Margherita Pusterla: Racconto storico - 25

Ma essi ne beffavano i codardi pareri, e confondendo l'iroso desiderio
colla speranza, tramavano le guise di ricuperare la patria e di
migliorarla, senza mettervi però nè la pazienza, unica operatrice
degli stabili mutamenti, nè un giusto calcolo delle difficoltà che
poi sono rivelate dal primo accingersi all'opera.
Scarse (già molte occasioni avemmo di ripeterlo) erano le comunicazioni
fra gli Stati, non occorrevano gazzette che, spacciando il falso ed
alterando il vero, servissero agli interessi delle fazioni; e se Pisa pei
tanti negozj poteva, più d'ogni altra città d'Italia, cioè del
mondo, ricevere e trasmettere notizie, queste però arrivavano ricise e
in ombra nelle lettere dei mercanti, dei quali era costume non dare mai
nè derrate senza giunta, nè novelle senza frangia. Ciò appunto
apriva più vasto campo alle immaginazioni concitate, che sopra un motto,
un cenno, ergevano i più superbi edifizj, cui la prima aria mandava in
fumo, siccome il bel fenomeno della fata morgana.
Tra quei rifuggiti, molti n'avea di buona fede, che disinteressantemente
amavano la patria, ricordavano i passi che aveva fatto mentre si governava
a comune, e vagheggiavano la gloria di renderla a quel franco stato,
durante il quale tanto era progredita. E per l'abitudine, tanto più
naturale all'uomo quanto è più giovane e sincero, di supporre in
altrui i proprj sentimenti, credevano che i compagni della sventura e del
servaggio fossero anche compagni d'affetti e di pensieri; e che per via di
ragioni si potrebbe, non che Milano, tutta Lombardia ridurre concorde nel
non tollerare un'ingiusta oppressione. E a dimostrarla ingiusta ricorrevano
alla storia,--fievole voce dove tuonano altre più robuste; e ricordavano
i tempi della Lega Lombarda, e l'ultimo atto ove i nostri aveano espresso
la loro volontà, cioè la pace di Costanza; ne sognavano il
rinnovamento, e una federazione che resuscitasse la penisola a nuove sorti
gloriose.
Capo di questi che, comunque passionatamente, pure ragionavano, era Maffino
da Besozzo, quel che, ancora in patria, vedemmo come fosse accusato di
freddo, di moderato, di troppo cristiano.
Pover'omo! balzato nella sventura, ridotto a vedere sempre in opposizione i
diritti col fatto, la giustizia coll'esito, fu tratto al sepolcro da una
malattia endemica tra i forusciti, e che i medici non seppero battezzare,
perchè nei loro cataloghi non hanno classificato il crepacuore.
Altri operavano ad impeto e per vendetta: credevano legittima qualunque via
per ottenere il vantaggio della patria; esageravano, e per sino fingevano i
torti privati e i comuni; i disastri cagionati al paese da Luchino: torti e
disastri che credevano fin troppi per sollevare, al primo invito, tutta
Lombardia contro dei Visconti; ottenere il favore degli altri popoli in
nome dell'umanità; e determinare l'imperatore a sposare la causa dei
molti deboli infelici contro un solo prepotente fortunato.
Questi conoscevano l'uomo!
I pochi poi, meglio astuti degli uni e degli altri, che volevano raggirare
la cosa secondo i loro fini e verso i proprj intenti, applaudivano alle
valenterie dei secondi; fiancheggiavano le ragioni dei primi, e mostrandosi
zelantissimi della libertà, e d'intelligenza coi ben pensanti d'ogni
paese, venivasi acquistando sopra i forusciti un'autorità, che, qualora
se ne presentasse il destro, avrebbero adoperata poco meglio di coloro cui
miravano a spodestare. A questi si conveniva la divisa di tutti i
rivoluzionarj ambiziosi: «Esci di là, che ci voglio entrar io». Mi
dispiace a dire che i più frugatori tra questi erano Zurione Pusterla ed
Aurigino Muralto, che dal vinto Locarno erasi qui pure rifuggito, e che vi
ricorda qual tristo servigio rendesse al nostro Francesco.
