Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, vol. I - 03

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nel fasc. V (1887) degli _Studj di filologia romanza_, pubblicati
dal Monaci, pp. 166-7. Il ms. A, I, 8 della Casanatense contiene il
testo francese. La traduzione italiana, oltre che nel ms. canoniciano
indicato dal Meyer, e nel ms. N. 10 di San Pantaleone _de Urbe_,
conservato nella biblioteca Vittorio Emanuele di Roma, indicato dal
Parodi, si ha in un altro manoscritto, pure di S. Pantaleone, segnato
col numero 30, e conservato nella medesima biblioteca. In questo si
leggono, come io le ho trascritte, le parole: _è assisa verso Oriente,
nel gran mare che tutto il mondo atornea_, e non come dall'altro codice
le riporta il Parodi: _è assisa verso Oriente nel gran mare atornea_.
[31] Il racconto di Giovanni fu ripubblicato, di su un codice di
Berlino, da F. ZARNCKE, _Der Priester Johannes_, estratto dai volumi
VII e VIII delle Memorie della Società Reale delle scienze in Sassonia,
Lipsia, 1876-9, parte 2ª pp. 162-71. Il passo da me riferito è a p.
170.
[32] Ap. DOBNER, _Monumenta historica Boemiae_, t. II, pp. 89-90. Cf.
DE GUBERNATIS, _Storia dei viaggiatori italiani nelle Indie Orientali_,
Livorno, 1875, p. 75.
[33] Ap. DOBNER. _Op. cit_., p. 96.
[34] TERTULLIANO, _Apolgeticus_, cap. 46; FILOSTORGIO, ap. NICEFORO,
_Hist. eccles_., l. IX, cap. 19; SAN TOMMASO, _Summa theologica_, II,
2ª, quaest. 165, art. ult.; SAN BONAVENTURA, _Sententiarum_ II, dist.
17. Cf. ALBERTO MAGNO, _De natura locorum_, tratt. I, cap. 6.
[35] MOSÈ BAR-CEFA, _De Paradiso_, parte I, cap. 13.
[36] Vedi UGO DI SAN VITTORE, _Adnotationes in Genesim_, c. 2.
[37] _Ad Autolycum_, l. II, 24; cf. SANT'IPPOLITO, vescovo di Roma, _In
Hexaemeron_.
[38] _Quaestiones hebraicae in Genesim_, cap. 2.
[39] WRIGHT, _St. Patrick's Purgatory; an Essay on the Legends of
Purgatory, Hell, and Paradise_, Londra, 1844, p. 25. Per contro, in un
codice riccardiano (n. 1717, f. 82 r.), quasi ad assicurar meglio la
più comune credenza, si dice: _El paradiso delitiano si è in terra, in
questo mondo, nelle parti d'oriente_, ecc.
[40] _Quaestiones ad Antiochum_, quaest. 47.
[41] GIUSEPPE FLAVIO, _De bello judaico_, l. II, cap. VIII, 11.
[42] D'ARBOIS DE JUBAINVILLE, _Le cycle mythologique irlandais et la
mythologie celtique_, Parigi, 1884, pp. 26-8.
[43] _Etymologiarum_, l. XIV, cap. 6: cf. RABANO MAURO (De Universo, l.
XII, cap. 5) che qui e altrove copia Isidoro; PIETRO D'AILLY, _Imago
mundi_, c. 41. Vedi BEAUVOIS, _L'Élysée transatlantique et l'Éden
occidental, nella Revue de l'histoire des religions_, tt. VII e VIII
(1883), pp. 273-318, 672-727.
