Mimi Bluette, fiore del mio giardino: romanzo - 02

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tirrer les cliannts! Achalandèrr, achalandèrr, quoi!...»
Micaello, creatore dʼuna valse chaloupée, si assunse lʼincarico di
farne in poche settimane «la premièrre dansôse de la Scalà.» Era un
bel ragazzo, agile come una pallottola, con occhi da Saraceno. «Et
tou me payeras quand tou auras plous de gallette!... Ze ne suis pas
compatriote pour rienn, ze ne suis pas!...»
Quando seppe il Cake–walk, la Sailorʼs–dance, la Chaloupée e tutto
il resto, Jennie–Minnie–et Lélie vennero a proporle di fare un
numero insieme: Micaello vestito da negro e lor quattro vestite col
bianco della loro pelle. Max e Jean Kiki avevano scoperta frattanto
unʼAmericana, ossigenata e robusta, che sfruttavano in società.
Il numero di bianco e nero mandò in visibilio quel rispettabile
pubblico, e, sebbene le altre avessero più scuola, quella che piacque
fu Bluette.
Il Régisseur la ficcò nella Rivista, indi la portò a cena.
Il Régisseur era un uomo scrupoloso, che pagava lo Sciampagna sei
franchi sotto il prezzo della lista e diceva al maggiordomo:—Voyons,
Ernest, ne mʼembête plus avec ta cousine! Si elle ne parvient pas à
relever son gros derrière, qui lui tombe sur les mollets, comment
veux–tu que jʼen fasse une Commère?
Quanto a Bluette, le disse:—Je ne te donne rien, ma petite, mais aussi
je ne te demande rien: ce qui est fort gentleman de ma part.
Bluette si mise a ridere, passandogli una mano leggera sul cocuzzolo
calvo.
Soltanto lo pregò di farle portare carta penna e calamaio, perchè
voleva scrivere due parole a sua madre.
«Cara mammina.
Finalmente sono riuscita ad essere «une étoile»; fra poco diventerò
quello che a Parigi si chiama «une vedette», il che vorrebbe dire
una stella di primissimo ordine. Denari ne avrei molti, se non me li
avesse tutti sequestrati regolarmente il mio buon amico Max. Ma non
importa, perchè la settimana ventura entrerò neʼ miei mobili, come si
dice qui; ossia ho trovato un grande industriale che mi mette su casa
e mi compera lʼautomobile. Se hai voglia di venire a Parigi, avvertimi
súbito, che ordinerò al tappezziere una bella camera da letto, stile
Liberty, ove dormirai bene. Ma, ti prego, non condurmi anche il maestro
di scherma, perchè non saprei dove metterlo, e qui ne troverai di molto
più eleganti che il tuo. Il grande industriale è uno fra gli uomini
più ricchi di Parigi. Ha quarantasette anni; è vedovo; ha due figlie
da marito, una vecchia amante in pensione che gli costa un occhio
della testa; è ancora un bellʼuomo, tutto sbarbato, e pare un Inglese.
Questa sera mi ha mandato un filo di perle attorcigliate al manico dʼun
paniere dʼorchidee. Sono a cena col Direttore del mio teatro, un buon
diavolo, sempre allegro, che mi protegge e che mi vuol bene. Addio;
mammina; ti manda un bacio la tua
BLUETTE»
[Illustrazione: DECORAZIONE]
[Illustrazione: DECORAZIONE]
Il filo di perle del Grande Industriale fu la causa definitiva della
rottura fra Max e Bluette.
In quella settimana di corse tutti i favoriti si facevan battere;
non cʼera più mezzo dʼavere una buona informazione; Max perdeva un
patrimonio ed era in debito con Jean Kiki. Voleva impegnare il suo
filo di perle, come già le aveva portato via tutto il resto. Accadde
fra loro una violenta scena domestica, ed alle tre di notte la videro
giungere concitata nel Bar de la Grande Roquine. Tutti le si misero
intorno. Bluette cominciò il racconto. Ma era prolissa.