A quali appartenesse Alpinolo è mestieri ch'io ve lo dica? ma la
fierezza spensierata ch'egli dimostrò nell'incontro con Ramengo, fece
conoscere agli ambiziosi come costui potesse divenire stromento opportuno a
qualsivoglia colpo arrischiato: onde posero ogni artifizio ad ingannarlo
sul vero stato degli affari, esagerando il malcontento dei Lombardi, le
speranze, le intelligenze, le forze congiurate.
Scorso il primo inverno fra progetti, fra ordire macchinazioni e dilatarle
in Milano e negli altri Stati, coll'aprirsi della primavera aumentarono le
speranze dei nostri forusciti. Nè crediate che avessero trovato qualche
miglior modo ai loro disegni: ma è uno dei fatti più accertati (ne
diano poi la ragione i fisiologi) che il ringiovanirsi della stagione
veniva e viene riguardato dai desiderosi di novità come apportatore del
compimento dei loro voti. Onde, nel mentre ai moderati le circostanze
parevano o sfavorevoli o disopportune, e predicavano doversi aspettare
l'occasione sicura, perchè un tentativo fallito è un puntello al
potere minacciato, gli impetuosi li tacciavano di vigliacchi, di rémore,
d'invecchiati.
--Mentre l'erba cresce, il caval muore (esclamava Ottorino Borro).
L'occasione, se da sè è lenta a venire, bisogna farla nascere. Non
è già tutto disposto?
--Tutto (rispondeva il Muralto). Per messi, per lettere, da ogni parte io
sono stimolato. È un fremito universale... non vedono quell'ora di menar
le mani. In tutti i quartieri di Milano c'è combriccole dei nostri:
nostri sono i caporioni delle altre città: Guglielmo Bruciato di Novara,
Simone da Colobiano in Vercelli; in Cremona Venturino Benzone....
--Passerino Bonacossi di Mantova (l'interrompeva Zurione Pusterla) e il
Lanzavecchia d'Este, ecco, mi scrivono delle gagliarde pratiche che hanno
in piedi con Guglielmo Cavalcabo di Cremona, con Giovanni e Simon da
Coreggio e con Brandaligi de' Gozzadini di Bologna».
E il Muralto soggiungeva:--Per Franchino Rusca di Como, Castellino Beccaria
pavese, e i Tornielli di Novara, e i Vestarini di Lodi, un segno appena, e
sono assicurato che, a vedere e non vedere, metteranno in piedi altrettanti
eserciti.
--Ma in che anni?...» domandava Caccino Ponzone da Cremona. E Bellino
della Pietrasanta gli rispondeva:--Uh! gli anni son fatti per le prigioni.
Il povero Maffino da Besozzo, ripeteva che le nespole maturano solo col
tempo e colla paglia. Non siamo neanche a tiro. Vuolsi aspettare il momento
favorevole, e coglierlo al volo.
--No, no, (ripigliava Zurione) non aspettare: tener tutto in pronto,
perchè occasioni può nascerne una come cento.
--E quali sarebbero?
--Eh! si va a Roma per più strade. Se, per esempio, ai Visconti rompesse
guerra il papa...
--Il papa? (saltava su Ottormo Borro). Ma se non sa predicare che pace, se
non sa cercare che concordia.
--E se fosse vero quel che ci disse quel milanese il giorno della festa di
Ponte, che Mastino della Scala...
--Quello era uomo da credergli!...» così il Pietrasanta interrompeva
Aurigino; ma più violentemente l'interrompeva Alpinolo, mandando tutte
le pesti e tutte le saette addosso all'esecrato Ramengo. Poi, come si fu
racchetato un po' il bollore episodico, suscitato da quel nome e da
quell'idea, Zurione ripigliava:
--L'occasione però meglio opportuna sarebbe se il signor Luchino
morisse.