[44] PLUTARCO, frammento di un commentario sopra Esiodo, conservato da
TZETZES, in _Oeuvres de Plutarque_, ediz. Didot, vol. V, pp. 20-21;
SOLINO, _Polyhistor_, XXII, 1; CLAUDIANO, _In Rufinum_, I, vv. 123
sgg.; PROCOPIO, _De bello gothico_, IV, 20; LYCOPHRONIS _chalcidensis
Alexandra_, ediz. di Oxford, 1697, p. 90. Cf. WACKERNAGEL, _Das
Todtenreich in Britannien_, nella _Zeitschrift für deutsches Alterthum_
del HAUPT, vol. VI, pp. 191-2; D'ARBOIS DE JUBAINVILLE, _Op. cit._,
p. 232. Durante tutto il medio evo l'Irlanda fu creduta paese di
meraviglie, come ne fanno fede la _Topographia Hiberniae_ di GIRALDO
CAMBRENSE, il trattato _De rebus Hiberniae admirandis_ di PATRIZIO,
il già citato _Liber Floridus di_ LAMBERTO, e altri. Jean de Meung,
l'autore della seconda parte del _Roman de la Rose_, tradusse un'opera
che s'intitola in francese _Merveilles d'Irlande_.
[45] Le opinioni degli antichi circa gl'Iperborei sono raccolte
dall'UKERT, _Geographie der Griechen und Römer_, vol. III, parte 2ª,
pp. 393-406.
[46] PRELLER, _Griechische Mythologie_, 2ª ediz., Berlino, 1860-1, vol.
I, p. 442.
[47] _Libellus de situ Daniae_, unito alla sua _Historia
ecclesiastica_, Lugduni Batavorum, 1595, cc. 228 e 232.
[48] Abulfeda le confonde insieme; Ibn-Sayd le distingue, intendendo
probabilmente per Isole Eterne le isole del Capo Verde e per Isole
della Felicità le Canarie. Crf. RENAUD, _Géographie d'Aboulfeda_, già
cit., vol. I, Introduzione, pp. CCXXXIV-CCXXXV.
[49] HUMBOLDT, _Op. cit._, vol. II, p. 159. Degli antichi, alcuni
noveravano sei Isole Fortunate; altri due solamente.
[50] _Le livre du chemin de long estude_, edito da R. Püschel, Berlino
e Parigi, s. a., ma 1881, vv. 1534-56. Che il Paradiso terrestre non
fosse nelle Isole Fortunate prova, con molti argomenti il Tostato,
_Commentaria in Genesim_, cap. XIII, qu. XCI, _Opera omnia_, Venezia
1727 sgg., t. I, p. 219.
[51] _Orlando Furioso_, c. XXXIII, vv. 109-110; _Paradise Lost_, I, IV,
vv. 281-3:
Paradise under the Aethiop line,
By Nilus' head, inclosed with shining rock,
A whole day's journey high.
È difficile dire se fosse il Prete Gianni che si traeva dietro in
Etiopia il Paradiso terrestre, o questo che si traeva dietro quello,
o se ciascuno vi migrasse da sè per proprio conto. Come abbiam già
veduto, e come vedremo anche meglio più innanzi, il meraviglioso
paese del Prete Gianni, o Presto Giovanni, era in istretta relazione
col Paradiso; ma quella opinione intorno al Nilo, e il mistero che
circondava le fonti di esso fiume dovevano agevolare a ogni modo il
trapasso del Paradiso in Africa. Non è facile intendere dove situasse
il Paradiso (sebbene paja non fosse lungi dall'Africa), FRANCESCO
RINUCCINI, il quale nella _Invettiva contro a certi caluniatori di
Dante e di messer Francesco Petrarca e di messer Giovanni Boccacci_,
dice che per fuggir quella _brigata di garulli_, dopo molto correre
il mondo riparò nel Paradiso terrestre: «di poi per non poter passar
più oltre sotto l'austro pell'oceano, ripasso il principio del Mare
rosso, andando in alto al paradiso terrestre, confinato da l'ocieano
di levante e da l'ocieano australe». L'_Invettiva_ fu pubblicata dal
WESSELOFSKY, _Paradiso degli Alberti_, vol. I, parte 2ª pp. 303-16,
Scelta di curiosità letterarie, disp. LXXXVI^2 (1867).
