Margherita Pusterla: Racconto storico - 32

Ed io medesimo, ben lo sento, io ho troppo presunto col darmi a creder che,
con patimenti così usuali, potessi tanto tempo occupare il lettore senza
annojarlo.
Ma l'ho detto, e lo ripeto, non ho scritto per tutti, anzi, non ho scritto
pei più, sibbene per quelli che davvero soffrono o hanno sofferto. Oh,
se tra le pene ingiuste, con cui la calunnia, o la vendetta, o la satanica
voluttà del far male, o anche l'interesse del potere e la pretesa
necessità delle circostanze opprimono qualche volta l'innocente, se
alcuno verrà un giorno a ricordarsi della mia Margherita; e nel pensare
quanto quella pover'anima ha patito anch'essa dai cattivi, se ne sentirà
un solo momento confortato; se mai nell'ora della prova qualche virtù vi
trovasse un sostegno, una vergogna, qualche vizio, non crederò perduta
la fatica di questo lavoro, dovesse pur rimanere trascurato e venire deriso
dai miei compatriotti: n'avrò anzi conseguito quel compenso che unico
desidero,--unico, dopo che il meditare e descrivere le sventure di quella
meschina, disacerbò in lunghi e terribili giorni le mie.


CONCLUSIONE.

Prima di finire, volendo toccare un motto anche delle altre persone che
s'incontrarono colla Margherita in questo racconto, dirò come, tre anni
dopo, un caso intervenne a Grillincervello, il più spiacevole caso che
gli fosse mai tocco nella sua vita beffarda e beffata, ridente e paziente.
Il signor Luchino, nella deliziosa sua villeggiatura di Belgiojoso
manteneva un intrigo con una fanciulla paesana; ma, o non gli convenisse il
farne mostra, o volesse solleticare il logoro senso del piacere col savore
del pericolo e del mistero, egli conduceva di piatto questo suo amorazzo, e
non traeva a sè quella facile bellezza se non di sera al bujo,
facendola, per una porticina d'in fondo al parco, entrare in quel casino,
dove Alpinolo l'aveva visto una volta a dormire, posto fra gli ombrosi
andirivieni di un artificioso boschetto. Non isfuggi la tresca alla maligna
curiosità del buffone, e si propose di giocare un mal tiro al signor
suo, per farne poi scene.
Non so se mi sia venuta occasione di accennarvi che Luchino, in mezzo a
tanta fierezza, era pauroso del diavolo, del fantasma, degli esseri
impalpabili, contro di cui non valevano nè la spada sua, nè il
ringhio dei mastini, nè le labarde degli scherani. Una sera, non aveva
egli fatto che entrare colla druda nel conscio nascondiglio, quando, tra il
fosco, gli appajono sulle pareti, in livida luce, i contorni di certe
strane forme, metà uomini e metà bestie, con immense code e corna, e
occhiacci stralunati, e tanto di lingue sporgenti; e nel tempo stesso
comincia un fracassio, un sibilo fremente, un agitar di catene: le figure,
il sobbisso che attribuiscono al diavolo coloro che pretendono di averlo
veduto e udito.
La ragazza, tra piena di ubbie, come sono o erano queste campagnuole, tra
rimorsa del suo peccato, voglio lasciar pensare a voi di che paura restasse
presa. Ma neppure il signor Luchino seppe contenersi; e sgomentato non meno
di un fanciullo male avvezzo, sbucò gridando accorr'uomo.
Gli sghignazzi di Grillincervello gli diedero ben tosto a capire come
fossero orditure di costui, il quale, con non so che sue misture, aveva
rappresentato quegli spaventosi apparimenti. Accorsero servi, accorsero
soldati con fiaccole, con armi, accorsero i figliuoli e la eccellentissima
moglie e monsignor arcivescovo; talchè quella che dovea restar mistero,
divenne una pubblicità, con iscapito dell'_onore_ della docile
contadina.
A Luchino, occorre ch'io vel dica? quel tiro spiacque che niente più;
non tanto per veder rivelato quel suo tafferuglio (alla fin fine erano
peccati abituali, e sapeva egli stesso riderne e farne ridere) ma per aver
mostrato a quella donna, al giullare, agli accorsi, la sua paura: cosa che
con tanto maggior sollecitudine si nasconde, quanta più se n'ha.
