Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, vol. I - 11

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e segue suo viaggio. Passa una gola tetra ed angusta, e riesce in una
campagna di meravigliosa bellezza, piena di ogni maniera di alberi,
dipinta di odorosissimi fiori, rallegrata dal canto d'infiniti uccelli.
Percorre quattro stazioni, ove sono tabernacoli constellati di pietre
preziose, addobbati di seta e di porpora, adorni di tanta ricchezza e
splendore che nulla di simile può raffigurare la fantasia. Ciascuna
stazione ha numerosi abitatori, vestiti sfarzosamente, raggianti di
luce, i quali accolgono con gaudio e con onore il pellegrino. Nella
quarta questi trova l'ospite suo, non più solo, ma circondato da
molti compagni, tutti vestiti di bianco, tutti fregiati di corone, e
più luminosi che il sole. Le accoglienze sono, quanto mai si possa
dire, affettuose e magnifiche; il luogo pieno di tanta gloria e di
tanta letizia che nessuna parola può darne una immagine. Il giovane
vi dimora trecento anni e stima esservi stato tre ore. Indarno la
sposa, i congiunti, i cavalieri, i servi, pieni di ansietà e di dolore,
aspettano ch'egli torni. Il padre e la madre di lui vanno ad abitare
nel luogo ov'egli s'accommiatò dai seguaci, mutano il castello in
un chiostro, in una chiesa il palazzo. Volano gli anni: muojono i
genitori, muore la sposa, muojono l'uno dopo l'altro tutti i soggetti;
le generazioni succedono alle generazioni, ininterrottamente. Scorsi
trecent'anni, il giovane, il quale ha serbata incolume intanto la sua
giovinezza, chiede licenza e l'ottiene; ma tornato nella sua terra,
trova ogni cosa mutata, e nuove genti, che nè lui conoscono, nè sono
da lui conosciute. Gli appare il castello mutato in chiostro; gli appar
la chiesa eminente e magnifica, guernita di torri, dalle quali scoppia
un clamor di campane che fa tremare i monti circostanti, e sulla cui
sommità sventola, in luogo del vessillo con l'aquila, il vessillo con
la croce. Il giovane si dà a conoscere al portinajo del convento. Ecco
l'abate, ecco i monaci tutti trasecolati di meraviglia; ecco accorrere
d'ogni intorno il popolo tratto al grido di così nuovo prodigio.
Il principe narra la sua storia, la quale è messa per iscritto; poi
l'abate ordina un sontuoso banchetto, raccoglie buon numero d'invitati;
ma il principe, come appena ha assaggiato il pan degli uomini,
improvvisamente appar vecchio di decrepita, non più veduta vecchiezza.
Lo portano in chiesa, e quivi egli, ricevuti i sacramenti, si muore. Il
corpo suo, dopo funerali pomposi, è deposto in quello stesso sepolcro
ove da secoli già dorme la sposa.
Questa è leggenda risolutamente ascetica, e tale ancora è la leggenda
del cavaliere irlandese Owen, che nel 1153, secondo narra Enrico di
Saltrey, visitò in carne ed ossa i luoghi di punizione e il Paradiso
terrestre, non peregrinando per lunga distesa di terre e di mari, ma
scendendo in quel misterioso Pozzo di San Patrizio della cui fama fu
pieno per molti secoli il mondo. Vedremo in seguito che anche altri
prese, per giungere al Paradiso, quella medesima strada, non certo più
comoda, ma molto più breve[342].
Il cavaliere Owen[343], dopo una vita di dissipazione e di peccato,
fu preso da pentimento, e cercò modo di scontare, mentr'era ancor
vivo la pena che troppo temeva di dover pagare dopo la morte. A tal
fine si fece introdurre nella cava di San Patrizio, la quale dava
adito ai regni dei morti, e cominciò il meraviglioso suo viaggio,
del quale fece poi, ritornato nel mondo dei vivi, il racconto.
