Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, vol. I - 12

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tranquillitate_; ma nei racconti tedeschi esplicitamente si parla di
un mare glutinoso, che nelle onde innavigabili trattiene prigioniere le
navi. Questo mare non fu ignoto agli antichi. I Latini lo dissero _mare
pigrum_, _coenosum_, o _concretum_[376], ed esso trova un riscontro
nel _Polmone marino_ di Pitea e nel Marimarusa di Filemone[377].
Dai Tedeschi fu chiamato _Lebermeer_, _Lebersee_ (_mare jecoreum_),
_Klebermeer_, e vedesi ricordato, o descritto, in parecchi de' loro
poemi, per esempio nel _Herzog Ernst_ e nell'_Orendel_[378]. Il _mare
coagulatum_ è ricordato pure nella già citata lettera del Prete Gianni
all'imperatore Emanuele, come quello che dovrebbe trovarsi a occidente
dell'Europa[379]: ma Giovanni di Hese pone il _mare jecoreum_ in
Oriente, di là dall'Etiopia, e seguendo l'esempio datogli da altri,
ne congiunge il mito con quello del Monte della calamita[380]. Anche
Beniamino di Tudela del resto sembra aver posto nel remoto Oriente un
mare coagulato.
Prima di giungere al Paradiso terrestre San Brandano e i compagni suoi
attraversarono una così densa caligine che appena l'uno poteva scorgere
l'altro. Essi passarono probabilmente quell'incognito e tenebroso mare
a cui accenna Adamo Bremense, e che già noto agli antichi, vedesi
spesso descritto dai geografi arabici; mare che era nell'estremo
Occidente e nell'estremo Oriente, perchè confondevasi col misterioso
oceano che fasciava tutto intorno la terra[381]. Credettero gli Arabi
che fuori dal mar tenebroso occidentale si levasse la smisurata mano di
Satana, pronta a ghermire le navi che ci si avventurassero[382]; e nel
_Pellegrinaggio di tre figli del Re di Serendib_, di Cristoforo Armeno,
si parla di una regione dell'India, dove si vedeva uscir dal mare una
gran mano aperta, che la notte ghermiva gli abitanti e li trascinava
sott'acqua.
I fabbri ferrai non sono già Ciclopi, come parve al Cholevius; ma
veri diavoli (e qualcuna delle versioni lo dice espresso), e, assai
probabilmente, diavoli martellatori di anime. Così fatti martellatori
già compajono nella Visione di Tespesio, riferita da Plutarco[383],
e ricompajono più volte in Visioni e leggende del medio evo. Nella
Visione di Tundalo sono fabbri diabolici che con le tenaglie afferrano
le anime, le gettano nelle fornaci ardenti, e arroventatele, e
appastatene venti, trenta, cento insieme, le martellano a furia sulle
incudini[384]. Giovanni Villani, ripetuto da Ricordano Malispini,
racconta che Ugo, marchese di Brandeburgo, cacciando un giorno in un
bosco, trovò _uomini neri e sformati_, che tormentavano, _con fuoco
e con martello_, anime dannate, e fu da quelli avvertito che, non
emendandosi, gli sarebbe toccata egual sorte[385].
Alle genti di razza brettone e gaelica doveva parer naturale di porre
l'Inferno, anzichè nelle viscere della terra, nelle varie isole mal
note e di malagevole accesso, sparse per il burrascoso oceano[386].
Nelle carte medievali è spesso indicata col nome d'isola dell'Inferno
una delle Isole Canarie, e più particolarmente quella di Teneriffa.
Dopochè San Brandano ebbe veduto Giuda sedere sopra una pietra in mezzo
all'oceano, più altri esploratori e venturieri, meno reali e storici di
lui, ebbero ad incontrarlo, presso a poco nelle medesime condizioni:
tali Ugone da Bordeaux e Baldovino da Sebourg. Ugone lo trovò in un
gran gorgo di mare, pel quale debbono passare tutte le acque che sono
sulla terra:
Toutes les iaves, quanques dix fait en a,
U qu'eles soient par ichi pasera[387].