--A questa ci si ha da venire senza fallo! ma Dio sa quando!» esclamava
Lodovico Crivello.
--È ben vero (seguitava il Pusterla) che la si potrebbe accelerare...
--Un buon veleno, eh?» arrischiossi a dire il Ponzone.
--Sì, (rifletteva il Pietrasanta) ma chi deve essere quel muso che
glielo mesca? Cinto di cagnotti, non accosta al labbro un cibo che non gli
abbiano fatto la credenza gli scalchi.
--Ma, (tornava su il Ponzone) da un coltello vo' veder io chi gli faccia la
credenza.
--Oh sì, un coltello (parlava l'impetuoso Ottorino Borro). Quand'io feci
il passaggio oltremare intesi come nella Siria viva un gran principe;--lo
chiamavano il Veglio della Montagna--e tiene ai suoi cenni uno stuolo di
bravi, devoti a ogni prova, che han nome gli Assassini. Vuole egli disfarsi
di qualche nemico? castigare un oppressore? dice a un Assassino:--Va e
ammazzalo». L'Assassino va e va, gira l'Asia, gira la cristianità,
finchè lo trova. Trovatolo, se gli inchioda ai fianchi, sinchè viene
il bello. Allora gli pianta un pugnale attossicato nel cuore, e con un
altro uccide sè stesso».
Applaudivano quei focosi al racconto, alla risoluzione, alla fedeltà; e
Zurione, commentando diceva:--E che?... mancherà chi voglia fare, per
salvezza della patria, quel che altri fanno per superstiziosa obbedienza?
Tanti si tolgono da sè la vita per fuggire un momentaneo dispiacere, e
nessuno vi sarà che abbia una colpa da tergere, un fallo da riparare
coll'avventurare così santamente la sua? O il colpo riesce, e
sopravvive, quanta universale riconoscenza! se perisce, qual dolce riposare
sotterra, fra il compianto generale, con una fama perenne, agguagliato a
quei generosi Armodio e Bruto, e altri eroi che liberarono il mondo da
simili pesti!
Divampava, a tale discorso, Alpinolo; e considerando sè stesso come
causa di tanti mali, lo credeva diretto proprio e unicamente a sè. Nè
in tutto apponevasi al falso, poichè il demagogo aveva fatto disegno
sulla vita di quel giovane ardimentoso, il quale, già da un pezzo
sitibondo di sangue, trascinato dalla forza prepotente di un pensiero
abituale, ora più non frenandosi, si fece avanti, e battendo il pugno
sulla tavola, gridò:--Io sarò quello!»
Una concorde acclamazione lo saldò nel suo proposito. Milano è
città grande e popolosa: la barba cresciuta sul giovane volto di
Alpinolo, e coltivata al modo che solevano i soldati, le chiome in altra
guisa composte, un abito diverso e divisato gli davano fiducia di rimanervi
sconosciuto. Giusto in quei dì era corsa voce che il signor Luchino
soldava truppe; poichè, non essendovi allora eserciti stanziali nè
una fittizia necessità avendo giustificato il martirio di due milioni di
Europei, condannati a patimenti e disagi per tener le nazioni una in
soggezione all'altra, aveano i tirannelli compreso che, per acquistare e
conservare il potere sgradito, unico spediente era il circondarsi di truppe
mercenarie, pronte a ogni cenno, a scannare quelli che essi chiamavano loro
figliuoli.
