Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, vol. I - 10

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se ne formò una assai complessa, la quale nel medio evo più tardo, a
partire dal XII secolo, ebbe così gran diffusione che nessun'altra
ebbe l'eguale. Tale leggenda ci pervenne in narrazioni di tutte le
lingue parlate da popoli cristiani, conservata in libri d'ogni titolo
e qualità, distribuita in numerose versioni, le quali furono dottamente
paragonate fra loro e raccolte in gruppi e categorie. Nella esposizione
che segue io dovrò attenermi a pochi racconti principali, e rimandare
il lettore desideroso di più minuti particolari alle ottime monografie
cui essi diedero argomento[315].
La prima memoria, sino a noi pervenuta, di un'andata di Seth al
Paradiso terrestre, si ha probabilmente in quell'Apocalissi greca da me
più volte ricordata nel capitolo precedente, e, senza giusta ragione,
intitolata Apocalissi di Mosè. Quivi si logge che Adamo, giunto all'età
di 930 anni, e infermo, mandò Eva e Seth al Paradiso terrestre, per
ottenere, a sollievo delle sue sofferenze, l'olio di misericordia[316].
Cammin facendo, Seth è morso dal serpente. Giungono alla porta del
Paradiso, ma non ne varcan la soglia; l'arcangelo Michele dice loro
che non avranno, per ora, quanto desiderano, e li fa tornare addietro,
annunziando che in capo di tre dì Adamo si morrà. Nella Vita latina,
pure ricordata nel precedente capitolo, si ha, con lievi differenze,
lo stesso racconto: Michele dice ai due pellegrini che l'olio di
misericordia non sarà conceduto se non passati 5500 anni; che allora
Cristo, figliuol di Dio, scenderà in terra, si farà battezzare nel
Giordano, risusciterà Adamo e gli altri morti, e a tutti i credenti in
lui largirà l'olio tanto desiderato. Così li accommiata, annunziando
che ad Adamo non rimangono se non sei giorni di vita. Si può tener per
certo ch'entrambi questi racconti derivino da una fonte più antica,
rimasta sinora sconosciuta[317].
Il racconto della Vita passa nell'Evangelo di Nicodemo, con questa
sola diversità di rilievo, che di Eva più non si parla, e Seth compie
solo il viaggio, e solo ascolta le rivelazioni dell'angelo[318].
Da indi in poi Eva rimane esclusa dalla leggenda, la quale, come ho
detto, si lega all'altra del legno della croce, e fa corpo con essa.
Questo congiungimento si può dire che fosse inevitabile, provocato,
e in certa maniera imposto, da quel vivo e tenace desiderio cui ho
più volte accennato, di raccostare alla caduta la redenzione, di
contessere, per così dire, in un'unica trama i fatti dell'una e i
fatti dell'altra. Leggende intorno al legno onde fu formata la croce,
strumento di redenzione, dovettero sorgere assai per tempo, ed era
naturale che alcune, se non tutte, facessero venire quel legno dallo
stesso giardino ov'era stato commesso il peccato, e dallo stesso albero
che aveva dato esca al peccato. Di più leggende simili, che poi furono
sopraffatte da una finzione più rigogliosa, e che meglio appagava
il sentimento e la fantasia dei credenti, è rimasta i memoria. «Una
tradizione greca narra senza più che un ramo dell'albero nel cui frutto
peccò Adamo, fu trasportato a Gerusalemme; e ne sorse un grand'albero,
donde fu fatta la croce. Altri dicono che Adamo stesso portò seco
dal paradiso un frutto o un rampollo dell'albero. Secondo una terza
versione Dio dopo il peccato svelse l'albero e lo gittò di là dal muro
del paradiso. Mille anni più tardi Abramo lo trovò e lo piantò nel suo
giardino. Un angelo (o Dio stesso) gli annuncia che su di esso Dio
(egli) verrà crocifisso[319]». O prima o poi, una di tali leggende
doveva incontrarsi con la leggenda di Seth, e mescendosi con essa,
dare origine a una tradizione nuova, secondo la quale l'albero onde fu
fatta la croce sarebbe venuto da un virgulto, o da semi che Seth stesso
riportò dal Paradiso. E in questa forma la leggenda trionfò.