Il monte ignivomo di San Brandano è certamente l'Hecla.
Da ultimo è da ricordare che la leggenda marinaresca fiorì già in
Grecia in antico e riappar frequente nella letteratura tedesca del
medio evo[388].
L'isola paradisiaca visitata da San Brandano lasciò di sè lungo
ricordo e vivissimo desiderio. Durante tutto il medio evo, e per buon
tratto di tempo anche dopo, si credette generalmente e fermamente
alla sua esistenza. Nelle carte essa fu molte volte indicata, sebbene
con differenze grandi, e naturali, di luogo. Quelle più antiche le
assegnano presso a poco la latitudine dell'Irlanda, o una latitudine
anche più settentrionale; nelle più moderne l'isola scende verso
Mezzodì, e appare a ponente delle Canarie, o Isole Fortunate, e con
queste, facendosene d'una parecchie, è confusa talvolta, o col gruppo
di Madera. Così nella mappa dei Pizzigani, ove si vedono nel mare
occidentale le _ysole dicte Fortunate S. Brandany_, e San Brandano in
atto di stendere le braccia verso di esse; così in quella di Grazioso
Benincasa, ove pur compajono le _Insule fortunate sancti Brandani_,
e in quella del Genovese Beccaria. Il Maurolico nel _Martyrologium_,
e Onorio Filopono nella _Navigatio in Novum Mundum_, affermano che
San Brandano approdò alle Canarie. Nel globo di Martino Behaira, del
1492, l'isola meravigliosa è situata assai più verso Occidente e in
prossimità dell'equatore[389]. Gli abitanti delle isole di Madera, di
Palma, di Gomera e del Ferro, ingannati da nubi, o dagli spettri della
Fata Morgana, credevano talora di scorgerla dalla parte di Occidente,
come perduta fra l'acqua e il cielo. E già essa aveva preso il nome
d'isola Perduta, _Insula Perdita_, e dicevasi, con qualche reminiscenza
forse dell'ἀπρόσιτον νῆσον degli antichi[390], che quando si cercava
non si trovava. Nella _Image du monde_ si legge:
Une autre ille est que on ne puet
Veoir comme on aler se veult,
Et aucune fois est veue:
Si l'appelle on l'Ille Perdue.
Celle ille trouva sains Brandains,
Qui mainte merveille vit ains[391].
Ma quest'isola Perduta, visitata da San Brandano, non si diceva poi
che fosse il Paradiso terrestre. Onorio d'Autun l'aveva descritta come
la più amena e la più fertile di quante ne sono in terra: «Est quaedam
Oceani insula dicta Perdita, amoenitate et fertilitate omnium rerum
prae cunctis terris praestantissima, hominibus ignota. Quae aliquando
casu inventa, postea quaesita non est in venta, et ideo dicitur
Perdita»[392]. Rodolfo da Ems dice che l'Isola Perduta è il più bel
paese del mondo, dopo il Paradiso terrestre, e che San Brandano v'andò,
der vil wunderliche gotes degen;
ma a nessun altr'uomo fu più conceduto di ritrovarla[393]. Pietro
Bersuire riferisce questa stessa immaginazione alle Isole Fortunate,
così dette da alcuni «quia casu et fortuna quandoque reperiuntur; si
autem a proposito quaerantur, raro aut nunquam inveniuntur»[394]. In un
trattato dell'arte di navigare di Pietro di Medina, autore spagnuolo
del secolo XVI, l'Isola Perduta si confonde con la famosa Antilia, da
cui venne il nome alle Antille[395].