—Enfin, ce collier?—diceva la Grande Rouquine, con la sua voce
cavernosa e combusta.
—Zut!... laisse–moi dire...—fece Bluette.
—Laisse–la dire, la Grande!—insistette Boblikoff, ex–domatore dʼorsi,
con la sua voce di fenomeno da fiera.—Tu vois bien quʼelle les a, ses
perles!... Sans quoi elle aurait gueulé comme une bécasse: il mʼa volé
mes perles!... il mʼa volé mes perles, ce grand salaud!
—Tais–toi, Koff. Tu mʼembêtes!—rispose Bluette.—Je ne suis plus une
gourde à lʼheure quʼil est! Mes perles, je les avais données a Lélie,
pour quʼelle me les garde.
—Si tu mʼavais choisi moi,—fece Boblikoff—tʼaurais pas eu tant de
déboires!
Pʼtit–Béguin era seduto quasi in braccio a Dorée dʼArnac, una fra le
più belle donne di Parigi, che gli carezzava i capelli brillanti,
color del mogano, forse innamorata di lui perchè faceva il suo stesso
mestiere.
Florina–Bey si bisticciava con un compare di rivista nominato Patrik
Audel.
Poco dopo entrò Max, torvo e coi denti serrati. Senza guardare nessuno
si mise in un angolo, coi due gomiti su la tavola.
Bluette gli andò vicino, con lʼintenzione visibile di riaccendere
la lite. Gli altri la seguirono, e stando lʼuno dietro la spalla
dellʼaltro, si tenevano pronti ad assumere le difese di Bluette.
—Eh bien, je te dis, moi, que tu peux faire ton sac et décamper quand
tu voudras!—gli espose Bluette con le mani sui fianchi.—Voilà quinze
mois que tu mʼexploites, et je nʼai rien dit parce que je suis douce...
Gli occhi obliqui di Max la fissarono con un cattivo riso. Poi squadrò
velocemente le fisionomie dei presenti, ma dovette accorgersi che gli
erano ostili.
—Oui, douce... et tout le monde peut le dire! Mais jʼen ai plein le
dos, mon bellâtre! Va–t–en chez ta momie américaine! Si elle a du goût
pour toi, quʼelle se le passe! Quant à moi, je te dis: La barbe! et
lorsque Bluette a dit: La barbe...—zut, mon pʼtit, cʼest pour toujours!
—Mordieu, ce quʼelle a raison, la tourterelle!—bassoprofondò Boblikoff.
—Penses–tu?—fece Max, cattivo come una cerasta. E balzato in piedi,
afferrò Bluette per un braccio, additando lʼuscio:—Vas–y tout droit, et
rentre!
Bluette cercò di sciogliersi dalla sua stretta conficcandogli nel polso
lʼunghie minute. Allora Max le misurò un tal manrovescio, che lʼavrebbe
di certo coricata per terra se non fossero intervenute al buon momento
le immense braccia di Boblikoff.
Successe un tramestìo. Le donne parteggiavano per Bluette, ma gli
uomini erano in parte impacciati a schierarsi contro Max, per ragioni
di principio. La Grande Rouquine, senza lasciar cadere la sigaretta,
gridava con la sua voce cauterizzata:
—Eh, toi, sale matamore! voix–tu me foutrʼ ʼl camp dʼici, ou bien je
siffle afin quʼon tʼ coffre!
Bluette piangeva contro la spalla di Boblikoff; Limka, battendo
lʼarchetto sulla cassa del violino, si faceva in quattro per riuscire a
metter pace. «Voyons, Messieurs, Dames, un peu de silence!» E sperando
che la musica potesse giovare, attaccava il tango malinconico della
«_Noche de Garufa_».
Del tutto inutile anche «_La Noche de Garufa_»! Max, torcendo fra le
sue dita ruvide un polso di Bluette, non dava più ascolto a nessuno.
Bluette, appesa con lʼaltra mano al collo di Boblikoff, si lasciava
tirare quel braccio come il cordone dʼun campanello.