Non può essere còmpito mio tener dietro alle troppe versioni in cui
essa ebbe a spartirsi, e al moto de' suoi varii elementi, i quali
senza posa si accozzano insieme, si disgiungono, trapassano da luogo
a luogo e gli uni agli altri sottentrano, come fanno i pezzetti di
vetro multicolore nelle mutabili figure del caleidoscopio. Io mi
contenterò di dar qui la sostanza di un racconto latino, il quale è
certamente anteriore alla fine del secolo XIII, e in cui la leggenda
appare in tutta la sua pienezza. Questa, nella forma che in esso
consegue, «ottenne straordinario favore, e si diffuse per tutta
Europa, dall'Irlanda e dalla Svezia alla Spagna, dalla Cornovaglia alla
Grecia», dando luogo a traduzioni e rimaneggiamenti innumerevoli[320].
Adamo ha vissuto 932 anni nella valle d'Ebron, nella terra d'esilio.
Egli è stanco di estirpare i rovi dal suolo, stanco del male e dei
mali che vede crescer nel mondo, fra la sua posterità, stanco di
vivere. Chiama a sè il figliuolo Seth, e lo manda al cherubino che
con la spada fiammeggiante sta a custodia dell'albero della vita, per
avere da lui certezza dell'olio della misericordia che Dio promise
al peccatore il giorno stesso in cui fu commesso il peccato. Va,
dic'egli al figliuolo: tu conoscerai il cammino dalle impronte che
noi vi lasciammo, tua madre ed io, venendo in questa valle, e sulle
quali non è più cresciuta l'erba. Seth s'avvia, giunge alla porta del
Paradiso. Il cherubino saputa la ragione del suo venire, lo invita a
mettere il capo dentro alla porta, e a gettar gli occhi sul giardino:
tre volte pronunzia l'invito ed altrettante Seth vi si conforma. La
prima volta questi contempla la vaghezza del Paradiso, vede le piante
e i fiori, il fonte lucidissimo da cui nascono i quattro fiumi, e
sopra esso un'arbore ramosa, ma nuda di frondi e di corteccia. La
seconda, scorge un gran serpente avvolto al tronco della pianta. La
terza, vede l'arbore elevata sino al cielo, e sulla cima un bambino
appena nato, e, da basso, le radici, penetrate sin nello inferno, ove
gli si scopre l'anima di suo fratello Abele. L'angelo spiega a Seth la
visione, gli annunzia la venuta del Redentore, e, nell'accommiatarlo,
gli porge tre granella del pomo fatale onde mangiarono i suoi genitori,
ingiungendogli di porli sotto la lingua di Adamo, quando, di là a tre
dì, questi sia morto. Seth se ne torna, e Adamo, udite da lui le parole
dell'angelo, ride per la prima volta in sua vita (deve intendersi
dopo il peccato), e muore. Seth gli pone sotto la lingua i tre semi,
e sotterra il padre nella valle d'Ebron, e dai tre semi nascono tre
virgulti, di cedro il primo, di cipresso il secondo, di pino il terzo,
i quali così si rimangono, senza mai crescere oltre l'altezza di un
cubito, e senza mai perdere il verde, sino al tempo di Mosè. Questi,
giunto col suo popolo, dopo l'uscita dall'Egitto, nella valle d'Ebron,
conosce essere nelle tre verghe alcun che di miracoloso, le toglie
di terra, sana con esse coloro che erano morsi dai serpenti, e con
esse fa scaturire l'acqua dal sasso; poi, conscio della morte vicina,
le ripianta alle radici del monte Tabor, o dell'Oreb, ed entrato,
ivi presso, in una fossa, rende l'anima a Dio. Mille anni stanno le
verghe in quel luogo, sino a che Davide, per avvertimento del cielo,
le viene a levare, e le porta in Gerusalemme, dove, poste in una
cisterna, metton radice, e si uniscono in un'unica pianta, cui Davide,
per trent'anni di seguito, cinge, ogni anno, di un cerchio d'argento.
