Margherita Pusterla: Racconto storico - 27

aspira con angoscia, come davvero ferito; ed un _ahi_ di spavento gli corre
fino alla gola. Allora per isviare la paura caccia la mano in tasca, palpa
la borsa, lento la slega, fa scorrere sotto ai polpastrelli gli zecchini; e
come un innamorato forma mille proponimenti, che tutti poi distrugge il
primo rivedere dell'oggetto de' suoi sospiri, così i terrori sbrattano
dall'animo del carceriere al tocco, al rovistìo di quel metallo.
--Uno, due, tre... venti... quarantanove, cinquanta! e sono miei!»
pensava egli.--Altro che giuggiole! Tanti anni di fatica non mi partorirono
che stenti e miseria; ed ecco una notte mi fa capitare quello che in vita
mia neppure avevo sperato! Oh stamattina devo pure essermi segnato bene!
Ora capisco perchè il fuoco jersera soffiava a quel modo... Ed io
balordo anguillai prima di accettare! Sì, sì; m'han detto giusto a
chiamarmi il Lasagnone. Ma ora sarà finito questo rodimento di ascoltare
ogni tratto, Lasagnone to qua, Lasagnone fa questo, fa quello. E i
bettolieri? chè non c'è buco dove io non abbia messo il chiodino:
domani gli avrò pagati di moneta corrente. Domani di quest'ora, se le
gambe mi dicono il vero, si arriva a casa: moglie, figli saltano dal
pagliericcio, mi si fanno intorno a chiedere: _Che novità è codesta?
non è Natale, che anche i banditi vengono a casa.--Cheti là_, dico
io: _son fuggito.--Ma il signor Luchino?_ dice la donna. Dico io: _Me ne
infischio del signor Luchino e di chi fa per lui: mangi chi vuole quel suo
pane di sette croste_, dico: _vale meglio un cantuccio del mio paese e lo
stare in santa pace a maturar le ossa al mio focolare, che non tutta la sua
città e il suo palazzo,--Sì_, dice la donna: _ma mangiare?_
Allora senz'altro buttar fiato, caccio a mano la borsa; la fo
sonare:--_Che? sono cappelletti di chiodi?_ domanda Bortolino. Io li verso
sul desco, e vedono--oh vedono! Che festa mia moglie! Perdincibacco, non fu
sì allegra da nozze. E i puttini, che non han mai visto dindi,
richiedono: _Che roba son cotesti, o tata?--Sono_, dico io, _tutto quel che
uno vuole: sono quelli che fanno muovere il mondo, e godere il paradiso in
questa vita e nell'altra. Venerateli_, dico, _che hanno l'impronta di
sant'Ambrogio. E se il tale e il tal altro vivono in sciali e la portano
alta, e se noi baciam basso e gli obbediamo e facciamo le sberrettate, gli
è perchè essi hanno di questi un buon dato. Altrimenti il Lasagnone
sarebbero essi, ed io il bello e il buono e il bravo. Ah ah!_
Si stropicciava le mani e brillava, e rideva davvero, talchè il soldato
di sentinella si fermò a guatarlo. Quell'occhiata operò su di lui
l'effetto, che sopra un insolente scolaretto côlto in fallo produce il
cipiglio del sopraggiunto pedagogo. E rapido come il mutar dei vetri in una
lanterna magica, si convenivano quelle ridenti immagini in immagini tetre,
di pericoli, di castighi: e con queste gli entrava il consiglio di un
tradimento.