[52] In una lettera dell'ottobre 1498, egli scrive al re e alla regina
di Spagna: «Yo no hallo, ni jamas he hallado excriptura de Latinos ni
de Griegos que certificadamente diga el sitio en este mundo del Paraiso
terrenal, ni visto en ningun mapamondo, salvo, situado con autoridad
de argumento. Algunos le ponian allí donde son las fuentes del Nilo
en Etiopia; mas otros anduvieron todas estas tierras y no hallaron
conformidad dello en la temperancia del cielo, en la altura hacia el
cielo, porque se pudiese comprender que el era allí... Yo dije lo que
yo hallaba deste emisferio y de la hechura, y creo que si yo pasara
por debajo de la linea equinocial que en llegando allí en esto mas alto
que fallara muy mayor temperancia, y diversidad en las estrellas y en
las aguas, no porque yo crea que allí donde es el altura del extremo
sea navegable ni agua, ni que se pueda subir allá porque creo que allí
es el Paraiso terrenal...». Ap. NAVARRETE, _Viages y descubremientos
de los Españoles desde fines del siglo XV_, Madrid, 1835-9, vol. I, p.
258. Di ciò parlano anche parecchi biografi del Colombo.
[53] MARINER, _Tonga Island_, II, 107-9, citato dal Gerland,
_Altgriechische Märchen in der Odissee_. Magdeburgo, 1869, p. 41. Cf.
WILFORD, _An Essay on the sacred Isles in the West_, nelle _Asiatic
Researches_, vol. XI (1812), p. 91.
[54] Si può chiedere, del resto, se nell'interno del pianeta non lo
pongano anche alcune Visioni e leggende, come, per esempio, la leggenda
del Pozzo di San Patrizio.


CAPITOLO II.
NATURA, CONDIZIONI E MERAVIGLIE DEL PARADISO TERRESTRE.

Nella Genesi non si dice che il Paradiso fosse un monte, o sopra un
monte; ma i quattro fiumi che ne scaturivano lasciano congetturare
quale sia stata a tale riguardo la immaginazione primitiva. Essa non
era certamente disforme da quella che si trova in altri miti affini:
il Meru indiano, l'Alburz iranico, l'Asgard germanico, il Kâf arabico,
sono tutti monti; nè è questo il luogo d'andar ricercando le ragioni di
così fatta immaginazione. Ezechiele pone il giardino dell'Eden sopra
un monte tutto scintillante di gemme[55]. Tale riman poi la credenza
nei primi secoli del cristianesimo e durante tutto il medio evo. Molti
identificarono il monte del Paradiso col monte su cui si fermò l'Arca
di Noè quando cominciarono a scemare le acque del Diluvio; per Dante il
Paradiso è sulla cima del monte del Purgatorio.
Qui ci si offre una particolarità costante nella finzione. Il monte
paradisiaco s'immagina altissimo sopra tutti gli altri monti della
terra; al qual proposito non è da dimenticare che molti popoli, fra'
quali gli Ebrei, attribuirono ai monti più alti un certo carattere di
santità. Il Meru, meravigliosamente descritto nel _Mahâbhârata_ e nei
_Purâni_, si leva tanto sopra le nubi che nemmeno il pensiero vi può
salire. L'Alburz, l'Asgard, sono ancor essi di smisurata altezza. Del
Caucaso dissero gli antichi che attingesse col vertice le stelle, e
dell'Atlante che sorreggesse il cielo. Il Sinai e l'Olimpo si levavano
sopra la regione dei venti[56].
Le opinioni circa l'altitudine del Paradiso sono tutte concordi in
questo, che fanno veramente smisurata la elevatezza del monte, sebbene
poi discordino nei ragguagli. La credenza di alcuni, che il giardino
dell'Eden fosse stato distrutto dalle acque del Diluvio[57], era
contraddetta dalla credenza degl'innumerevoli, i quali pensavano che le
acque punitrici avessero bensì superato tutte l'altre cime della terra,
ma non quella, sopra tutte l'altre innalzata, del monte sacro. Nel
già citato _Combattimento di Adamo_ si legge che le acque del Diluvio
sollevarono l'Arca, sino appiè del giardino, e che quivi si umiliarono
gli elementi sconvolti ed infuriati[58]. Efrem Siro, ed altri assai,
dicono che il Paradiso non fu sommerso dal Diluvio; Merlino, insieme
con altri nove bardi, andò in traccia dell'isola verde che il Diluvio
non aveva potuto sommergere[59].