Davide sa già, per rivelazione divina, che della pianta si farà la
croce, per la cui virtù cancellerassi il peccato. E la pianta cresce
lo spazio di trent'anni; e sotto di essa piange Davide i suoi peccati,
e sotto di essa compone il salterio; poi muore. Salomone gli succede,
e dà opera a compiere il Tempio. Un giorno gli artefici, abbisognando
di una trave, recidono l'albero miracoloso; ma poi, per quanto si
argomentino, non riescono ad adattare il legno ov'era bisogno, e
Salomone, chiamato a veder tal miracolo, ordina che il legno sia posto
nel Tempio, e da tutti onorato. Una donna per nome Massimilla vi si
pone sopra a sedere, e incontanente le sue vesti prendono fuoco, ed
ella grida: Signore mio, e Dio mio Gesù; udite le quali parole, gli
Ebrei, come bestemmiatrice, la trascinano fuori della città, e la
lapidano, facendo di lei la prima martire; poi tolgono la trave dal
Tempio, e la gettano nella probatica piscina che, per nuovo miracolo,
acquista virtù di sanare gl'infermi. Sdegnati, gli Ebrei tolgon la
trave dalla piscina, e la gettano, a mo' di ponte, sul Siloe, perchè
sia calcata dai piedi dei passanti. Viene a Gerusalemme la regina di
Saba, e ricusa di passare sulla trave, sapendo a che sia serbata, e
profetizza il Messia. Venuto il tempo della passione, gli artefici
fanno con essa la croce su cui è confitto Cristo.
Ho detto che non intendo tener dietro alle numerose versioni della
leggenda; solo ricorderò che in una di esse i viaggi di Seth al
Paradiso son due; e che talvolta l'angelo dà a costui, non già le
tre granella, come nel racconto testè riferito, ma un ramoscello
dell'albero della scienza, e che da quel ramoscello pende ancora, in
uno o due casi, parte del frutto morso da Eva.
Il viaggio che nei precedenti racconti si narra di Seth, Gotofredo
da Viterbo narra di Jonito (o Jonico) figliuolo di Noè[321]. Jonito,
udita dal padre la descrizione delle meraviglie del Paradiso, chiede
a Dio in grazia di poterle contemplare con gli occhi suoi proprii, e
ottenuto il suo desiderio, ne riporta tre virgulti, di abete, di palma
e di cipresso, i quali piantati da lui separatamente, si congiungono
in un'arbore sola, che ha tre colori, e le foglie di tre maniere, a
simboleggiare la Trinità. Seguono le fortune del legno (le quali in
parte solo concordano con quelle narrate nel racconto precedente)
finchè di esso si fa la croce. Gotofredo cita un Atanasio, il quale è
probabilmente immaginato da lui, come da lui probabilmente è immaginato
il rapimento di Jonito al Paradiso, giacchè della leggenda, in questa
forma, non si trova altro vestigio. Bensì è narrato altrove che un
figliuolo di Noè, per nome Jerico, desideroso di vedere la tomba di
Adamo si recò nella valle d'Ebron, e trovati i tre virgulti, li svelse,
poi li ripiantò, come narra il cronista[322].
