione, per l'altra, col malvolere, stimolata
senza posa e riscaldata dalla fantasia.
Dove e quando appajono le prime vestigia di essa, e quali sono le sue
prime sembianze? Ogni leggenda, simile in questo a una pianta, nasce
di certi germi, cresce, fiorisce, prolifera, e dopo un tempo più o
meno lungo, secondo l'indole dei popoli, le condizioni della civiltà,
le vicissitudini storiche, svigorisce e muore. Come quell'albero
meraviglioso dei tropici, che abbarbicando a mano a mano i suoi rami
alla terra, forma intere foreste, la leggenda, sin che dura nel suo
rigoglio e nella sua fecondità, copre di sè province e reami; ma
negli inizii suoi, e poi nella fine, si raccoglie in poco spazio, e
facilmente si occulta; e chi ne vuol dar contezza, non sempre riesce
a dire se ci sia o non ci sia, se sia già nata, se sia già morta.
E ciò perchè la leggenda è bensì un fatto psicologico e storico
alla produzione del quale concorrono cause insistenti, molteplici,
generalissime; ma è altresì un fatto che si produce e si determina a
poco a poco, in certi spiriti da prima, in uno anzichè in un altro
luogo, irresolutamente, con manifestazioni scarse e leggiere, che
sfuggono all'occhio e facilmente dileguano.
Così per l'appunto seguì della leggenda di Gerberto. Diffusissima
nei tre secoli che seguiron l'undecimo, essa, negli anni più prossimi
alla morte di colui che le porge argomento, appena dà qualche segno
del suo formarsi. Nei cronisti più antichi, coetanei di Gerberto, o
a lui di poco posteriori, non se ne vede pur l'orma. Un monaco di San
Remigio, Richerio, grande amico ed ammirator di Gerberto, cui dedicò
quattro libri di storie, narra con molte lodi la vita di lui, descrive
gli studii, esalta l'ingegno e il sapere, celebra le opere, ma non
ha nemmeno una parola che accenni a leggenda[2]. Vero è che Richerio,
appunto perchè amico, avrebbe potuto tacere, per deliberato proposito,
ciò che da molti, non amici, si mormorava; ma non mancano altri
cronisti, antichi egualmente, o poco meno, sui quali non può cadere
un sospetto così fatto. Ditmaro di Merseburgo, Ademaro Cabannense, o
Campanense, Elgaldo, Radulfo Glaber, Ermanno Contratto, o di Reichenau,
Lamberto di Hersfeld, Mariano Scoto, Bernoldo, Ugo Floriacense, tutti
fioriti tra il finire del X e il principiare del XII secolo, nulla
narrano che s'accosti od alluda alla posteriore leggenda, e par più che
probabile, conoscendo l'indole, il gusto e i costumi di quei semplici
narratori, e dei più semplici lettori loro, che nessuna leggenda,
propriamente detta, fosse ancora lor giunta all'orecchio[3]. Ma ciò non
vuol proprio dire che la leggenda non fosse già nata; vuol dire solo
che essa era appena fuor di terra, e aveva poca radice, e non mostrava
altrui nè fiori nè fronde. Anzi è probabile che essa avesse cominciato
a germogliare mentre Gerberto era ancora vivo, forse nell'ultimo tempo
del suo breve papato, forse anche (nessuno potrebbe nè affermarlo, nè
negarlo) qualche anno innanzi.
Vediamone un primo germoglio, a dir vero assai debole, e appena
formato, ma che potrebbe pure esser venuto dopo altri parecchi, e
lascia forse vedere più che non mostri.
Per molti anni, dal 977 al 1030, fu vescovo di Laon un uomo ambizioso
e iracondo, Adalberone, detto anche Ascelino, mescolato a molte brighe
e fazioni del tempo suo, gran nemico dei Cluniacensi e dei monaci in
generale, cattivo poeta, risoluto di animo e sciolto di lingua. Costui,
nel 1006, secondo è da credere, compose, in forma di un dialogo col
re Roberto di Francia, un lungo poema latino, nel quale diede libero
sfogo alle ire che gli covavan nell'anima, pigliandosi quella miglior
vendetta che poteva. In certo luogo egli fa che il re alle sue minacce
risponda:
Crede mihi, non me tua verba minantia terrent;
Plurima me docuit Neptanabus ille magister[4].