Nel l. VII delle _Istorie apostoliche_, attribuite ad Abdia, supposto
vescovo di Babilonia, San Matteo, predicando al popolo, afferma il
Paradiso terrestre salir tant'alto da esser vicino al cielo; e Alberto
Magno dice aver trovato in antichissimi libri che Matteo Apostolo fu il
primo a metter fuori la opinione secondo cui il Paradiso attingerebbe
il cerchio della luna[60]. Tale opinione ebbe seguaci parecchi,
fra' quali Rabano Mauro, Valafredo Strabone e Pietro Lombardo; ma fu
combattuta dai più[61]. Mosè Bar-Cefa si contentò di dare al monte del
Paradiso una grande altezza, allegando che senza di ciò non avrebbero
potuto i quattro fiumi passar sotto il mare e scaturir di bel nuovo
nelle nostre regioni[62]; e San Giovanni Damasceno di dire ch'esso è
più sublime di ogni altro luogo che sia in terra[63]. E' pare che Dante
ponesse ben alto il suo Paradiso, se s'ha a giudicare da ciò che nel
c. XXVII del _Purgatorio_ dice delle stelle, le quali sembravangli
più chiare e maggiori; ma vuolsi notare tuttavia che in fatto di
astronomia stellare le nozioni erano molto imperfette a' suoi tempi, e
che appena dei corpi del sistema solare si calcolava, assai falsamente,
la distanza. Al monaco Alberico il Paradiso era parso prossimo al
cielo[64]: in una leggenda italiana di tre monaci che andarono al
Paradiso terrestre, leggenda della quale dovrò parlare a suo luogo,
il monte è alto cento miglia. Il già ricordato Giovanni de' Marignolli
dice che il monte di Ceilan è forse, dopo quello del Paradiso, il più
alto che sia in terra.
Le opinioni circa l'estensione del Paradiso furono molto discordi, e
alcune di esse inconciliabili con la credenza che il Paradiso stesso
formasse la cima di un monte, o uno spianato altissimo. Come abbiam
veduto, credettero alcuni che il Paradiso coprisse in origine tutta
la faccia della terra, o la cingesse tutto intorno; altri pensarono
ch'esso chiudesse ne' suoi confini più regioni assai vaste, in modo
da potere accogliere tutto il genere umano, qualora Adamo non avesse
peccato. Nella leggenda di San Brandano, si dice che costui, e i
compagni suoi camminarono quaranta giorni nell'isola del Paradiso
senza poterne trovare la fine. I rabbini disputarono molto intorno a
questo punto, e alcuni di essi fecero l'Eden parecchie centinaja di
volte più spazioso della terra. Rabbi Giosuè (Jehoshûa), che ci fu e
lo descrisse, vi trovò, fra l'altro, sette case, ciascuna delle quali
era lunga 120000 miglia e larga altrettanto[65]. Per contro affermò
il Tostato che il Paradiso ebbe non più di tre o quattro leghe di
diametro, e circa dodici dì circonferenza.
La credenza più comune fece il Paradiso non troppo esteso, e permise di
cingerlo di un muro, il quale è talvolta di solida materia, e talaltra
di fiamma viva. Il muro solido è, secondo i casi, di cristallo, di
diamante, o d'altra gemma, di bronzo, d'argento, d'oro. Il muro di
fiamma, che probabilmente trae la origine dalla spada fiammeggiante
del cherubino, ricordata nella Genesi, s'incontra assai più spesso.
Già Tertulliano, e poi Lattanzio e San Giovanni Crisostomo, ne fanno
menzione[66]; ma chi ne ribadì la credenza nel medio evo fu Isidoro
di Siviglia, il quale dice che quell'incendio quasi s'alza sino al
cielo; e da esso attinsero, direttamente o indirettamente, Rabano
Mauro, Onorio Augustodunense, Giacomo da Vitry, Rodolfo da Ems, e altri
assai[67]. Nella già ricordata mappa dei tempi di Carlo V di Francia il
muro di fiamme è assai chiaramente indicato, e in pieno secolo XVI lo
descriveva ancora Davide Lindsay nel suo poema intitolato _The dream_.