Ma prima di passar oltre, fermiamoci a fare qualche considerazione
non oziosa sovra un punto della leggenda di Seth e del legno della
croce. Seth vede da prima l'albero del peccato, vedovo di fronde e
spoglio della sua corteccia, e io ho già avvertito nel capitolo II che
quell'albero è descritto assai volte come un albero secco. Ora, di un
Albero Secco, posto, di solito, nel remoto Oriente, e per più ragioni
mirabile, è frequente ricordo in iscritture del medio evo. Varian
molto le descrizioni che se ne fanno; ma io non dubito che, in alcuni
casi almeno, esso non sia da identificare con la pianta disseccata del
Paradiso, dalla quale, del resto, un poemetto latino, composto circa
il 1300, lo fa derivare. Secondo alcune leggende riguardanti la fine
del mondo, l'ultimo imperatore appenderà la corona ai rami dell'Albero
Secco, o alla croce[323].
Seth vede poi la pianta mirabilmente ingrandita, e fatta simile ad uno
di quegli alberi cosmogonici che in altre mitologie comprendono fra le
radici la terra, e, tra i rami e le foglie, il cielo, quali lo skambha
vedico, l'ilpa buddistico, l'irminsul e l'yggdrasil della mitologia
germanica. Anche la croce fu considerata come un albero, la quale
recò ottimo frutto, e talvolta a dirittura come un albero cosmogonico.
Venanzio Fortunato così la saluta in un suo inno:
Arbor decora et fulgida,
Ornata regis purpura,
Electa digno stipite
Tam sancta membra tangere;
e in un altro inno ecclesiastico si legge:
Crux fidelis inter omnes
Arbor una nobilis:
Nulla silva talem profert
Fronde, flore, germine.
Come un albero di dolcissimo e vital frutto, e tutto fragrante di
fiori, è invocata spesso la croce nelle laudi[324], e come albero di
vita in un canto latino del sec. XIV:
Salve, Christi crux praeclara,
Arbor astris pulchrior,
Facta reis ex amara
Mellis stilla dulcior;
Vitae nobis viam para.
Dux effeta gratior.
L'albero della croce diventa una pianta meravigliosa, come si può
vedere nell'opuscolo di San Bonaventura intitolato _Lignum vitae_, ove
si leggono questi due versi:
O crux, frutex salvificus, viva fonte rigatus,
Cujus flos aromaticus, fructus desideratus.
Ma già in un _Hymnus de Pascha_, attribuito a San Cipriano, la croce
è diventata una specie di albero cosmico, che s'innalza sino al cielo
e dalle cui radici scaturisce una mirabil fonte. I frutti di quello
dànno la vita eterna; l'acqua di questa lavano d'ogni macchia. Tutta
l'umanità trae all'albero meraviglioso. Gerolamo Vida, in un carme _In
Jhesu Christi crucem_, esclama:
Nunc prope numen habes, sancta et venerabilis arbor,
Coelo mixta comas caput inter sidera condis.
Il legno della croce fu fatto derivare di solito dall'albero della
scienza del bene e del male, ma talvolta ancora dall'albero della vita,
o da un altro albero paradisiaco, detto della salute[325]. Secondo una
leggenda siriaca la croce fu fatta del legno di un albero che da indi
in poi non cessò più di tremare, la tremula. Abbiam veduto come tre
virgulti di specie diversa, ma tutti derivati dal medesimo albero, si
ricongiungessero insieme per formar di nuovo un albero solo. Stando
ad altre immaginazioni, la croce fu veramente formata di quattro
legni differenti, palma, cedro, cipresso, olivo; oppure di tre, cedro,
cipresso, pino; palma, cipresso, abete. Il numero di tre simboleggiava
la Trinità[326]. Ricorderò da ultimo che, secondo i musulmani, la legge
da Mosè recata agli Ebrei era scritta su tavole formate del legno di
un albero Sedr, ch'è nel settimo cielo, e che secondo Mosè Bar-Cefa, la
lancia con cui fu ferito Cristo era quella stessa del cherubino posto a
custodia del Paradiso.