Cacciò mano alla _misericordia_, e Grillincervello non mangiava più
pane se, lesto come uno scojattolo, non si fosse arrampicato sino in vetta
di un olmo, dove, appollajato, serenò quella notte alla fresca.
Il dormirvi sopra attutì la bizza di Luchino, non però così, che
non volesse farla scontare al buffone con altrettanta e maggior paura. Il
domani, dietro mangiare, quando solevano introdursi i buffoni a cantare e
spassare, e colle arguzie loro agevolare la digestione signorile, Luchino,
voltosi ai tre suoi bastardi, alla moglie, al fratello arcivescovo e agli
altri commensali, disse:--Voglio che ci divertiamo».
E ordina che venga Grillincervello.
Questo, al non vedersene più fatto cenno nè motto, argomentava che
quella sua bizzarria fosse, come tante altre, messa sotto un piede. Pure,
volendo meglio dileguarne la ricordanza col far ridere di più, si mise
addosso una veste di raso perlato, che la signora Isabella aveva, pochi
dì prima, regalato ad una delle mogli o femmine di lui. Piccinacolo
com'era, se la strascicava dietro, e con quel ceffo da beffana, e due gran
mustacchi cho s'era acconci, e con istrani reggimenti del corpo, avrebbe
mossa a riso la malinconia in persona.
Tutti in fatto cominciarono le risa più grasse; ma Luchino no; anzi, con
un piglio arcigno se altra volta mai, lo rimbrotta delle insoffribili sue
petulanze, e comanda a mastro Impicca (personaggio il quale seguitava la
Corte), che lo conduca davanti a quel casino istesso, e senza più, lo
appicchi per la gola. Indi invita i commensali a vuotar colà alcuni
fiaschi di San Colombano, e vedere il castigo del mal burlone.
Benchè il tono di Luchino gli paresse fiero e risoluto oltre
l'ordinario, ed egli si sentisse in colpa, nonostante quello sciagurato,
persuaso o volendo persuadersi non fosse altro che una celia, fece ogni
prova per voltar la cosa in burla, con una affettata paura ed uno svenevole
accoramento. E Luchino, sodo. Come dunque egli vide il padrone ripetere
l'ordine con un fare davvero spaventevole, e nessuno dei circostanti
mostrar segno di favore nè di compatimento, e il carnefice ghermirlo
senza cerimonie, fu preso da tanto sbigottimento, quanta era dapprima la
sua baldanza. Bianco siccome un panno lavato, tremebondo come un
paralitico, non reggendosi sulle ginocchia, mentre il boja ora lo tirava,
ora lo spingeva, strillava al pari di un'aquila, chiamava misericordia, e
volgendo la faccia contrita, raccomandavasi ora al padrone, ora al prelato,
ora ai figliuoli, e massimamente alla signora Isabella e alle dame di lei,
rammentando ad esse che aveva tre mogli e una nidiata di puttini. Poi,
vedendosi non ascoltato dagli uomini, non lasciò santo che non
invocasse; implorava almeno di confessarsi, di salvar l'anima; ma nessuno
facea viso, non che di esaudirlo, neppure di commiserarlo; e il maggior
loro da fare era il tenersi serj e composti, a malgrado dell'enorme
antitesi fra quel vestire, quel ceffo, e quelle supplicazioni. Ed
oltrechè per abitudine non pendevan troppo alla pietà, volevano
così tener mano con Luchino, sapendo non esser altro che una baja, da
risolversi comicamente, e riderne poi per mezz'anno.
Intanto mastro Impicca arriva al luogo designatogli, getta la soga a
cavalcione di un ramo di quercia da un capo, e dall'altro, formato un nodo
corsojo, lo circonda al collo del buffone, e fattolo salire, o piuttosto
portatolo su per quattro o cinque piuoli di una scala a mano, ivi
appoggiata, gli da una spinta, e giù.
Un ghigno universale scoppiò allora fra gli astanti, nascosti nel bosco:
giacchè, secondo l'intesa, non essendo il capestro assicurato al ramo,
il buffone, invece di restarvi appeso e strangolato, cascò stramazzone
sull'erba. Fattisi dunque tutti vicini ad esso, chi lo chiamava, chi lo
urtava coi piedi, chi lo punzecchiava colla mazza o colla spada, e
rinforzando le risa, gli ripetevano:--Ohe! sta su!--Che? ti sei
addormentato?--Lazzaro, vien fuori» gli gridava l'arcivescovo; e
Forestino soggiungeva:--Gua' come imita bene il morto».