A primo aspetto questi due versi sciagurati non pajono avere con
Gerberto e la sua leggenda relazione alcuna; ma se si riflette che
il re, nella cui bocca son posti, era stato, in Reims, discepolo di
Gerberto, e se si bada a quel Neptanabus, il quale altro non è che
il famoso mago Nectanebus, secondo antiche e divulgatissime finzioni
re dell'Egitto e padre adulterino di Alessandro Magno, la relazione
si scopre, e si sente il veleno dell'argomento. Roberto dice di non
temere le minacce del suo avversario, perchè dal maestro mago apprese
a difendersi. Con poco o punto pericolo di errare, noi possiamo vedere
in quei versi un'allusione a Gerberto, e un'accusa di magia, per
nessun modo larvata ai lettori di quel tempo. Ecco dunque apparire,
sino dal 1006, tre anni dopo la morte del pontefice, la leggenda della
sua magia; la stessa risolutezza e recisione dell'accenno lasciano
ragionevolmente supporre che non fosse quella la sua prima apparizione.
Teniamole dietro, e vediamola crescere a vista d'occhio.
Negli ultimi anni del secolo XI, un tedesco, fatto cardinale da un
antipapa, Benone, compose col titolo di _Vita et gesta Hildebrandi_,
un rabbioso libello, dove con Gregorio VII, suo capitale nemico, sono
calunniati e vituperati parecchi dei pontefici che lo precedettero.
Benone narra una lunga e tenebrosa istoria, di cui non mancarono di
menar vanto e giovarsi, ai tempi della Riforma, gli oppositori più
ardenti ed astiosi della Chiesa di Roma; e se molte delle cose ch'ei
narra sono frutto della sua fantasia invelenita, altre, e non poche,
sono probabilmente (potrei anche osare di dir certamente) frutto dello
spirito dei tempi, della comune ignoranza, e del maltalento, non sempre
irragionevole e ingiusto, di molti.
A dir di Benone, Gregorio VII, l'amico della contessa Matilde, il
trionfatore di Arrigo IV, il più formidabile e potente dei papi, fu uno
sceleratissimo mago, discepolo, nelle arti maledette, di Teofilatto,
il quale fu pontefice col nome di Benedetto IX, di Lorenzo, vescovo
di Amalfi, di Giovanni Graziano, che fu pontefice anch'egli, e si
chiamò Gregorio VI. Teofilatto sacrificava ai demonii, innamorava,
con le sue arti, le donne, e come cagne se le traeva dietro per
selve e per monti. Di ciò fanno fede i libri che gli si trovarono
in casa quand'egli finì miseramente la vita, e tale storia è (dice
Benone) cognitissima in Roma, al volgo. Grande amico e fautore di
Teofilatto era Lorenzo, _principe dei malefizii_, il quale intendeva
il linguaggio degli uccelli, profetava, e destava, coi vaticinii e gli
augurii, l'ammirazione della plebe, dei senatori, del clero. Giovanni
ospitava in sua casa Lorenzo, e imparava da lui il diabolico magistero.
Ildebrando fu degno in tutto de' suoi maestri. Scotendo le maniche,
egli spargeva nell'aria un nugolo di faville, e Benone racconta di lui,
d'un suo libro magico, e di due suoi familiari, una paurosa novella,
che, con poca diversità, ricorre nelle storie di altri maghi famosi,
tra' quali Virgilio. Ma la malvagia tradizione e l'esecrando esercizio
avevano più antica la origine. Teofilatto e Lorenzo, prima d'esser
essi maestri, erano stati discepoli, e il maestro loro aveva avuto
nome Gerberto. Benone parla chiaro e preciso: «Essendo ancor giovani
Teofilatto e Lorenzo, ammorbò la città co' suoi malefizii quel Gerberto
di cui fu detto:
Transit ab R Gerbertus ad R post papa vigens R.