Io qui non parlo di coloro che videro il Paradiso terrestre solamente
in ispirito, come suole accadere nelle Visioni; ma di coloro che
v'andarono in carne ed ossa; e perciò solò in passando fo cenno della
questione agitata per sapere se San Paolo fosse stato rapito in cielo,
o nel Paradiso terrestre, o in entrambi. La questione non era ancor
risoluta a' tempi di Torquato Tasso, il quale nelle _Sette giornate_
chiedeva:
È ver che 'l terzo cielo, ove fu ratto
Già Paolo col pensier levato a volo,
Sia terren paradiso?[327]
Nella leggenda che or segue noi abbiamo la favolosa istoria di alcuni
pellegrini che non muovono propriamente alla ricerca del Paradiso, ma,
dopo molte avventure, giungono in luogo prossimo ad esso, e di là se
ne tornano indietro. È questa la leggenda, greca di origine, e certo
assai antica, dei tre santi monaci Teofilo, Sergio ed Igino, nella
quale noi cominciamo a far conoscenza con quei monaci irrequieti ed
audaci, che spinti, non meno da curiosità venturiera, che da certo
fervor religioso, disertano i chiostri e si dànno a correr le terre ed
i mari attraverso a mille casi e mille pericoli[328]. Essa si lega al
nome di San Macario Romano, santo misterioso ed oscuro, il quale non si
sa in che tempo sia vissuto, e da taluno si dubita che in niun tempo, e
ch'egli sia, come tant'altri, un santo mitico.
Tre monaci di un convento di Mesopotamia, posto tra l'Eufrate ed il
Tigri, Teofilo, Sergio ed Igino, sedevano un giorno sulla riva di
quel primo fiume, e ragionavano devotamente tra loro della umana vita
e delle molte tribolazioni che affliggono i servi di Dio. A Teofilo
vien nell'animo un desiderio, e lo palesa ai compagni: Io vorrei, egli
dice, camminare tutto il tempo della mia vita, e giungere colà ove il
cielo tocca la terra. I compagni s'accendono del medesimo desiderio,
e nato del desiderio il proposito, tutti e tre, quella stessa notte,
si partono dal monastero. In capo di diciasette giorni giungono a
Gerusalemme, ove adorano il Sepolcro; dopo cinquanta, passano il Tigri
ed entrano in Persia; scorsi quattro mesi, entrano nell'India. Quivi
cadono in man degli Etiopi, e soffrono molti maltrattamenti; poi,
cacciati dagli Etiopi, rimangono ottanta dì senza prendere cibo alcuno.
Andando sempre verso Oriente, attraversano le terre dei Cananei,
altrimenti (così il testo) detti Cinocefali; quelle dei Pichiti, alti
un cubito; una regione montuosa ed orrenda, tutta popolata di draghi,
di aspidi, di basilischi, e altri animali velenosi; un'altra regione,
tutta sparsa di rupi asperrime; una gran pianura, ove pascolano
mandrie di elefanti; un'altra, ingombra di dense tenebre, e giungono
a un'abside eretta da Alessandro Magno quando inseguì Dario. Vivono la
più parte del tempo miracolosamente, senza cibarsi, e, proseguendo il
viaggio, trovano un lago pieno di anime dannate; un gigante incatenato
fra due monti; una donna avviluppata da un dragone; un bosco di grandi
alberi, su cui anime in forma di uccelli chiedono ad alta voce perdono
dei loro peccati. Succede a questi orribili e strani luoghi un luogo
bellissimo, custodito da quattro vecchi, i quali hanno corone d'oro
in capo ed auree palme tra mani; poi viene una regione tutta piena di
canti e di odori soavissimi, ove brilla una chiesa di varii colori,
d'incomparabil bellezza, e che par fatta tutta di cristallo. Intorno
ad essa sono uomini santi, di venerabile aspetto, che cantano, e
dall'altare scaturisce un fonte, che sembra di latte. Dopo avere
incontrato un altro popolo di pigmei, i tre pellegrini giungono alla
spelonca ove da lunghissimo tempo San Macario mena vita anacoretica, a
sole venti miglia di distanza dal Paradiso terrestre, e il santo dice
loro che non si può passare più oltre, e che il Paradiso è vietato a
tutti i mortali. Udita da lui la sua storia, i monaci riprendono la
via per cui sono venuti, scortati sino all'abside di Alessandro da due
leoni, compagni amorevoli e consueti del santo.