Attraversò da prima varii luoghi di punizione, e vide i castighi a
cui erano assoggettate le anime, e n'ebbe la parte che gli toccava,
insidiato e deriso per giunta dai diavoli che di quei castighi eran
ministri. Giunse ad un ponte periglioso (il solito ponte delle leggende
infernali), e passatolo, si trovò in una gioconda campagna, dinanzi
ad un muro altissimo e meraviglioso, e ad una porta tutta contesta di
metalli preziosi e di gemme. La quale apertasi, ecco venire incontro
al pellegrino una gloriosa processione di santi, e fargli lieta
accoglienza, e introdurlo nella divina città, e taluno di quelli
mostrargliene a mano a mano tutte le meraviglie. Il cavaliere non
vorrebbe più partirsi da quel luogo di beatitudine; ma gli è forza
tornare al mondo, e purgato d'ogni antica bruttura, ci torna[344].
Dice San Patrizio, in certa _Confessio_ a lui attribuita, che quelli
del suo sangue furono dalla Provvidenza dispersi in qua e in là
sino agli ultimi termini della terra[345]. Queste parole, vere o
supposte, di un santo di cui la stessa esistenza fu posta in dubbio,
ci richiamano ad un altro gruppo di leggende, nelle quali allo spirito
ascetico si accompagnano lo spirito di esplorazione e di ventura, e che
hanno per giunta questo comun carattere, d'esser leggende marittime,
e di avere ad eroi certi monaci settentrionali che odiano la pace
e l'ozio dei chiostri, ardono del desiderio di propagare la fede di
Cristo, sognan cose mostruose e terribili, ed essendo, in generale,
grandissimi santi, hanno pure in sè qualche cosa del pirata. Costoro
fioriscono più particolarmente sulle coste occidentali dell'Irlanda,
della Scozia e della Frisia; e campo alle loro imprese è lo sterminato
oceano che le bagna di onde perpetuamente in tumulto, e si stende,
formidabile e sconosciuto, fino all'estrema plaga del cielo, ove il
sole tramonta, fin sotto alla notte del polo; terribile ed infinito
oceano che tutto il mondo circonda, scrive Adamo Bremense (m. 1076),
oceano pieno d'intollerabile gelo e di caligine immensa.
Esso fu dalla turbata fantasia degli antichi prima, da quella degli
uomini del medio evo poi, empiuto di pericoli, popolato di mostri[346],
il terror de' quali fu di non lieve ostacolo alla temeraria
navigazion di Colombo, ma non valse a trattenere quegli arditi ed
oscuri esploratori del Settentrione a cui devesi la scoperta della
Groenlandia, e d'altre terre boreali, e della stessa America forse,
molti secoli prima che v'approdasse il grande Italiano[347]. Delle
esplorazioni loro molti ricordi, tra storici e favolosi, sono giunti
sino a noi, ed io volentieri m'indugio, prima di proceder oltre,
intorno a taluno, dacchè essi hanno stretta attinenza con le leggende
che verrò poscia esponendo, e servono a determinarne vie meglio il
carattere e ad illustrarle.
