Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, vol. I - 01

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ARTURO GRAF

MITI, LEGGENDE E SUPERSTIZIONI
DEL
MEDIO EVO

VOLUME I.
IL MITO DEL PARADISO TERRESTRE
IL RIPOSO DEI DANNATI
LA CREDENZA NELLA FATALITÀ

TORINO
ERMANNO LOESCHER
FIRENZE ROMA
Via Tornabuoni, 20 Via del Corso, 307
1892


PROPRIETÀ LETTERARIA
Torino — Stabilimento Tipografico Vincenzo Bona.


AD
ANGELO MESSEDAGLIA
IN SEGNO
DI GRATITUDINE ANTICA
D'INCANCELLABILE AFFETTO
. . . . . Thou hast deserved of
me
Far, far beyond whatever I can
pay.
ROBERT BLAIR.


_AVVERTENZA_

_Dei tre scritti che compongono il presente volume il primo può dirsi
affatto nuovo, dacchè quello che io pubblicai, sono ora quattordici
anni, col titolo La leggenda del Paradiso terrestre, altro non fu, a
paragon di questo, che un embrione, o uno schizzo; il secondo riappare
con nuovo titolo e qualche piccolo accrescimento; il terzo corredato di
note, onde prima fu privo._
_Sarei lieto se tutti e tre potessero parere ajuto non inutile a quel
libero studio della mitologia cristiana che, quanto è meritevole di
favore, tanto è lontano ancora dal compimento._