In questo racconto noi abbiamo un evidente influsso delle storie
favolose di Alessandro Magno, comprovato da quel ricordo dell'abside
da costui edificata. Leggonsi appunto in esse alcune delle meraviglie
incontrate da' monaci, e altre molte per giunta, delle quali è
frequente ricordo in iscritture del medio evo, e che veggonsi
pure raffigurate in parecchie mappe[329]. Non intendo discorrere
partitamente di tutte quelle che nella leggenda ascetica si trovano, ma
di taluna mi pare opportuno dir qualche cosa.
Di una specie di regione infernale posta in prossimità del Paradiso
terrestre abbiamo già trovato altri ricordi, molto meno antichi di
quello che hassi nella nostra leggenda [330]. Della regione tenebrosa,
per contro, abbiamo ricordi e più recenti e più antichi. Una regione
così fatta descrivesi nelle dottrine cosmografiche dell'India. Di là
dal fiume oceano si distende, a occidente della terra, secondo Omero ed
Esiodo, il tenebroso paese dei Cimmerii[331]; più tardi esso fu posto
a settentrione, intorno ai monti Rifei. Alessandro Magno si spinse un
tratto in una regione coperta di tenebre, la quale chiudeva in sè il
paese dei beati[332]; e di terre ov'è notte perpetua fanno parola Marco
Polo, il Mandeville e altri.
Le anime peccatrici, che i tre monaci trovano in sembianza di uccelli
appajono molto frequentemente in leggende ascetiche del medio evo,
quando come anime dannate, quando come purganti; al qual proposito
è da ricordare che nel simbolismo cristiano l'anima è consuetamente
rappresentata sotto forma di uccello, e che in una delle saghe
della _Saemundar Edda_, intitolata _Solar-liodh_, è ricordo di
anime in forma di uccelli neri[333]. In una leggenda riferita da San
Bonifazio, anime purganti, simili nell'aspetto ad uccelli neri, volano
intorno a un pozzo, da cui prorompono fiamme ardenti, e nel pozzo si
sprofondano[334].
Seth potè solamente sporgere il capo dalla porta del Paradiso
terrestre, e i tre monaci Teofilo, Sergio ed Igino dovettero fermarsi
a venti miglia di distanza da esso. Altri furono più fortunati. Ecco
qua la leggenda di tre altri monaci, la quale fa degno riscontro alla
precedente, sebbene sia da essa molto diversa[335].
Sulle rive del Gihon è un monistero abitato da uomini di santa vita.
Tre di questi, lavandosi un giorno nel fiume, veggono venir giù,
portato dalla corrente, un ramo meraviglioso: «l'una foglia pareva
d'oro battuto, l'altra pareva d'ariento, l'altra pareva d'azzurro
fino, l'altra vermiglia, l'altra era bianca, e così era isvariato
d'ogni colore». Il ramo recava, per giunta, frutti _molto dilettevoli_
a mangiare. Lo traggono fuori dell'acqua, e mentre lo contemplano,
pieni di ammirazione e di alleggrezza, senton nascersi in cuore un
desiderio smodato d'andarne sin là, all'incantato paese d'onde quel
ramo è venuto. E subito, accordatisi in un comune proposito, senza dir
nulla a persona, si partono dal convento, e camminando lungo la ripa
del fiume, ch'è uno dei quattro del Paradiso, si pongono in viaggio.