--Ah Macaruffo, buona minestra hai fatto! Ma son in tempo di ripigliare la
parola. Or ora, quando ricompare il Quattrodita, gli vo incontro e gli
dico: _Assolutamente non voglio; ho detto per baja_. Ma egli rivorrà il
suo denaro. Fossi matto! I fiorini al giorno d'oggi valgono sessantaquattro
soldi di terzoli, e non se ne trovano sulle siepi.... Se potessi salvare la
capra e i cavoli!--A buoni conti i fiorini sono in saccoccia (e li palpava,
quasi per accertarsene): potrei andare dal signor Luchino e spiattellargli
tutto.--Spiattellargli tutto! e poi? Vengono, pigliano il Quattrodita,
l'impiccano: questo va di suo piede. Ma a me, cosa mi entra in tasca? Egli
non potrà più pagarmi il fiasco e un boccone, come ha fatto le tante
volte: e quel ch'è peggio, l'anello di diamante è bell'e andato. È
vero che potrei dire, _Signor Luchino illustrissimo, ho da cantare, ma
voglio una mancia_: egli me la prometterà: promettere costa poco: ma che
mantenga? Dirà: _Hai fatto parte del tuo dovere_, e mi darà delle
zucche marine. È poi, e poi, stesse li. La pena sarebbe che
soggiungesse: _Quei fiorini sono di mal acquisto_, e me li togliesse, e li
serbasse coi suoi, tutti d'acquisto eccellentissimo».
Pure questo partito, e come più sicuro, e come il meglio confacente alle
abitudini sue, gli piaceva al gusto; ma anche qui non era tutto
zucchero--Come ho da fare? Piantar qui, e correre a svegliare
l'illustrissimo?--Mai più... di quest'ora! Lo dirò a questa guardia?
Oibò! Forse è di balla col camerata; se no, crederà ch'io sia in
cimberli. Gli mostrerò in prova i denari. Ecco subito un bolli
bolli:--ma il Quattrodita è un bizzarro, che Dio ne guardi. Certo sta
all'erta, tutt'in orecchi come una lepre: al primo passo che fo, salta
fuori; a colui non gli croscia il ferro: e m'ha certi occhi, da non vi
metter nè olio nè pepe a tirarmi una lanciata. Una lanciata! Allora
l'illustrissimo mi rammenderà quell'occhiello?»
Fra questi e simili pensieri trascinò quel pajo d'ore. Non erano finite
quando Alpinolo uscì a rilevare la sentinella, mostrandosi in atti
ancora sonnacchioso.
--Bravo Quattrodita: (gli diceva il soldato) Arrivi a tempo: tengo a fatica
aperti gli occhi.
--Va pur là, Pagamorta (rispondeva Alpinolo), e dormi col cuore quieto,
che se anche lascerai trascorrere il tempo non ti guasterò il sonnellino
dell'oro».
--Viva il Quattrodita» replicava l'altro, sporgendogli la mano
rozzamente.--Tocca. Un po' burbero, un po' stizzoso, ma di buon fondo.
Bravo ragazzo! Lascia fare, che appena io diventi principe, ti erigerò
caporale».
E con un ghignazzo che si conchiuse in un sonoro sbadiglio, se ne andò.
I passi di lui rimbombarono lungo il corridojo, più e più sempre
allontanandosi: ed Alpinolo li contava, guardandogli dietro con ansietà.
Quello entrò nel camerotto, lasciò rabbattersi dietro l'uscio, e
tutto ritornò nel silenzio. Alpinolo diede una girata origliando,
guardando; e non udendosi fiato, si accostò al carceriere:--Ebbene?
--Ebbene?» replicò Marcaruffo, alzando il capo come per ismemorato, a
guisa d'un baco da seta che dorme, e fissando in volto ad Alpinolo due
occhi d'artificiosa storditaggine. Ma questi in atto imperativo e
minaccioso afferrandogli il braccio, diceva:--Sta su: l'ora è opportuna.
--E poi?» domandava l'altro, mentre rizzavasi dinoccolato, e sentendo in
quel punto meglio che mai quanta distanza corra fra il promettere di fare e
il fare.
--Come? tu cagli? e i denari?» replicava risoluto Alpinolo.
--E il diamante?» ridomandava Macaruffo.
--Sì, il diamante è qui; ed al varcare della soglia ti giuro da uom
d'onore che sarà tuo. Ma a noi! il tempo stringe.»