IL MITO DEL PARADISO TERRESTRE


IL MITO DEL PARADISO TERRESTRE


INTRODUZIONE

È ormai notissimo a tutti che la immaginazione di uno stato di felicità
e d'innocenza di cui gli uomini avrebbero goduto nell'inizio dei tempi,
e dal quale sarebbero poi decaduti, immaginazione che porge argomento
ad uno degli antichi racconti tradizionali che vennero a raccorsi e
collegarsi nella Bibbia, e forma come il luogo d'origine di tutta
la rimanente storia che ad essa consegue; non è una immaginazione
particolare; non appartiene in proprio a quel libro; ma è generalissima
e diffusissima, e appare, con forme varie e mutabili, nei libri e nelle
tradizioni di molte religioni diverse, ed è parte vivace e saldissima
della comune e spontanea credenza umana, tanto che questa rimanga
impenetrata alla scienza e riottosa alla critica. Noi la troviamo su
tutta la faccia della terra, dovunque son uomini; essa era già nata
quando non era ancor nata la storia; essa vive presentemente; essa
vivrà per lungo tempo ancora in avvenire, benchè premuta da ogni banda
e incalzata da nuovo pensiero e da nuova coltura. Gl'Indi, gli Egizii,
gl'Irani, i Cinesi, le varie famiglie dei Semiti, i Greci, i Latini,
i Celti, i Germani conobbero il mito: se, lasciato il vecchio mondo,
attraversiamo i mari, noi ritroviamo il mito in America, in Oceania,
nelle ultime plaghe di terra abitata che cingono il polo.
E in tutti i tempi, e fra tutte le genti, sotto sembianze quando
simili in tutto, quando leggiermente disformi, il mito serba la stessa
sostanza di concetto e la stessa significazione, e secondochè più
direttamente e più strettamente si leghi all'idea di tempo, o all'idea
di luogo, esso riesce, sia alla immaginazione di un'età beata ed aurea,
sia a quella di un luogo paradisiaco ed arcano, primo ed unico albergo
della umana felicità.
I libri sacri dell'India e il _Mahâbhârata_ celebrano l'aureo monte
Meru, da cui sgorgano quattro fiumi, che si spandono poi verso
le quattro plaghe del cielo, e sulle cui giogaje eccelse olezza e
risplende, incomparabile paradiso, l'Uttara-Kuru, dimora degli dei,
prima patria degli uomini, sacra ai seguaci del Budda non meno che
agli antichi adoratori di Brama. Gli Egizii, a cui forse appartenne
in origine la immaginazione degli Orti delle Esperidi, serbavano
lungo ricordo di una età felicissima, vissuta dagli uomini sotto la
mite dominazione di Râ, l'antichissimo dio solare. L'Airyâna vaegiâh,
che sorgeva sull'Hara-berezaiti degl'Irani, fu un vero Paradiso
terrestre, innanzi che il fallo dei primi parenti e la malvagità
d'Angrô-Mainyus l'avessero trasformato in un bujo e gelido deserto;
e nell'Iran, e nell'India, come in Egitto, durava il ricordo di una
prima età felicissima. I Cinesi coronarono il Kuen-lun di un paradiso,
ove sono parecchi alberi meravigliosi, e d'onde sgorgano parecchi
fiumi. Nelle tradizioni religiose degli Assiri e dei Caldei il mito
appare con sembianze che non si possono non riconoscere come simili
affatto a quelle del mito biblico. Greci e Latini favoleggiarono
della età dell'oro, dei regni felici di Crono e di Saturno, e di più
terre beate. Non giova moltiplicar questi cenni: in tutte così fatte
immaginazioni noi troviamo elementi comuni che si compongono insieme o
si suppliscono a vicenda: alberi e frutti datori di vita e di scienza,
fontane d'immortalità o di giovinezza, fiumi che si spargono intorno
a fecondare la terra, mitezza e giocondità di cielo, riso perpetuo di
natura, un divieto, una trasgressione, una caduta; — una breve felicità
originale a cui sussegue lunga e crescente miseria.
La credenza che il monoteismo giudaico fosse religion primigenia,
indivisa, tutta omogenea e tutta coerente, è credenza sfatata da tempo,
e non v'è più modo di dubitare che il racconto biblico della caduta
dell'uomo non provenga d'altronde e non si leghi ad un mito molto più
generale e più remoto. Basterebbe a darne prova il fatto della poca
coesione sua con l'altro racconto, detto eloista, al quale esso si
congiunge nella Genesi. Il Lenormant, giudice non sospetto in così
fatta materia, e che, pur dichiarando di voler rimanere cristiano,
accetta le conclusioni della critica biblica moderna, scrive queste
testuali parole: «Ce que nous lisons dans les premiers chapitres de
la Genèse, ce n'est pas un récit dicté par Dieu lui-même et dont la
possession ait été le privilège du peuple choisi. C'est une tradition
dont l'origine se perd dans la nuit des âges les plus reculés, et que