Giungono, dopo lunga peregrinazione, alla famosa porta custodita
dall'angelo, e domandato e ottenuto di varcarne la soglia, s'aggirano
fra l'ombre e le delizie del giardino immortale, mangiano di quelle
frutta soavissime, bevono di quell'acque miracolose che rinnovano la
giovinezza, e ragionano co' due vecchiardi Enoch ed Elia delle cose
del cielo. Credono d'essere stati nel beato luogo tre giorni, e vi sono
rimasti tre secoli. Tornati al convento, che ancora sussiste, ma dove
già dieci generazioni di monaci si son succedute, eglino, con l'ajuto
de' vecchi libri memoriali, mostrano e provano la lor condizione, e
narrata la storia mirabile del loro viaggio, in capo di quaranta giorni
improvvisamente si dissolvono in cenere, e ascendono alla gloria eterna
del cielo.
Questa leggenda sembra sia nata in Italia: io non so che si trovi in
altri linguaggi volgari, e nemmeno mi è noto un testo latino da cui le
redazioni italiane possano essere derivate. Ed è leggenda schiettamente
ascetica. Le descrizioni che delle meraviglie del Paradiso vi si
leggono sono come penetrate di un'aura di estasi, partecipano del
sogno. Il narratore non trova nel linguaggio degli uomini parole
acconce ad esprimere la novità e la bellezza degli spettacoli che si
offrono agli sguardi attoniti dei tre pellegrini, a significare lo
smarrimento di dolcezza onde sono prese le anime loro; e quando vuol
fare intendere altrui, in qualche modo, la virtù rapitrice che muove
da un canto non più udito, dice che ogni anima umana vi si sarebbe
addormentata, o avrebbe perduto ogni memoria e cognizione di sè[336].
Nella leggenda sono due cose che voglio notare: quel ramo meraviglioso
da cui i tre monaci sono allettati al viaggio, e l'error loro quando,
essendo dimorati nel Paradiso trecent'anni (settecento, in altre
redazioni), stimano esservi rimasti solamente tre dì (altrove, sette).
Giovanni de' Marignolli dice che foglie e frutti degli alberi del
Paradiso si trovano sovente nei fiumi che da questo derivano. Secondo
una tradizione riferita da Mosè Maimonide, Seth riportò dal Paradiso
parecchi alberi, tra' quali uno che aveva le foglie e i rami d'oro;
e secondo i musulmani l'albero della vita aveva il tronco simile a
dell'oro, i rami come argento, le foglie come smeraldi.
Di quell'alterazione nel corso del tempo, o nel giudizio della sua
durata, c'è da dire qualche cosa di più. Essa si produce in numerose
leggende, la più celebre delle quali è la tedesca del monaco Felice,
non più antica, sembra, del secolo XIV[337]. Era costui un monaco
cistercense, di ottima indole, di saldissima fede e d'irreprensibili
costumi, il quale, leggendo un giorno come la letizia del Paradiso
celeste sia eterna, e senza mescolanza alcuna di dolore, cominciò, per
la prima volta in sua vita, a entrare in un dubbio, e a disputar seco
stesso per che modo possa ciò essere. E il modo gli fece intendere
Iddio con un miracolo. Venne dal cielo un augelletto più candido che la
neve, il quale si mise a cantare con sì nuova e meravigliosa dolcezza,
che il monaco si credette un tratto rapito in Paradiso, e, voglioso
di averlo tra mani, si mosse per prenderlo; ma l'augelletto aperse
l'ali e sparì. Felice, rimasto pieno di desiderio e di rammarico, ode
una campana sonar mattutino, si ricorda del suo convento, e torna
addietro. Ma il portinajo non lo riconosce, e non lo vuol lasciare
entrare, e gli dà dell'ubbriaco e del pazzo quando gli ode narrare
la storiella dell'augelletto bianco che rapiva l'anima col suo canto.