L'Isola Perduta e introvabile fu cercata da molti, specie dopo che la
scoperta del Capo di Buona Speranza e dell'America, ebbe acceso negli
animi la febbre delle remote esplorazioni; e qualcuno pretese anche di
averla trovata[396]. Ad ogni modo era comune speranza che dovesse, un
dì o l'altro ritrovarsi; e quando, il 4 di giugno del 1519, Emanuele di
Portogallo rinunziò alla Spagna, col trattato d'Evora, ogni suo diritto
sull'Isole Canarie, l'Isola Perduta, o Nascosta, fu espressamente
compresa nella rinunzia[397]. Nel 1569 Gerardo Mercator segnava ancora
sulla sua mappa l'isola misteriosa, e nel 1721 partivano in traccia di
essa gli ultimi esploratori.
La leggenda di San Brandano n'ebbe poche pari in celebrità. Essa fu
introdotta, in forma più o meno svolta, secondo le redazioni, nella
_Image du monde_, che diffusissima essa stessa, ajutò a diffonderla
sempre più[398]. Un frate Filippo di Cork la inserì, non so se per
disteso o in ristretto, in un suo trattato provenzale delle meraviglie
dell'Ibernia, che si conserva tra' manoscritti del Museo Britannico;
Pietro de Natalibus nel suo _Catalogus Sanctorum_; Wynkyn de Worde
nella sua _Golden Legend_, ecc. Ricordi se ne trovano nel _Lohengrin_,
nel _Wartburgkrieg_, e in altri poemi tedeschi. Essa era divenuta un
tema consueto di narrazione e di recitazione, e in un luogo della prima
rama del _Renard_ si trova ricordata insieme con istorie romanzesche
del ciclo brettone. Inni di religiosi sonarono in onore del santo che
aveva corsi i mari, e preghiere si recitarono, che dissero composte da
lui fra i perigli della temeraria navigazione[399]. Giovanni di Hese
ebbe fantasia di emularlo, e accrebbe con brandelli della leggenda di
lui l'ingegnoso tessuto delle sue innocenti bugie. Nel presente secolo
poeti inglesi si ricordarono del santo morto da dodici secoli, e presi
d'ammirazione, ne ricantarono in vario modo le meravigliose avventure.
Di queste avventure pochissimi si mostrarono disdegnosi nel medio evo,
e di questi pochissimi fu Vincenzo Bellovacense. Egli dice d'avere
escluso affatto dall'opera sua la storia della peregrinazione di
San Brandano a cagione dei vaneggiamenti ond'essa è piena, _propter
apocripha quaedam deliramenta que in ea videntur contineri_[400].
Ora, sì fatto rigore ha alquanto dello strano, perchè se la fama onde
Vincenzo gode presso i posteri è, per più rispetti, onorevole, non però
è fama di uomo in cui abbondi lo spirito critico e naturalmente avverso
a raccontar fanfaluche. E più sembra strano quando si vede ch'egli,
mentre ricusa di narrare la storia di San Brandano, narra poi la storia
non molto meno miracolosa di San Maclovio[401].
San Maclovio o Macute, o Macuto (il Saint Malo dei Francesi) fu
irlandese ancor egli; ma ottenne poca celebrità in patria, e divenne
per contro un santo famoso tra gli Armoricani, i quali si studiarono di
allargarne e adornarne quanto più poterono la leggenda, e l'allargarono
e l'adornarono, sembra, a spese di San Brandano; e dico _sembra_,
perchè la cronologia, in tutte queste storie di santi, è assai oscura
ed incerta, e può dar luogo a opinioni contraddittorie. Nei ricordi
più antichi San Maclovio è soltanto uno dei monaci di San Brandano,
e un compagno de' suoi viaggi, i quali sono ricordati solamente di
volo[402]; ma poi usurpa il luogo del suo superiore e diventa il capo
della spedizione, e San Brandano diventa uno dei seguaci. San Maclovio
imprende due viaggi per ritrovare l'isola d'Ima, la quale non è il
Paradiso, ma ha col Paradiso moltissima somiglianza. Nel secondo ha
compagno San Brandano, e chiede a un gigante da lui risuscitato notizie