tous les grands peuples de l'Asie antérieure possédaient en commun
avec quelques variantes. La forme que lui donne la Bible est même si
étroitement apparentée avec celle que nous retrouvons aujourd'hui à
Babylone et dans la Chaldée, elle en suit si exactement la marche, que
je ne crois plus possible de douter qu'elle ne sorte du même fond»[1].
E con ciò rimane annullata l'altra credenza che l'unica verità della
Bibbia voleva rifratta e dispersa nelle tradizioni e nei miti delle
varie genti pagane, a quel modo che, passando pel prisma, si rifrange e
disperde, colorandosi variamente, la luce bianca del sole. Questa fu la
credenza dei Padri e dei Dottori della Chiesa, e questa era ancora la
credenza di Dante, quando a Matelda, là, nel Paradiso terrestre, faceva
dire:
Quelli che anticamente poetaro
L'età dell'oro e suo stato felice
Forse in Parnaso esto loco sognaro.
I moderni scrutatori dei linguaggi, delle tradizioni e dei miti
posero in sodo che il mito, da alcuni per brevità chiamato edenico,
è uno dei più antichi di cui l'umanità serbi memoria. Le indagini
loro hanno disvelato una lontana convergenza, ed una, almeno
parziale sovrapposizione geografica delle tradizioni paradisiache
sparse fra le genti della doppia famiglia ario-semitica; e una
opinione s'è accreditata e fatta ormai generale fra essi, che quelle
tradizioni, per quanto spetta ai grandi popoli storici, mettan capo
a un'era antichissima, quando la gente aria viveva ancora congiunta
nell'altipiano del Tibet, o in regione a quello adiacente, e sieno,
in parte, lontane e diversificate reminiscenze di una patria comune.
Il mito, quale appare nelle tradizioni assiro-caldaiche e fenice,
e quale cel porge il racconto biblico, è esso stesso, secondo ogni
probabilità, di origine indo-germanica. Il cherubino, che nel racconto
della Genesi sta a custodia del Paradiso, non appartiene, nè pel
nome, nè per la condizione e l'officio, al mondo semitico, ma rimanda,
secondo congettura il Renan, a una radice gribh, o grabh, occorrente
in tutte quasi le lingue ariane, e ricorda in singolar modo, secondo
avverte il Lenormant, i Garudi dell'India. Da altra banda un vasto
complesso d'indizii mostra che l'Eden biblico deve rintracciarsi in
quei medesimi luoghi ove i libri sacri dell'India e dell'Iran pongono
il Meru e l'Hara-berezaiti. A me basta di avere accennato rapidamente
tutto ciò, non essendo mio còmpito addentrarmi nell'esame dei fatti
e delle opinioni, nè richiedendosi ch'io ne faccia una esposizione
particolareggiata e compiuta[2]. Ma come nacque, e di che ragioni,
il mito meraviglioso? e quali sono i collegamenti suoi con la realtà
geografica, con la vita storica primitiva, e con quello che, in
mancanza di più acconcia espressione, chiamerò il contenuto della
coscienza? Non è cosa agevole rispondere a così fatte domande.
Che il mito abbia una radice storica; che contenga dentro di sè,
oscurato più o meno, il ricordo di una antichissima sede, di una
prisca patria, alla quale tornano col pensiero e col desiderio,
fantasticamente abbellendola, le razze che ne migrarono; e che
immedesimandosi quel ricordo via via, come porta la fortuna di
migrazioni consecutive, con ricordi d'altre sedi mutate e rimutate,
serbi pur sempre alcun che dell'originale esser suo, è cosa che si deve
senz'altro ammetter per vera, e che tale è provata da più altri esempii
di miti affini.
Che, inoltre, nel mito, si riverberi il ricordo annebbiato di una
primitiva condizione sociale, anteriore allo stabilimento della
proprietà fondiaria, e agli ordinamenti che ne furono la necessaria
conseguenza, può credersi; ma che il mito stesso abbia significato
_essenzialmente_ economico, ch'esso sia _un grido di dolore del
proletariato_ e la _propria leggenda del socialismo_, come dissero
il Laveleye, il Malon, e ultimamente con dottrina copiosissima e
lucidissima esposizione, il Cognetti De Martiis[3], non parmi opinione
che regga, quando si considerino le condizioni tutte d'organamento e
di vita sociale con le quali si concilia, sia l'apparizione, sia la
perduranza del mito, e quando si ponga mente agli elementi molteplici
ond'esso mito è composto.
Innanzi tutto, come spiegare il fatto che il mito, sia pure in forma
rudimentale, appare tra schiatte d'uomini le quali durano nella
medesima, primitiva condizione di vita sociale ed economica di cui
quello dovrebb'essere, per lo appunto, un ricordo? Inoltre, se il mito
è leggenda di proletarii, perchè mai le teocrazie e le aristocrazie
