Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, vol. I - 17

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Qui il Paese di Cuccagna s'immagina in luogo assai prossimo a chi
scrive: altrove, per contro, è accennata grande distanza, senz'altre
indicazioni geografiche. Nella _Historia nuova della città di Cucagna,
data in luce da Alessandro da Siena e Bartolamio suo compagno_[470],
si dice che per andare in Cuccagna bisogna viaggiare ventotto mesi
per mare e tre per terra; e _in quodam terrae cantone remoto_ pone
il felice paese Teofilo Folengo[471]. Una poesia tedesca del secolo
XVI lo pone a mano manca del Paradiso terrestre[472], mentre un'altra
vuole si avverta che esso non è nel Paradiso, _dov'era vietato di
mangiare_[473]. A questo proposito è da notare che l'autore del
poemetto inglese testè ricordato giudica il Paese di Cuccagna assai
miglior luogo del Paradiso, ove non c'è altro da mangiare che frutta, e
altro da bere che acqua[474].
Se un desiderio, dirò così, generico di felicità e d'innocenza suscita
nell'anime devote l'immagine delle delizie del Paradiso, un desiderio
più particolare di uscir di stento, di appagare gli appetiti più
animaleschi e più imperiosi suscita l'immagine delle delizie del Paese
di Cuccagna in tutti i miseri, in tutti gli affamati, in tutti coloro
la cui vita è un perpetuo combattimento fatto più aspro e doloroso
dallo spettacolo degli agi e delle lautezze altrui. Per tutti costoro
la Cuccagna è una vera _terra promissionis_, com'ebbe a dirla Geiler
di Keisersberg, da far riscontro alla _terra repromissionis sanctorum_
delle leggende ascetiche, e dove si mangia e si beve e d'ogni buona
cosa si gode senza metter mai fuori un quattrino. Perciò coloro che ne
celebrano le meraviglie spesso si volgono ai poveretti, e li chiamano a
raccolta, e annunzian loro che anche per essi è venuta finalmente l'ora
di scialare; e chi li invita si trova nella stessa lor condizione. In
certo _Capitolo di Cuccagna_ esclama il poeta:
hor andiamoci tutti, o poverelli!
e in certo _Trionfo de' poltroni_:
Deh poveretti non stemo più a stentar![475]
L'autore di una poesia spagnuola intitolata _La isla de Jauja_, detto
che in quella terra chi lavora riceve dugento bastonate ed è cacciato
in bando, descritte tutte le comodità di cui vi si gode, si volge ai
poveri idalghi, al gran popolo dei miseri:
Animo pues, caballeros,
Animo, pobres hidalgos;
Miserables, buenas nuevas,
Albricias todo cuitado,
Que el que quisiere partirse
A ver este nuovo pasmo,
Diez navìos salen juntos
De la Coruña este año.[476]
Ma poichè i pasciuti hanno sempre confuso gli affamati coi furfanti,
così vediamo il Paese di Cuccagna, sogno degli affamati, diventare
talvolta una terra di riprovazione. Dallo Schlaraffenland descritto da
Hans Sachs sono sbanditi gli uomini morigerati e dabbene: le bugie vi
son tenute in gran conto, e chi più le dice grosse è premiato:
für ein gross lügn gibt man ein kron.[477]
Per contro si vede la finzione del paese di Cuccagna adoperata come
strumento di satira e d'invettiva contro i pasciuti e i gaudenti.
Così nel poemetto inglese citato di sopra, il quale è tutto una satira
contro la grassa e dissoluta vita dei monaci. A volte poi i racconti
non sembrano nascere da altro che dalla voglia di ridere e di sballarle
grosse[478]. Il Novati giustamente distingue dalla immaginazione del
Paese di Cuccagna certe immaginazioni epicuree, quali son quelle che
s'incontrano nel _fableau_ di _Belle Eyse_ e nella descrizione che il
Rabelais fa dell'abbazia di Thélème[479].