L'altro si mosse dimenando la testa, e brontolando fra sè:--Uomo
d'onore, uomo d'onore!» Ma una guardatura fulminante di Alpinolo, ed una
stretta di mano che parve una tanaglia, lo fece accorto che non era più
tempo di trarsi in dietro, e neppure di star in tentenno. Per far dunque
che almeno l'effetto gli riuscisse senza sconciature, si trasse le scarpe,
ossia gli zoccoli che allora ne facevano le veci; inginocchiossi, e
recitò una preghiera che solo il terrore gli traeva sulle labbra, e
colla quale non voleva se non domandare a complice il Cielo. A taciti passi
allora inoltrandosi, spense il lampione che fiocamente rischiarava il
corridojo; spiccò dalla cintura le chiavi, e s'avviò muro muro e
tastone verso la carcere di Francesco Pusterla.
Solito sempre a mutare i passi fragorosamente, fischiando e cantando
canzonacce con voce assordante, senza verun riguardo ai prigionieri, a cui
il gridare spezzava i sonni e conturbava la fantasia, ora ciampeggiava con
tutte le gelose e timide premure d'una madre, la quale gira attorno alla
cuna dell'ammalato suo bambino. Il men che lieve fruscio dei panni gli
metteva i brividi; i passi suoi, comechè fosse scalzo, gli pareva sonare
più che quelli di un guerriero tutto ferro dai capelli alle piante; fin
l'anelito studiavasi rattenere: le chiavi, per cura che adoperasse, girando
nella toppa scricchiolavano, crocchiava l'imposta, onde se gli rizzavano le
chiome in capo. Men pauroso, ma più sollecito, Alpinolo gli era sempre
alle spalle, colla sospensione di un ladro mentre il compagno sconficca lo
scrigno di un usuriere. Alla fine il chiavistello fu aperto, tirato il
paletto; e Alpinolo si precipitò giù per due o tre rozzi scaglioni,
chiamando sommessamente--Francesco! signor Francesco!»
Questi, al sentir dischiudere la prigione in ora tanto insolita e in più
insolito modo, già coll'immaginazione era corso a quei timori, che sono
abituali nei carcerati; una violenza, un assassinio. Buttossi ginocchione,
chiese a Dio mercede dei suoi peccati, e gli raccomandò l'anima sua come
se fosse sul punto di comparigli davanti; risvegliò il suo Venturino,
baciollo, il rincantucciò nel più riposto angolo della prigione,
dicendogli «Sta zitto»; lo ricoperse col suo stramazzo; gli pose
davanti, come trincea, i soli arnesi che vi si trovavano, uno sgabello e la
brocca: premura di paterno istinto, che ricorre ad ogni mezzo di difesa,
per fiacco e inutile che il mostri la ragione. Così la chioccia, udendo
la romba del nibbio che volge sopra il capo di essa le ampie ruote, chiama
o ricopre i pulcini sotto l'ala, che neppure un momento li schermirà dal
rapitore.
Fra queste ambasciose attenzioni ode chiamarsi a nome: si scuote: è una
voce conosciuta, ma da gran tempo non intesa--Chi è là? assassino o
amico?» domandò.
--Silenzio! un amico», rispose Alpinolo, e si nominò.--Vengo a
camparvi: non perdete tempo, usciamo.
--E la Margherita?» fu la sola voce che replicò Franciscolo.
--Verrà anch'ella.
--Dio ci ajuti!» e strinse al giovane la mano in modo di esprimergli
tutta la gratitudine passionata dell'uomo che, abbandonato da tutti,
tradito, vicino a morte, ritrova un amico. Il giovane la sentì, e
parevagli significare tante cose, che fossero fin troppo a compensare quel
che aveva operato. Poi Francesco tolse sulle braccia il bambino,
replicandogli:--Taci».
Il carceriere, a cui quel brevissimo indugio era parso un'eternità, non
li vide, gli udì rimontare la scaletta, e raccomandò loro
all'orecchio--Fate piano».
Così vennero alla stanza della Margherita.