tutte lo raccolsero esse così amorosamente, e così gelosamente lo
custodirono? Più lo scruto e lo sviscero, e più mi sembra che il mito,
s'è, per qualche picciola parte un ricordo, sia per la massima parte
una visione ideale, nasca dalla projezione di un fantasma interiore
nel tempo e nello spazio. Vero è che giova, a questo proposito, fare
alquanto maggiore la separazione tra il mito dell'età dell'oro e il
mito del Paradiso terrestre, e riconoscere che più copiosi in quello
sono gli elementi storici, sociali, economici, più copiosi in questo
gli elementi ideali, mitici ed etici.
Che nel mito paradisiaco ario-semitico, e in altri affini, si trovin
tracce di un antichissimo culto della natura, non credo si possa
negare. L'albero della vita è l'albero che porge il nutrimento;
l'albero della scienza è l'albero che dà responsi: entrambi appajono
in numerose mitologie, fatti spesso compagni dell'albero generatore
da cui procedono gli uomini. Indipendentemente da qualsiasi storica
reminiscenza, l'uomo è tratto, per virtù spontanea di fantasia, a
immaginare uno stato di vita assai più felice di quello toccatogli in
sorte, e a porre quella felicità assai remota da sè, o nello spazio,
o nel tempo. Se nel tempo, egli deve necessariamente respingerla nel
passato o nel futuro. A respingerla nel passato egli sarà sollecitato
da quella medesima illusione che forza i vecchi a lodare i giorni e le
cose che furono, da quella stessa mitica fantasia che lega insieme la
felicità, l'apparir del sole, il cominciamento dell'anno, la primavera,
la nascita di tutte le cose. Altre cagioni e ragioni potranno
sollecitarla ad allontanar nel futuro quel sogno di felicità, come
interviene a noi, cui la scienza vieta ormai di colorirlo nel passato.
Disse lo Schopenhauer: «La felicità è sempre, o nel futuro, o nel
passato, e il presente è da rassomigliare a una piccola nube oscura,
cacciata dal vento sul piano soleggiato: innanzi ad essa e dietro di
essa tutto è chiaro: essa sola getta sempre un'ombra sul piano.»[4] E
Vittore Hugo, nell'_Année terrible_:
Les philosophes, pleins de crainte ou d'espérance,
Songent et n'ont entre eux pas d'autre différence,
En révélant l'Eden, et même en le prouvant,
Que le voir en arrière ou le voir en avant.
A noi non è più concesso figurare il sogno nello spazio, almeno in quel
tanto spazio che la superficie del nostro pianeta comprende; ma tutta
l'antichità credette all'esistenza di popoli remoti, i quali, governati
dal senno e dalla virtù, beneficati da terra feconda e da clementissimo
cielo, vivevano felicissimi, esenti dai morbi, non asserviti al lavoro,
fruenti di rigogliosa longevità.
Quando la coscienza morale si desta, nuove ragioni concorrono a
figurare il mito e fermarne il significato. Gli uomini primitivi non
considerano e non intendono la morte come un fatto naturale: per essi
la morte è effetto di un errore, di un malefizio, di un castigo. In
molti miti di popolazioni selvagge si afferma che gli uomini dovevano
essere immortali, ma che per un error di messaggio, o per malizia
di certo messaggere, o per altra cagione sì fatta, avvenne poscia il
contrario. Allargandosi e chiarendosi sempre più la coscienza morale,
si venne a considerare la morte, e i mali stessi ond'è ripiena la vita,
quale conseguenza di un peccato commesso e di un meritato castigo.
Questa interpretazione non si ebbe se non quando furono ben definiti i
concetti di colpa e di pena, ed è frutto di un ragionamento, non giusto
certo, ma naturale in menti incolte: la pena è dolore; ma dolore sono
e la vita e la morte: dunque la vita e la morte son pena. Allora il
sogno di primitiva felicità diventa anche sogno di primitiva innocenza,
e l'intero sogno può benissimo intrecciarsi con ricordi storici o
semistorici, sia di una patria remota, sia di una perduta condizione di
vita sociale.
Dopo quanto son venuto dicendo non credo di dover giustificare
con altre ragioni l'uso da me preferito di dire _mito del Paradiso
terrestre_ anzichè _leggenda del Paradiso terrestre_, tanto più che
io prendo a considerare la tradizione quando è già staccata da quelle
radici storiche e reali che possa avere. Da altra banda occorre appena
avvertire che il mito, volgendosi, a guisa di largo fiume, attraverso
i secoli, e in mezzo a disparatissime genti, accoglie nel suo corso,
insieme con altri e svariati miti, leggende in gran numero.
Il mito del Paradiso terrestre doveva acquistare nuovo valore e nuova,
maggiore celebrità col diffondersi del cristianesimo, che tutto poggia