Di Aroldo, principe di Norvegia, narra il testè ricordato Adamo
Bremense come corresse con le sue navi il mare settentrionale, finchè
si vide intenebrare dinanzi gli estremi confini del mondo, e come a
stento scampasse da un _immane baratro dell'abisso_. Lo stesso Adamo
narra la seguente istoria. Alcuni nobili di Frisia, desiderosi di
accertarsi con gli occhi loro se verso Settentrione non vi fosse
più terra alcuna, ma solo quel mare che dicesi concreto o viscoso,
com'era comune sentenza, si misero in nave e sciolsero le vele ai
venti. Lasciando dall'una mano la Danimarca, dall'altra la Brettagna,
giunsero alle Orcadi, e seguitando la navigazione loro a occidente
della Norvegia (Nordmannia), pervennero alla glaciale Islanda,
d'onde, più oltre procedendo, verso il polo, entrarono nella region
delle tenebre, e furono travolti, con veementissimo impeto, in quella
profonda voragine, che assorbendo, com'è fama, e rivomitando immensa
copia di acque, dà origine al flusso e al riflusso del mare. Parecchie
loro navi andarono miseramente perdute con quelli che dentro vi erano;
altre, risospinte dal gorgo, uscirono dalle tenebre e dalla plaga del
gelo, e giunsero insperatamente ad un'isola, la quale era, a guisa di
fortezza, munita tutto intorno di altissimi scogli. Scesi a terra, i
naviganti non videro per allora gli abitatori, i quali, essendo l'ora
meridiana, si tenevano celati nelle loro spelonche; ma ben videro,
davanti agli aditi di queste, molti vasi d'oro, e d'altri metalli che
gli uomini stimano preziosi, e tolti di quelli quanti più poterono,
lietamente fecero ritorno alle navi. Ma ecco che improvvisamente si
videro inseguiti da uomini smisurati, che noi chiamiamo Ciclopi, i
quali erano preceduti da cani di molto maggior mole che i nostri non
sieno. Raggiunsero coloro uno dei fuggenti, e subito il fecero a brani;
mentre gli altri poterono riparar nelle navi, e allontanarsi, non
senza che i giganti li inseguissero buon tratto in alto mare, gridando
e minacciando. Tornarono a Brema gli esploratori, e narrate le lor
fortune al vescovo Alebrando, offersero sacrifici a Cristo redentore e
al confessor suo Villecado, in ringraziamento di lor salvezza[348].
Quell'immane abisso, quella voragine che produce il flusso e il
riflusso del mare, è probabilmente il Maelstrom, aggrandito e trasposto
dalla fantasia, ed altri ricordi se ne trovano in iscritture del medio
evo[349]. Quanto ai Ciclopi è noto che il mito loro fu diffuso così in
Occidente come in Oriente, e che nel medio evo esso riappare più di una
volta[350]. Del mare concreto o viscoso dirò più innanzi.
Un'altra spedizione, degna d'essere rammemorata, narra Sassone
Grammatico. Gormo, re di Danimarca, bramoso di scoprir cose nuove,
raccoglie trecento compagni, e alla guida di un tal Torkillo, con
tre navi saldamente costrutte, si mette in mare. In capo di certo
tempo giungono i naviganti a una terra, ove, essendo già stremati di
vettovaglie, fanno strage dei greggi che vi trovano. Le divinità del
luogo, offese, non li lasciano partire sino a che non abbiano offerto
in sacrificio d'espiazione tre di loro compagnia. Di quivi passano
nella Biarnia ulteriore, paese di delusive lusinghe e d'incantamenti
diabolici. Torkillo vieta ai compagni di parlare cogli abitanti, di
accondiscendere ai loro inviti, questo essendo il solo modo di render
vane le loro malie: quattro più incontinenti trasgrediscono il divieto,
e rimangono nella terra in una condizione di servitù neghittosa,
immemori del passato. Gli altri si partono liberamente, e pervengono a
un orribil castello, custodito da cani famelici, abitato da mostruose
e spaventevoli larve. Qui Torkillo ammonisce di nulla temere e di nulla
prendere delle cose che s'offrono alla vista, e lusingan la cupidigia;
ma egli stesso non sa resistere alla tentazione. Ne segue una terribile
zuffa. Al ritorno, dei trecento compagni non ne rimangono più che
venti[351].