La meschina non erasi dimenticata (e di che si dimentica il prigioniero?),
non si era dimenticata che quel dì era il settimo anniversario del suo
Venturino. Per una madre, per una malarrivata, di quante idee doveva essere
feconda una tale rimembranza! Le doglie del parto, mitigate dalla
consolazione di vedere, di toccare, di baciare una tenera creatura, un
essere vivente, frutto delle proprie viscere, pegno d'un amore benedetto,
illibato; nuovo nodo di tenerezza fra lo sposo e lei; e non saziarsi di
guardarlo, di blandirlo, di comporlo; e col proprio latte sostentargli la
vita che essa medesima gli diede, sono gioje di che il Cielo privilegiò
le madri per ristoro ai travagli e alle fatiche del sacro loro stato.
Ricorrendo su quel giorno, alla Margherita tornavano in mente una stanza
agiata, un onorevole letto e tante persone intente a prodigarle amorevoli
cure, compatimento, congratulazioni: ed un marito contento, e le speranze
che carolano intorno alla cuna d'un neonato.
Ma ora? Tutto mutato: squallore, tenebre, insulto stizzoso, il dubbio, lo
sgomento; e, peggio di tutto ciò, il trovarsi disgiunta dal marito, e
saperlo gettato in tormenti pari ai suoi, se non forse più atroci. E
quel fanciullo, quell'essere innocente e caro, sua compiacenza e suo
conforto, in sull'alba della vita, condannato, senza colpa, a soffrire le
pene dello scellerato. Questo dì, che soleva essere una domestica
festività, un giorno di felicitazioni sintanto che vissero insieme, ora
non poteva che esacerbare gli spasimi, ora che, così vicina a lui, a
loro, non poteva neppur una volta abbracciarli, nè tampoco vederli. Oh!
vederli, vederli almeno da lontano, questo le pareva sarebbe bastato a
innondarla di dolcezza; e ne richiedeva il buon Gesù, e inginocchiata
pregava che almeno quella tenera pianticella fosse risparmiata, potesse
crescere alla vita, conservando memoria e compassione di un padre, di una
madre, chi sa a qual fine destinati.
Poi, quando l'orazione le aveva tornato alcuna calma, esclamava:--Signore,
sia fatta la vostra volontà».
Alfine aveva declinati gli occhi al sonno; il sonno che, a malgrado dei
tormentatori, vien pure soccorrevole alle ambasce del sofferente. Candida
anima! il suo angelo le svolgeva innanzi sogni, visioni di tranquilli tempi
andati, consolatrici speranze. Ridestandosi le immagini contemplate nel
giorno, le era d'avviso trovarsi libera, e scorazzare sicura fra i suoi,
sulle rive del lago Maggiore; ed era una primavera, bella quanto mai possa
vedersi: tutto fiori, tutto riso, tutto quel mistico canto onde la natura
par che conviti i mortali al banchetto della gioja e della benevolenza, e
la fantasia vi aggiungeva quei magici vezzi che colorano un lungo desiderio
insoddisfatto. Le pareva stare colà a trastullo colle fanciulle
coetanee, ma esser già madre, e mostrare a quelle il suo bambino, che
tenevasi alla poppa, e sollevandone lento lento i pannolini, scopriva ad
esse quel viso d'alabastro, quegli occhi azzurri come il cielo, donde le
era disceso.
Ed ecco la ferisce una voce lontana, fioca,--Margherita! Margherita!»
--È mio marito (dic'ella): quanto tempo che non ne intendo la voce!
Sarà uscito di prigione, e vorrà vedere suo figliuolo. Ora vengo.
Addio, compagne; state allegre finchè io ritorni».
E così continuando il sogno, alzasi di fatto dal giaciglio, e colla
sorda voce del sonnambulo, risponde:--Vengo», e si muove realmente, e
sente abbracciarsi. A quel tocco, all'intendere una voce che le suona qual
dovette a Lazaro quatriduano sonare quella del divino amico che dal regno
dei morti lo richiamava, si sveglia anch'essa, e trovasi in braccio al suo
Francesco:--in braccio ad esso, e fra loro il fanciullo. Credeva sognare
tuttavia, moveasi, fregava gli occhi;--quella era pure la mano di lui che
le premeva il capo contro il suo volto; erano pur quelli i suoi baci: vere
lacrime sentiva scorrere infocate tra la guancia di lui e la sua.