Se le finzioni greche, di cui s'è detto di sopra, sono talvolta parodia
dell'età dell'oro o dell'Elisio, la finzione del Paese di Cuccagna non
è, o almeno di rado è, una parodia voluta del Paradiso terrestre. Le
vere parodie di questo bisogna cercarle altrove, nel _Paradis perdu_
del Parny, in un poemetto intitolato _Adam et Eve_ e inserito nel vol.
VI della raccolta _L'Evangile du jour_, pubblicata in Parigi dal 1769
al 1778, ecc.[480]
Finalmente è qui da dir qualche cosa di quelli che si possono chiamare
paradisi artificiali. Non è improbabile che i giardini sospesi di
Babilonia volessero essere una riproduzione del Paradiso assiro[481].
Il più celebre di questi paradisi artificiali fu senza dubbio quello
del famoso Veglio della Montagna, di cui tanto si parlò e si scrisse
nel medio evo[482]. Narrasi in certe tradizioni orientali che Ad,
pronipote di Noè, divisò un meraviglioso giardino, e quello poi disse
essere il Paradiso, e che Sceddad, figliuolo di Ad, costruì una città
chiamata Gennet, cioè Paradiso, la quale sparì dopo l'esterminio
di lui e de' suoi. Di questo Paradiso molti autori musulmani fanno
ricordo. Secondo Scehabeddin, nel _Libro delle perle_, Sceddad,
avendo saputo che nel Paradiso terrestre le colonne erano d'oro e
d'argento, la polvere di muschio e d'ambra, e i sassi gemme, volle
rifare quelle meraviglie, e mandò messi pel mondo, i quali penarono
cent'anni a trovare un luogo acconcio[483]. Altri soggiungono che la
città di Sceddad era costruita nei deserti d'Aden; che le mura de'
suoi edifizii erano d'oro e d'argento, le colonne di smeraldi e di
rubini, e che c'erano voluti trecento anni per erigerla. Ibn Khaldun,
ne' suoi _Prolegomeni storici_, lamenta la credulità degli scrittori
che avevano divulgato quelle favole[484]. Di un orto nel quale s'erano
fatti seppellire Jannes e Mambres, magi di Faraone, con la speranza di
risuscitarvi e vivervi come in un paradiso, si narra nelle _Vite de'
Santi Padri_[485].

NOTE:
[450] Ciò fu giustamente notato dal NOVATI in un breve, ma giudizioso
e piacevole scritto, intitolato _Il paese che non si trova_, e inserito
nel giornale _La domenica letteraria_, anno IV, num. 11, 15 marzo 1885.
A torto ebbe a credere il LE CLERC che il Paese di Cuccagna altro non
sia che una immagine della beata vita dei monaci. _Histoire littéraire
de la France_, t. XXIII, p. 151.
[451] Cf. MEINEKE, _Fragmenta comicorum graecorum_, Berlino, 1848, vol.
II, parte 1ª, pp. 108, 237, 299, 316, 360; parte 2ª, pp. 753, 850,
1158; SCHENKL, _Das Märchen vom Schlauraffenland_, nella _Germania_
del Pfeiffer, anno VII (1862), pp. 193-4; POESCHEL, _Das Märchen vom
Schlaraffenlande_, Halle a S., 1878, pp. 7 sgg.
[452] POESCHEL, _ibid_., pp 13, 15.
[453] _Vera Historia_, l. II, capp. 11-14.
[454] _Ibid._, l. II, c. 4.
[455] MUELLER, _Geographi graeci minores_, vol. II, p. 514.
[456] J. GRIMM e A. SCHMELLER, _Lateinische Gedichte des X. und XI.
Jh._, Gottinga, 1838, pp. 378-80.
[457] Per la diffusione e le parentele di tali racconti vedi KÖHLER,
_Ueber I. F. Campbell's Sammlung gälischer Märchen_, in _Orient und
Occident_, vol. II (1864), pp. 486 sgg.; COSQUIN, note ad alcuni dei
_Contes populaires lorrains_ pubblicati nella _Romania_, anno 1876, pp.
357 sgg.; anno 1877, pp. 359 sgg.
[458] Per esempio, per la _Storia di Campriano contadino_, ediz. di A.