dell'isola di cui va in traccia. Il gigante ricorda d'aver visitato
una volta un'isola, la quale, cinta di un aureo muro, splendeva come
uno specchio, ed era vuota di abitatori. Pregatone, egli, ch'è di
smisurata altezza, entra nell'oceano profondo, e si trae dietro la
nave dei monaci, per andare alla scoperta dell'isola beata; ma insorge
una furiosa burrasca, e debbon tutti tornarsene onde sono venuti. Poco
dopo il gigante, che ha ricevuto il battesimo, si muore[403]. Sigeberto
Gemblacense narra anch'egli il viaggio di San Maclovio; ma dice che
questi fu sollecitato, oltrechè dal desiderio proprio, dall'esempio
del suo maestro ed abate Brandano, il quale ardeva non men di lui della
brama di trovar l'isola felice, e fu il promotore della peregrinazione,
_ut scriptura vitae ejus demonstrat_. Mette in dubbio che l'isola da
essi cercata sia il Paradiso terrestre, e dice che, stando alla fama,
è un'isola copiosa di tutti i beni e abitata da _cittadini del cielo_,
che menan quivi santa e gioconda vita[404]. Anche San Maclovio scese
co' suoi compagni sopra il dorso di una balena, credendola un'isola,
e vi celebrò una messa. Quanto al gigante risuscitato e battezzato
da lui, sarà opportuno avvertire che nel racconto gaelico della
navigazione di San Brandano, questi risuscita e battezza una gigantesca
fanciulla bionda, la quale misura ben cento piedi d'altezza, e che
richiesta, dopo il battesimo, se voglia tornare fra' suoi, o andarne
subito in Paradiso, elegge la sorte più felice, e ricevuto il viatico,
incontanente rimuore[405].
Gli esempii di San Barinto e di San Mernoc, di San Brandano e di San
Maclovio, dovettero scaldare la fantasia e turbare i sonni a molti
monaci di buona volontà, non meno provveduti di fede che di coraggio.
Gotofredo da Viterbo, che parla della esploratrice curiosità di certi
monaci dell'Armorica,
Qui marium fines scrutantur et ultima terrae,
Ut valeant populis post tempora longa referre
Quas ibi materies, quae loca mundus habet,
narra, fondandosi su certo _Libro d'Enoch ed Elia_, a noi sconosciuto,
una storia, che reca novella prova di quei desiderii irrequieti. Cento
frati in una volta si cacciano a navigar per l'Oceano:
Vela vehunt validis erecta per aequora ventis.
His super alta maris per tempora longa retentis,
Sola poli facies, aequora sola patent.
Corrono fra cielo ed acqua tre anni, poi si scontrano in certe statue
emergenti dai flutti, le quali col braccio teso additano loro la via.
Arrivano finalmente a una montagna odorosissima, tutta d'oro, sulla
cui vetta è una città aurea, e una chiesa, d'oro essa pure, tempestata
di gemme sfolgoranti, e nella chiesa, sopra un altare prezioso,
un'immagine di Maria col bambino. È quello il Paradiso terrestre.
I naviganti, pieni di meraviglia, cercano da ogni banda se non vi
sia persona viva, e da ultimo scoprono, in una celletta splendida e
riposta, due vecchioni con barbe e chiome lunghe e candidissime, Enoch
ed Elia.
Inclyta barba senum fuerat, longique capilli,
Candida caesaries; nautisque petentibus illis,
Surgentes pariter verba dedere senes.
I due santi dicono loro come in quel luogo sia variata la ragione del
tempo; come, al tornare che faranno in patria, troverannosi vecchi, e
vedranno mutate le generazioni, e tutt'altra la condizion delle cose.
Per ingiunzione di quei due si celebra allora una messa, alla quale
séguita una general comunione. I naviganti si partono, e rifanno in
cinque giorni la via in cui prima consumaron più anni; ma tornati in
patria non trovan più nulla di quanto già vi lasciarono. Sparita è la
loro chiesa, sparita è ancor la città, e ad un popolo nuovo nuovo re dà
legge novella. L'assenza loro durò trecent'anni[406].