Narrazioni consimili ebbero corso e celebrità fra i Celti, i quali
le designarono col proprio nome d'_imramha_[352]. Fantastica in
sommo grado, e lunghissima è quella della navigazione di Maelduin,
il quale desideroso di vendicare la morte del padre, ucciso da certi
pirati, si mise in mare con più di sessanta compagni, e correndo
verso Settentrione e verso Ponente, visitò un numero stragrande
di isole, piene d'infinite meraviglie, ed una tra l'altre in cui
non s'invecchiava, nè di male alcuno si pativa, e dalla quale era
malagevole cosa partirsi[353]. I figliuoli di Conall Dearg Ua-Corra
erano stati prima pirati, ma poi, pentitisi, fecero un pellegrinaggio
in mare, e videro anch'essi moltissime meraviglie, e tra l'altro alcune
isole che facevano officio d'inferno o di Purgatorio, e dov'erano
variamente puniti peccatori di più maniere[354]. Avventure in parte
simili alle loro, in parte diverse, si hanno nella narrazione del
viaggio di Snedhgus e di Mac-Riaghla[355], e in altri racconti, alcuni
dei quali tuttavia inediti. Di Merlino narravasi che fosse andato con
una nave di cristallo in traccia dell'Isole Beate[356].
Fra tanti navigatori erano forse i più ardenti, e non erano i meno
audaci, i monaci; sia che li sollecitasse la speranza di piantare la
croce in qualche isola incognita, perduta nella immensità dell'oceano;
sia che li movesse il desiderio di compiere, a salute dell'anime
loro, un pio pellegrinaggio su quel mare pien di pericoli, che si
credeva accogliesse, nella più remota sua parte, l'isola arcana
del Paradiso. Testimonianze del IX e dell'XI secolo provano che lo
zelo dei missionarii fece scoprire parecchie terre nell'Atlantico
settentrionale[357]; e Dicuil, nel suo trattato _De mensura orbis
terrae_, parla delle loro spedizioni[358]. I monaci di San Colombano
correvano temerariamente l'oceano con barche leggiere, intessute di
vimini, coperte di pelli, quali usavano sulle coste d'Irlanda, e uno
di essi fu spinto dai venti nell'Oceano settentrionale lo spazio di
quattordici giorni e quattordici notti. San Colombano stesso (m. 597)
fu un ardito navigatore[359]. Ed eccoci giunti ora a quella famosa
leggenda di San Brandano, che acconciamente fu detta una Odissea
monastica, e cui il Renan giudicò _une des plus étonnantes créations
de l'esprit humain et l'expression la plus complète peut-être de
l'idéal celtique_[360]: la quale non è punto, come pareva al Greith,
un'allegoria mistica intesa a rappresentare la vita claustrale[361],
ma è un racconto fantastico formatosi intorno ad un nucleo reale, e
strettamente legato a tradizioni e credenze gaeliche.
San Brandano fu irlandese, e se si debbono tener per sicuri i termini
che alla sua vita assegnano i biografi, nacque nel 484, morì nel
576 o 577. Il nome suo si scrisse in latino Brendanus; ma prese poi,
col divulgarsi della leggenda per le varie province d'Europa, varie
forme: Brandan, Brandanus, Brandon, Brandain, Blandin, Borodon, sotto
l'ultima delle quali ebbe forse ad essere confuso con San Barinto
(Barint, Barrendeus, Borandon) uno dei suoi precursori. San Brandano
(noi useremo questa forma, come quella che occorre più di frequente)
fu abate di Llancarvan e di Clonfert e fece veramente un viaggio,
e vuolsi che tornato in patria scrivesse un libro _De Fortunatis
Insulis_[362]. Questo viaggio egli compiè, secondo affermano parecchi
cronisti, l'anno 561[363], e la leggenda non dovette tardare a narrarlo
in guisa fantastica, sebbene sia da credere che solo a poco a poco essa
abbia preso rigoglio e raggiunta quella pienezza con la quale è sino
a noi pervenuta. Il racconto più antico, fu probabilmente gaelico,
ed è forse, in una forma più o meno alterata, quello stesso che si
conserva nel così detto _Libro di Lismore_, il quale è, per altro,
di età assai tarda, essendo stato scritto nel secolo XV. Dal racconto
gaelico avrebbe attinto l'autore del primo racconto latino, noto sotto
il titolo di _Navigatio Sancti Brendani_, conservato in un codice della
Vaticana, che, a ragione o a torto, fu stimato del secolo IX[364],
e in altri codici assai numerosi dei secoli XI, XII e XIII; e dalla
_Navigatio_ dipendono, direttamente o indirettamente, in tutto o in
parte, i molti racconti venuti di poi, latini e volgari, in prosa e in
verso[365].