Tale immaginazione non è, del resto, senza riscontri. Il castello in
cui, secondo la saga raccolta nell'Edda, dorme per decreto di Odino la
valkiria Sigurdrifa, è circonvallato di fiamme; a detta del Mandeville,
l'Arca di Noè, tuttavia esistente sul monte Ararat, è circondata da un
fuoco celeste che non permette altrui di avvicinarsele.
Molto sovente il Paradiso fu immaginato, nel medio evo, non più come un
giardino propriamente, ma come una città chiusa, o come un castello,
cinto di buone mura, fornito di torri e provveduto di porte; e così
si vede rappresentato in molti manoscritti e in parecchie carte[68].
Tale fantasia si lega, senza dubbio, come vedremo più oltre, alla
descrizione che della Gerusalemme celeste si legge nell'Apocalissi[69],
descrizione che diede più di un elemento alle nostre finzioni. Del
resto il Vara, o Paradiso dell'iranico Yima, era anch'esso cinto di
muro e conteneva molti e varii edifizii.
Ma prima di spingerci attraverso quel formidabile muro di fuoco, o di
varcare la soglia di quelle porte, per vedere le meraviglie molteplici
che in sè racchiude il divino luogo, bisogna che noi scorriamo alquanto
il paese dattorno (isole o terra ferma) e vediamo di qual natura esso
sia. Ora, è da notare che queste vicinanze si presentano nella finzione
con caratteri alle volte affatto opposti, quando dilettose e felici,
quando spaventose ed orrende.
L'idea di far precedere al Paradiso una regione che mostrasse in sè
alcuna delle condizioni di quello, e ne ricevesse, in certo qual modo,
il benefico influsso, era un'idea così naturale che non poteva non
sorgere negli spiriti e non riversarsi nella leggenda, sebbene dovesse
contrariarla il racconto dei patimenti a cui erano andati soggetti
Adamo ed Eva dopo la cacciata, durante il loro soggiorno in luoghi
affatto prossimi al giardino di beatitudine. In certo libro di Juniore
Filosofo, libro composto, secondo ebbe ad opinare il Mai, ai tempi
dell'imperatore Costanzo, e conservato in un manoscritto del secolo
X, si parla di un popolo il quale abita nel paese d'Eden, prossimo al
Paradiso, in una condizione di felicità e d'innocenza. Vivono quegli
uomini di pane che piove loro dal cielo, non conoscono le infermità e
campan cent'anni[70]. In parecchie delle leggende che dovrò riferire
più innanzi, coloro che muovono in cerca del Paradiso sono avvertiti
della sua prossimità dalla mitezza dell'aria, dallo splendore del
cielo, dall'amenità dei campi, dal sorriso dell'intera natura. Il paese
del Prete Gianni, situato a poca distanza dal Paradiso, è una specie
di paradiso esso stesso, dove è dolcissimo il clima, e gli animali sono
pieni di mansuetudine, e abbondano piante di gran virtù e di soavissimi
frutti, ed è grandissima copia di oro e di gemme, e scaturiscono
acque le quali serbano l'uomo sempre sano e sempre giovane, e scorrono
persino fiumi di miele e di latte[71].
Quivi il balsamo nasce; e poca parte
N'ebbe appo questi mai Gerusalemme.
Il muschio ch'a noi vien quindi si parte;
Quindi vien l'ambra, e cerca altre maremme;
Vengon le cose in somma da quel canto
Che nei paesi nostri vaglion tanto[72].
Giovanni di Hese, del quale feci ricordo nel precedente capitolo, parla
di un'isola deliziosa, ove non è mai notte, e che si chiama Radice del
Paradiso: nel romanzo di Ugo d'Alvernia, la terra prossima al Paradiso
è detta Terra di promissione. Terre beate si stendono appiè del Meru e
dell'Hara-berezaiti.