Luchino, ridotto, come tutti gli oppressori, a minacciare tremando, con
titolo di dare riposo ai cittadini, gli aveva disarmati: ma i molti
insofferenti alla vita tranquilla e i Giorgi, sottrattisi al rigore del
capitano di giustizia, o in grosse bande o sparpagliati, mantenevano la
guerra a minuto, infestando le strade, e fin le borgate assalivano e
saccheggiavano. Che pensò dunque Luchino? Gli invitò a sè,
promettendo stipendiarne il valore. Così soggettati a militare
disciplina, poteva agevolmente tenerli in freno e a ogni suo volere; essi a
vicenda trovavano comodo peso la milizia, che porgeva occasioni di rubare e
soperchiare impunemente, senza i disagi del vivere in boscaglia. Accettavan
dunque il partito, e seguitavano a frotte i pifferi che andavano in volta a
reclutarli; poi, sotto il comando di Sfolcada Melik, divenivano guardiani
dei luoghi che prima solevano infestare.
Fra questi fece disegno d'arrolarsi Alpinolo, confidando gli verrebbe il
destro di trovarsi vicino al principe,--Alla prima occasione (diceva esso
ai compagni d'esilio) io lo assalgo....
--E non lasciarlo nemmen confessare. Vada al diavolo eternamente»,
soggiunse il Muralto. Esso, con occhi di bragia, proseguiva:--Così
potessi col colpo istesso finir qualche altro!... Poi...
--E poi (l'interrompevano i consorti) corri per le vie con quel pugnale
fumante alla mano: il popolo ti trae dietro esultando; la patria è
salvata dalle sue branche, e il tuo nome immortale».
Se quelli che così dicevano parlassero persuasi e di cuore è bene non
cercarlo: ma Alpinolo, convinto che tutti partecipassero all'ardore suo
istesso, non era cosa che non si promettesse.--Ma, alla peggio, (diceva) so
come si fa a morire».
Con tal proposito rientrò in Lombardia, ben provvisto a denaro.
Non volle scostarsi dal Po senza visitare anco una volta il mulino dei suoi
educatori. Travisato, e in quell'arnese, a pena in sulle prime il
riconobbero: fin il cagnuolo gli abbajò contro, come a un paltoniero, ma
quando il ravvisarono, che gioja per quella buona gente, per Maso, e per la
Nena principalmente, nel vederlo tornare dopo che non era male che non ne
avessero temuto! La loro contentezza toccava nel più vivo l'anima
affettuosa e passionata di Alpinolo; rifletteva:--Se è tanta, in persone
non legate a me se non dai benefizj fattimi, quanta sarebbe se fossero i
miei veri genitori?.. come tripudierei se una volta raggiungessi quella
somma delle felicità, da me immaginata, di poter trovare il padre
mio!»
Per la prima cosa ridomandò dai mulinaj quello che di carissimo avea
loro dato in serbo: le lettere di sua madre e l'anello. Non sapevano essi
come esporgli la cosa, e finalmente, mortificati, a ritaglio, supplendo
l'uno quando mancava all'altro la parola, gli narrarono quel ch'era
accaduto coll'ignoto signore, e lo sperpero delle lettere, e le smanie mai
più vedute. Quali imprecazioni non avventò Alpinolo contro colui che
aveva trassinato così sacri pegni! ma quando gli fu pôrto il
diamante, quasi gli venisse restituito un figliuolo da gran tempo perduto,
si attutì, lo premette contro le labbra, e più di una grossa lagrima
gli cadde su quell'unica memoria dei suoi genitori. Andò a prostrarsi
sulla zolla che copriva sua madre, ne ravviò i fiori d'attorno, indi
prese congedo.
--Ora non sarai di tornata fin Dio sa quando! (gli diceva la Nena). Io sono
vecchia: un'altra volta non mi troverai più. Ricordati sempre di me
nelle tue orazioni.
--Non parlargli di malinconie (soggiungeva Maso). Io ho girato il mondo, e
so che le montagne stanno a posto, ma gli uomini s'incontrano. Ci
rivedremo, n'è vero, signor Alpinolo?
--Sì, (rispondeva questo) forse più presto che non pensiate, e in
tutt'altro aspetto.
--E di buon umore», ripigliava la Nena.
--E carico di onori e di ricchezze», aggiungeva Maso, il quale, pratico
del mondo, sapeva in che consistano le sue felicità.