Ridotto in breve, il racconto della _Navigatio_ è il seguente.
Un giorno San Brandano, padre di quasi tremila monaci, ricevette la
visita di San Barinto, il quale ebbe a narrargli come fosse andato
a visitare un altro sant'uomo, Mernoc, che con più monaci viveva in
un'isola dell'oceano, detta Isola Deliziosa; come in sua compagnia
fosse andato, verso Occidente, all'Isola della promessione dei santi
(_terra repromissionis sanctorum_), piena di ogni delizia, durata
incolume dal principio del mondo, e serbata da Dio ai santi suoi,
quando verranno gli ultimi tempi; come quivi avessero trovato un uomo
circonfuso di luce, col quale parlarono, e un fiume, che divideva
l'isola per mezzo, ed oltre il quale non fu loro conceduto di passare;
come tornassero indietro pel già corso cammino. Udita la narrazione di
Barinto, San Brandano arse del desiderio di vedere ancor egli l'isola
meravigliosa; e consigliatosi co' suoi monaci, dopo un digiuno di
quaranta giorni, presi seco quattordici compagni, e poi altri tre,
sopravvenuti senza suo desiderio, si recò nella terra ov'erano i
parenti suoi, e costrutta quivi una nave assai leggiera, formata di
legname e di pelli, entrò in mare e diedesi a navigare verso Occidente,
con prospero vento. Passati quaranta giorni, e venute già a mancare le
vettovaglie, giunsero gli esploratori ad un'isola altissima, le cui
ripe di pietra erano tutt'intorno tagliate a perpendicolo, men che
in un punto, ove s'apriva un seno capace di una sola nave; ed essi
entrativi, trovarono un castello, con una gran sala parata, ma vuoto
di abitatori, e per tre giorni consecutivi ebbero mensa imbandita
e ottimo ristoro. Quivi uno dei tre monaci sopraggiunti da ultimo,
rubò, contro l'ammonizione espressa del santo, un freno d'argento,
e per questo morì, ma confesso e perdonato, così che l'anima sua fu
dagli angeli assunta in cielo. Gli altri, rientrati in nave, ripresero
il viaggio, e vennero a un'isola popolata d'innumerevoli pecore
bianche, di grandezza maggiori dei buoi; poi ad una che pareva isola
ed era invece uno sterminato pesce, detto Jasconius, dal quale i
monaci fuggirono precipitosamente quando, sentito il calor del fuoco
accesogli sul dorso, quello si cominciò a muovere; poi a un'altra
isola, dov'era un infinito numero di uccelli candidissimi e parlanti,
sotto alle cui penne si celavano gli angeli che si mantennero neutrali
al tempo della ribellione di Lucifero; e quivi San Brandano e i suoi
monaci celebrarono la festa di Pasqua, e rimasero sino alla ottava di
Pentecoste. Partitisi anche da quella, non videro più, per tre mesi
interi, se non l'acqua e il cielo, finchè giunsero a un'isola abitata
da ventiquattro monaci santi, i quali si nutrivan di pane largito loro
dal cielo, serbavano rigoroso silenzio, non pativano i danni della
vecchiezza e dei morbi. Quivi celebrarono i navigatori il Natale, poi,
ripreso il mare, visitarono un'isola ov'era un fonte, le cui acque
inducevano profondo sopore in chi le beveva; navigando quindi verso
Settentrione, trovarono un mare che per troppa tranquillità era quasi
coagulato; poi approdarono di nuovo ad alcune delle isole che già li
avevano accolti l'anno innanzi, e nell'isola degli uccelli celebrarono
la Pasqua. Sette anni durò la meravigliosa navigazione, e tutti gli