Qual momento! Godine, infelice! godine l'ebbrezza, meritata con sì lungo
soffrire; godi un lampo che folgora attraverso la notte del tuo patire:--un
lampo.
--Zitta (le disse Francesco) e seguimi».
Nulla rispose la Margherita; gli tolse dalle braccia il fanciullo, e lo
strinse al cuore, lo coprì di baci, lo innondò di lacrime:--O madri,
voi sole sarete capaci di comprendere quell'istante. Il pargoletto non
sapeva chi così affettuoso lo baciasse, lo stringesse; ma anch'egli, per
quel ricambio che l'amore impone, prodigava i baci e le carezze. La
Margherita, premendogli il volto contro il proprio seno, tra per amore e
perchè stesse cheto, si mise sui passi del marito. Il quale, presala pel
braccio, s'atteneva ad Alpinolo, che colla labarda in una mano tentando,
coll'altra stava appigliato al carceriere; e questo, a passi lenti e
lunghi, procedeva, col corpo aggobbato quasi per occupare spazio minore,
appoggiandosi tutto sul piede posteriore, sporgendo le mani tentone, e
fermandosi ogni tratto in ascolto.
Già è varcato il primo corridojo; pas ato l'uscio, entro cui dormono
le guardie; traversato un andito oscuro, entrano nella cucina del
carceriere, il quale rabbatte dietro di sè l'imposta, e respira, come
già avesse compito il più difficile dell'impresa. Un altro usciale
metteva a un cortile:--l'aprono:--là in faccia si vede una
porticina;--cinque passi: uscir da quella, saltare il piccol fosso, e sono
in salvo. Dalla soglia tendono l'orecchio.... tutto è silenzio. Una
sentinella, sdrajata boccone sur un muricciuolo dallato, appoggiando la
fronte sulle braccia, dormiva. Macaruffo l'additò ansioso a Alpinolo; ma
questi, spunzonandolo, gli fece intendere a cenni che non era nulla; che
dormiva sodo; niente paura, non si sveglierebbe. Escono: scendono tre
gradini: la Margherita, venendo ultima con Venturino, poneva il piede sul
lastrico; la luna fendeva in quello il denso velo delle nubi, e un limpido
raggio mostrava uno all'altro i fuggitivi, e lasciava distinguere la povera
Margherita, pallida, scarna, in un trito e lacero vestire, diffuso il crine
sulle spalle mezzo scoperte, come donna che sorge allora allora dal letto,
eppure bella in tanto travagliosa negligenza.
Francesco e Alpinolo volsero uno sguardo pieno di amore, di compassione, di
venerazione sopra di essa: il bambino sollevò anch'egli il capo, e colla
manina facendo indietro i capelli che ingombravano la vista, fissò gli
occhi per veder chi fosse l'amorevole portatrice; la scôrse: la
ravvisò. Che tripudio, povero fanciulletto!--O mamma! mamma!»
esclamò con uno strillo acuto, a guisa di chi rivedesse vivo un suo
caro, che aveva pianto estinto; e le gettò le braccia al collo.
Gelarono tutti a quel grido, essa gli turò colla mano la bocca:--invano!
era tardi.
La sentinella riscossa alzò il capo, vide gente, balzò in
piedi.--Ajuto! gente! all'armi!» Non finì di urlare queste parole,
che Alpinolo, dirupatosegli addosso, in men ch'io lo dica gli ebbe spiccato
il capo di netto; poi, colla sciabola insanguinata alla mano, accennava
agli atterriti che fuggissero, campassero; egli starebbe alla porta per
impedirne l'uscita ad altri, finchè essi guadagnassero tempo.