Il fatto però stava che egli era morto davvero: lo spavento lo aveva
accoppato. Questo principesco divertimento non dispiacque a tutti, molti
anzi si tennero di buono al veder tolto di mezzo questo implacabile
morditore.
--Visse come i cani di legnate e di buoni bocconi: come un cane sarà
sepolto», disse Forestino prendendo al braccio e conducendo via la
signora Isabella.
--Salute a noi finchè non torna lui», soggiunse Bruzio seguitandolo.
Anche Luchino, volgendo un'ultima occhiata nel partire, esclamò:--Me ne
sa male: mi faceva tanto ridere».
Al che monsignore:--Basta fargli dire del bene».
E Borso:--Puh! di buffoni non è scarsità»; e girava un'occhiata
fra sprezzante e atroce sopra i cortigiani che stavano attorno.
Chi mi domandasse come la signora Isabella sentisse e sopportasse questi
disordini del marito, e gli scorni che le recava, sarei costretto a
rispondere: «Al modo di molte: facendone altrettanto». Quando essa
partorì due figliuoli, Grillincervello diceva che Luchino poteva
mangiare in venerdì la parte che vi aveva avuto; nel che pare che egli
non desse lontano dal vero, attesochè, dopo morto Luchino, essa
dichiarò che non venivanle da lui.
Una volta poi, essa, volendo trovarsi comodamente con un certo, anzi, con
certi suoi innamorati, finse aver fatto voto di visitare San Marco in
Venezia. Grossa comitiva di signori e dame principali delle varie città
obbedienti ai Visconti, l'accompagnarono nel devoto e voluttuoso
pellegrinaggio, e sull'esempio della principessa sfoggiarono in lusso e
lautezze non mai più vedute, e ruppero in scandaloso libertinaggio.
Tutto il mondo ne facea cronache: solo il marito, come suole avvenire, ne
rimaneva all'oscuro, finchè l'astrologo suo Andalon del Nero, fingendo
leggere nelle stelle quel che contavasi per tutte le barbierie di Milano e
di fuori, ne diede notizia al Visconti. Questi consentiva ad essere
tradito; ma ingannato, no: e, furibondo della beffa più che
dell'oltraggio, mancò all'abituale sua dissimulazione, e lasciossi
intendere che, con un bel fuoco, stava per fare la più grande giustizia
che mai si fosse eseguita.
Non l'avesse mai detto. Isabella intese che bisognava prevenirlo. Come fu,
come non fu, Luchino, di ritorno da una corsa, beve una coppa di vino, ed
è preso da dolori atroci; chiamano quel dottissimo Matteo Salvatico, il
quale nel visitarlo impallidisce, guarda in viso alla signora che piangeva
e strillava, si pone un dito alla bocca, e chiesto che mal fosse, risponde
in aria di oracolo:--Un bel tacer non fu mai scritto».
E Luchino morì, sette anni dopo il supplizio della nostra buona
Margherita, e fu sepolto, dissero le gazzette d'allora, _cum grande honore
de cavalli et de bandiere, cum infinito dolore de l'arcivescovo et de la
inconsolabile moglie, et incredibili lacrime de tutti li fedeli sudditi de
Milano et contorni_.
Quell'_incredibili_ non si legge che in pochi esemplari genuini.
Dopo queste dimostrazioni, tutte del pari sincere, la signora lasciossi
racconsolare, e il popolo obbedì volentieri al solo arcivescovo
Giovanni. Era egli oltremodo magnifico, gran persecutore degli eretici,
gran limosiniere, gran fautore dei letterati e del Petrarca, il quale e i
quali seppero mostrarne la medaglia da un lato solo: la storia mostrò
anche il rovescio a chi possieda lente per leggere di sotto la patina della
retorica e dell'adulazione. Il popolo, accortosi di aver poco migliorato,
desiderò disfarsene; e la morte ne lo disfece dopo cinque anni.