ZENATTI, nella _Sc. di cur. lett._, disp. CC, Bologna, 1884, st. 71-7.
[459] D'HERBELOT, _Biblioth. orient._, p. 386.
[460] _Cucania_, in latino; _Coquaigne, Cocagne_ in francese; _Cucaña_
in ispagnuolo; _Cokaygne_ in inglese, ecc. In Germania si disse
_Schlauraffenland_, _Schlaraffenland_; in Fiandra _Luilekkerland_.
[461] Vedi POESCHEL, _Op. cit._, pp. 20, 22, 25.
[462] Ciò fu già ricordato da altri: POESCHEL, p. 22; NOVATI, nel
_Giornale storico della letteratura italiana_, vol. V, p. 263, n. 5.
[463] GRION, _Fridanc_, in _Zeitschrift für deutsche Philologie_, vol.
II (1870), p. 430.
[464] Cap. 5, vv. 101-2.
[465] BARBAZAN-MÉON, _Fabliaus et contes_, vol. IV. pp. 175-81.
[466] _Decamerone_, giorn. VIII, nov. 3.
[467] Più volte stampato, dall'Hickes, dall'Ellis, dal Furnivall, e
ultimamente dal MAETZNER, _Altenglische Sprachproben_, Berlino, 1867
sgg., vol. I, pp. 147 sgg. Cf. WRIGHT, _St. Patrick's Purgatory_,
pp. 53 sgg.; WARTON, _History of english Poetry_, ediz. dell'Hazlitt,
Londra, 1871, vol. II, pp. 54 sgg.
[468] NOVATI, _Giorn. stor._, vol. V, pp. 265-6.
[469] POESCHEL, p. 34.
[470] In Vinetia et in Vicenza, 1625.
[471] _Baldo_, nella edizione delle _Opere maccheroniche_ curata dal
Portioli, Mantova, 1883-9, vol. I, p. 61.
[472] POESCHEL, p. 38.
[473] ID., p. 36.
[474] Non di rado il Paradiso celeste diventa nella fantasia popolare
un vero paese di Cuccagna: vedi la descrizione che ne porge una poesia
tedesca, in WRIGHT, pp. 191-2. In una poesia greca volgare, contenuta
in un manoscritto del secolo XV, un beone dice di credere che i
quattro fiumi del Paradiso menino vino. LEGRAND, _Recueil de chansons
populaires grecques_, Parigi, 1874, p. 6.
[475] Riprodotti entrambi dallo ZENATTI, in calce alla citata _Storia
di Campriano_.
[476] DURAN, _Romancero general_, Madrid, vol. II, 1855, p. 395.
[477] _Dichtungen_, ediz. Tittmann, Lipsia, 1870-1, vol. II, pp. 30-3.
Molta somiglianza con questa di Hans Sachs ha una poesia pubblicata
nella _Zeitschrift für deutsches Alterthum_, vol. II (1842), pp. 364-9.
[478] Do qui i titoli o le indicazioni di alcuni altri componimenti che
trattano del Paese di Cuccagna, e di altre scritture, ove la finzione
è introdotta. Non ho bisogno di avvertire che sono semplici cenni ed
appunti, slegati e molto incompleti. Al Paese di Cuccagna somiglia
molto la Papimanie descritta dal Rabelais. Nel 1718 fu rappresentato
in Parigi _Le roi de Cocagne_ del LEGRAND, dove Filandro, cavaliere
errante, giunge, con la scorta del mago Alchife, al fortunato paese.
Tutto il dramma ha intendimento satirico. (_Théâtre des auteurs
de second ordre_, t. IV). Tra le canzoni del BÉRANGER ve n'è una
intitolata _Le pays de Cocagne_. Di componimenti italiani vogliono
ancora essere ricordati: _Il trionfo della Cuccagna nel quale si
contiene tutto il suo dilettoso paese_, ecc., Firenze, s. a. (NOVATI,
_Giorn. st._, vol. V, p. 265, n. 4); GIO. BATTISTA BASILI, _La Cuccagna
conquistata, poema heroicu in terza rima siciliana_, Palermo, 1640;
QUIRICO ROSSI, _La Cuccagna_, poemetto in trentadue ottave, più volte
stampato; CARLO GOLDONI, _Il Paese della Cuccagna_, melodramma giocoso.