Quelle statue che mostran la via hanno qualche riscontro; ma è più
frequente il caso di statue, o di colonne, che avvertono altrui di non
passare più oltre. Esse si moltiplicano sulle rive, o nelle men remote
isole di quel formidabile Atlantico, che fu teatro alle audaci imprese
dei nostri esploratori. Già le famose Colonne d'Ercole vietavano il
passo gaditano[407]. I geografi arabici, Ibn-al-Vardi Yakut, Edrîsi,
Masûdi, il Geografo Nubiense, parlano di statue colossali poste in
Cadice e nelle Canarie, o anche nelle Isole del Capo Verde, le quali
facevan cenno di non passare più oltre; e quella di Cadice è ricordata
anche nella Cronaca detta di Turpino. Nel _Mare amoroso_, attribuito a
Brunetto Latini, si fa cenno di un passo di mare
Che fie chiamato il braccio di Saufi,
Ch'à scritto in sulla man: niuno ci passi,
Per ciò che mai non torna chi vi passa[408];
e nella mappa dei Pizzigani è una figura in atto di respingere i
naviganti che vorrebbero inoltrarsi sull'oceano[409]. Il Camoens ebbe
a ricordarsi di queste fantasie quando immaginò il suo gigantesco
Adamastore, che tenta di far tornare indietro Vasco di Gama. Ma fu pur
detto che nell'isola di Corvo, la più settentrionale dell'Azore, fosse
la statua di un cavaliere che con la destra indicava l'Occidente, quasi
per additare il cammino agli scopritori del Nuovo Mondo.
Dalle spiagge dell'Irlanda e dell'Armorica passiamo ora in Asia, o,
se meglio piace, in Ispagna per incontrarvi l'ultimo di questi santi
esploratori, Sant'Amaro, di cui narra le avventure una leggenda
spagnuola. Chi fu Sant'Amaro? in che tempo viss'egli? Confesso
schiettamente di non saperlo, e dubito forte non appartenga ancor egli
a quella abbastanza numerosa famiglia di santi, che vivissimi nella
fantasia popolare, non furono mai vivi al mondo. Un santo Amaro d'ossa
e di polpe ci fu, nativo, credesi, di Francia, fermatosi poi in Burgos,
e già venerato in Ispagna nel secolo XV[410]; ma egli, che attese tutto
il tempo di vita sua a curar gli ammalati e servir i poveri di quella
città, nulla ha da spartire col nostro. Sia come si voglia, la leggenda
di questo è assai moderna, e forse di poco anteriore al 1558, del quale
anno se ne ha una stampa, col titolo: _La vida del bienaventurado sant
Amaro y de los peligros que posò hasta que llegò al Parayso terrenal_.
Nelle altre letterature non se ne ha traccia; ma in Ispagna essa entrò
a far parte della letteratura popolare, e leggesi tuttavia. Io la
riferisco di su un _pliego suelto_ stampato in Madrid, senz'anno, ma
recentissimo[411].