—Sauve–moi Koff....—pregava Bluette sottovoce.
—Mince! laisse–la, je te dis!—ruggì Boblikoff, diventando bianco.
—Fous–moi la paix, cosaque!—bestemmiò Max. Allora, col braccio
sinistro, Boblikoff sollevò leggermente il peso di Bluette, e simile
ad un gigante che volesse mettere in salvo la sua bambina, se la
collocò dietro le spalle, per modo che ora le stava davanti come un
baluardo. Quasi contemporaneamente, col braccio destro, lanciò innanzi
un tal pugno, che il corpo di Max, piegato in due, sfondò tutta la
siepe delle persone che gli stavano a ridosso e andò a ruzzolare contro
il paravento che nascondeva lʼingresso del bar.
Rimase per terra qualche minuto, e pareva morto. Fra un silenzio quasi
tragico la Grande Roquine gli andò presso, e con la punta del piede lo
toccava per tentare di farlo muovere.
Max per lʼappunto si mosse. In un baleno cavò dalla tasca una piccola
rivoltella, e, sollevato sopra un gomito, sparò due colpi contro
Boblikoff.
Il gigante non ebbe che il tempo di chiudersi la testa fra le braccia,
poi si buttò avanti con un movimento che pareva quello dʼun uomo
colpito. Non lo era; e si rovesciò su Max come una catastrofe di carne.
Chissà quale via scelsero quelle due palle, ma non toccaron nessuno.
La prima scalcinò il muro, lʼaltra si conficcò nella mensola della
bottiglieria spaccando solamente una «Vieille Chartreuse».
Pʼtit–Béguin, con un coraggio imprevedibile, si lanciò egli pure
addosso a Max, per aiutare Boblikoff nel disarmarlo.
Frattanto la Grande Roquine era uscita nella contrada e fischiava con
una piccolissima sirena dʼoro, che portava in collana frammezzo ad
altri ciondoli.
Poi tornò dentro. «Tiens–le fort, Bob! Voilà les flics!»
«Les flics» erano già sullʼuscio, e questa volta il vederli diede a
tutti un lungo respiro di sollievo. Max non poteva stare in piedi; gli
pareva dʼavere lo stomaco fracassato.
Quando fu il momento di stendere il processo verbale:—Mais quel
procès–verbal!—celiò la Grande Rouquine.—Ce pauvre Max a tellement bu,
quʼil va rendre ses intestins! Fichtre!... et ma Vieille Chartreuse?
Oh, la, la... cʼquʼil est bath quand il est poivre!... Sʼpas Max, que
tʼen a bu un coup de trop? Ecoute bien ce que dit la Grande... Quand tu
seras degrisé, tu nʼauras quʼà répondre au Commissaire:—«Voyons! quelle
foutaise!... jʼen avais une telle pochetée!... le rigolo est parti tout
seul...»
E Limka, battendo lʼarchetto sul violino, piegato su la spalla il suo
ceffo da irresistibile roso dal vaiolo, riattaccava, per mettere le
cose al posto, il tango malinconico della «_Noche de Garufa_».
[Illustrazione: DECORAZIONE]
Avenue Kléber, fra la rue Villejust e la rue Boissière, il Grande
Industriale, sbarbato e vedovo, la mise neʼ suoi mobili.
Marthe dʼAussolles, lʼamante giubilata del Grande Industriale,
stava ella pure neʼ suoi mobili, ma dallʼaltra parte della Senna, e
precisamente in rue de Médicis, presso il giardino del Lussemburgo.
Quando, fra le due amanti dʼun Grande Industriale, scorre almeno un
fiume, cʼè speranza di vivere in pace.
Così fu.