Tutto inutile! Il grido d'all'arme era giunto agli altri soldati; da ogni
parte traevano con lance, con fiaccole, gridando, minacciando. Alpinolo,
col furibondo coraggio di una tigre che difende i suoi parti, cominciò a
menare prima la spada, poi la lancia, infine il troncone di questa, col
potere che aveva maggiore, sicchè ne stramazzò tanti quanti ne colse.
Ma arrivatogli alle spalle Sfolcada Melik, gli girò sul caschetto un
sodo colpo di mazza, che lo fece, tutto grondante del sangue suo e
dell'altrui, ruzzolare come morto ai piedi della Margherita. Li baciò
col labbro convulso Alpinolo; poi, alzando su di essa lo sguardo
ondeggiante, esclamò:--Perdonatemi».
Macaruffo in sulle prime volle mostrare d'essere accorso anch'egli allor
allora, e sguainando la coltella che teneva alla cintola, con parole fiere
rivolto ai fuggiaschi, gridava a testa:--Ah cani! indietro, o vi scanno
tutti. Di queste s'ha da farne a me? di queste?»
Ma dovette accorgersi che il ripiego non valeva, e poichè il Melik,
bestemmiando in suo tedesco e menandogli di piatto la sciabola sulle
spalle, gli diede la funesta certezza d'essere scoperto, gettato l'arma e
la fierezza, si prostrò a terra, e colle braccia aperte e sollevate
badava a strillare:--O Signore! o Vergine benedetta! pietà!
misericordia! ho moglie! ho figliuoli!»
La Margherita intanto erasi abbracciata col marito: le loro lacrime si
confondevano: i vagiti del fanciullo rompevano l'aria, ma nell'ansietà
di quel terribile istante nulla si dissero, se non che Francesco
esclamò:--O mia buona Margherita!» la parola così cara a quella
infelice già nei prosperi suoi giorni, oche egli pronunziò con un
tono da esprimere a un tempo amore, speranza, disperazione, una scusa, una
preghiera, una domanda, una risposta, un giuramento.
Tutta ne comprese la forza Margherita, e ne trasse una stilla di ineffabile
consolazione anche in quello spasimo orrendo, anche fra le urla e gli
schernevoli insulti dei soldati mascalzoni, che a forza li dividevano e li
ricacciavano nelle loro prigioni.


CAPITOLO XX.
UN FRATE E UN PRINCIPE.

Frà Buonvicino, come l'altra notte, avea serenato, aspettando coi
cavalli al noce in Quadronno; perocchè le regole del suo Ordine erano
aliene da ogni severità, e per poco che l'abuso le avesse rilassate, non
si faceva caso che alcuno stesse anche tutta la notte fuori di convento.
Aveva, dissi, vegliato in aspettazione, pregando, e talvolta abbandonandosi
a una gioconda speranza che il Signore darebbe favore all'innocenza, tanto
da operare un miracolo per trarre la Margherita in libertà; immaginava
la gioja di sapere in salvo persone tanto care, il contento di rivederle
una volta ancora, e poi mandarle dove fossero sicure dalla tirannia. Ma
queste lusinghe davano tosto luogo a un arcano spavento, ai calcoli
desolati della ragione: e figurandosi tutti i pericoli possibili, gelava,
sudava, e buttavasi colla faccia sulla terra, supplicando Iddio che li
salvasse: Iddio che solo il poteva.
Il minacciare del nembo non lo distolse di là; ben altro avrebbe
affrontato per rivedere la Margherita. Ma quelle ore eterne passarono: i
galli cominciavano a cantare dai rustici casali del vicinato,--Neppur oggi
(egli disse) sarà potuto riuscire». Adunque rinviò il mozzo coi
cavalli ad un'attigua cascina donde gli avea levati, gli diede la posta per
la sera vegnente al luogo medesimo, e ritornossi al convento di Brera,
facendo un distorto giro delle porte.