Amaro fu d'Asia (non si dice di quale città o provincia) uomo
devotissimo, caritativo, e tutto preso dal desiderio di vedere una
volta il Paradiso terrestre, di cui sempre chiedeva novelle, ma
inutilmente, ai molti pellegrini che gli capitavano in casa. Una notte,
stando in orazione, udì una voce che gli disse: «Amaro, abbandona
la tua casa, va al porto, entra in una nave, lasciala andare dove
la Provvidenza la condurrà, e vedrai ciò che desideri». La dimane il
santo distribuì ai poveri le sue ricchezze, solo quel tanto ritenendone
che poteva bastare alla sua navigazione, e il terzo dì, accompagnato
da due servitori, e da quattro amici che non vollero andasse solo a
quell'impresa, si recò al porto più vicino, comperò una buona nave,
la fornì del necessario, e spiegò le vele, lasciandosi menare dai
venti. Trovò da prima un'isola, chiamata Deserta, ma subito se ne
dilungò, avvertito da una voce del cielo che quella era terra di
peccatori. Attraversò il Mar Rosso, e giunse a una seconda isola, detta
Fuen-Clara, fertilissima e deliziosa, abitata da uomini di bonissima
indole, i quali vivevano centocinquant'anni, senza conoscere infermità
o disagio alcuno. Non si sa come, i naviganti, dopo lungo tempo,
si trovarono nei mari polari, e per poco non rimasero prigionieri
dei ghiacci, dai quali venne loro fatto di scampare per un buon
suggerimento che diede a Santo Amaro la Vergine Maria. Approdarono ad
altre due isole, nell'una delle quali vivevano tredici monaci in una
badia murata, difendendosi a gran pena da innumerevoli e formidabili
fiere, e nell'altra era un sant'uomo, chiamato Leonita, perchè viveva
in compagnia di sei leoni, mansueti come agnelli. Giunsero finalmente
a una spiaggia deliziosa, ove nè caldo si pativa nè freddo, e quivi
Sant'Amaro ebbe finalmente notizia della terra beata di cui andava
in traccia, prima da due eremiti, poi da una santa donna per nome
Baralides, la quale era badessa di un chiostro ivi presso, e l'aveva
veduta una volta di lontano. Guidato da costei per un tratto di via,
Sant'Amaro, i cui compagni erano rimasti addietro, nel luogo ove
avevano preso terra, risalì una valle, superò alti e dirupati monti,
e giunse da ultimo in vista di un meraviglioso palazzo, munito di
altissime torri, cerchiato di saldissimo muro, formato il tutto di
gemme d'ogni colore, le quali ardevano di luce incomparabile. Fuor del
palazzo, alla cui porta vegliava un gagliardo giovane con una spada
in pugno, correvano quattro fiumi. Era quello il Paradiso terrestre.
Accostatosi alla porta magnifica, Sant'Amaro chiese al guardiano
se gli fosse lecito d'entrar dentro; ma quegli rispose che no, e
che si contentasse di ciò che poteva vedere standosi sulla soglia.
Obbedendo al precetto, Sant'Amaro vide gli alberi pieni di frutti, e
quello, fra gli altri, del cui frutto mangiarono Adamo ed Eva; e vide
cori di bellissime donzelle, coronate di fiori, le quali cantavano
dolcissimamente, e sonavano varii strumenti, e servivano con somma
riverenza e vivissimo amore la Vergine. Sant'Amaro credette di aver
fruito di quel divino spettacolo un'ora, ed erano passati dugent'anni.
Tornato al luogo dove aveva lasciato i compagni, trovò una bella città,
che essi avevan fondata, e finì i suoi giorni in un monastero che gli
abitatori di quella edificarono appositamente per lui.
Ma lasciamo oramai i santi, co' quali ci siam trattenuti così a lungo,
e accostiamoci a un'altra schiera, formata di conquistatori e di
venturieri, i quali, o deliberatamente muovono in traccia del Paradiso
terrestre, con animo, talvolta di assoggettarlo al loro dominio,
o, quasi senza pensarvi, a forza di girare il mondo, lo trovano, e
riescono, o non riescono, secondo i casi, a penetrarvi. E come ragion
vuole cominciamo da colui che la leggenda consacrò principe e modello
dei venturieri e degli eroi, da Alessandro Magno.
In un racconto latino, intitolato _De itinere ad Paradisum_, si legge
quanto segue. Alessandro, di ritorno dalla conquista dell'Indie,
si ferma sulle rive del Gange, il quale è qui tutt'uno col Fison, e
contemplando alcune foglie mirabili venute dal Paradiso, esce in tale
lamento: «Nulla io feci nel mondo, e nulla stimo la gloria mia, se
di tali delizie non godo». E subito, raccolti cinquecento seguaci,
salita una gran nave, si mette a navigare su per il fiume. In capo di
trentaquattro giorni ecco appar loro una gran città, le cui mura, tutte
coperte di musco non lasciano scorgere adito alcuno, e sembrano essere
di grandissima antichità. Per tre giorni cercano gli esploratori tutto
all'ingiro, e finalmente scoprono una postierla angusta e sbarrata.