Marthe dʼAussolles aveva cominciato la sua vita al Palais de Glace;
lʼavrebbe finita verisimilmente in rue de Médicis. Lo stabile nel quale
dimorava era di sua proprietà. Piccolo ma elegante. Al primo piano
abitava lei, al secondo un giudice, al terzo un ufficiale in ritiro. Su
la strada vʼerano tre negozi, che rendevan bene. Possedeva ugualmente
una modesta proprietà in Normandia, suo paese dʼorigine. Laggiù si
chiamava Thérèse Bouguereau, come suo padre. Manteneva, oltre il
vecchio Bouguereau, due fratelli, altrettante sorelle, tre zii, cinque
nipoti. Nella sua gioventù aveva esercitata la professione di piacere
al Grande Industriale; adesso praticava quella di dargli noia. E così
erano risolte cinque, più tre, più cinque, oltre ancora la sua propria:
in tutto quattordici vite.
Mimi Bluette non aveva certo il buon senso di Marthe dʼAussolles, e non
pensò allʼavvenire. Sebbene a quel tempo il Grande Industriale forse le
avrebbe regalato anche la Colonna Vendôme.
Per diventare Marthe dʼAussolles occorrono molte generazioni. Bluette,
povera piccola bella italiana, forse non era che lʼantenata.
Si lasciò regalare con molta gioia una «limousine» fosforescente, un
mucchio di pellicce siberiane, i costosi modelli di Béchoff–David e
di Suzanne Talbot, gli astucci serii di Lacloche e di Cartier. Nulla
chiese; trovò che tutto andava bene; fu riconoscente.
Marthe dʼAussolles avrebbe chiesto ancora il doppio, avrebbe trovato
che tutto andava male, non gli sarebbe stata riconoscente.
Bluette invece, con il suo limpido cuore di Transalpina, sperava solo
che arrivasse presto la sua mamma, colei dal seno celebre, per farle
vedere tutte quelle maraviglie.
Fra lʼaltre cose le avrebbe fatto conoscere Maurice, maître–dʼhôtel
impeccabile come un diplomatico, poi la sua Linette, cameriera dalle
calze di voilé, con le unghie imbrillantate, un grembiule tutto pizzo e
linon.
Adesso, lungo i boulevards serali, sʼincontravano a profusione le
scritte luminose:—«La Cigale—Mimi Bluette»;—«Gaumont–Palace—Mimi
Bluette dans ses danses».
I cinematografi murali proiettavano contro i teloni dei tetti opposti
la seminuda bellezza di Mimi Bluette.
Micaello era partito con Minnie, rompendo il famoso trio; Bluette aveva
ora un danzatore americano, taciturno, sobrio, quasi innamorato di lei,
quasi onesto. Si chiamava Jack Morrison. Le aveva detto con semplicità:
«Believe me, dear Friend... Micaello balla come un portalettere!»
Gli credette. Incominciò di nuovo i suoi corsi di danza, con Jack
Morrison, ammaestratore dʼoltre–oceano, che le impartì questa volta una
perfetta istruzione.
Quando seppe finalmente ballare con tutta lʼanima sua dʼirresistibile
danzatrice, Mimi Bluette si accorse che, imprigionato nelle sue fine
caviglie, nascosto in lei come il profumo in un fiore, anchʼella
portava un sogno di bellezza, e sentì che il ballo era la sua poesia.
La natura lʼaveva concepita in un tempo di musica, la sua maniera di
muoversi era come una danza innata.
Spesso invece danzano quelle che furono concepite in un tempo di
stonatura, come scrivono quelli che la natura partorì in un attimo di
desolazione.
Parigi è grande perchè sa conoscere i valori e perchè rende in gioia la
bellezza che riceve. Agli uomini come alle donne, ai santi come alle
prostitute.
Parigi non ha frontiera: è la basilica del mondo.
Forse da noi Mimi Bluette avrebbe servito a far vendere qualche gelato
misto e qualche sciroppo dʼamarene fra il pubblico dei teatri di
varietà, ove si gracchia in tutte le cadenze il perpetuo ritornello
napoletano; Parigi ne formò la sua più limpida, la sua più divina
danzatrice; le regalò tanto oro quanto ne raggiava dallo splendore deʼ
suoi capelli biondi, le sciorinò sotto i piedi leggeri un bel tappeto
di sole, per farla danzare sul palcoscenico della sua grande anima, sul
rumore della sua vasta gloria: poichè nessuno può regalare sè stesso
con pienezza e con delirio se non trova una gloria su cui mettere i
piedi.