Ancor non era ben chiaro il giorno, e i foresi del vicino borgo si
avviavano a Milano per vendere il latte, l'uva, le ortaglie; chi con due
gran corbe infilate al braccio, chi con due zane in bilico sulle spalle,
uno colla gerla piena in dosso: l'altro cacciandosi innanzi un somarello:
quali spingendo le carriuole; alcune villane sbracciate e scollacciate e
col guarnelletto di stampato, reggevano in capo secchi di latte, coi gomiti
a manico di vaso: e parlavano tra sè del temporale della notte passata
che divideva l'estate dall'inverno, della prosperità e delle disgrazie
dei loro campi e degli orti, della fame che correva, della peste che
minacciava, della comare, dell'amico: e facevano assegnamento sui denari
che ricaverebbero quel dì.
Giunti alla spianata fra San Calimero e la torretta di porta Romana, vedono
da un ramo spenzolare non sanno che: s'avvicinano: è un uomo
impiccato.--Ehi, compare! gua'; quella pianta ha messo un grappolo
massiccio.
--Oh oh! chi sarà mai!
--Mah!
--E che diamine ha al collo?
--Una borsa.
--Una borsa? volete dire che sia piena di quattrini? E la additavano a chi
veniva dietro, e si struggevano di saperne, per essere i primi a
raccontarlo o nelle case dove andavano a portare le uova e i baccelli, od
alle fantesche, loro pratiche, che capitavano colla corbella sul mercato.
Quando vennero fuori della rocchetta i primi soldati, che solevano
appostare le bolle ortolanine per volere di esse il dondolo, e per pungerle
con qualche arguzia sguajata, si conobbe il fatto. E così la mattina per
tempo la notizia si diffuse, e il verzajo (così chiamano a Milano il
mercato delle erbe e delle civaje, che allora tenevasi in piazza Fontana)
fu tutto un pettegolezzo, un raccontare e domandare della grande ribellione
che avevano fatto i prigionieri nella rocchetta di porta Romana, ammazzato
i soldati, sfondate le porte, alcuni fuggiti, altri ripresi; e due
singolarmente (chi fosse non importava; già s'intende ladri, o simile
lordura, che i galantuomini non vanno a prigione) avevano corrotto il
carceriere per fuggire; ma côlti, erano stati ricacciati in bujosa, e il
carceriere mandato sui due piedi in piccardia.
Anche in Brera, il primo lavorante che capitò la mattina,--Sapete
niente, frate Angiolgabriello?» disse al portinajo.
--No: dite su, che Dio vi benedica; cosa c'è di nuovo?»
E l'altro:--Udite, e poi segnatevi»: e gli riferiva il trambusto
avvenuto a porta Romana, nel modo che andava per le lingue, e colle
alterazioni che sogliono subire i racconti nel passare di bocca in bocca o
di penna in penna;--argomento opportunissimo a dimostrare, per nostra
discolpa, la inclinazione che ha l'uomo al romanzo storico.
Frate Angiolgabriello da Concorezzo non tardò a correre a raccontarlo al
prevosto frà Giovanni di Agliate. Questo era ancora a letto:
esclamò--Povera gente!» diede una volta, uno sbadiglio, e rattaccò
un sonnellino. Con maggiore curiosità si facevano intorno al portinajo
gli altri laici e professi per udirla: ed egli, glorioso d'essere il primo
a spargere una notizia e di andare per la comunità siccome autore (tanto
questa gloria d'autore lusinga fin nelle minime cose!) volentieri la
diceva, e ridiceva come il cieco la sua leggenda. I frati ascoltavano col
pacato interesse, onde si ascolta una notizia che non ci riguarda; al
più, una moderata compassione, e i migliori, facendosi il segno della
santa croce, esclamavano:--Gesummaria per loro!»
Ma chi fossero quei fuggiaschi troppo lo comprese fra Buonvicino
allorquando, appena mise piede fuori della cella, il portinajo, che non
aspettava che lui, corse subito a raccontargli il fatto, senza sapere di
qual coltellata lo trafiggesse.
--Ma l'appiccato (chiese egli) era veramente il carceriere o un soldato?