Alpinolo se n'andò; raggiunse un drappello di quelle cerne ed entrò
con esse in Lombardia. Eran costoro feccia di gente come chiunque fa
mercato del proprio sangue; ai più, da un sucido stracciume trasparivano
le carni sporche e abbronzite; molti ancora avevano manco un occhio o una
mano, perchè come ladri avevano già subita la pena degli statuti di
Milano, che infliggevano, pel primo furto, la perdita di un occhio; pel
secondo, l'amputazione della mano; pel terzo la forca; ma sozzi, storpi,
ladri, servivano ugualmente ai fini di Luchino.
Nè avvicinandosi ai luoghi di sue giovanili memorie esultava l'animo di
Alpinolo; anzi, con una scontenta maraviglia, con un iracondo stupore,
vedeva come, nonostante i guaj della tirannide, i contadini seguitassero,
tranquilli, ai lavori; i trafficanti, al commercio; i padri, alle faccende
casalinghe; egli ch'erasi immaginato dappertutto sconforti e desolazioni,
che pietà fosse il vederli; e che fin la terra fin l'aria sfruttata,
immalsanita, dovessero partecipare al duolo e all'onta del servaggio.
Quando poi dai casali e dalle borgate traevano, come si fa, a guardare
quella frotta di soldati, e dietro e a paro di loro marciavano i fanciulli,
misurando il passo secondo la cadenza dei pifferi, il cuore faceva sangue
ad Alpinolo, sembrandogli che avrebbero tutti dovuto riguardar con orrore
quegli artefici di loro catene.
Ma, (diceva tra sè), non è che vulgo ignorante e materiale. In
città, oh, in città sarà tutt'altro andare».
E in città fece la sua entrata fra un centinaio di quella soldataglia, e
colà pure la plebe a riguardare le nuove reclute, e chiamarsi l'un
l'altro, e mostrarsele, spensierati come la pecora quando vede arrotare il
ferro destinato a scannarla. Intanto su per le piazze cerretani e
saltimbanchi mantenevano nel vulgo quell'allegria, che tanto piaceva a
Luchino; i signori, in una attività inoperosa, passavano i giorni fra
risa e motti e festeggiar compagnevole; le botteghe, non che fiorire come
prima, erano cresciute in numero e in appariscenza; stabilite tessiture
d'oro, d'argento, di seta; introdotte bellissime razze di cavalli e di cani
da caccia; il vino, migliorato coll'innestare la vernaccia sulle viti
nostrali, moltiplicava le ubbriachezze popolari e la patrizia festività;
_ganzerre_ sul Ticino e sul Po, mettevano Milano in comunicazione cogli
altri paesi, talchè, non di una città, ma aveva aspetto di una intera
provincia, dove argento, oro, perle, larghissime balzane, sfoggiavan le
donne sui vestimenti; nelle case cibi squisiti, bevande prelibate e
forestiere, e ogni guisa di delicatura.
Questo fenomeno riusciva inesplicabile ad Alpinolo, il quale ignorava come
ripiglino fiore le terre confortate di pace e di sicurezza; e come alla
prosperità materiale si fossero vôlte interamente le classi medie,
dopo che il governo di un solo le dispensava dal dover necessariamente
pigliare parte alle fazioni interne e alle guerre esteriori. Quei
principotti poi, mentre calcavano i ricchi e chi faceva ombra,
favoreggiavano la moltitudine; avevano gara tra sè, non meno in
magnificenza di Corte e di apparati, che in prosperità e ricchezza dei
piccoli loro Stati; poco o nulla si impacciavano nelle particolarità
dell'industria e del commercio, abbandonandoli all'operosità di ciascuno
e all'emula concorrenza; onde, nel mentre coll'avarizia, colla libidine,
coll'invidia, colle personalità tormentavan chi stava a loro vicino,
lasciavan godere agli altri i comodi della primitiva libertà, senza le
agitazioni di essa.