La finzione è inoltre introdotta: nella Selva seconda del _Chaos del
Triperuno_ di TEOFILO FOLENGO; in una lettera di ANDREA CALMO (_Le
lettere di messer_ A. C., ediz. del Rossi, Torino, 1888, l. II, 34, pp.
138 sgg.); nei cc. XII e XIII del poema di PIERO DE' BARDI intitolato
_Avino Avolio Ottone Berlinghieri_; nel capitolo _Dei pellegrini
o viandanti_ della _Piazza universale di tutte le professioni del
mondo di_ TOMMASO GARZONI; nel c. IX della _Presa di Samminiato_ del
NERI. Della _Cuccagna_ del MARINO, andata perduta, è forse qui da far
ricordo più pel titolo che per altro. L'Arciprete di Hita fa due volte
allusione al paese di Cuccagna, st. 112 e 331; e, oltre a quella citata
di sopra, un'altra romanza spagnuola si ha sullo stesso argomento.
(NOVATI, _Giorn. st._, vol. cit., p. 263, n. 5). Di un poemetto
olandese diede notizia il HOFFMANN VON FALLERSLEBEN, _Horae Belgicae_,
vol. I, pp. 94-5. (Cf. MONE, _Uebersicht der niederländischen
Wolks-Literatur_, Tubinga, 1838, p. 303). Per la finzione in Germania
vedi: GRAESSE, _Lehrbuch_, vol. II, parte 2ª, p. 961; GOEDEKE,
_Grundriss_, vol. I, pp. 232. 282; POESCHEL, pp. 31 sgg.
[479] _Il paese che non si trova_, già citato.
[480] Il BARBIER, _Dictionnaire des ouvrages anonymes_, 3ª ediz., vol.
I, s. t. _Adam et Eve_, lo attribuisce al Voltaire, ma basta leggerne
una pagina per vedere quanto tale attribuzione sia improbabile.
[481] LENORMANT, _Essai de commentaire des fragments cosmogoniques de
Bérose_, p. 300.
[482] Lo descrissero Marco Polo e il Mandeville. Per altre descrizioni
vedi _The book of_ SER MARCO POLO, _newly translated and edited by_ H.
Yule, Londra, 1871, vol. I, p. 136.
[483] _Notices et extraits des manuscrits_, vol. II, p. 140.
[484] _Notices et extraits_, vol. XIX, parte 1ª pp. 23-4. Ne parla
anche Taberi, in principio della sua Cronica. Di una specie di
Paradiso, costruito da un ricco uomo, fa ricordo il Mandeville, forse
ripetendo quella stessa tradizione.
[485] Parte I, cap. 65.


IL RIPOSO DEI DANNATI


IL RIPOSO DEI DANNATI

Ciò che fa maggiore impressione sull'animo di un lettore moderno
della _Visio Pauli_, non è la descrizione degli orrori e dei tormenti
infernali, nè la descrizione, assai più sbiadita, degli splendori e
dei gaudii celesti, in quella unica redazione che la contiene[486]; ma
bensì la parte del racconto in cui si narra della sospensione di pena
conceduta ai dannati, nell'abisso d'inferno. Guidato dall'arcangelo
Michele, San Paolo ha tutto percorso il _doloroso regno_, ha veduto
i varii ordini di peccatori e gli aspri castighi a cui li assoggetta
la divina giustizia, ha versato a quella vista lacrime di pietà e
di dolore. Egli sta per togliersi all'orror delle tenebre, quando
i dannati gridano ad una voce: «O Michele, o Paolo, movetevi a
compassione di noi; pregate per noi il Redentore!» E l'arcangelo a
loro: «Piangete tutti, ed io piangerò con voi, e con me piangeranno
Paolo e i cori degli angeli: chi sa che Dio non v'usi misericordia».