Alessandro manda suoi messi a intimar l'obbedienza ed a chieder
tributo, essendo egli signore del mondo. Al picchiar di coloro, uno
di dentro apre l'usciolo, e alle parole minacciose e superbe risponde
con voce blanda e tranquilla l'aspettino alquanto fin ch'ei ritorni.
Va e torna, recando una gemma di singolare qualità e bellezza, e
dice loro la dieno al lor re, perchè conosciutane la natura, tosto
smetterà ogni ambizioso pensiero. Alessandro, veduta la gemma, udita
la risposta, incontanente si parte, e raggiunge le sue genti, insieme
con le quali se ne va poscia a Susa. Quivi un vecchio Ebreo gli fa
conoscere la virtù della gemma, e gliene svela il misterioso, simbolico
significato. La gemma, messa nel piatto di una bilancia, vince di
peso ogni maggior copia d'oro che le si contrapponga, ma, coperta di
un pizzico di polvere, diventa più leggiera di una piuma. Stupisce
Alessandro, e l'Ebreo gli dice: «Questa gemma è immagine dell'occhio
umano, che vivo di nessuna cosa si appaga, morto e coperto di terra
più nulla vagheggia». Alessandro intende l'ammaestramento, e represso
ogni ambizioso affetto, e licenziati i compagni d'arme, si ritrae in
Babilonia, dove dal tradimento è troncata la gloriosa sua vita. La
città murata e chiusa è la dimora dei giusti, ove soggiorneranno sino
al dì del Giudizio[412].
Questo racconto, pervenuto sino a noi in una redazione che
probabilmente appartiene al XII secolo, è, senza dubbio, di origine
molto più antica, e scaturisce da fonte giudaica. Nel trattato _Tamid_
del _Talmud di Babilonia_ se ne legge uno che ha con esso colleganza
strettissima, anzi si può dir quel medesimo, salvo che il latino deriva
da una redazione più larga e più antica. Nel racconto talmudico,
l'andata di Alessandro al Paradiso si rannoda con l'avventura della
fontana di giovinezza, e l'eroe riceve dagli abitatori del Paradiso,
non una gemma simbolica, ma un vero occhio umano, il quale si comporta
del resto come la gemma[413]. La leggenda passò nell'_Alexander_ del
Tedesco Lamprecht, ma con alcune particolarità diverse da quelle pur
ora vedute, e ch'egli, o poneva di suo, o toglieva da scrittura a noi
incognita. Alessandro e i compagni suoi risalgono l'Eufrate (non il
Fison) sostenendo grandi fatiche, e terribili procelle, che mettono a
dura prova il loro coraggio e la loro perseveranza. Alessandro ha fermo
nell'animo di conquistare il Paradiso, e infiamma i commilitoni alla
gloriosa impresa. Dopo lunga navigazione giungono a un muro altissimo,
tutto costruito di pietre preziose, del quale non viene lor fatto di
vedere la fine. Trovano da ultimo la porta, fanno la intimazione a quei
di dentro, ricevono la gemma. I più giovani contendono co' più vecchi e
savii: questi consigliano ad Alessandro di tornare; quelli di seguitar
l'impresa incominciata. Prevale il consiglio dei primi. Tornato in
Grecia, Alessandro fa vedere la gemma a molti che non sanno conoscerne
la virtù, finchè un vecchio Ebreo, da lui fatto venire appositamente,
gliela scopre, servendolo per giunta di una lunga ammonizione. Con
quest'avventura finisce il poema[414].
L'avventura fu pure narrata da Tommaso di Kent nel _Roman de toute
chevalerie_, e introdotta da un interpolatore nel poema di Lambert li
Tors e Alessandro da Bernay, e ripetuta nella compilazione intitolata
_Faits des Romains_[415], nei _Fatti di Cesare_ nostri[416], dal
Mandeville[417], da Pietro Paludano nel suo _Thesaurus novus_. Giovanni
di Hese dice che vicino al Paradiso terrestre è un monte, sul quale fu
Alessandro, che soggiogato tutto il mondo, dallo stesso Paradiso volle
avere tributo[418]. La novella dell'occhio umano, o della gemma che lo
simboleggia, si trova anche separatamente dal racconto del viaggio di
Alessandro al Paradiso[419].