sulla dottrina della caduta e della redenzione. I profeti appena
fanno ricordo della beata dimora; i Padri e i Dottori cristiani son
pieni delle sue lodi, e spogliano i poeti pagani per far più vaghe le
descrizioni che vanno di essa intessendo. Non senza giusta ragione. Di
contro all'opera misteriosa e solenne della redenzione compiuta da un
Dio fatto uomo, il fallo dei primi genitori doveva apparire più che mai
mostruoso ed enorme, e per necessario effetto di contrasto, a paragon
di quel fallo doveva parere incommensurabile il primo benefizio di Dio,
doveva la patria dell'uomo innocente rifulgere di un più intenso lume
di cielo, e quello stato di prisca felicità dipingersi alle menti con
colori tanto più vaghi ed accesi, quanto maggiore era la miseria de'
tempi, quanto più vivo il sentimento della fragilità ereditata, quanto
più angoscioso il pensiero degli ostacoli innumerabili che impedivano
il conseguimento della salute, quanto più grave e più insistente il
terrore degli atroci castighi minacciati a coloro che fossero per
lasciar perdere il frutto della redenzione. Invano si tentò da alcuni
dare al racconto biblico un significato puramente allegorico: i più
lo presero alla lettera, e i poeti della nuova legge si voltarono
desiosamente a quelle prime origini a cui pareva dovesse ripiegare
il corso della storia, mentre una opinione già teneva gli spiriti,
che la beata dimora dei padri colpevoli, riaperta ai figli redenti,
dovesse accogliere, per misurato spazio di tempo, sino al giorno
dell'Universale Giudizio, le anime degli eletti, destinate ad ascendere
poi alle glorie incomparate e senza fine della Gerusalemme celeste. I
Chiliasti sognavano un nuovo Eden, sotto il regno millenario di Cristo,
e il sogno loro non era ancor spento nel secolo IX, quando si levava
a dannarlo Pascasio Radberto. I tempi, volgenti più e più al peggio,
favorivano quella disposizion degli spiriti. Si sfasciava l'impero di
Roma, irrompevano i barbari da ogni banda: una età di ferro, quale non
avevano immaginata le mitopee dell'antichità, pesava sul mondo, che,
nel corso di una storia calamitosa ed oscura, pareva divenir sempre
più il regno incontrastato di Satana. Qual meraviglia se poeti de'
primi secoli, Tertulliano, Proba Faltonia, Draconzio, Claudio Mario
Vittore, Alcimo Avito; se poeti e romanzatori, e narratori di leggende,
e scrittori d'opere ascetiche de' secoli successivi, raccolgono quante
reminiscenze dell'arte classica durano in loro, stemperano i colori più
accessi delle lor fantasie, impregnano di mistici ardori il sentimento
e la frase, per ripresentare agli animi una viva immagine di quel primo
soggiorno di beatitudine? Quanto più rude e turbolenta e malvagia
si faceva la vita, tanto più intenso doveva crescere negli spiriti
contemplativi il desiderio di ritrarsi con la fantasia in quella
solitudine beata e sacra.
Oi! paradis, tant bel maner!
Vergier de gloire, tant vus fet bel veer!
sospirava un trovero del XII secolo. E un poeta latino, forse anteriore:
Eden digne pingere vanum est conari,
Stillas paucas extraho de tam magno mari.
Di quel desiderio, come fiori da pianta vigorosa e feconda, nacquero,
nel corso dei secoli, numerose leggende e infinite altre immaginazioni,
nelle quali si vedono riapparire, con meraviglia di chi le consideri,
venuteci non si sa come, nè per qual via, molte particolarità del
mito più generale, trascurate nel racconto biblico. Se ne vedranno le
prove qua e là, nella trattazione che segue. Quelle finzioni sono,
come ho detto, assai numerose, e dovevano essere, dato il luogo che
nella memoria di tante generazioni di credenti aveva a tenere quella
prima patria degli uomini, dove s'erano scontrati tutti in un punto i
pugnanti fattori della storia, l'amor del piacere, l'amor del sapere,
il desiderio di potestà, la legge e la ribellione, la virtù e la colpa,
la vita e la morte. Molte di esse sono anche belle e fantasiose, accese
de' più vivi colori di una poesia fervorosa ed ingenua, e trasportan
la mente in un cielo di sogni meravigliosi, il cui ricordo faceva
esclamare al Leopardi:
Oh fortunata
Di colpe ignara e di lugubri eventi,
Erma terrena sede!
E di quelle finzioni principalmente io intendo fare discorso,
non toccando, se non di volo, qua e là, delle dispute teologiche
arruffatissime che si legano e si frammezzano a quelle, e sono, il
più delle volte, altrettanto vane e fastidiose, quanto sono quelle
dilettevoli ed istruttive[5].