E i dannati gridano: «Miserere di noi, figliuolo di David!» ed ecco
scende dal cielo Cristo incoronato, e rinfaccia ai reprobi la malvagità
loro, e ricorda il sangue inutilmente versato per essi. Ma Michele
e Paolo e migliaja di migliaja di angioli s'inginocchiano dinanzi al
figliuol di Dio, e chiedono misericordia, e Gesù mosso a pietà, concede
alle anime tutte che sono in Inferno tanta grazia che abbiano requie, e
sieno senza tormento alcuno, dall'ora nona del sabato all'ora prima del
lunedì[487].
Questa poetica finzione, impregnata di un così ardente alito di
umanità, è, a parer mio, la più bella e la più nobile di quante se
ne trovino nelle Visioni anteriori alla _Divina Commedia_; e poichè
la Visione che la contiene è una delle più celebri e più diffuse nel
medio evo, e ce n'ha, insieme con altre versioni volgari, anche qualche
versione italiana[488]; e poichè gli è assai probabile che Dante questa
Visione l'abbia conosciuta, non sarà, credo, senza qualche utilità
discorrere di essa finzione, e delle ragioni ed origini sue, le quali
son molto più antiche e più generali di quanto si potrebbe alla bella
prima immaginare. Ciò mi porgerà pure occasione e modo di fare alcune
osservazioni sopra l'_Inferno_ dantesco.
Della eternità delle pene infernali la Chiesa cattolica fece, come
tutti sanno, un dogma. Non solo i tormenti dei dannati non avranno
mai fine, ma non avranno mai neanche mitigazione: anzi, dopo il
giudizio universale, e dopo che alle anime saranno restituiti i
corpi, si faranno più atroci di prima[489]. Non indaghiamo se nelle
parole dei profeti e negli evangeli il dogma abbia sicuro fondamento,
o se ve l'abbia l'opinione contraria, che la Chiesa condanna; non
discutiamo gli argomenti addotti e contrapposti dai sostenitori
dell'una e dell'altra credenza: l'officio nostro non è di esegeti,
e tanto men di polemici; l'officio nostro è di storici, e un tantino
anche di psicologi, desiderosi di darsi conto di un motivo religioso,
che diventa, in un particolar genere di letteratura, anche motivo
poetico[490].
Riportiamoci con la mente alla prima età del cristianesimo, all'età
che si può chiamare precostantiniana. La religione di Cristo è allora,
essenzialmente, una religione d'amore. I dogmi, che dovevano poi
raccogliere in forme rigide ed invariabili la sostanza della fede,
o non son nati ancora, o non sono ancora ben definiti; i grandi
concilii non si sono per anche adunati e non hanno piegato le coscienze
sotto il grave giogo dell'autorità. La Chiesa si edifica, e ciascun
operajo lavora un po' di suo capo all'edifizio comune: le frontiere
dell'ortodossia e dell'eresia sono incertamente segnate. La fede è
viva e calda, ma alquanto indeterminata; essa è anche serena e piena
d'abbandono, e non conosce le tetraggini e l'ansie che la sopraffaranno
più tardi. Una grande speranza la penetra e la feconda: la comune
credenza è che i più saran salvi. San Paolo aveva detto: Come tutti
muojono in Adamo, così tutti rivivranno in Cristo[491].
Circa il principio del secolo III Clemente Alessandrino nega le pene
puramente afflittive; la pena per lui ha sempre carattere e scopo
pedagogico. Origene, suo illustre discepolo, uno dei più grandi spiriti
ch'abbia prodotto l'antichità cristiana, e certo il più libero e il più
liberale, afferma la salvazione finale di tutte le creature, compreso
Satana e gli angeli suoi, il ritorno a Dio di quanto viene da Dio
(ἀποκατάστασις τῶν παντῶν). La dottrina sua era fatta per cattivare gli
animi più generosi ed aperti; ma per ciò appunto non potè prevalere.
Impugnata e contraddetta da impetuosi avversarii mentr'egli era vivo
ancora, quella dottrina fu condannata dal sinodo di Alessandria
del 399 e poi, anche più risolutamente, dal concilio ecumenico
costantinopolitano del 545.