anni gli esploratori, condotti dalla Provvidenza, tornarono a celebrare
il Natale e la Pasqua ne' medesimi luoghi. Noi non terrem dietro a
questi ritorni e alle ripetizioni cui dànno argomento; ma noterem solo
le nuove cose mirabili onde fa memoria il racconto. In sul principiar
del terz'anno i naviganti scamparono da un gran pericolo. Uno smisurato
cete li inseguì gran tratto, e li avrebbe tutti inghiottiti, se un
altro mostro marino, che sbuffava fuoco dalla bocca, non fosse venuto
con esso a combattimento, e non l'avesse ucciso. I monaci approdarono
a un'isola, dove stettero tre mesi, trattenuti dall'imperversare dei
venti contrarii, poi, navigando sempre verso Settentrione, giunsero a
un'altr'isola, popolata da tre torme, di fanciulli l'una, di giovani
l'altra, e di seniori la terza, i quali tutti consumavano il tempo
cantando salmi e lodando il Padre celeste; e quivi si rimase il secondo
di quei fratelli che raggiunsero il santo dopo la dipartita sua dal
monastero. E sempre meraviglie seguitavano a meraviglie: un'isola
tutta densa di alberi di una sola specie, i quali recavan per frutto
grappoli d'uva di portentosa grandezza, ove ogni acino era della misura
di un pomo; l'uccello _griffa_, che minacciò di divorare i naviganti,
e fu ucciso da un altro uccello; un mare di meravigliosa limpidità, in
fondo al quale si vedevano giacer sull'arena infiniti animali, a guisa
di greggi; una smisurata colonna di cristallo chiarissimo, la quale
sorgeva dal profondo del mare, e pareva toccare con la cima il cielo, e
aveva intorno come un gran padiglione, fatto a maglie larghissime e di
una sostanza che aveva il color dell'argento. Tanto corsero i naviganti
verso Settentrione che raggiunsero le terre dei dannati. E prima videro
una isola popolata da orrendi fabbri ferrai, i quali scaraventarono
loro dietro sul mare ingenti masse di metallo arroventato; poi un
monte ignivomo, dove il terzo ed ultimo di quei monaci avventizii fu
rapito dai diavoli. Passati alcuni giorni, trovarono Giuda sedente
sopra una pietra in mezzo all'oceano, in una condizione che sembra
a lui di riposo e di felicità paragonata con quella della sua dimora
ordinaria, nel più profondo abisso d'inferno. Quel refrigerio è a lui
conceduto dalla divina misericordia in ciascuna domenica, e nei giorni
ancora che vanno dal Natale all'Epifania, dalla Pasqua alla Pentecoste,
e dalla purificazione all'assunzion di Maria. Più oltre, navigando
verso Mezzodì, trovarono sopra uno scoglio un eremita per nome Paolo,
il quale, nutrito miracolosamente da una lontra, aveva raggiunto
l'età di centoquarant'anni, e doveva aspettare, vivo, il giorno del
Giudizio. Essendo già prossima la fine del settimo anno, San Brandano
e i compagni suoi, si videro avvolti un giorno da una densa caligine,
e quella attraversata, giunsero a un'isola circonfusa di splendidissima
luce. Era quella la terra di promissione, l'isola paradisiaca, da essi
con sì tenace desiderio cercata. Scesero su quella spiaggia benedetta,
e videro la campagna tutta verde di alberi, e mangiarono di quei frutti
deliziosi, e bevvero di quell'acque dolcissime. Trovarono il fiume
che spartiva la terra per mezzo, e oltre il quale non era lecito di
passare, e seppero da un giovane che Dio rivelerebbe quella felice
stanza ai cristiani quando fossero ricominciate le persecuzioni.