Gli Arabi e i Persiani, che tante favole meravigliose narrano del
Macedone, parlano bensì di una spedizione ch'ei fece in cerca della
fontana di giovinezza, ma ignorano la sua andata al Paradiso. Solo
Nizâmi, il quale fa compiere all'eroe un viaggio nell'Oceano Atlantico,
dice ch'ei seppe, da certi selvaggi abitatori d'un deserto posto di
là dal mare, come fosse, nella regione dove più non brilla il sole,
una città magnifica, abitata da uomini di santa vita, i quali, senza
mai invecchiare, vivevano cinquecent'anni; e il poeta conduce l'eroe
a una terra felice, posta verso Settentrione, popolata da genti scevre
di ogni malizia[420]. A questo proposito non parrà superfluo ricordare
come Firdusi narri dell'andata di Rustem all'Alburz.
Di Alessandro Magno, che presunse di assoggettare persino il Paradiso
terrestre, ebbe forse a ricordarsi l'Ariosto, quando attribuì il
pensiero temerario di così gran conquista al suo Senapo, che ne fu
punito con la cecità e con le Arpie. Il Senapo
Inteso avea che su quel monte alpestre,
Ch'oltre alle nubi e presso al ciel si leva,
Era quel Paradiso che terrestre
Si dice, ove abitò già Adamo ed Eva.
Con cammelli, elefanti, e con pedestre
Esercito, orgoglioso si moveva,
Con gran desir, se v'abitava gente
Di farla alla sua legge ubbidiente[421].
Un autore spagnuolo del secolo XVI, Giovanni Gonzalez di Mendoza,
narra, traendola non so d'onde, la storia di un re del Bengala,
il quale mandò gente, con molte barche, su per il Gange, ordinando
loro d'andarne alla scoperta del Paradiso terrestre. Gli esploratori
navigarono più mesi a ritroso del fiume, e giunsero finalmente a un
luogo ove era mitissima la corrente, e già molti segni apparivano
della prossimità della felice dimora; ma per quanti sforzi facessero
non poterono passar più oltre, sebbene non ci si vedesse impedimento
alcuno[422].
Tornando per un istante ancora ad Alessandro Magno, ricorderò, per
opportunità di riscontro, come nello Pseudo-Callistene si racconti
l'andata di lui, attraverso a un paese tenebroso, ov'è la fontana
di giovinezza, sin presso alle sedi dei beati, dalle quali lo fanno
allontanare due uccelli parlanti; e come nel racconto di Giulio
Valerio, sia dato il nome di Paradiso al luogo dove gli Alberi del Sole
e della Luna diedero all'eroe il famoso responso[423]. Nel Titurel, due
principi indiani, che si vantano discendenti da Alessandro, descrivono
il loro paese, che si chiama Paradiso, senza però esser quello dei
primi parenti.
Ecco ora farcisi innanzi parecchi eroi della leggenda cavalleresca
medievale. Di Merlino si narra che movesse con una nave di cristallo in
traccia dell'isole beate[424]. Di Ugone da Bordeaux si può dire che, se
non fu nel Paradiso terrestre, fu in luogo molto a quello somigliante.
Un grifone lo trasportò sopra una montagna che non conosce le tempeste,
e dove sono alberi bellissimi e tutti i frutti della terra, e la
fontana di giovinezza. Gesù Cristo vi si riposò e la benedisse. Per
comando di un angelo, il cavaliere tolse tre pomi, che avevano virtù
di far ringiovanire[425]. Ma ben giunse al Paradiso terrestre un altro
eroe, Baldovino da Sebourg. Spinti da una furiosa procella, Baldovino
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