Non erano ancor finite le splendide esequie fattegli in pubblico, e le
imprecazioni lanciategli in privato, che, per paura non mancasse un
padrone, noi popolo col suffragio universale ci affrettammo di eleggere
principi Bernabò, Galeazzo e Matteo, quei tre fratelli che i nostri
congiurati avevano sperato liberatori del paese. Essi coi fatti davano
segno di far ogni male, e i Milanesi se ne promettevano ogni bene. Il
servire era diventato abitudine, abitudine non si può dire altrimenti
che comoda; la lunga dominazione dei primi Visconti aveva associato al nome
di questi l'idea di padronanza; onde, sebbene l'elezione si facesse dai
novecento, scelti dal principe ad organi del voler popolare, si sarebbe
creduto ingiustizia il non conferire il potere a un Visconti, non per altra
ragione se non perchè un Visconti lo aveva avuto e abusato.
Quei tre, compromessi da giovani come nemici della tirannia, o, per dirla
alla moderna, come liberali, sapete che non riuscirono migliori. Galeazzo e
Bernabò per maggiore comodità di divisione, ammazzarono Matteo, e si
spartirono lo Stato, facendo a chi peggio. Le lepide enormità di
Bernabò, che diceva d'essere nei suoi paesi papa e imperatore, sono vive
nella tradizione vulgare; e i Milanesi più non potevano durarle, quando
un bel giorno intendono che Giovan Galeazzo, figliuolo e successore del bel
Galeazzino, un'acquamorta, un santocchio, tirò in trappola lo zio
Bernabò, e lo ha cacciato nel castello di Trezzo, a crepare di rabbia,
se non fu di veleno.
Il popolo, tutto allegria di vedersi senza fatica liberato dal tiranno,
gridò _Viva la libertà_, o unanimemente acclamò per padrone il
nipote traditore. Questo non dirazzò dagli avi, e per esimere i Milanesi
dall'incomodo di eleggere ogni volta il figlio o il nipote del morto,
chiese dall'imperatore di Germania, e ottenne in proprietà questo bel
paese. L'imperatore, contento di buscar soldi, gli concesse questa grossa
porzione, senza tanto guardare a diritto, e colla cortesia onde io
regalerei quel poderetto che mi hanno assegnato laggiù in Arcadia,
quando ne fui acclamato pastore. Il popolo, stracontento di avere un duca,
e un duca che fabbricava il Duomo di Milano e la Certosa di Pavia,
assistette in affollato tripudio alla inaugurazione di esso e...
Nessuno ignora le vicende che da quel punto corse il ducato, or preda degli
ingordi, or rapina dei prepotenti, or trastullo degli scaltriti, or dote di
donne come i mobili e le mandre, finchè traverso a lunghi e indecorosi
dolori, potè arrivare a quel riposo e a quella felicità che ciascun
vede.
Se alcuno mi domandasse a che riuscì quel Lucio capitano di giustizia,
che tanto erasi affaccendato a spegnere la razza dei ribelli, non si
aspetti una fine cattiva, simile alle altre del mio racconto, le quali
sarebbero troppe se non fossero storiche. Era diritto che il compenso
venisse generoso a chi generosamente aveva ajutato il principe a liberarsi
da' suoi nemici. Il lauto e delizioso podere di Mombello, confiscato come
roba di ribelli, fu da Luchino concesso a Lucio, il quale si ritirava
colà a riposo ogni qualvolta glielo consentissero le pubbliche
occupazioni, e le cariche affidategli dalla gratitudine della patria,
cioè del principe, in cui vantaggio continuò ad esercitare la lunga e
onorata canizie.
In un oratorio, là tra Bovisio e Mombello, si vede ancora una grande
arca di granito, con un epitaffio che loda la vita e piange la morte di
uno, del quale sul coperchio si vede l'effigie ad alto rilievo, col
berretto dottorale in capo e la toga fino ai piedi, e colle braccia
incrociate sul petto, al modo onde muojono i buoni cristiani.
Là dentro fu sepolto Lucio.
Là dentro aspetta il giudizio di Dio.
FINE.


FONTI STORICHE


PETRI AZARII _notarii novariensis synchroni auctoris chronicon de gestis
principum Vicecomitum_.