Soltanto l'eccesso della politica depravazione rovina a bella posta il
traffico e la cultura di un paese per fiaccarlo: soltanto più tardi
sentì la Lombardia la silenziosa oppressione di governi che, senza
individualmente uccider nessuno, dissanguavano l'intera nazione. Potrebbero
i primi paragonarsi ai flagelli, che tratto tratto desolano un paese:
guerre, turbini, contagi, poi cessano, e lo lasciano rifarsi; gli ultimi,
ai miasmi che corrompono l'aria, e che, senza parere, moltiplicano vittime
alla sorda, ma continuamente.
Chi però ha fiore di sentimento, pensi quanto atroce penitenza si fosse
imposta Alpinolo in quell'ostinato suo intento. Tra una marmaglia
spregevole e spregiata, dipendente dal brutale comando del connestabile
Sfolcada Melik, vivere ancora, passeggiare per quella città che in sì
diverso aspetto lo aveva veduto; che in ogni luogo gli ridestava tante
memorie; che vie più aveva cara dopo costretto ad abbandonarla: vivervi
come uno straniero, come un ministro della tirannia; e non potere mai con
veruno manifestare le commozioni di un cuore convulso. Mirava le case ove
già soleva essere il ben accolto e passare le gaje serate: ora stavano
chiuse per lui. Imbattevasi talora in alcuno degli amici, con cui tante
volte avea comunicato timori e speranze, ragionato del presente,
dell'avvenire, che gli avevano promesso ogni poter loro per la causa del
bene; ora tacevano, obbedivano. Scorreva ancora per la via degli Spadari:
Malfilioccio della Cochirola non v'era più, chè, a forza di
rimpiangere i tempi passati, era ito ad acculacciare la pietra: ma tutti
gli altri lavoravano come e più che prima; lavoravano (pensava Alpinolo)
le armi dei proprj padroni, le punte contro i proprj petti. S'incontrò
qualche volta anche nel Basabelletta: cauto e coll'acqua in bocca costui
tirava lungo le pareti, contento d'averla scampata, nè più brigandosi
di leggere sul libro dei ricchi e dei potenti. Passava Alpinolo dal palazzo
dei Pusterla, vuoto degli antichi padroni, ed abitato dal capitano di
giustizia Lucio;--un Lucio sostituito a Franciscolo, alla celeste
Margherita!
Le persone da questa beneficate se la saranno certo ricordata, se la
ricordava la fanciulla di Santa Eufemia, per lei campata dal disonore: ma i
poveri, gli infelici, i disuniti cosa altro possono che amare? Spesso in un
chiassuolo, sur una piazzetta, Alpinolo scorgeva otto o dieci giovani,
stretti a colloquio animato, confidente, misterioso: il cuore gli diceva di
che parlottassero; tanto più che, quando s'accostava lui, con quella
divisa in dosso, li vedeva o disperdersi timorosi, o non dissimulare con
atti e con motti lo spregio verso chi aveva venduto il suo sangue per
ribadire le loro catene. Come l'animo di lui si struggesse sotto quella
lenta tortura, io non farò prova di descriverlo. Fu per soccombere delle
volte assai, e fuggire;--ma rimeditava il suo fallo, e gli pareva che ad
espiarlo fosse scarso qualunque inferno.
Fatalità! certe anime robuste, nate fatte ad ogni gran cosa, capaci de'
più ostinati sacrifizj, delle più magnanime risoluzioni, quante volte
si vedono andar traviate, e svaporare quella vampa in null'altro che il
rendere infelici sè ed altrui, perchè all'impeto della volontà non
è proporzionata la ragionevolezza: perchè conoscono ogni eroismo fuor
quello della pazienza.