La dottrina contraria, la dottrina che affermava l'eternità delle pene
infernali e la dannazione irrevocabile, trionfava, s'imponeva alle
coscienze, diventava dogma. Ma il suo trionfo non fu e non poteva
essere intero ed assoluto. Da una parte essa si trovò di fronte
lo spirito critico e speculativo, cui non riesce ad impor silenzio
un canone conciliare; da un'altra il sentimento, che, ributtato o
compresso, torna ostinatamente alla sua condizion naturale. E lo
spirito critico e speculativo diede più particolarmente forma a
dottrine teologiche eterodosse, mentre il sentimento la diede in
più parti colar modo a credenze popolari. Nel quarto secolo Gregorio
di Nazianzo e Gregorio di Nissa insegnano la temporalità delle pene
infernali e la restaurazione finale di tutte le creature nel bene.
San Gerolamo parla di coloro che al tempo suo avevano quella medesima
credenza. Da altra banda l'opinione, già sostenuta da Taziano, da
Ireneo, da Arnobio, che i reprobi dovessero perir nel castigo e
rimanere annientati, non mancò di seguaci nè allora, nè poi. Ma come
più la dottrina della Chiesa s'andava determinando e acquistava rigore
dogmatico, più doveva agitarsi negli animi il desiderio di sfuggire,
in parte almeno, alle sue terribili conseguenze. La coscienza dei
credenti non oserà più contraddire alla dottrina ortodossa in ciò che
essa ha di essenziale, ma s'ingegnerà, e le verrà fatto, di temperarla
alquanto, di piegarne la rigidezza soverchia. Il ricco malvagio
ricordato da Luca non può ottenere che una goccia d'acqua gli bagni
le labbra arse dall'incendio infernale[492], e nell'Apocalissi detta
di San Giovanni è scritto che i dannati saranno tormentati nei secoli
dei secoli, senza aver mai requie nè giorno nè notte[493]: la semplice
teologia del sentimento affermerà che ai dannati la misericordia divina
accorda talvolta riposo e refrigerio. Il dogma vuole che i dannati
rimangano chiusi nell'Inferno in perpetuo: quella stessa teologia del
sentimento non lo negherà, ma romperà con alcuna eccezione la regola,
narrerà di dannati che in virtù di grazia speciale poterono uscir
dell'Inferno. La teologia popolare si farà lecito di dissentire dalla
teologia dogmatica, e delle due la prima sarà la più pietosa e la più
umana. Quanto alle ragioni del dissenso non occorre andar molto lontano
a rintracciarle; esse scaturiscono dalla stessa natura dell'uomo
razionale ed effettiva.
Ed ecco qua un primo e curiosissimo documento di quella teologia più
pietosa e più umana: l'apocrifa apocalissi di San Paolo, composta
probabilmente da un qualche monaco greco. Di apocalissi attribuite
all'apostolo delle genti ce ne furono due, ricordate da Sant'Agostino,
da Sozomene, da Epifanio, da Michele Glica e da altri: di esse l'una
andò perduta, se pur non la conserva alcun manoscritto ignorato;
l'altra fu ritrovata dal Tischendorf nel 1843 e da lui pubblicata[494].
L'editore opina ch'essa sia stata composta nel 380, il qual anno,
se non è proprio quello della composizione, di poco certo se ne
discosta. L'autore di questa scrittura s'inspirò evidentemente di
quanto San Paolo dice, con coperte parole, nella epistola seconda
ai Corinzii[495], di un suo rapimento al terzo cielo. Guidato da un
angelo, San Paolo assiste al giudizio delle anime, vede il soggiorno
dei beati, percorre l'Inferno. A un certo punto scende di cielo
l'arcangelo Gabriele con le schiere celesti, e i dannati implorano
soccorso. San Paolo che ha pianto sui tormenti inenarrabili che ha
veduti, prega insieme con gli angeli: Cristo appare, mosso dalle loro
preghiere, e concede ai reprobi di poter riposare la domenica della sua
risurrezione, a cominciar dalla notte che la precede.