«Questo Gerberto, ascendendo, poco dopo compiuto il millennio,
dall'abisso della permissione divina, fu papa quattr'anni, mutato
il nome in Silvestro secondo; il quale, per divino giudizio, morì di
morte repentina, colto al laccio di quegli stessi responsi diabolici
co' quali tante volte già aveva ingannato altrui. Eragli stato detto
da un suo demonio ch'e' non morrebbe sino a tanto che non celebrasse
messa in Gerusalemme. Illuso dalla equivocazione del nome, pensando si
dovesse intendere di Gerusalemme in Palestina, andò a celebrare messa
il dì della stazione in quella chiesa di Roma che appunto si chiama
Gerusalemme, dove, sentendosi venire addosso la morte, supplicò gli
fossero tronche le mani e la lingua, con le quali, sacrificando ai
diavoli, aveva disonorato Iddio. E così ebbe fine condegna a' suoi
meriti»[5].
Ecco Roma fatta un covo di pessimi incantatori, i quali, per colmo di
danno e di sceleratezza, sono quegli stessi pastori che più gelosamente
dovrebbero custodire e difendere la greggia dei fedeli contro le
insidie e le offese del lupo diabolico. Credere che tutte quelle accuse
sieno mere invenzioni di Benone non mi par ragionevole, soprattutto per
quanto spetta a Gerberto. Il nemico di Benone era, non Gerberto, morto
oramai da un secolo, ma Ildebrando, e la pensata e voluta denigrazione
d'Ildebrando sarebbe riuscita, parmi, tanto più efficace e più piena,
quanto più circoscritta e appropriata a lui solo. Benone avrebbe, con
minor fatica, reso assai più iniquo Ildebrando, e saziato il suo odio,
se invece di far di costui un discepolo, ne avesse fatto un caposcuola;
se a lui, anzi che a Gerberto, avesse dato colpa della prima infezion
di magia ond'era stato contaminato l'ovile di Pietro. Assai più
probabile dunque mi sembra che Benone non inventasse di pianta, ma
raccogliesse in uno, forse esagerando, forse travolgendo, credenze,
accuse, lembi di leggende, già formate, o in via di formarsi. Lo stesso
modo succinto ed elittico usato da lui in parlar di Gerberto mi pare
che sia come un accennare a cose note, sottintese, fatte oramai di
pubblica ragione. E non si dimentichi che l'accusa di magia pesò anche
su altri papi parecchi.
Nel poema di Adalberone abbiamo un cenno allusivo e non più; nel
libello di Benone abbiamo già uno schema di racconto. Un cronista
di poco posteriore a Benone, Ugo di Flavigny, nato nel 1065, morto
non si sa quando, ma dopo il 1102, parla di Gerberto con manifesto
dispetto, dice che per l'insolenza sua fu espulso dal convento ov'era
stato accolto fanciullo, e che usando di certi prestigi, _quibusdam
praestigiis_, si fece fare arcivescovo, prima di Reims, poi di
Ravenna[6]. Non dice altro di notabile; ma mi par da credere che con
la parola _praestigiis_ egli abbia voluto intendere arti magiche, e
riferirsi, senza altrimenti esporla, a una leggenda già cognita[7].
E la leggenda fa di bel nuovo capolino nell'opera di un monaco belga,
la celebratissima _Chronographia_ di Sigeberto di Gembloux, nato circa
il 1030, morto il 1111. Quivi si legge che alcuni, taciuto il nome di
Silvestro II, il quale fu per dottrina chiaro tra' chiari, ponevano
in suo luogo Agapito, nè ciò senza qualche ragione. Dicesi (così
Sigeberto) che questo Silvestro non entrò per l'uscio, e ci è chi lo
accusa di necromanzia, e più cose strane si narrano della sua morte, e
vogliono alcuni che egli morisse percosso dal diavolo, le quali cose io
non affermo e non nego, ma lascio in dubbio[8]. Come si vede, quando
Sigeberto scriveva, la leggenda era ancor titubante, mal definita,
male compaginata, e si reggeva con le grucce dei _si dice_ e dei _si
crede_, che escludono la fede piena, incontrastata ed universale.
Tale carattere essa serba nel racconto di un altro monaco, Orderico
Vital, inglese, che fra il 1124 e il 1142 compose la sua _Historia
ecclesiastica_. Fatte lodi grandissime di Gerberto e de' suoi numerosi
discepoli, Orderico nota: «Di lui si narra che conversasse col diavolo
mentre era maestro, e che avendo chiesto di conoscere il proprio
avvenire, il diavolo gli rispondesse col verso:
Transit ab R. Gerbertus ad R., post papa vigens R.