Luchinus _gessit et æegrum animum contra magnates, qui conversationem
habuerant cum præfato domino Azone. Et dicebatur, quod id faciebat
propter alterum de duobus; scilicet, aut pro co quod morti domini Marci
fratris sui assenserant consulendo, aut quia, tempore domini Azonis, ipse
paucum profictum ex titulo et honore habebat. Nam præfatus dominus Azo
consiliariis suis multum credidit, et eum eo in infinitum facti sunt
opulenti. Et pro eo dictos consiliarios male tractabat, etiamsi essent de
optimatibus Mediolani. Et inter alios erat Franciscolus de Pusterla, ditior
et felicior quovis Lombardo, si tamen temporalia hominem possunt facere
felicem. Et quod sit rerum, audietis. Nam pulchriorem et nobiliorem
mulierem Mediolani habebat in uxorem. Nobiliorem quia de Vicecomitibus;
pulchriorem, quia etiam vocabatur Margarita. Et certe mirum fuit, quod nemo
in luxuria erat dicto Franciscolo coæqualis, in tantum quod a prandio se
levabat ut haberet coitum cum ipsa Margarita uxore. Et sic faciebat
equitando, si debuisset de equo descendere, et invadere publicas
meretrices. Ex ea habuerat tres filios mares, pulchriores forma aliquibus
Mediolani. Et si aliter fuissent, degenerassent, quia ipsorum parentes tam
vir quam mulier formosi ultra modum erant et valde pulchri. Domum autem in
Mediolano habebat pulchriorem; possessiones, mobilia, in tantum quod
numerus non extabat, et certe alter Job potuit dici_. _Sed quia ad plenum
enarrare longum nimis esset, concludam, quod præfatus dominus
Franciscolus accusatus fuit de quodam tractactu. Et certe potuit esse
verum. Nam dicebatur, quod ipsius uxor prædicta conquesta fuerat, quod
dominus Luchinus voluerat nobilitatem ipsius turpi coitu fædare. Nam
præfatus dominus Luchinus extiti luxuriosus. Et quod gravius erat,
propter ægrum animum, quem in eo ridebat, habebat de statu dubitare. Et
certe si, prædictus dominus Franciscolus cogitata cito explevisset, de
facili fuissent effectum consequuta. Sed quia tanti et potentes cives ipsi
tractatui assentiebant, necessarium fuit ab aliquo publicari, et male.
Quocirca dominus Luchinus multos cepit, et capti fuerunt statim decapitati,
et fame aliisque tormentis necati. Et quia nimis longum esset enarrare
opus, de ipsis ad præseus tacetur. Dicam, quod prædictus Franciscolus
fugit, ed eum pluribus ex filiis Avenionem se reduxit. Sed quia nec ibi,
nec ultra mare, nec citra permisisset cum vivere, necessarium, fuit alio
divertere; nam exploratores ipsum sequebantur: et captus fuit in marinis
partibus, super Portum Pisanorum, et ducti fuerunt Mediolanum. Multos alios
publicatos accusavit, quos morte, peremit. Et demum ipsum et filios duos
cum parentibus in Broleto decapitari fecit, et quosque tam mares quam
fœminas, et ipsam Margaritam consumavit, quæ propterea alia fuit
Hecuba, ut legitur in processibus Trojanorum. Purgavit adeo dominus
Luchinus corum contumaciam, quod credo nunquam Mediolanenses ausuros
tractare (etiam quia timidi sunt a natura) contra Vicecomites_.


BERNARDINO CORIO, _L'Istoria di Milano_.

_Nel medesimo anno (1340), ancora nell'agosto, Francesco da Pusterla, il
quale in Milano sopra ogni altro cittadino di ricchezze abbondava, avendo
ridotto a sua divozione Galeazzo et Bernabò supradetti, insieme con
Pinella et Martino fratelli de' Liprandi; Borollo da Castelletto, et un
Bertoldo d'Amico, conspirarono contra di Luchino Prencipe di Milano, da gli
antecessori del quale erano fatti grandi, tanto di ricchezza, quanto di
riputatione, et nome. Cominciarono adunque a trattare della morte_ _del
Prencipe, onde Giuliano, fratello di Francesco, impetrando aiuto ad
Alpinolo Casale, li manifestò il tutto, per esser lui suo caro amico.