L'incognito autore di questo apocrifo ammetteva dunque che i dannati
riposassero un giorno nell'anno e propriamente il giorno della
risurrezione di Cristo; ma tale credenza non era di lui solo, era,
sembra, di molti intorno a quel medesimo tempo. Aurelio Prudenzio (c.
348-408?) la ricorda e la professa in certi versi famosi di un suo
inno[496].
Sunt et spiritibus saepe nocentibus
Poenarum celebres sub Styge feriae
Illa nocte sacer qua rediit Deus
Stagnis ad superos ex Acheruntiis
. . . . . . . . . . . . . .
Marcent suppliciis tartara mitibus,
Exultatque sui corporis otio
Umbrarum populus, liber ab ignibus,
Nec fervent solito flumina sulphure.
Se si considera che l'autore dell'Apocalissi di San Paolo era greco, e
che Prudenzio era spagnuolo, si dovrà ammettere che la credenza fosse
molto diffusa: a tale diffusione sembra in fatti che voglia alludere lo
stesso poeta quando chiama celebri le _ferie_ concedute ai dannati. Ma
di quella diffusione un'altra prova ci si porge, anche più importante.
Nel cap. 112 dell'_Encheiridion_, Sant'Agostino dice, accennando
appunto a coloro che tenevano quella credenza: _poenas damnatorum,
certis temporum intervallis existiment, si hoc eis placet, aliquatenus
mitigari_[497]. Egli non la biasimava dunque, sebbene non la facesse
sua, e tra coloro che in quel tempo la professavano era nientemeno che
San Giovanni Crisostomo[498]. Nella leggenda di San Macario egizio,
narrata già da Rufino d'Aquileja (c. 345-410) si ricorda come il santo
anacoreta trovasse una volta nel deserto un teschio, s'intrattenesse
con esso delle pene dell'Inferno, e da esso sapesse che la preghiera
reca alcun lieve refrigerio ai dannati[499].
Gli scritti che vanno sotto il nome di Dionigi Areopagita appartengono,
secondo fu dimostrato dalla critica più recente, ai tempi di Proclo, se
non alla prima metà del secolo VI a dirittura. In una delle epistole
che vi si leggono, la ottava, è narrata una visione di San Carpo,
inspirata evidentemente da quello stesso sentimento di umanità che
informa la credenza ricordata pur ora. Cristo vi mostra una grande
pietà per i pagani che i diavoli cacciano nell'Inferno, si dice pronto
a morire una seconda volta per gli uomini, ed egli e gli angeli suoi
stendono soccorrevolmente la mano a coloro che stanno per essere
inghiottiti dall'abisso[500]. In sul finire del secolo VI, o in sul
principiare del VII, Isidoro di Siviglia crede che i suffragi giovino
in qualche modo alle anime dannate[501], e la leggenda ascetica afferma
di bel nuovo che alle anime dannate è conceduta alcuna requie o alcun
refrigerio. La Visione di San Baronto risale alla fine del secolo VII,
e in essa si dice che quelli tra i dannati i quali hanno fatto nel
mondo alcun bene, sono all'ora sesta di ciascun giorno, confortati
con un po' di manna del Paradiso[502]. Qui la pietà giunge a far
scendere ogni giorno in Inferno una particella, sia pur piccolissima,
della beatitudine celeste. Nella Visione del monaco Wettin, ch'è del
principio del secolo IX, si dice, parlando del castigo a cui sono
assoggettati in Inferno i chierici incontinenti e le loro concubine,
che essi sono flagellati tutti i giorni della settimana, meno uno,
nelle parti genitali[503].