Non di rado l'immaginazione è tutt'altra: appiè del Paradiso si
stende una regione selvaggia, tenebrosa ed orrenda, asserragliata da
monti inaccessibili, piena di serpenti spaventosi e di altri animali
terribili. Giacomo da Vitry afferma che tra la dimora dei primi parenti
e questo _nostro esilio_ è un gran caos, una gran distesa di terre,
popolata da serpenti innumerevoli[73]. Giordano da Sévérac narra che
nella Terza India, ov'è il Paradiso, «sono dragoni in grandissima
quantità, i quali recano sul capo pietre lucenti, dette carbonchi.
Questi animali giacciono sopra arene d'oro, e crescono assai, e mandan
fuori un fiato puzzolente ed infetto, simile a densissimo fumo, quando
si leva dal fuoco. A certi tempi si accolgono insieme e mettono le
ali, e cominciano ad alzarsi per l'aria; ma allora, per voler di Dio,
cadono, essendo di sì gran peso, in un fiume ch'esce dal Paradiso, e
quivi muojono[74].» Di una regione popolata di serpenti è spesso fatto
ricordo in racconti orientali, come, per citarne uno, in quello dei
viaggi di Sindbad, che si legge nelle _Mille e una notte_[75]; e del
Meru è detto che serpenti orribili ne guardano l'accesso. Il Mandeville
e altri parlano della regione inospitale ed asprissima che si frappone
tra il Paradiso e le terre abitate; una regione tenebrosa trovasi già
descritta nelle storie favolose di Alessandro Magno.
Nelle Visioni il Paradiso terrestre è, non di rado, posto in regione
assai prossima all'Inferno o al Purgatorio, di guisa che l'anima
peregrina passa subitamente dai luoghi di tormento, al luogo di
beatitudine. Così nella leggenda del Pozzo di San Patrizio, nella
Visione di Thurcill, in quella di Frate Alberico, ecc. Il Mandeville
pone una specie d'antinferno in vicinanza del fiume Fison, e l'Ariosto
apre una bocca dell'inferno alle radici del monte su cui è il
Paradiso[76]. Dante fa che il Paradiso coroni il monte del Purgatorio,
e in una specie di prologo che precede una delle redazioni del noto
poema _La vengeance de Jésus-Christ_, contenuto in un manoscritto
della Biblioteca Nazionale di Torino, il Purgatorio è nel fosso da
cui il Paradiso è cinto tutto all'intorno[77]. Così l'Elisio fu,
dagli antichi, immaginato contiguo al Tartaro: Ulisse, Enea, passano
direttamente da questo a quello.
E ora varchiamo il fosso e il muro e penetriamo nel luogo sacro, il
quale, stando a una ragionevole opinione di Marcione, il noto eresiarca
del secondo secolo, fu formato con la più pura parte della terra, e,
secondo Filosseno vescovo di Bagdad (secolo IX) e Mosè Bar-Cefa (secolo
X), di una materia più tenue e più pura, che teneva dello spirituale.
Regna nel beato giardino una perpetua primavera; non mai turbata da
venti e da procelle. Il cielo, che spande sopr'esso un lume sette volte
più chiaro che non sia quello del nostro giorno, ma scompagnato da ogni
fastidiosa caldura, non vi patisce nube alcuna, e mai non lo ingombra
la notte. Nè mai per l'aria dolcissima si riversa grandine o pioggia,
nè mai vi s'ode il pauroso fragore del tuono e l'orrendo schianto
della folgore. Tiene il luogo un'altissima quiete, una pace serena e
sacra, ignote affatto a chi vive quaggiù. Padri e Dottori della Chiesa,
e poeti cristiani dei primi secoli, vanno a gara in descrivere tanta
letizia, e le lor voci raccoglie Dante, quando nel canto ventesimottavo
del Purgatorio descrive
La divina foresta spessa e viva,
e ricorda _l'aura dolce, senza mutamento_, che ne sommoveva le fronde,
e la perpetua primavera[78]. Anche qui i riscontri abbondano. Il Meru
e l'Hara-berezaiti non conoscono i rigori del verno, nè le tenebre,
nè le nubi, nè intemperie di nessuna sorte. Di tutti gli altri luoghi
di beatitudine fu necessariamente immaginato altrettanto. Veggasi ciò
che Omero ed Esiodo e Platone e Virgilio e tanti altri antichi dicono
del soggiorno dei giusti, o della condizione della terra durante l'età
dell'oro, o del paese degl'iperborei, o di altri così fatti:
Hic aeterna quies, nulla hic jura procellis[79].