Prima lʼaccolsero i suoi cosmopoliti ruffiani: ma dopo la guardò con
benevolenza qualcuno dei suoi uomini forse immortali.
E bisogna finalmente comprendere che dinanzi alla felicità della vita,
una vera danzatrice vale assai meglio dʼun accademico poeta.
[Illustrazione: DECORAZIONE]
—Sì, mamma, come vedi, questa «limousine» è mia, questi brillanti e
queste perle sono mie; ma non cominciare a stupirti per così poco,
altrimenti non la finiremo più!
Erano sul peristilio della stazione. Bluette portava un abito color di
primavera.
—Allez doucement aux carrefours, Robert,—disse al meccanico.—Et ce
bagage, fourrez–le moi quelque part; il encombre.
La macchina silenziosa scivolò via, guizzando fra i pericoli della
strada come un battello–mosca fra il grosso naviglio della Senna.
Vagamente Bluette si ricordava il suo primo ingresso nella Capitale,
un certo pomeriggio pien di rumore, che le pareva già distante nel
pensiero come la storia della sua prima verginità. Con occhi lontani
rivide al medesimo posto quellʼenorme campione fragoroso che a momenti
la investiva, e rivide Max, lʼartefice involontario della sua grande
fortuna. Da quel pomeriggio pieno di turbinìo erano passati ormai
venticinque mesi... E Max? Dovʼera Max?
Ripartito, scomparso; forse in prigione, forse in viaggio per il mondo
«avec sa momie Américaine...»
Al Bar della Grande Rouquine Bluette non andava quasi più.
Boblikoff aveva cercato con insistenza di farsi contraccambiare da
Bluette lʼenergica sua protezione. Bluette gli era stata riconoscente,
un paio di volte, per delicatezza, ma nulla più.
Povero Boblikoff... era così enorme, che, per una donnina come lei,
sarebbe stato un vero ingombro!
Caterina, la madre dal seno classico, era giunta con lʼintenzione
di trattenersi a Parigi un mese o poco più. Ma di settimana in
settimana la brava donna si sentiva talmente impariginire, che
perdette il profilo del Maestro di scherma e scrisse alla sorella
levatrice:—Figúrati che la mia piccola Cecilia non vuole assolutamente
più lasciarmi ripartire...
Questa era una sfrontata bugia, perchè Cecilia–Mimi se ne sarebbe anche
liberata volentieri, di quella sua madre importuna, che dopo averla
onorata e servita nei primi giorni con lo stupore dʼuna servetta, ora
non si faceva punto scrupolo dʼinalberare con arroganza certe arie da
padrona di casa che la impensierivano assai.
Questa florida e battagliera madre di Cecilia, non rispettava neanche
un tantino la sua dolce Bluette. Anzi la criticava.—«Oh, se avessi
avuta lʼispirazione di Parigi aʼ miei tempi!...»—soleva dire.
Chissà? Lʼavrebbero veduta magari Presidentessa della Repubblica.
Certo impiegò minor tempo di quanto ne aveva impiegato sua figlia per
acclimarsi a quellʼaria come se ci fosse nata. Si accorse che a Parigi
le donne di quarantaquattro anni riescono facilmente a supporre di
averne su per giù trenta.
A questa piacevole supposizione contribuisce in gran parte
lʼ«Institut de Beauté», vero Istituto Clinico della magìa moderna,
ove i seni flosci e le rughe indelebili si curano a maraviglia con
lʼauto–suggestione.
Siccome la bellezza consiste nella maniera di guardarsi nello specchio,
lʼuomo chʼebbe lʼidea del primo Institut de Beauté fu senza dubbio un
grande ironista.