Adempiuto il voto, i felici esploratori presero la via del ritorno,
dopo avere empiuta la nave di frutti e di gemme, e rividero finalmente
la patria, dove San Brandano indi a poco morì, migrando gloriosamente a
Dio e alla gloria del cielo.
Tale è il racconto di questo mirabile viaggio, tutto impregnato di
spirito ascetico, ma penetrato ancora di un certo spirito eroico. I
naviganti continuamente si raccomandano a Dio, pregano, digiunano,
sono pasciuti miracolosamente, ascoltano rivelazioni e predizioni,
e si mostrano in tutto degni del nome di santi; ma sostengono pure
enormi fatiche, affrontano spaventosi perigli, e provano di meritare
anche il nome di eroi. San Brandano chiama i compagni _commilitones_
e _conbellatores_; gli autori delle versioni francesi e tedesche li
chiamano _baruns_ e _degen_.
Di quali elementi, e donde venuti, s'ha a dire composto sì fatto
racconto? Fu opinione del Cholevius che alcune delle meraviglie in esso
narrate sieno di origine classica[366]; ma sebbene questa opinione,
presa in sè stessa, non appaja troppo improbabile, quando si pensi al
rifiorimento di studii classici onde fu rallegrata l'Irlanda nei secoli
VI, VII, e VIII[367], pure non regge a un diligente e spregiudicato
esame[368]. Le immaginazioni ond'è tessuto il racconto dovettero
nascere, per la più parte, nella patria stessa di San Brandano; ma
non si può escludere la possibilità che alcune di esse sieno orientali
di origine, come non si può escludere la possibilità che alcune sieno
passate dal racconto latino in racconti orientali[369].
Tre sono, come ho detto, le redazioni della leggenda di San Brandano:
quella del racconto gaelico; quella della _Navigatio_; quella di alcuni
racconti tedeschi e di uno olandese. Veduta per intero la seconda,
vediamo ora alcune particolarità per cui dalla seconda si differenziano
le altre due.
Nella redazione gaelica manca il racconto di San Barinto. San Brandano
sente nascersi dentro spontaneamente il desiderio di visitare la terra
di promessione; la contempla anticipatamente da lungi, per grazia che
il cielo gli concede, e riceve da un angelo la promessa che il suo
desiderio sarà appagato. Prende il mare con tre navi, entro ciascuna
delle quali sono trenta de' suoi compagni. Naviga sette anni, e ritorna
in patria, senz'aver veduta la terra beata che l'aveva tratto sui mari.
Imprende un secondo viaggio, e dopo altri sette anni giunge finalmente
alla terra di promessione, e gli è conceduto di visitarla. Non accade
far ricordo delle avventure del doppio viaggio, le quali son quasi
tutte diverse da quelle della _Navigatio_.
Nella redazione che chiameremo tedesca il principio del racconto è
di tutt'altra maniera. San Brandano getta nelle fiamme, come opera
bugiarda, un libro in cui son narrate appunto quelle meraviglie di
cui egli dovrà essere spettatore più tardi. Dio, per punirlo della sua
incredulità, gl'impone di compiere il viaggio e di riscrivere il libro.
I naviganti incontrano le stesse avventure narrate nel racconto latino;
ma anche più altre, di cui non è cenno in questo: sono spinti da una
procella nel Mare viscoso, mar formidabile, sparso di navi trattenute
quivi in perpetuo; scampano al gran pericolo del Monte della calamita;
hanno briga coi grifoni e con le sirene. Queste immaginazioni son
derivate da altri racconti romanzeschi.