Tale oracolo fu allora abbastanza oscuro a intendere, che poi si vide
manifestamente adempiuto; dacchè Gerberto passò dall'arcivescovado
di Reims a quello di Ravenna, e fu da ultimo papa in Roma»[9]. Questo
verso l'abbiam già trovato nello scritto di Benone, e ci tornerà più
d'una volta sott'occhio. Il primo che lo rechi è il già citato Elgaldo,
il quale nulla sa della sua diabolica origine, ma dice che lo stesso
Gerberto il compose, lietamente scherzando sulla lettera R dopo essere
stato assunto al pontificato[10].
Col cenno di Orderico si chiude, per noi, il periodo iniziale della
leggenda di Gerberto mago, il periodo delle formazioni embrioniche, dei
primi nuclei staccati, a cui tien dietro il periodo delle esplicazioni
e delle forme compaginate ed intere. Un terzo ed ultimo periodo è
quello dello svigorimento progressivo e della obliterazione finale.
Prima d'andar più oltre, soffermiamoci alquanto, e indaghiamo un po'
meglio le ragioni, appena accennate sin qui, della leggenda, e le
condizioni in mezzo alle quali essa prendeva nascimento.

II.
La ragione prima e principale è da cercare nella riputazione
grandissima che Gerberto ebbe di dotto. A noi, che ne abbiamo i frutti
tra mani, il sapere di lui non sembra un gran che, ma fu, pei tempi
in cui egli visse, straordinario davvero, e a quegli uomini doveva
sembrare meraviglioso, e ai più ignoranti inesplicabile e sovrumano. Il
già ricordato Richerio parla con entusiasmo del grande ingegno e del
mirabile eloquio di Gerberto; celebra la dottrina di lui, egualmente
versato nell'aritmetica, nella dialettica, nell'astronomia, nella
musica; discorre dell'abaco da lui inventato; ricorda alcune sfere
celesti da lui con mirabile artificio costruite. Ditmaro narra che
Gerberto fu, sin da fanciullo, ammaestrato nelle arti liberali; che
ebbe ottima conoscenza del corso degli astri; che superò in dottrina
tutti gli uomini del suo tempo; che nella città di Magdeburgo costruì
un orologio solare, spiando a traverso a una canna, la stella _che
guida i marinai_, cioè la polare[11]. Ademaro Cabannense dice che
Gerberto fu fatto papa dall'imperatore in grazia del suo sapere,
_propter philosophiae gratiam_[12].
Ma quel sapere appunto, così fuor del comune, ai più doveva
riuscire sospetto, e a molti, che pur non ci sospettavan nulla di
soprannaturale, doveva tornare increscioso e non in tutto scevro di
colpa. Non si dimentichi che siamo in tempi di fede viva ed angusta, e
in mezzo ad uomini superstiziosi, i quali facilmente nel sapere umano
scorgono come una presunzione audace di contrapporsi al sapere divino,
e negli studii profani un esercizio pien di pericolo, assai più atto
a trarre gli spiriti in giù, verso Satana, che a sollevarli in alto,
verso Dio. E Gerberto attese con troppo ardore agli studii profani,
e non celò la sua passione per essi. Non giunge egli a dire, in una
lettera ad Arnulfo vescovo di Reims: «A questa fede noi annodiamo la
scienza, poichè non hanno fede gli stolti?» In queste parole facilmente
altri avrebbe potuto trovare il germe di una falsa dottrina, contraria
agl'insegnamenti dell'Evangelo. Nessuna meraviglia dunque se due
cronisti, già più sopra citati, Lamberto di Hersfeld e Bernoldo,
pur non facendo il più piccolo accenno ad origini o collegamenti
soprannaturali, dicono risolutamente che Gerberto fu troppo dedito agli
studii profani.
Ma le cose non potevano fermarsi lì. Durante tutto il medio evo gli
uomini più celebrati per ingegno e per dottrina, i filosofi e i poeti
più illustri, così degli antichi come dei nuovi tempi, furono tenuti
generalmente in conto di maghi, da Aristotile ad Alberto Magno e
Ruggero Bacone, da Virgilio a Cecco d'Ascoli. Bastava a Gerberto la
fama di dotto per mutarsi, nella opinione d'infiniti, di vescovo in
mago; ma tale mutazione era in lui favorita da più altre ragioni.