Ma le donne dovrebbero fargli un monumento, e gli uomini pure, perchè,
se unʼamante sʼimmagina che può ancora sembrar giovine, per lo più
riesce anche ad esserlo.
Quello che fecero di Caterina allʼInstitut de Beauté, non è a dirsi.
La convinsero che bisognava tagliare due denti sanissimi, perchʼerano
un poʼ scuri, e metterne due di porcellana.
Ella ne mise due di porcellana.
La mandarono da una bustaia, che le fece un busto, il quale distribuiva
il seno, il ventre, i fianchi ed il resto, come unʼequazione di primo
grado.
Ella, in quel busto, ricontemplò le forme che il suo corpo aveva
durante il primo viaggio di nozze.
Le vendettero una maschera di caucciù, per reprimere il doppio mento.
Ella si mise ogni notte la maschera di caucciù.
Le consigliarono di farsi mezzo rossa e mezzo bionda.
Ella conobbe i miracoli dellʼacqua ossigenata e della tintura di henné.
Le dissero che poteva benissimo farsi crescere le ciglia e mettere in
allenamento la propria pelle con i massaggi più complicati.
Ella si lasciò pizzicare, flagellare, manipolare, spalmare, strofinare
in tal guisa, che la sua pelle, morbida per tradizione, divenne
addirittura quella dʼuna bambina.
E, quanto alle ciglia, le parve che si fossero allungate.
Oh, se avesse potuto vederla così rinfrescata il suo calamitoso
Maestro di scherma! Quellʼagile maestro di scherma, chʼera costato aʼ
suoi risparmi un così gran numero di svolazzanti cravatte! Quellʼuomo
indimenticabile, tutto punta e a fondo, che turbava i sogni della sua
canonica età!...
Povera Caterina Malespano, momentanea zitella di quarantaquattro anni,
tornata zitella isterica per opera dellʼInstitut de Beauté!...
Bisognava trovare un rimedio.
Lo trovò. Sebbene con scandalo di Bluette.
Maurice, maître–dʼhotel impeccabile come un diplomatico, aveva quasi
lʼaitanza dʼun maestro di scherma; era grigio su le tempie, ma nero e
ben pettinato sul cranio diviso da un filo rettilineo.
Tutte le sere Maurice le preparava una tazza di camomilla; vecchia
abitudine.
Una sera la camomilla si raffreddò sul tavolino.
Bluette in quel mentre ballava su la scena di Marigny, e, nella sua
bianca innocenza, mai avrebbe osato concepire un così grave sospetto.
Ma Linette, cameriera dalle calze di voilé, una sera, svestendola,
glielo disse con molto garbo:
—Madame votre mère souffre–t–elle de douleurs aux reins?
—Pourquoi, Linette?
—Chaque nuit Maurice est appelé pour lui faire des massages, qui
durent parfois très longtemps, Madame...
Interrogata il giorno appresso in modo repentino, la semibionda e
semirossa Caterina Malespano affermò semplicemente che Maurice era un
uomo di buona famiglia,—purtroppo decaduta.
E poi, cʼera forse un mezzo più gradevole per imparare il francese?
* * * * *
Certo ve nʼera un altro, ma lento e faticoso: quello che il Grande
Industriale aveva con dolcezza fatto subire a Bluette.
Gli uomini di Francia raccolgono talvolta le loro amanti dalle
avventure della strada, ma spesso le abbandonano che già son perfette
come vere signore. Per essi è grande sofferenza vivere con una donna la
quale manchi di finezza nellʼintendere la vita e nel discorrere dʼogni
argomento con amabile brìo; e poichè si viene al mondo per ammaestrarsi
nellʼeleganza del vivere, trovano che lʼamore non impedisce di farsi
unʼeducazione.
Così le figlie di Montmartre o del Bois de Vincennes giungono a
conversare con gli Accademici.