L'isola di Avalon, di cui tanto favoleggiarono nel medio evo i poeti
e i romanzatori del ciclo arturiano, e dove Artù, mortalmente ferito
in battaglia, era, per forza di miracolo, serbato in vita, l'isola di
Avalon godeva gli stessi benefizii del Paradiso terrestre[80].
Che quella stanza del Paradiso dovesse poi essere saluberrima; che i
morbi non vi potessero penetrare, nè vi potesse penetrare la morte,
s'intende di leggieri, ed è cosa in tutto conforme al concetto del
mito biblico. Ma non si creda che essa fosse sola a fruire di così
notabili prerogative. Dell'isola di Pafo fu creduto anticamente che
nessuna infermità vi potesse aver luogo. Nell'isola de' Macrobii, posta
nel mare dell'India, e visitata da Alessandro Magno, l'aria era così
pura, e così sano il clima, che gli uomini vi solevan vivere circa un
secolo e mezzo. Plutarco, rimaneggiando finzioni antichissime, narra
di due isole a ponente della Brettagna, abitate, l'una da uomini di
santa vita, immuni da ogni umana infermità, l'altra da Crono, immerso
in letargo e servito da demonii[81]. Nel l. VIII delle sue _Istorie
Filippiche_, delle quali non sono rimasti se non pochi frammenti,
Teopompo raccontava, conformemente a un'antica leggenda, come il re
Mida fosse riuscito ad ubbriacare Sileno e ad avvincerlo di catene.
Per racquistare la libertà Sileno dovette comunicare al re la sua
scienza, e tra l'altro gli narrò della terra Merope, posta di là
dall'oceano, e dove gli uomini vivono il doppio che altrove, e non
conoscono infermità, e il suolo spontaneamente produce le messi e ogni
altro frutto[82]. Di consimil natura era l'isola di Jambulo, di cui
dà ragguaglio Teodoro Siculo. Anche di luoghi dove non si moriva ce
n'era più d'uno. Giraldo Cambrense parla di due isole, poste in un lago
dell'Irlanda, nella minor delle quali nessuno poteva morire e nessuno
mai era morto, e perciò era detta Isola dei viventi. Chi oppresso dai
morbi, o giunto allo stremo della vecchiezza, desiderava por fine a
una vita divenuta ormai troppo incresciosa, si faceva trasportare
nell'altra isola, e come appena toccava terra, moriva[83]. Queste
isole sono spesso ricordate in leggende celtiche, e veggonsi poste
più di frequente nel mare ibernico. Si legge nel _Perceforest_ che i
principi Dardanon, Gadiffer con la moglie sua, Perceforest e Gallafar
si ritrassero nell'Isola di vita, per potervi aspettare la venuta del
Redentore. Invecchiano oltre modo aspettando, tanto che la vita s'è
fatta loro insopportabile. Avuta la nuova che il Redentore è nato, si
fanno trasportare altrove e muojono in pace[84]. Pietro Comestore parla
di più _isole dei viventi_, ove a nessuno è dato morire, e Gervasio
da Tilbury ne ricorda una, visitata da Alessandro Magno, là nei mari
dell'India[85]. Contrastava con queste un'isola dove non si poteva
nascere[86]. Il Paradiso terrestre, che Dante, acconciamente, disse
Fatto per proprio dell'umana spece[87],
era immune dalla morte e dai morbi, non solo perchè il santo luogo non
poteva, per sua natura, essere contaminato da nessuna delle miserie
di quaggiù, le quali furono il tristo retaggio della colpa; ma ancora
perchè accoglieva in se stesso, come ora vedremo, più cose le quali
avevano virtù di combatterle e di tenerle lontane.