Costui di subito al fratello Ramengo riuelò il trattato, la qual cosa
intendendo Francesco sopradetto, non essendogli Ramengo beniuolo, pensò
che la cosa saria palesata al Prencipe, il perchè di subito insieme col
fratello, et due figliuoli già di età perfetta, fuggì da Milano,
et secretamente andò in Auignone, et Ramengo senza metterli tempo,
hauuta la certezza del fratello, fece intendere a Luchino Visconte quanto
contra di lui s'era ordinato. Onde Pinalla, Martino, Borollo et Beltramolo
gli fece imprigionare, et posti al tormento manifestarono la cosa. Fatto
dunque che hebbero il processo di tanto maleficio, gli furono confiscati
tutti i suoi beni, et posti nelle carceri furono fatti gli ambi fratelli
morir di fame. L'Amico, à più uituperoso fine fu reseruato. Le
famiglie sue restarono in somma pouertà. Malgherita, mogliera di
Francesco, germana di Luchino per esser lei sorella di Ottorino Visconte,
et figliuola di Vberto, quale fu fratello di Matteo Magno, essendo stata la
inuentrice di tanta scelleraggine, fu crudelmente incarcerata, et Francesco
dall'altro canto per le continue insidie, in Auignone quasi non era sicuro.
Et così finalmente un Milanese con simulazione fuggì da Milano et
andò in Auignone; il perchè da Luchino fu messo nel bando, et lui
dell'altro canto faceva venire a Francesco lettere contrafatte da parte di
Mastino della Scala, che volesse andare a Verona, concio fosse che da lui
sarebbe honorato con onesto stipendio. Credette Francesco alle false
lettere, il perchè partendosi giunse a porto Pisano, dove la potenza di
Luchino era oltra modo estimata, per difendere lui i Pisani dai Lucchesi.
Quivi mandò adunque Buonincontro di San Miniato Toscano, et suo
Condottiero, il quale come Francesco, ed i figliuoli furono giunti, li fece
prigioni, et fra pochi giorni essendo condotti a Milano, nella pubblica
piazza del Broletto furono decapitati; per impositione del Prencipe,
Beltramolo sopradetto, palesamente fu il manegoldo. E dopo per essere molto
odiato da Luchino, cantra del quale ancora nei tempi passati altri
mancamenti hauea commesso, fu strasinato a coda di due Asini fino alle
forche, fuora della città, dove senza dimandar perdono de i suoi
peccati, con una catena al collo per insino dai corvi fu devorato, restò
impiccato con perpetue esecrazioni d'ogni viandante._


NOTE

[1] In questo punto ci viene sottocchio una biografia dell'autore,
premessa a una bellissima edizione d'una nuova traduzione
spagnuola della sua _Storia Universale_, e vi leggiamo: «En
la prison, con medios que solamente los presos saben procurarse,
compuso una novela, en que, ideando un proceso de Estado formado à
Margarita Pusterla por los Visconti, revelaba las iniquidades de
los procesos politicos modernos. Esta novela ha sido colocada al
lado de la de Manzoni, y traducida en todas las lenguas: en
Francia conocemos cinco traducciones diferentes. Una novela que
sobravive al ano en que ha visto la luz, no deja de ser fenòmeno
bastante raro en el dia.»

[2] La famiglia Pusterla era d'origine longobarda, e riconoscevasi
indipendente, cioè rilevava i suoi feudi direttamente
dall'imperatore, portando in segno l'aquila imperiale nello
stemma. A queste famiglie, nel governo a comune, di preferenza
conferivansi le dignità, sì perchè non potevano spendere
largamente, sì perchè non erano legate da giuramento o da fedeltà
ad altro signore. I Pusterla in fatto ebbero altissime cariche e
civili e militari ed ecclesiastiche, e ne conseguirono ingenti
ricchezze. Fin trentacinque ville possedeano con amplissime
tenute, e quasi tutto a loro spettava il territorio di Tradate, in
libero allodio, e non per infeudazione imperiale nè vescovile.
In Milano padroneggiavano quasi tutto il quartiere di porta
Ticinese, da Sant'Alessandro fino al Carrobio, e vuolsi
introducessero nelle case quelle palanche e cancellate, che
costumano fra la porta di via e il cortile interno, e che
chiamiamo pusterle. A un dato giorno questa famiglia allestiva un
enorme cavallo di legno, il quale tirato dai Facchini della Balla,
a suon di strumenti procedeva pel corso di porta Ticinese fino al
duomo; quivi schiudevasi come il cavallo di Troia, e ne usciva
gente coi regali, di cui i Pusterla facevano omaggio alla
metropolitana; terminavasi con lauti trattamenti all'innumerevole
clientela.
[3] Poichè spesso ci verrà fatta menzione delle monete d'allora,
giovi avvertire che l'intrinseco della lira imperiale era di grani
634 d'argento, cioè circa un'oncia e mezzo: la lira dividevasi
in 12 soldi imperiali; e 32 di questi ossia 64 terzuoli formavano
il fiorino o zecchino d'oro, che oggi sarebbe 10 franchi.