NOTE:
[1] _Les origines de l'histoire d'après la Bible et les traditions
des peuples orientaux_, Orléans, 1880-4, vol. I, p. XVII. Intorno
alle tradizioni caldeo-assire vedi, oltre allo stesso LENORMANT, _Op.
cit_., vol. I, pp. 73 sgg., ed _ Essai de commentaire des fragments
cosmogoniques de Bérose_, Parigi, 1871, pp. 300-21; SMITH, _Chaldean
Account of Genesis_, Londra, 1875; DELITZSCH, _Assyrische Lesestücke_,
2ª ediz., Lipsia, 1878, tav. 40 e 41; H. FOX TALBOT, _Chaldean Account
of the Creation_ (_Records of the Past_, vol. IX); A. H. SAYCE, _The
assyrian Story of the Creation_ (_Records of the Past_, nuova serie,
vol. I); VIGOUROUX, _La Bible et les découvertes modernes en Egypte et
en Assyrie_, Parigi, 1877.
[2] Perciò tralascio di ricordare molt'altri libri capitali ove
la questione è largamente esposta e discussa. Solo soggiungerò che
FEDERICO DELITZSCH, in un volume intitolato _Wo lag das Paradies? Eine
biblisch-assyriologische Studie_, Lipsia, 1882, cercò di confutare,
senza però riuscirvi, la opinione più accreditata e diffusa, e di
provare che il mito edenico nacque propriamente in Caldea, e dalla
Caldea passò nell'Iran e nell'India. Vedi in contrario OPPERT, nelle
_Göttingische gelehrte Anzeigen_ pel 1882, vol. II, pp. 801-31, e
LENORMANT, _Les origines de l'histoire_ etc., vol. II, pp. 537-8.
[3] _Socialismo antico_, Torino, 1889. Vedi più particolarmente le
conclusioni, pp. 250 sgg.
[4] _Die Welt als Wille und Vorstellung_, 3ª ediz., Lipsia, 1859, vol.
II, p. 655. Lo Schopenhauer vedeva espressa nel mito della caduta,
sebbene sotto forma di allegoria, una verità metafisica, e diceva
esser quello il solo mito biblico che lo riconciliasse con l'Antico
Testamento (_ibid_., pp. 663-4).
[5] Tuttavia, per chi ne volesse qualche maggiore contezza, indicherò
qui alcuni libri, da' quali si può attingere facilmente: MALVENDA,
_De Paradiso voluptatis_, Roma, 1605; PEREIRA, _Commentaria in
Genesim_, Lione, 1607; INVEGES, _Historia sacra Paradisi terrestris et
sanctissimi innocentiae status_, Palermo, 1649 (traduzione italiana
ivi stesso, 1651); GIANGOLINO, _Hedengrafia, overo descrittione del
Paradiso terrestre_, Messina, 1649; TOSTATO, _Commentaria in Genesim,
Opera omnia_, Venezia, t. I, 1727; HARDOUIN, _Nouveau traité sur la
situation du Paradis terrestre_, nella raccolta intitolata _Traités
géographiques pour faciliter l'intelligence de l'Ecriture Sainte_,
La Haye, 1730; KIRCHMAYER, _De Paradiso_, ap. CRENIUM, _fasc. IV
exercitationum philologico historicarum_; HUET, _De situ Paradisi
terrestris_ (tradotto in più lingue e stampato assai volte in fine
del secolo XVII e in principio del XVIII); RELAND, Dissertatio de
situ Paradisi terrestris; Hopkinson, Descriptio Paradisi; Morin,
_Dissertatio de Paradiso terrestri_; VORST, _Dissertatio de Paradiso_,
tutti e quattro riprodotti nel vol. VIII del _Thesaurus antiquitatum
sacrarum_ dell'Ugolini, ecc, ecc. Veggansi inoltre tutti i Dizionarii
della Bibbia. Veggasi pure il curioso libro dello SCHULTESS, _Das
Paradies, das irdische und überirdische, historische, mythische und
mystische_, Zurigo, 1816. Il D_ictionnaire des légendes_ del DOUHET non
contiene sul Paradiso terrestre se non un'assai magra notizia.