Degl'infiniti alberi d'ogni specie, che dovevano empiere il giardino
dell'Eden, la Genesi ne nomina più particolarmente due: l'albero della
vita e l'albero della scienza del bene e del male, concesso quello,
vietato questo ai due primi parenti. Il linguaggio del libro sacro è
del resto un po' ambiguo, perchè ora pare vi si parli di due alberi
diversi, e ora di uno solo, il che è da ascrivere certamente alla
imperfetta corrispondenza e alla poca fusione dei due racconti onde il
libro stesso fu composto. Vi è poi anche ricordato il fico, delle cui
foglie Adamo ed Eva copersero la lor nudità. Non parlo del _bedolach_,
intorno alla cui natura fu tanto disputato.
La stretta affinità che gli alberi paradisiaci della vita e della
scienza hanno con alberi meravigliosi di altre mitologie, col soma
degl'indiani, con l'haoma degl'Irani, con l'albero delle tradizioni
caldeo-assire, con l'albero della immortalità, che insieme con altri
alberi meravigliosi sorge nel Kuen-lun dei Cinesi, con quello che,
tutto splendente di poma d'oro, era custodito gelosamente nell'Orto
delle Esperidi, fu notata da un pezzo, nè io intendo di farne qui
particolare discorso[88].
Molto fu immaginato e disputato circa la specie e la natura dei due
alberi della vita e della scienza, e più specialmente del secondo.
Dall'uno o dall'altro si fece derivare, in una leggenda celebre di
cui avrò a parlare in luogo più acconcio, il legno onde fu formata
la croce; e il primo diede argomento anche a un'altra leggenda,
assai strana, ove si narra che mille anni dopo il peccato dei primi
parenti, Dio trapiantò l'albero della vita nell'orto di Abramo; che
una figliuola di Abramo ingravidò respirando il profumo dei fiori
dell'albero, e diede alla luce un fanciullo, il quale si chiamò Fanuel;
e che costui, avendo forbito sulla propria coscia il coltello con cui
aveva tagliato uno dei frutti dell'albero, vide la coscia gonfiarsi e
mettere al mondo, a tempo debito, una bambina che fu Sant'Anna, madre
della Vergine Maria[89].
Nel _Testamento d'Adamo_ Seth domanda che albero fosse quello del cui
frutto mangiarono i suoi genitori, e Adamo risponde che era un fico.
Isidoro Pelusiota, morto circa il 450, dice che, secondo l'antica
opinione, l'albero che condusse a peccare i primi parenti fu un fico,
e un fico si vede talvolta rappresentato nei monumenti della primitiva
arte cristiana[90]. Un fico lo dissero pure alcuni rabbini; ma altri
rabbini, seguiti in ciò dai Bogomili, pensarono che dovesse essere
la vigna (la quale fu, per contro, dai Mandaiti considerata pianta di
vita) oppure il grano[91]. Nel _Libro d'Enoch_, il profeta, seguitando
una sua fantasiosa peregrinazione, giunge al giardino di giustizia, e
vi trova, fra altri alberi, l'albero della scienza, il quale somiglia
al tamarindo, ha i frutti simili a grappoli d'uva, e spande intorno
un profumo balsamico[92]. Secondo una opinione molto diffusa tra i
musulmani il frutto vietato era, come per alcuni rabbini, il grano[93].
Felice Faber afferma che tutti gli Orientali credevano l'albero fatale
essere il musa (banano, fico del Paradiso), e dice che il frutto
mostra, quando è intero, la traccia di un doppio morso, e quando
è tagliato a mo' del rafano, il segno della croce, con una oscura
immagine del crocifisso, in ogni fetta che se ne leva[94]. Felice
scriveva verso la fine del secolo XV; ma molti prima di lui avevano
parlato del musa, e de' suoi frutti, chiamati anche pomi del Paradiso
(_arbor Adae, poma Adae_). Giacomo da Vitry e Giacomo di Maerlant,
nel suo poema _Der naturen bloeme_, e Thietmar, e, in generale, tutti
i peregrinatori di Terra Santa, ne fanno ricordo, notando più di
proposito la particolarità di quel morso, che pareva attestare in modo
irrefragabile l'origine della pianta e la parte da essa avuta negli
umani destini. Burcardo di Monte Sion descrive abbastanza minutamente
la pianta e i suoi frutti, ma nulla dice nè del morso, nè del segno
di croce[95]. Giovanni de' Marignolli per contro sa che delle foglie
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