[4] È scomparso nei nuovi allineamenti
[5] Oggi Via Torino.
[6] Abbiatene qui un saggio:
Sentii de la paxion de Dè,
qual el sostene de li Zudè.
Che ve vojo dir e contare
Se vuu me volì ascoltare,
Com'ella fo e en qual mesura,
Segondo che dise la Scrittura.
Perzò prego, se vel piaze,
Ca vuu le debia odir en paze
E odir in gran pietate
Del re de sancta majestate,
Zoè Cristo fiol de Dè
Che fo traido dal Zudè,
E che durò gran paxion
Senza nessuna offension.
Ma per nui miseri peccator
Soffri obbrobrio e desonor,
E per nuu sol preso e ligaa
E tutto nuo despojaa.
Color ch'il presen e ligàn
D'aguti spin l'incoronàn,
Suso in alto lo faxian stare,
Poi se l'intinzean adorare
Con befe e con derexion
Tutti stavan in ginucion.
E si dixean: Quest'è re.
Ma no gh'aveano bona fe,
Po ghi coprian i ogi e 'l volto,
Chel no vise poc ne molto,
Una gran cana chigi avean
Entre lor se la sporzean, ecc, ecc.

[7] E in prose e in versi di quei tempi ci è serbato memoria del
fatto.
_Malerba ch'era nel corno destro, blasfemava sancto Ambroxio
in soa lingua.--Maledetto quel camisone bianco che ha menazzato
colla scutica! mai la spata mia a potuto far colpo.--Queste
parole di Malerba furono hodite da tutti. Et siccome Dio, facto
uno funicolo, caccioe quelli compravano nello templo, così el
spirito di sancto Ambroxio spartì loro barbari come se fosse
tratto ogni generatione di bombarde._
E Gaspare Visconti cantava, in bocca d'Antonio Visconti:
A Parabiago, rotto il nostro campo
Era, e già preso il mio fratel Luchino,
E la nemica schiera fea tal vampo,
E ognuno di noi di morte era vicino,
Visibilmente, in aria deste un lampo
Che se po' dir celeste, anzi divino,
Col camisotto bianco et con la sferza,
Che alcun non resse alla percossa terza.
[8] Fu poi demolito nel 1864; come furono cambiati i nomi di molte vie
e delle porte; gran segno di rigenerazione, e forse unico.
[9] _De remediis utriusque fortunæ_, 1, 85.
[10] _De remediis, ecc._, 1, 95.
[11] Vedi i versi latini e l'epistola familiare XVI, 11, 12.
[12] Epistola del 1335, pubblicata poco fa a Padova.
[13] _Non inveni in mundo populum adeo facilem ad conversionem et
subversionem, sieut populum mediolanensem_.
[14] _Mitissimi hominum_.
[15] Per questo fatto e per altri antecedenti e susseguenti, giova
ricordare che questo libro fu compito nel 1831. I cambiamenti si
succedono così a precipizio nell'ordine materiale siccome nel
morale! Oggimai tutto v'è scomposto, e sgarbatamente aperta la
piazza stessa, ch'era unica in Milano.
[16] È il CLXXII degli Statuti Criminali di Milano.
[17] Vedi il _Gentleman's Magazine_ 1795.
[18] _Scour the horse._
[19] Nondum natum sensit regem
Nasciturum juxta lego
Sine viri semine.
Quem dum sensit in hac luce
Tamquam nucleum in nuce
Conditum in virgine....
Lux non erat sed lucerna:
Monstrat iter ad superna
Quibus suum pax eterna
Pollicetur gaudium...
Ab offensis lava, Christe,
Præcursoris et Baptiste
Natalitia colentes,
Et exandi nos gementes
In hac solitudine._
[20] Via Torino
[21] In quel giorno l'arcivescovo, tornando dalla processione a San
Lorenzo, lavava un lebbroso in Carrobio.
[22] Sì questa romanza, sì l'ode dell'_Esule_, furono messe
diverse volte in musica.
[23] _Senitium Lib. V, ep. 3._
[24] Così pronunciano per ceche; certi pesciattolini come anguilline
bianche che il vulgo mangia a Pisa. Per beffa, dicesi che i Pisani
si segnano in nome di san Ranieri, der gioco der ponte, della