CAPITOLO I.
SITUAZIONE DEL PARADISO TERRESTRE.

Dice la Genesi che Dio piantò il mirabil giardino nella parte orientale
di una regione chiamata Eden[6]; e questo cenno fece prevaler la
credenza ch'esso fosse stato, o fosse tuttavia, nella parte orientale
della terra, o, a dirittura, nell'estremo Oriente. Tale fu, come
può rilevarsi da Giuseppe Flavio, la comune credenza degli Ebrei[7];
e tale fu pure la credenza più accetta, nei primi secoli, ai Padri
della Chiesa, e poi nel medio evo, e oltre il medio evo, a teologi,
a viaggiatori, a romanzatori, a cosmografi. San Basilio Magno dice
che i cristiani pregano volti ad Oriente, quasi cercando la patria
perduta[8]; e Jesujabo, vescovo nestoriano di Nisibi nel secolo XII,
reca, come argomento della superiorità dell'Oriente sull'Occidente, il
fatto che il Paradiso terrestre è appunto in Oriente[9].
A confermare tale credenza cooperava del resto una ragione alla quale
è forse da far risalire, in qualche parte, la stessa indicazione
biblica. Basta ripensare un istante ai caratteri e agli officii
proprii del sole in tutte le mitologie, e in ispecie del sole
nascente, per tosto avvedersi che l'Oriente, cioè quella plaga della
terra onde si leva l'astro datore di vita e dispensator di letizia,
doveva, in virtù di un'associazion di concetti non meno naturale che
inevitabile, parer la più acconcia a porvi la culla dell'uman genere,
il giocondo ricetto della prisca felicità e della vita immortale. Che
se più tardi noi troviamo il Paradiso trasposto in altre regioni, o,
a dirittura, nell'ultimo Occidente, ciò avviene, come vedremo, per
ragioni particolari e avventizie, le quali, posteriori di tempo, nulla
detraggono a quella ragion generale e primitiva. Nè prova nulla in
contrario il fatto che l'Elisio, le cui descrizioni, come di stanza di
beati, concordano in molte parti con quelle del Paradiso terrestre,
ponevasi dagli antichi nell'ultimo Occidente, nella regione cioè ove
si occulta il sole, e muore il giorno; perchè l'Elisio era stanza,
non di vivi ma di morti, e perciò immediatamente prossima all'Hades.
L'opinione pertanto più antica, ed anche, data l'indole del pensiero
mitico, più razionale, era quella che situava il Paradiso terrestre
in Oriente, e ad essa si legava naturalmente, per le stesse ragioni,
l'altra che faceva volta ad Oriente la porta (quando si parlava d'una
e non di più porte) del Paradiso medesimo. Da altra banda, il non
trovarsi più vestigio di esso nelle regioni prima cognite dell'Asia,
e poi nelle regioni che furono conosciute più tardi; e quella natural
tendenza che induce gli uomini a immaginare come lontanissimi da loro,
dalle loro consuete dimore, i luoghi di sognate meraviglie e di sognata
felicità, dovevano esser ragioni atte a far trasporre il Paradiso
terrestre in un Oriente sempre più remoto ed arcano. Nell'apocrifo
etiopico, d'incerta età, intitolato _Combattimento d'Adamo ed Eva_, si
dice che Dio piantò il giardino paradisiaco il terzo giorno, ai confini
orientali del mondo, di là dai quali non v'è più se non l'acqua che
circonda la terra e attinge il cielo[10]. Perciò la credenza che il
Paradiso fosse in Mesopotamia, credenza suggerita dallo stesso racconto
biblico là dove nomina il Tigri e l'Eufrate, se trovò in ogni tempo,
e anche ai dì nostri, chi l'accolse e difese, non però si può dire che
sia stata la più diffusa. e, anzi, nelle leggende di cui avrò a parlare
più oltre, non compare nemmeno.
Fare una enumerazione di tutti gli scrittori sacri e profani, antichi
e del medio evo, i quali si contentarono di dire che il Paradiso
terrestre è in Oriente, senz'aggiungere altra più precisa indicazione,
sarebbe fatica non meno incresciosa che vana: essi sono, starei per
dire, innumerabili. A noi importano ora le notizie, o le affermazioni,
le quali, riferendosi pur sempre all'Oriente, sieno in qualche modo più
specificate e più precise.
Molte mappe del medio evo pongono il Paradiso terrestre in terra ferma,
nell'India, o di là dall'India, in una regione incognita, all'estremo
limite della terra bagnata dall'oceano che tutto circonda[11]; e
di là dall'India lo posero l'Anonimo Ravennate e la più parte dei
trattatisti, espositori e commentatori ch'ebbero a parlarne[12]. Non
aveva già detto Erodoto che quanto è di più bello al mondo si trova
agli estremi confini della terra abitata? Nel secolo XV la credenza
per questo rispetto non muta. Le mappe di Andrea Bianco (1436), di
Giovanni Leardo (1448), del Museo Borgia, altre, seguitano a porre
il Paradiso nell'India, o di là dall'India. Ma la nozione era di
necessità confusa ed incerta. Nel secolo XIV, Giovanni di Mandeville
afferma di essere stato in India, ma di non aver veduto il Paradiso,
il quale è in regione assai più lontana[13]; mentre Giordano da Sévérac
riferisce una credenza secondo cui il Paradiso sarebbe stato fra quella
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