Lʼaria stessa di Parigi è una scuola dʼimprovvisazione; ma le più
diligenti alunne trovano anche il tempo, tra il bagno e lʼora del tè,
fra lʼora del tè e quella del teatro, di ascoltare in vestaglia la voce
monotona di una vecchia professoressa che ama le caramelle, o dʼun
laureando provinciale che abita verso il Quartier Latino.
Così fece Bluette, che per istinto era di tutto curiosa, intellettiva e
docile come una vera donna.
Al Grande Industriale dava noia quel suo residuo dʼaccento transalpino,
e più ancora la tranquilla ignoranza chʼella rivelava in ogni materia
dello scibile quotidiano.
Era un uomo così persuasivo, che avrebbe indotta una monaca a ballare
il tango.
Mimi Bluette non sapeva resistere alla dolcezza.
E per lʼappunto egli fece venire una vecchia lunatica professoressa, la
quale amava dare aʼ suoi discepoli questo bel tema eroico–sentimentale:
«Il y avait la guerre en Algérie. Mademoiselle X. était fiancée à un
sous–lieutenant des spahis, qui tomba au champ dʼhonneur. Racontez....
etc.»
Era la sua storia.
Più tardi le fece impartir lezioni da un giovine laureato
incollocabile, erudito squallido e con molta forfora, che aveva la
manìa di far strada nella Capitale.
Questi le rammentò in modo singolare quello Studente in medicina, che
le dette il primo brivido.
Fu nel mese dʼAprile, verso lʼora in cui le stanze dei quarti piani
diventano buie, guardando la primavera che tramonta sui tetti luminosi
delle stupende città.
Come quel tempo era lontano!... Bluette rise. Le pareva un sogno.
E imparò che il verbo «sʼen aller», al soggiuntivo imperfetto, fa:
«que je mʼen allasse, que nous nous en allassions, que vous vous en
allassiez, quʼils sʼen allassent...»
E imparò che «Pépin le Bref fonda la dynastie des Carlovingiens...».
Lesse Chateaubriand, Renan, etc; il che la fece tornare con molto
gaudio alla letteratura dei coniugi Willy.
Se non si fosse fatta sorprendere con un certo Hubert Normand, giovine
commediografo di molto avvenire, il Grande Industriale lʼavrebbe
forsʼanche sposata.
Ma che triste fine per lei, seppellirsi, così bella e così giovine,
allʼombra di un vecchio marito... Per lei, povera Bluette, nel suo
lieve cuore azzurro, che pesante malinconia!...
[Illustrazione: DECORAZIONE]
No, certamente non lo amava. Era una sbadataggine della sua dolcezza,
una piega naturale della sua curiosità. Il futuro Accademico Hubert
Normand era in quellʼinverno lʼavventura di moda. E siccome Dorée
dʼArnac, una fra le più belle donne di Parigi, gli aveva buttate le
braccia al collo, una sera, in un cabaret, certamente non vʼera una
ragione al mondo perchè Mimi Bluette fosse con lui più severa della sua
emula ed amica Dorée dʼArnac.
Solo preferì che questo non avvenisse in un cabaret. E fu il suo torto.
Perchè il Grande Industriale avrebbe forse perdonato più facilmente.
Invece non perdonò.
Chi le rese il piccolo servizio di farglielo sapere fu colei dellʼaltra
riva, ossia Marthe dʼAussolles, che per gli svaghi del Grande
Industriale teneva in serbo, nel focolare di Normandia, una sua fresca
parente.
In tali circostanze il bravo Jack Morrison le fu di buon consiglio.
—Sʼil vous quitte, Bliouette, ce nʼest pas très grave,—disse con la
sua calma laconicità, chiamandola come sempre «Bliouette», in grazia
dellʼaccento americano.—Venez à Londres avec moi. Nous danserons à
lʼHippodrome. Cʼest la «Season».
—Eh bien, si tu veux, allons–y, mon brave Jack!
* * * * *
Sette ore di viaggio. La Manica. John Bull che sʼinnamora e va in
delirio davanti alla scena dellʼHippodrome. Nel camerino di Bluette, le
pallide rose di Henley, i fiori soavi e calmi della primavera inglese.