Così spasimava Alpinolo quando stava scevro e solitario dagli altri;
quando era accompagnato, seppelliva dentro il suo dolore; obbediva come un
automa ai cenni dei caporali, per quanto se ne facesse schifo; mescevasi
alle gozzoviglie de' suoi commilitoni, a trar sulle carte, a sbalzare dadi,
ove, ad onta delle severe proibizioni del principe, biscazzavano il loro
guadagno; pagava ad essi il fiasco, lasciavasi spillare il suo, tanto per
farseli amici: onde tutti «Quattrodita» di qua; «Quattrodita»
di là: unico nome col quale il conoscessero.
Ma il vino, che nelle orgie nauseabonde tracannava di brigata, tornava in
tanto veleno a quel dispettoso; e al vedere una ruga sdegnosa che tratto
tratto gli solcava la fronte, e ne alterava il baldanzoso raggio giovanile,
era facile accorgersi come quella fosse una testa pensante, fra tutte
l'altre impassibili e macchinali. E nel bel mezzo di loro, mentre in
apparenza alternava con essi i brindisi e lo sguajato motteggiare,
concentravasi in sè stesso, e fremeva e si stomacava del dover vivere
confuso tra quella schiuma di ribaldi, che per mestiero, diceva, oggi
custodiscono l'assassino, domani il martire generoso; oggi difendono una
vita insidiata, domani ne spengono mille; oggi scannano il nemico, domani
il camerata; e sotto la divisa che si chiama del prode velano la massima
della viltà, un'obbedienza irriflessiva sino al delitto, ai voleri di
colui che ne forzò la volontà.
Fu alcuna volta che si arrischiò a gettare fra di loro alcune lontane
parole di emancipazione, di libertà; pei più era un parlar di colori
a ciechi: i pochi che lo intesero gli chiedevano che pazzo gli toccasse di
desiderare di meglio? non era libertà la loro di aver da mangiare e bere
e fare stare gli altri?
Alpinolo davasi premura di assentire a dottrine così antiche, e rodendo
il freno, capiva la necessità di non far conto che sopra sè stesso
per l'adempimento de' suoi disegni.
Non gli era riuscito difficile accostarsi a Luchino. Quando il Visconti si
presentava spettacolo ad un popolo che opprimeva e disprezzava, credevasi
sicuro perchè cinto di guardie: eppure fra queste n'era una, il cui
unico pensiero era d'ammazzarlo. Alpinolo, in fatti, dominato da
quell'idea, tratto tratto divampava in viso, e negli occhi, sporgeva sino
la mano al pugnale: pure il trovarsi circondato da pronti nemici, e, quel
che più gli pesava, da incerti fautori, lo smoveva dal proposito di
sangue. Allora poi che gli veniva un bel destro di scannare Luchino, e
forse porre in salvo sè stesso, quello che prima gli era parsa una
giusta vendetta, anzi un fatto glorioso, gli si presentava come un delitto:
spingevasi innanzi, poi si ritraeva sgomentato, perchè la coscienza con
voce imperiosa gli diceva, _No_. Di questo provava dispetto e vergogna come
d'una fiacchezza, d'una viltà, d'un perfidiare alla parola data a sè
stesso: e nei momenti di passione tentava conficcarsi nel suo proponimento,
e rinvigorire la volontà con ragioni, con superstizioni, con distillare
le colpe altrui e il proprio livore. Stava mezzo un dì appoggiato su
quel canto del Broletto nuovo, dove erasi lasciato tradire da Ramengo: ore
ed ore teneva gli occhi fissi sovra la porta dei Pusterla, donde avea
veduto strascinar fuori la Margherita; andò alla Madonna di S. Celso,
che in quegli anni appunto aveva cominciato a diventar celebre per
miracoli; e con un fervore intenso, ma distratto ed irrequieto, ben altro
da quello di chi prega la giustizia ed ottiene la pace, supplicò nostra
Donna:--Datemi forza per uccidere il nemico del pubblico bene e di quella
santa che tanto v'imitò. Se me ne fate la grazia, voglio andare
pellegrino armato a Nazaret, e non tornare finchè io non abbia ucciso
mille di quegli infedeli, che negano culto al vostro santo nome».