--Il carceriere, che Dio lo benedica»; rispondeva frate
Angiolgabriello:--chi me lo narrò, l'aveva coi proprj occhi veduto. Ed
io sono stato il primo...
--E nessun soldato n'andò di mezzo, che si sappia?» l'interrompeva
frà Buonvicino.
--Eh eh! e quanti!» ripigliava l'altro, trinciando l'aria colla destra
spiegata.
Frà Buonvicino trasse il cappuccio sugli occhi, ma non sì presto da
celar la sua emozione agli occhi del narratore. Il quale dappoi al suo
racconto aggiungeva questa nuova circostanza per dimostrare a tutti di che
tempra compassionevole fosse il fratel Buonvicino, che Dio lo benedica.
Quest'ultima tavola del naufragio era dunque fallita. Non già che frà
Buonvicino vi avesse posta troppa fidanza; ma l'uomo è così fatto,
che, col lungo fermarvisi sopra, si affeziona anche a ciò che egli
medesimo sa non essere altro che sogni e fantasie. Due giorni e due notti
aveva egli trascorse, fissato, assorto in quell'idea, in quella speranza:
ed era svanita; svanita così dolorosamente! Gli piangeva il cuore per
Alpinolo, che credeva dover esser perito in quel parapiglia: figuravasi i
peggioramenti degli amici suoi; sicuro che l'oppressione avrebbe da ciò
preso motivo per esacerbarne la condizione. Poi il giudizio loro si sarebbe
precipitato; e la prepotenza avrebbe côlto volentieri quest'occasione di
mostrare come le intelligenze, di cui più non potevasi dubitare,
imponessero la necessità di togliere ai fautori dei Pusterla la speranza
di camparli con qualche nuovo tentativo.
Pur troppo dunque prevedendo l'esito, disperando d'ogni umano soccorso,
volgevasi a Dio, a lui che può mitigare l'ambascia di chi patisce e la
fierezza di chi fa patire. All'augusto sacrifizio dell'altare se compunto
sempre si accostava, quel giorno si presentò con più intenso fervore;
tremando, piangendo, pregò per le povere anime di quelli ch'erano caduti
uccisi, per Alpinolo: Dio è tanto buono! tiene a calcolo anche il
sospiro d'un momento: forse quel giovane sarà uscito da questa vita
perdonando e perdonato, ed ora si trova ricoverato sotto le ali di Quello,
delle cui misericordie non è numero. Pregò quindi pei due Pusterla,
che Dio moltiplicasse a loro la pazienza; che ai loro giudici compartisse,
non tanto il lume per conoscere la verità, quanto il coraggio per
sostenerla. E gli parve che il Cielo nuovo pensiero gli ispirasse, un
pensiero coraggioso e nobile: il ventilò: si risolse.
Altamente compreso della dignità del suo ministero, frà
Buonvicino era ben lontano da quella timida prudenza, che insegna a
tacere davanti al peccatore potente. Non aveva egli sottocchio le
parole di Dio e gli esempj dei profeti, degli apostoli, del maggiore
dei profeti, e di Cristo? il Signore aveagli detto per Ezechiello: _Te
posi sentinella in Israele: annunzia la mia parola. Se quando io dico
all'empio_, morrai, _tu glielo taci, sicchè esso persiste nelle sue
vie, egli morrà, nell'iniquità, e del suo sangue domanderà
conto a te_[30].
Per questo i Veggenti d'Israele nelle corrotte città si affacciavano
gridando penitenza: e benchè il vulgo ne soverchiasse la voce, e gli
oppressori intimassero silenzio, non isbigottivano, e continuavano
gridando, Penitenza. Così gridava il Battista alle genti sedute nelle
tenebre della morte, e portava la minaccia alla Corte del re, e
n'aveva--ricompensa antica--prigione, supplizio.
Poi gli apostoli, fra la pertinace superbia de' Giudei e la spensierata
lascivia delle genti, bandivano una legge di spirito, contraria alla legge
della carne; instavano opportuni, importuni[31]; battuti, scherniti,