Sopraggiungono gli altri frati con l'abate; ma nessuno riconosce colui
che afferma d'aver dimorato quarant'anni nel chiostro. Finalmente il
più vecchio della famiglia, il quale v'era stato già ben cento anni,
e giacevasi allora infermo, si ricorda che nel tempo in cui egli era
novizio, un dei fratelli, per nome Felice, era sparito un giorno di
primavera, e non se n'era mai più avuta novella. L'abate fa portare il
libro in cui da trecent'anni si registravano le morti dei monaci, e
si trova che Felice, il quale credeva d'essere stato assente un'ora,
era stato assente un secolo. In altre versioni della leggenda il
monaco chiede in grazia a Dio un piccolo saggio della beatitudine del
Paradiso, o è travagliato da un dubbio, come mai possa un secolo non
parere a Dio maggior di un istante[338]; ma in tutte è quell'error di
giudizio circa la durata del tempo; e tale errore si ripete in alcune
leggende paradisiache delle quali dirò or ora, e in altre pure, di
vario argomento. Narra il Joinville che un principe dei Tartari fu
assente tre mesi, e quando tornò credeva l'assenza sua esser durata
non più di una sera, ed ebbe nel frattempo una visione, o fu rapito
in Paradiso[339]. L'eroe di una leggenda celtica, Oisin, crede di
passare in compagnia di una bella fanciulla alcuni giorni solamente,
e sono, in realtà, più di trecento anni. Nel racconto di Roberto di
Boron, Giuseppe d'Arimatea, sostentato dalla vista del Graal, passa
quarant'anni in carcere senz'avvedersene. Secondo Giovanni di Hese,
tre giorni passati in quell'isola dilettosa ch'egli chiama Radice del
Paradiso, non sembrano durare più di tre ore[340].
Alla leggenda italiana dei tre monaci credo di dover far seguire la
leggenda del giovane principe; sia perchè italiana, come pare, ancor
essa di origine; sia perchè presenta con quella dei tre monaci, molta
somiglianza nello scioglimento e parecchia nello spirito di che è
penetrata. Benchè italiana, essa si legge in latino e in tedesco, nè
so che ve ne sia traccia in libri italiani, stampati o manoscritti.
La narra, o si vuol che la narri, Eberardo, vescovo di Bamberg, il
quale afferma d'averla udita in Italia, dall'abate di un monastero di
cluniacensi, posto nelle Alpi. Di vescovi di Bamberg, con quel nome, ce
ne furono due, l'uno morto nel 1041, l'altro nel 1172; ma è probabile
che il nostro sia il meno antico. Ecco, ad ogni modo, compendiato, il
suo poetico racconto[341].
Il figliuolo di un principe si ammoglia, e invita alle nozze il
suo angelo custode. Giunto il vespro del giorno solenne, egli, che
religiosissimo è, monta a cavallo, e si reca a pregare a certa chiesa,
che sorge su un monte. Al ritorno incontra un vecchio di venerabile
aspetto, vestito di candidi panni, circonfuso di luce, e seduto sopra
un mulo tutto candido anch'esso. Compreso di affettuosa reverenza, il
giovane prega lo sconosciuto di volere assistere alle sue nozze, e
menatolo al castello, quivi il fa signore d'ogni cosa. Si celebrano
le nozze pomposamente, e tre giorni dura il banchettare, senza che
mai le provvigioni per quanto si profondano, vengano meno. L'ospite
finalmente chiede licenza, e da tutti ringraziato e desiderato, si
parte, accompagnandolo il giovane sposo per un tratto di via. Giungono
al luogo ove si sono incontrati la prima volta. Il giovane vorrebbe,
tanto amore gli ha posto, abbandonare e la sposa e la patria, e andarne
con esso lui; ma quegli il dissuade dicendo: Non ora: fra tre dì, se tu
vuoi, potrai venirne alla mia stanza. Questo sentiero vi conduce, e qui
troverai tu questa mia cavalcatura, la quale ti porterà ove tu brami
di essere. Ciò detto si parte. Venuto il giorno segnato, il giovane si
accommiata dalla sposa, annunziandole che in breve sarà di ritorno,
si mette in via, accompagnato da' suoi cavalieri, giunge al luogo
stabilito, trova il mulo, e licenziati i compagni, monta su di quello
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