Da questa insana preghiera, da quel voto di vendetta fatto alla Madre di
misericordia, credette egli d'avere attinto nuovo vigore, e pochi giorni
dopo parve gliene nascesse favorevole occasione. Era di guardia ad un
gabinetto di piacere, posto in mezzo ad artificioso boschetto nel parco di
Belgiojoso, delizia dei Visconti; e guardando attraverso al graticolato
della gelosia, che vi lasciava liberamente circolare l'aria, vide Luchino
che, rinvolto nel mantello, vi si era addormentato: addormentato solo, coi
due mastini al piede, che dormivano anch'essi. Alpinolo rinnovò il suo
voto, accostossi, brandì il pugnale, l'innalzò sul capo del tiranno,
esclamò dentro di sè:--Cane! non ti ridesti più fino al giorno del
giudizio».
Il giorno del giudizio!
Questa idea se gli attraversò come una sbarra che, gittata fra' violenti
passi d'un furibondo, lo fa cadere per terra.--Il giorno del giudizio!
Dunque e lui ed io avremo a trovarci un dì al cospetto di un giudice
comune: Anche Luchino potrà a quel tribunale aver torto.--Ed io? dovrei
mostrare, io, la mano lordata d'un assassinio?»
Simile pensiero gli rattenne il colpo, sventò in un minuto la
risoluzione maturata per un anno; e cautamente indietreggiava per uscire,
ma non potè fare così cheto, che non risvegliasse i cani. Balzano
questi abbajando: Luchino stesso destasi e sorge impugnando la spada: volle
il caso che in quella il capitano Lucio entrasse a riferire con aria
trionfale, siccome il giorno innanzi, nella rocchetta di porta Romana,
erano stati condotti Francesco Pusterla e il suo figliuolo.
L'accostarsi del soldato fu interpretato per zelo d'avere voluto dar avviso
che alcuno veniva, ed Alpinolo restò salvo; ma qualunque peggior
tormento, ma il lacerargli brani a brani le membra non avrebbero a pezza
uguagliato lo strazio ch'e' provò nell'intendere la fiera novella, nel
mirare la gioja spietata di Luchino e del capitano di giustizia, a udirli
dire:--Ora daremo spaccio a tutto. Domani a Milano; e presto ogni cosa
sarà finita».
Anche questo supplizio gli serbava la sua imprudenza! Or chi dipingerà
le furibonde smanie di lui? Nuovo sangue parevagli accumularsi sulla sua
cervice; e da quest'ora; diverso consiglio il predominò, quello di
tentare la liberazione di quegli infelici. Concepire un disegno e balzare
al momento dopo l'esecuzione, senza per nulla calcolare i passi intermedj,
era stile di Alpinolo: e chi gli avesse posto mente, sarebbesi accorto
come, da quel punto, egli acquistò quella specie di serenità, che
nasce da una forte risoluzione.
Non ebbe a stentare per farsi destinar alla custodia delle carceri di porta
Romana, ma al momento di superarle, tutte gli si attraversavano le
difficoltà dell'impresa, come un viandante giunto ai piedi di una
montagna, comprende insormontabile l'ertezza d'un varco, che da lungi gli
era parso un lene declivo.
--Di notte quando le altre sentinelle dormono (considerava tra sè),
scanno il carceriere, e libero quei tre infelici. Oh la gioja di rivederli
congiunti!--Ma... e se colui schiamazza?... poi, come troverò le chiavi?
come la via per trarli non visti da questo andirivieni di camere, di
anditi, di scale?--E poi, e poi... ucciderlo? cosa mi ha egli fatto di
male? Un'altra vittima, un innocente; che forse ama ed è amato, che
forse ha quel ch'io non ho, un padre. Son io forse il signor Luchino da
sgozzare un uomo senza valutare il dolore che ne verrà a tanti esseri
incolpevoli? E coll'aggiungermi quest'altro peso alla coscienza, potrei