Vengono, i bellissimi emuli di Lord Brummel, a carezzare con i lor
occhi dʼinnocenti la ballerina di Francia, Mimi Bluette. Jack Morrison
fa da interprete. Jack Morrison è un poʼ geloso. Allʼamericana, con
la pipa fra i denti, la bocca serrata. È un andirivieni dʼassidui nel
suo leggiadro salotto al Carlton Hotel. Un giorno, sopra un vassoio
forbito, vi entra il biglietto da visita di Lord G. A. M. F. B.—precede
il nome.
Il biglietto da visita dʼun Inglese qualchevolta sembra un manuale
semaforico.
Quello di un Tedesco è un diploma universitario.
Quello di un Americano del Sud è un tentativo di riconciliazione con la
madre patria.
Lord G. A. M. F. B.—precede il nome—era un uomo che su tutte le cose
aveva il suo punto di vista.
Così volle averne uno anche su Mimi Bluette. La quale frattanto aveva
imparato a far pagare molto caro i suoi punti di vista.
Jack Morrison minacciò di andarsene; e quel giorno, sebbene fosse
Americano, aveva le lacrime agli occhi.
Ma Bluette era certa che Jack si rassegnerebbe.
Così fu.
Lord Alfabeto usava una maniera ben diversa da quella del Grande
Industriale per fare le stesse cose. Poichè vʼera di mezzo la Manica.
Non apprezzò affatto la sua cultura, ma insistette con molto garbo
su varie sfumature, finchè giunse a persuaderla, per esempio, che le
ostriche del Colchester superano di gran lunga tanto les Ostende come
les Marennes. Le fece inoltre sapere che gli Americani son forse un
popolo rispettabile, ma non parlano affatto lʼidioma inglese. Perciò
non si fidasse troppo dellʼinterprete Jack. Lʼavvertì che il popolo di
Londra finge di coricarsi a mezzanotte e mezzo, perchè, dopo questʼora
proibitiva, la legge vuole che il popolo inglese finga di non amare più
il gin. E le fece scommettere molte lire sterline sopra cavalli che, in
media, vinsero due volte su tre.
Lord Alfabeto non era vedovo nè ammogliato; perciò mancava di prole. Si
era fatto molto ricco nelle Colonie. Adesso riposava. Cioè, questo Lord
in riposo, era dʼunʼattività sorprendente. Bellʼuomo, con una faccia
pura e nobile, aveva una sua maniera impassibile di prendere in giro
lʼuniverso.
Con Mimi Bluette spese un diluvio di sterline, delicatamente, ma la
prese in giro.
Ella ebbe lʼimpressione di fare altrettanto.
E rimasero buoni amici.
Soltanto, quandʼebbe ripassata la Manica, ella si accorse di portare
in sè, dallʼInghilterra, una intrusa vita nascente. Non ne fece parola
con alcuno e tanto meno con sua madre; rimase tre giorni a letto,
credendosi malata. Bluette si domandava con stupore perchè la cosa non
le fosse mai capitata prima. La sua maraviglia iniziale si mutò a poco
a poco in un singolare spavento.
Verso la sera del terzo giorno incominciò a chiedersi di chi poteva
essere il figlio. Era stata quattro mesi a Londra. Le parve dapprima
che dovesse avere nel grembo un giovine Lord Alfabeto. Poi si ricordò
che poteva essere anche un piccolo Jack. Il dubbio le fece quasi
piacere. Non era certo innamorata di Jack, ma gli voleva molto bene.
Mentre volgeva tra sè questi accorati pensieri, entrò nella camera la
bionda Caterina, per chiedere a sua figlia se volesse pranzare. Bluette
cacciò la testa sotto il lenzuolo e con irritazione rispose che la
pregava di non darle noia.
Mandò invece a chiamare il suo bravo laconico Jack.
—Assieds–toi là, Jack.
Là, voleva dire sul letto, vicino alle sue braccia nude, nel posto
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