In quel medesimo secolo IX, il più copioso di leggende ascetiche
fra tutti i secoli del medio evo, comincia pure a diffondersi fra
i cristiani dell'Occidente la _Visio Pauli_, la quale altro in
sostanza non è se non la versione latina della greca Apocalissi
di San Paolo[504]. Quella versione, e le versioni volgari che ne
derivano, presentano, rispetto al testo originale, nelle redazioni
varie, diversità di maggiore e minore rilievo; ma una è quella che
più particolarmente chiama la nostra attenzione. Nell'Apocalissi
greca un sol giorno di riposo si concede ai dannati, la domenica
della risurrezione di Cristo, con le due notti ancora fra le quali è
compresa: nella _Visio_ latina, e nelle versioni volgari, i dannati
riposano tutte le domeniche, anzi, più propriamente, dall'ora nona del
sabato alla prima del lunedì.
Il D'Ancona, ponendo mente alle parole con cui la Visione comincia in
alcune redazioni latine e volgari[505], pensò la santificazione della
domenica essere il concetto animatore di tutta la leggenda[506]. Se non
che tale pensiero egli esprimeva quando le redazioni latine più antiche
non erano conosciute ancora e non erano conosciute le relazioni della
Visione latina coll'Apocalissi greca. Nell'Apocalissi greca i dannati
riposano, come s'è veduto, la domenica di risurrezione; ma il concetto
che informa quella parte della leggenda, non è la osservanza e la
santificazione di un giorno sacro; bensì è il pensiero semiorigeniano
di una intermittenza nelle pene infernali. Così pure nelle redazioni
latine più antiche della Visione, dove nulla è detto della particolare
santità della domenica, e della osservanza in cui la domenica vuol
esser tenuta, il concetto che informa la leggenda è pur sempre questo
stesso pensiero semiorigeniano, e si può dire che continui ad essere
anche nelle redazioni latine più recenti, e nelle volgari, nonostante
ciò che intorno la domenica vi si nota espressamente. Non è però che la
santità del giorno sia stata senza importanza, e senza esercitare un
qualche influsso sulla leggenda. Se nell'Apocalissi vediamo assegnata
ai dannati, quale giorno di riposo, la domenica di risurrezione, non
dovette esser lungi dalla mente dell'autore il pensiero che essendo
quello un giorno di universale salute, anche i dannati dovevano averne
qualche beneficio. E se nella Visione il riposo si allarga a tutte le
domeniche dell'anno, possiam credere che ciò non avvenga in tutto fuori
del pensiero che la domenica è per sè stessa giorno di salute e di
grazia. Di essa aveva detto Sant'Agostino: _Domini enim ressuscitatio
promisit nobis aeternum diem, et consecravit nobis dominicum diem;_
e ancora: _Dominicus dies..., aeternam non solum spiritus, verum
etiam corporis requiem praefigurans_[507]. Si può ricordare, a questo
proposito, che secondo i musulmani il fuoco infernale cessa di ardere
il venerdì. Del resto anche un altro concetto si fa manifesto tanto
nell'Apocalissi quanto nella Visione, il concetto della grandissima
efficacia e della quasi irresistibilità della preghiera,
Che vince la divina volontate.
Il credente, il quale ha ferma fede nella efficacia della preghiera,
difficilmente può indursi a pensare che questa efficacia possa in tutto
mancare in certi casi, e lo stesso dicasi quanto alle altre pratiche,
cui sia annessa virtù deprecatoria e propiziatoria, e alle cose tutte
cui sia attribuito un carattere sacro e una qualche virtù taumaturgica,
come le reliquie, l'acqua benedetta, ecc. Al qual proposito vuol essere
notato che nella fede volgare quelle pratiche e quelle cose acquistano
una virtù loro propria, di cui altri può giovarsi per un fine anche
malvagio. Nei poemi epici del medio evo si parla spesso di reliquie
tolte dai saraceni ai cristiani, e delle quali i saraceni al par dei
cristiani si posson giovare. In certi malefizii magici si faceva uso di
cose consacrate. Della virtù della preghiera si trovano dimostrazioni
ed esempii in parecchie religioni oltre la cristiana: mi basterà
di citarne un caso che fa più particolarmente per noi. Fu opinione
dei rabbini che la punizione dei malvagi in Inferno fosse sospesa
durante le preghiere solite a farsi ogni giorno dai credenti. Queste
preghiere eran tre, e il riposo per ciascuna preghiera era di un'ora e
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