Nella _Navigatio_ il Paradiso terrestre è descritto con sobrietà
che può parere eccessiva, quando si pensi ch'esso porge lo scopo
del viaggio, e si consideri la prolissità con cui vi sono descritte
o narrate cose di assai minor conto. Questo difetto non incontra
nell'altre due redazioni, e non incontra nemmeno in parecchie versioni
della _Navigatio_. Nella redazione gaelica il Paradiso è descritto
assai lungamente, e non troppo in breve nella redazione tedesca. Qui si
legge che San Brandano e i compagni suoi giunsero a un'isola tenebrosa,
il cui suolo era d'oro, tutto sparso di pietre preziose, e dopo essere
rimasti quindici giorni immersi nell'oscurità, pervennero, rimontando
il corso d'un'acqua, in una sala tutta scintillante d'oro e di gemme,
dinanzi alla quale era un fonte, che spandeva quattro rivi, di latte,
di vino, d'olio e di miele, e da cui derivavano la lor virtù tutti
gli aromi e le spezie. Nella sala erano cinquecento seggi, e quante
ricchezze può avere un imperatore: il soffitto era coperto di penne di
pavone. Giunsero poi i naviganti a una città di meravigliosa bellezza,
raggiante di luce, immune da qualsiasi intemperie, davanti alla cui
porta sedevano Enoch ed Elia, ed era un angelo, con una spada di fuoco
in mano. Costoro presero uno dei monaci, e lo misero dentro alla città,
e subito Enoch chiuse la porta e lasciò gli altri di fuori[370]. Merita
d'esser notato che nella redazione tedesca San Brandano e i compagni
suoi giungono al Paradiso, non già in fine, ma quasi in principio del
viaggio. In qualche rimaneggiamento latino, e in taluna delle versioni
francesi della _Navigatio_, si descrive il muro tutto sfolgorante
di gemme ond'è cinto l'aureo monte del Paradiso, la porta custodita
da dragoni, i boschi pieni di selvaggina e le acque popolate di
pesci[371]. La versione italiana contiene una descrizione abbastanza
diffusa, con particolarità che non appajono altrove[372].
Soffermiamoci alquanto, chè non sarà senza frutto, a rilevare nella
nostra leggenda alcune cose che possono dar materia a indagini e a
riscontri.
Il racconto della _Navigatio_ somiglia molto a quelle narrazioni
gaeliche di viaggi ricordate più sopra. Il palazzo inabitato, dov'è
copia di tutte le cose necessarie alla vita; i frutti portentosi
di cui basta uno solo a sfamare e dissetare per lunghi giorni i
naviganti; l'isola popolata di fabbri ferrai; il mare limpidissimo di
cui si scorge il fondo; la colonna smisurata che si leva dall'acque e
nasconde la sommità fra le nuvole, l'isola degli uccelli bianchi; altre
meraviglie vedute da San Brandano e da' compagni suoi, si trovano nel
racconto delle navigazioni di Maelduin e di Snedhgus e Mac-Riaghla.
Quanto all'isola popolata di pecore, gioverà ricordare che Ulisse
trova, vicino al paese dei Ciclopi, l'isola Lachea; ma è questo un
riscontro puramente fortuito. Un'isola, dov'era grandissima quantità di
montoni, scoprirono anche gli Almagrurini, viaggiatori arabici, la cui
navigazione è narrata da Edrîsi e da Ibn-al-Vardi. Notisi che il nome
delle isole Färoer è composto di due vocaboli, i quali significano,
l'uno pecora, l'altro isola, e che Dicuil dice quelle isole _plenae
innumerabilibus ovibus_[373].
Il cete scambiato per un'isola si ha nello Pseudo-Callistene, nella
narrazione dei viaggi di Sindbad, in un racconto talmudico[374],
altrove; ma questo tema di leggenda ebbe origine probabilmente
nel Settentrione, e dal Settentrione, insieme con altri assai, che
già diedero materia al poema di Aristeo di Proconneso intitolato
’Αριμάσπεια, si diffuse verso Mezzodì e verso Oriente.
Gli angeli caduti, che San Brandano trova sotto forma di uccelli in
un'isola, darebbero luogo a parecchie osservazioni, e argomento a
parecchi riscontri; ma di essi mi si porgerà occasione di discorrere
altrove[375].
Nella _Navigatio_ è cenno di un mare _quasi coagulatum pre nimia
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