Si sapeva del suo viaggio in Ispagna; si sapeva che in Ispagna egli
aveva atteso con sommo profitto agli studii; e non ci voleva un grande
sforzo di fantasia per porlo in relazione con gli Arabi, per far di
lui il discepolo di qualche dottore saraceno, avverso, come tutta la
sua gente, ai cristiani, e naturale amico del diavolo. La critica del
secol nostro provò che Gerberto deriva il suo sapere principalmente
da Boezio, del quale fece in versi un fiorito elogio, e che nulla egli
deve agli Arabi[13]: ma chi ai tempi di lui, avrebbe potuto provare o
affermare altrettanto e troncar dalla radice un sospetto che sorgeva
spontaneo e irresistibile nelle menti? Ademaro, che pur gli è tanto
benevolo, dice (nè si sa donde tragga cotal notizia) che Gerberto fu
a Cordova per amor di studio, _causa sophiae_[14]. Ora, Cordova era
in mano degli Arabi, e se non aveva, come Toledo, fama di essere una
scuola massima di magia, e un covo di necromanti, doveva pur sembrare
a cristiani un asilo e un propugnacolo dell'Inferno, dove s'insegnava
una scienza perigliosa e diabolica. Perciò sarebbe da meravigliare se
Gerberto avesse potuto sottrarsi a quella accusa di magia che avvolse
tanti altri, i quali forse meno di lui sembravano meritarla.
Ma a procacciargliela, quell'accusa, un'altra ragione cooperò, non
meno efficace delle notate: l'odio. Gerberto ebbe amici molti e
potenti; ma ebbe anche molti nemici, de' quali fa spesso ricordo
nelle sue epistole. Ne ebbe a Bobbio, d'onde gli fu forza partirsi;
ne ebbe a Reims pei fatti che ho detto; ne ebbe in tutta la Francia,
e in Germania ancora, a cagione della parte presa negli avvenimenti
politici; ne ebbe in Roma dove gli odii che sempre bollivano contro
l'imperatore si riversavano naturalmente sopra i suoi protetti. E
quegli odii Gerberto ricambiava. A Stefano, diacono di Roma, scriveva,
piena l'anima di livore: «Tutta Italia m'è sembrata una Roma. Il mondo
ha in esecrazione i costumi dei Romani»[15].
Nemici dunque molti, e di varia condizione, e per più ragioni;
alcuni mossi solo dalla gelosia e dall'invidia, altri da legittimo
risentimento: giacchè non è da tacere che se Gerberto ebbe grandi
virtù, e parecchie, ebbe anche gran mancamenti; e se attese fedelmente,
con zelo e carità, come vescovo e come papa, all'officio ecclesiastico,
nei maneggi e nelle gare della vita si diportò più di una volta in modo
degno di biasimo. Certo egli fu poco aperto all'amicizia e agli affetti
in genere, non ischivo dell'adulazione, non sempre alieno dall'intrigo
e dall'inganno; soprattutto fu ambiziosissimo; e se la tristizia dei
tempi in parte lo scusa, non lo scusa però interamente. Aggiungasi che
gli Atti del concilio di San Basolo, da lui compilati, potevano anche
far nascere qualche dubbio circa la sua ortodossia. Per quella brutta
faccenda dell'arcivescovo Arnulfo gli si dichiararono avversi gli
stessi pontefici, Giovanni XV prima, Gregorio V poi.
Qual che si fosse, del resto, la ragion della inimicizia, ben si vede
che i nemici dovevano adoperarsi con tutte le forze ad oscurare la
fama di lui, e che l'accusa di scelerati commerci con lo spirito delle
tenebre doveva essere da loro, se non immaginata e prodotta, almeno
accolta e promossa. Quanti poi, ed erano molti, sparsi pel mondo,
avevano in odio la curia di Roma, le sue prevaricazioni e le sue frodi,
dovevano favorire il sorgere e il divulgarsi di una leggenda che poneva
sulla cattedra di San Pietro una creatura del diavolo. Quel medesimo
odio suscitò più tardi la leggenda famosa della Papessa Giovanna.
Perciò gli è assai probabile che le prime voci, timide e fuggevoli,
dell'accusa cominciassero a levarsi e andare attorno mentre Gerberto
era ancor vivo. Il non trovarsi cenno della leggenda nei cronisti più
antichi non prova punto, come a taluni sembra, il contrario, giacchè le
leggende, di solito, compajono nelle scritture un pezzo dopo che sono
nate, e quando già hanno cominciato a esplicarsi e assodarsi: prima
vivono nella fantasia dei molti o dei pochi, e nelle scucite narrazioni
orali.
Il Doellinger crede che la leggenda nascesse in Roma, e che quivi la
raccogliesse Benone[16]. Le sue ragioni, a dir vero, non mi pajono di
gran peso, e stimo assai più probabile che nascesse un po' qua e un
po' là, dove trovava le suggestioni più acconce e le condizioni più
favorevoli. Certo gli esplicamenti ulteriori della leggenda non si
produssero in Roma.

III.
Lo storico inglese Guglielmo di Malmesbury, accingendosi, nella prima
metà del secolo XII, a narrare la storia di Gerberto, diceva: «Non sarà
assurdo, credo, se poniamo in iscrittura ciò che vola per le bocche
di tutti»; e sul finire di quel medesimo secolo, un altro inglese,
Gualtiero Map, accingendosi anch'egli a quel racconto, esclamava:
«Chi ignora la illusione del famoso Gerberto?». La leggenda, che nel
secolo precedente sembra nota a pochi, ha fatto molto cammino, ed è ora
cognita a tutti. Non solo è cognita a tutti, ma s'è ampliata, ha preso
rilievo e colore, ha ricevuto numerosi innesti. Non è più uno schema di
racconto, mal composto e reticente, è addirittura un romanzo.
Ascoltiamo Guglielmo di Malmesbury, gran raccoglitore, gran narratore,
caloroso, efficace e credulo, di storie incredibili[17].
Gerberto nacque in Gallia, e fu monaco, sin da fanciullo, nel monastero
di Fleury. Giunto al bivio pitagorico (così si esprime l'autore) sia
che gli venisse tedio del monacato, sia che il vincesse cupidigia di
gloria, fuggì di notte tempo in Ispagna con proposito di apprendere
l'astrologia, ed altre arti sì fatte, dai Saraceni, i quali vi
attendono e ne sono maestri. Giunto fra loro, potè appagare il suo
desiderio, e vinse Tolomeo e Alandreo (?) nella scienza degli astri,
Giulio Firmico nella divinazione del fato. Quivi imparò ad intendere
e interpretare il canto e il volo degli uccelli; quivi a suscitar
dall'Inferno tenui figure; quivi finalmente quanto di buono e di reo
può comprendere la umana curiosità. Nulla è a dire delle arti lecite,
aritmetica, musica, astronomia, geometria, le quali per tal modo esaurì
da farle parere minori del suo ingegno, e con industria grande poi
fece rivivere in Francia, ov'erano quasi perdute. Sottraendo, egli
primo, l'abaco ai Saraceni, diede regole che a mala pena s'intendono
dai sudanti abacisti. L'ospitava in sua casa un filosofo di quella
setta, cui egli rimunerò, con molto oro da prima, e con promesse da
poi. Nè mancava il Saraceno di vendere la propria scienza, e spesse
volte invitava l'ospite a colloquio, ragionando seco lui quando di
cose serie e quando di sollazzevoli, e gli dava de' suoi libri da
trascrivere. Aveva tra gli altri, il Saraceno, un volume, che contenea
tutta l'arte, e questo, Gerberto, sebbene ardesse della voglia di
farlo suo, non potè mai trargli di mano. Riuscite vane le preghiere,
le promesse, le offerte, egli finalmente diede opera alle insidie, e
ubbriacato con l'ajuto della figliuola di lui, il Saraceno, tolse il
volume, che quegli teneva custodito sotto il capezzale, e via se ne
fuggì. Destatosi il Saraceno dal sonno, leggendo nelle stelle, della
cui scienza era maestro, si diede a inseguire il fuggiasco; ma questi,
usando della scienza medesima, conobbe il pericolo, e si celò sotto
un ponte di legno, ch'era ivi presso, aggrappandovisi con le mani,
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